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Autore: Flam92    07/07/2015    0 recensioni
Anja, 27 anni, tedesca tutta d'un pezzo e ligia al dovere, ex agente dell'Interpol con alle spalle un passato torbido e sofferto.
Emilie, 25 anni, esponente di spicco delle nuove leve dello S.H.I.E.L.D., con grossi problemi di disciplina e un passato colmo di segreti.
Per un bizzarro scherzo del destino, si ritrovano catapultate l'una nella vita dell'altra, costrette dalle circostanze ad una convivenza forzata. Riusciranno a mettere da parte le loro differenze e i loro rancori, quando la situazione precipiterà e ci sarà bisogno di loro?
Genere: Azione, Demenziale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Nuovo personaggio, Sorpresa, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 1
 

Lie awake in bed at night
And think about your life
Do you want to be different?
Try to let go of the truth
The battles of your youth
'Cause this is just a game

It's a beautiful lie
It's the perfect denial
Such a beautiful lie to believe in
So beautiful, beautiful it makes me

 A Beautiful Lie - Thirty Seconds to Mars
 

- Anja –
 
In viaggio verso Washington – 7 Febbraio 2014
 
            Fury era stato di parola: dopo un’ora che se n’era andato da casa mia era davvero comparso un SUV nero, che aveva accostato davanti al portone del palazzo dove abitavo e lì era rimasto.
            Mentre scendevo, fissavo assorta la mia immagine nello specchio dell’ascensore; il riflesso mi rimandava il viso pallido e tirato, gli occhi –di quella bizzarra via di mezzo tra grigio e violetto- arrossati per la stanchezza, una smorfia disgustata che mi storceva la bocca.
            Non mi era piaciuto dover raccontare una mezza verità a Elle e Charlie, ma non potevo certo permettere che loro due finissero nei guai per colpa mia. Ripensai alla conversazione che avevo avuto con entrambe –i miracoli delle video chat di Facebook-, ai visi basiti che mi fissavano, mentre dicevo di aver ricevuto una chiamata da una vecchia conoscenza che avevo fatto ai tempi dell’Interpol. La versione ufficiale era che questa persona lavorava per un’agenzia privata che si occupava di sicurezza, e che aveva bisogno del mio aiuto per addestrare delle nuove reclute per gli interrogatori. Entrambe mi avevano assicurato di coprirmi in ufficio, adducendo come motivo della mia partenza “Imprevisti in ambito familiare”.
            Sciolsi i capelli e li raccolsi di nuovo, nervosa come poche altre volte in vita mia; spontaneamente mi venne da chiedermi se le armi nel doppiofondo di uno dei borsoni sarebbero potute essere un problema, una volta arrivati in aeroporto –perché, sul fatto che sarei stata caricata su un aereo, ci avrei scommesso il mio conto in banca.
            Le porte dell’ascensore si spalancarono con un leggero trillo che mi spinse a scrollare la testa, per allontanare i ricordi. La cosa peggiore, però, era che mi sentivo ancora a mio agio con la mia vecchia e fedele Colt .45 nella sua fondina all’altezza dei reni, nascosta dal maglione largo che indossavo. Sembrava quasi che non l’avessi mai tolta di lì, durante quei due anni e mezzo di “tregua” a New York. Come pure mi era sembrato naturale portarmi appresso, smontato e ben chiuso nella sua custodia, un fucile di precisione M93 Black Arrow. Oh, giusto, c’erano anche dei coltelli a serramanico, da combattimento e da lancio a fargli compagnia. Armata com’ero, mi sembrava di essere in partenza per la guerra.
            Uscii nell’aria frizzante e quasi lanciai i miei borsoni all’agente in nero che mi aspettava accanto alla portiera del SUV prima di sedermi di fianco al grande capo.
 
            “Perché viaggi con un arsenale nel borsone col doppiofondo?” mi domandò Nick dopo circa una ventina di minuti che eravamo partiti.
“Abitudine. E non mi fido a lasciarli a casa, se non ci sono”, replicai laconica. Che si facesse i fatti suoi, una buona volta! Mi era stato insegnato ad essere sempre preparata per ogni evenienza, e inoltre mi fidavo delle armi che conoscevo. Che lo S.H.I.E.L.D. si tenesse i suoi giocattoli, io avevo i miei.
            Eccoci di nuovo: quanto ci era voluto, perché mi rimettessi a pensare come un’agente dell’Interpol? Cinque, sei secondi?
            “Quindi, Nick, pensi di dirmi altro su questa spina nel fianco, o devo chiedere al Coniglietto Pasquale?”
“Hai già letto il suo dossier, lì c’è tutto quello che devi sapere.”, mi rispose lui scrollando le spalle.
“Così non funziona, Nick”, osservai seccata, “Anche perché, se fosse come dici, di certo ora non ne staremmo parlando. Sputa il rospo, oppure gira la macchina e riportami a casa.”
“E va bene”, sbuffò lui, “Ho intenzione di sapere come riuscirai a fare quello che ti ho chiesto.”
“A parte che non mi hai risposto, come farei a dirtelo ora? Nemmeno l’ho mai vista, né ci ho parlato. Cose di questo tipo mica si possono pianificare a priori, ti pare?”. Ero parecchio confusa; non era che Fury, magari, cominciava a perdere qualche colpo? Richieste bizzarre ne avevo ricevute a iosa, ma questa le batteva tutte.
            Ritornammo a fissarci di sottecchi, in cagnesco; ben presto mi stancai di quella guerra silenziosa e mi concentrai sul mondo oltre il finestrino oscurato del SUV, e sulle righe bordeaux e beige del mio maglione, le quali erano improvvisamente diventate molto, molto interessanti. Al pari dei pantaloni neri e degli stivali alti di cuoio scuro che indossavo in quel momento.
            “Il problema dell’agente Barton è la totale noncuranza delle regole e la continua insubordinazione”, disse Fury dopo un po’, al che riportai l’attenzione su di lui. “Non è un elemento stabile, e non posso fidarmi, è troppo imprevedibile. Oltretutto, nessun agente vuole lavorare con lei. La temono e lei non fa nulla per cambiare questo fatto.”
“Mi sembrano più problemi, Nick, quelli che mi hai elencato. Comunque, ti dirò lo stesso come la penso.” Tacqui per qualche momento per riordinare le idee, quindi proseguii: “La noncuranza delle regole e l’insubordinazione si possono sistemare, volendo anche in tempi piuttosto brevi. La parte davvero preoccupante è la sua instabilità. C’è qualche motivo plausibile per cui lei sia diventata così ingestibile di colpo?”
            Fury non mi rispose subito, e già da quello capii che c’era qualcosa che bolliva in pentola. Oh sì, la situazione è precipitata di punto in bianco.
“Di questo se ne discuterà in un secondo momento”, si limitò a commentare asciutto, “Per ora, voglio sapere come intendi raddrizzarla.”
“Perdio, Nick! Provare a darmi retta una volta tanto?! Non posso dire a priori come affronterò questa gatta da pelare, perché non conosco il soggetto in questione. Dovrò probabilmente spezzarla, rimetterla insieme e poi piegarla e forzarla a seguire la logica, a volte a scapito dell’istinto. È tutto quello che posso affermare in questo momento, e nulla di più.”
“Era quello che volevo sentirti dire”, replicò Nick, una vaga espressione di trionfo in viso, che scomparve veloce com’era apparsa.
“Bastardo manipolatore. Tu ottieni sempre quello che vuoi, vero? Non ha importanza se devi calpestare e distruggere la vita altrui, purchè tu arrivi al tuo scopo. Lasciami in pace per il resto del viaggio, e ridammi quello stramaledettissimo dossier.”
 
            Il resto del viaggio era stato molto silenzioso, una vera manna dal cielo.
Senza le fastidiose -e a volte incredibilmente stupide- domande di Nick potevo concentrarmi al meglio sui rapporti che avevo davanti a me: tutti erano stati redatti con una grafia rapida e spigolosa, ma abbastanza minuta e regolare per essere femminile, senz’ombra di dubbio. Erano scarni, ridotti all’osso e a volte l’intero rapporto constava di poche frasi vergate di fretta, più simili a telegrammi che ad altro.
Un soggetto instabile e problematico? L’eufemismo del secolo. Piuttosto, io l’avrei definita come una granata innescata e sul punto di esplodere.
            Feci scorrere i fogli tra le dita e mi concentrati sui richiami disciplinari che aveva collezionato: insubordinazione, infrazione del regolamento, incapacità di lavorare in una squadra e di portare a termine un lavoro in modo discreto (ovvero, senza morti e feriti da ambo le parti), segnalazioni da parte di colleghi e superiori... Eppure nei test e nelle prove pratiche aveva sempre ottenuto i punteggi migliori.
Stupendo, perché sempre a me i casi umani?
            Il nostro silenzioso e poco socievole autista ci portò dritti all’aeroporto JFK, ma anziché lasciarci di fronte all’ingresso fece un giro strano, e parecchio lungo, fino a fermarsi davanti al portellone di un hangar isolato dal resto del complesso. La pista lì vicina era deserta, come pure l’ambiente circostante.
Smontammo dal mezzo e l’agente in nero mi porse di nuovo le mie borse: fortunatamente, pensai, avevo scansato i controlli col metal detector e le imbarazzanti conseguenze che ne sarebbero derivate.
            Entrammo nell’hangar e davanti mi trovai un aereo di piccole dimensioni, di un anonimo grigio ferro satinato, con il simbolo dello S.H.I.E.L.D. sulla coda.
            “Dopo di te”, mi disse Nick, facendomi cenno di salire sul velivolo, il cui interno era arredato in modo più simile ad un salotto elegante che alla cabina di un aereo di linea.
            Prendemmo posto su due poltroncine che si fronteggiavano e scoccai una lunga e penetrante occhiata all’uomo che mi sedeva di fronte: ero sicurissima che Nick stesse nascondendo informazioni importanti sulla ragazza in questione, nelle quali era probabilmente contenuta la chiave del suo cambio di comportamento così repentino e drastico.
            Ad un certo momento doveva essere successo qualcosa che aveva sconvolto la Barton a tal punto da farle completamente perdere il buon senso. Indipendentemente dalla sua natura, la causa scatenante doveva risalire ad almeno qualche anno prima… Purtroppo, però, le informazioni che Nick aveva inserito nel dossier che mi aveva fornito partivano solo dal gennaio 2012.
            “Quando pensi di darmi anche la prima parte di questo dossier, Nick?”, domandai in tono casuale, entrando però in modalità d’attacco, “Se mi mancano dei pezzi, come pretendi che possa finire il puzzle?”
 “Quelle informazioni sono classificate, Blackwood, il che significa…”
“So che significa, Fury”, lo interruppi stizzita, “Ma se non mi dai i mezzi per lavorare, il nostro accordo salta. Scommetto che non vuoi correre il rischio”, asserii mettendomi comoda sulla poltrona e lanciando il fascicolo sul tavolino accanto a me.
“No, non voglio rischiare. A dispetto di tutto è dannatamente preziosa come risorsa.”
“E allora cosa aspettavi a prendere provvedimenti? La pianta si piega quando è giovane, non quando è già cresciuta.”
“Ti basti sapere che credeva di essere orfana, e invece i suoi genitori sono vivi e vegeti. Dopo che l’ha scoperto per puro caso, è cominciato il macello.”
            Annuii e fissai il soffitto, assorta nelle mie riflessioni.
Chiusi gli occhi e provai a concentrarmi; di casi come quello della Barton ne avevo visti parecchi, molti dei quali quando lavoravo sotto copertura, ma nessuno aveva avuto le conseguenze poco meno che catastrofiche che c’erano invece state in questo caso e che perduravano a distanza di anni.
 
            Un’ora e un quarto dopo l’aereo atterrò all’aeroporto Ronald Regan, sempre in una zona molto poco frequentata e lontana dal resto del complesso. Anche qui, come a New York, scendemmo in un hangar isolato e salimmo su un altro SUV blindato, nero e senza contrassegni.
            “Hai già idea della strategia che adotterai?”, mi domandò Nick, rompendo la quiete una volta di più. Per essere una persona tanto taciturna, mi ritrovai a pensare, oggi mi pare fin troppo loquace. Vuoi vedere che sotto sotto ci tiene, a questa spina nel fianco? E non solo perché è una risorsa preziosa?
            “Per prima cosa, voglio vederla in un corpo a corpo, ma senza che sappia di essere osservata. Secondo, voglio potermi battere con lei per avere un’idea più precisa. Terza ed ultima cosa, fammi parlare con tutti quelli che hanno lavorato con lei. Per questa fase preliminare mi ci vorranno…”, feci mentalmente due calcoli, quindi proseguii, “un paio di giorni, tre al massimo. Poi posso cominciare a lavorare con la Barton in separata sede. Tutto chiaro?”
“Chiaro.”, asserì Nick, prima di mettersi a parlottare all’auricolare con l’agente Hill, mi sembrò di capire. Novanta secondi più tardi mi comunicò che aveva predisposto ogni cosa per esaudire le mie richieste.
            Divertente; già solo l’idea di poter dettare legge sull’inafferrabile e inflessibile capo dello S.H.I.E.L.D. mi mandava in brodo di giuggiole. Avrei potuto farci l’abitudine, davvero.
 
            Arrivati al quartier generale dello S.H.I.E.L.D., pretenziosamente chiamato Triskelion –eppure da fuori non era diverso da uno degli altri infiniti palazzi che ospitavano uffici, come ce n’erano ovunque-, entrammo in un parcheggio sotterraneo e il SUV ci scaricò accanto ad un ascensore. Avrei potuto giurare davanti alla Corte Marziale che il nostro poco loquace autista non vedesse l’ora di rendermi il favore… di lanciarmi con poca grazia i miei borsoni. Cosa che fece, e pure con somma gioia, in effetti.
            Ridacchiai tra me e me: quello di certo era un agente in sevizio da poco, perché a dispetto degli occhiali scuri avevo decifrato, senza particolare fatica, tutte le emozioni che si erano susseguite sul suo viso da quando eravamo partiti fino ad ora. Compresa la smorfia di trionfo quando mi aveva lanciato suddetti borsoni.
            Prendemmo l’ascensore e Fury dovette identificarsi e dare tutta una serie di altre informazioni; maniaci della sicurezza com’erano lì, probabilmente chiedevano loro le credenziali anche per andare in bagno o prendere un caffè
            “Hill ti accompagnerà nei locali sopra la palestra, così puoi farti un’idea di quello che ti aspetta. Se serve qualcosa, chiedi a lei, oppure a Rogers. Appena puoi voglio sapere come va.”
“Nessun problema, Nick, anche se presumo che per questa settimana non avrò molto da dire. Comunque sia, ti terrò aggiornato.”
“Sta parlando con il Colonnello Fury, signorina. Porti un po’ di rispetto ad un suo superiore”, sbottò il tizio nell’angolo, che si guadagnò un’occhiataccia terrificante da Nick e una sonora risata da parte mia.
            Vidi Fury aprire bocca per rispondere, ma lo fermai con un cenno della mano, dicendo: “Se non ti spiace, Nick, faccio io. Dunque”, esordii quindi squadrando quell’idiota, “Lei è appena entrato in servizio, ancora non sa mascherare le sue espressioni, men che meno sa trattenersi dal fare commenti fuori luogo. È mancino, ha appena cambiato pistola. Se non vado errato, una Beretta 92. La cinghia della fondina è logora, dovrebbe cambiarla. E inoltre”, continuai con un allegro sorriso da squalo, “Sono più che certa che il Colonnello Fury possa dire da sé se qualcosa lo infastidisce, non crede?”
            Persino Nick, suo malgrado, dovette nascondere una risata sinceramente divertita dietro un colpo di tosse; quindi si rivolse con tutta calma all’agente che era diventato di un poco salubre color bordeaux: “Williams, se non impara a contenersi la mando a dirigere il traffico a Hobbs, New Mexico. Inoltre, conosco il Capitano Blackwood da ben prima che lei facesse domanda per entrare qui, Williams, e gode della mia stima. Impari a stare al suo posto.”
            Finalmente quell’imbarazzante salita in ascensore ebbe fine e Williams si dileguò alla velocità della luce non appena si aprirono le porte; per parte sua, Nick si limitò ad un: “Non hai perso il tuo smalto, vedo”, che da solo, lì dentro, valeva più dei complimenti di chiunque altro.
            Maria Hill, Sua Efficienza in persona, ci venne incontro a passo di carica, pronta a prendere le consegne del suo capo.
“Bene, sai tutto quello che ti serve. Hill, la Barton è già rientrata?”
“Sì, signore. È arrivata due ore fa.”
“Mandala nel mio ufficio, insieme al suo partner. Blackwood, attendo tue notizie.”
“Contaci, Nick… Ah, un’ultima cosa: niente nomi, per favore. Mi presenterò io di persona”, replicai appena prima che il grande capo annuisse seccamente una volta e scomparisse giù per il corridoio.
Maria ed io, quindi, ci avviammo con tutta calma.
            “Come è riuscito a richiamarti all’ordine?”, mi domandò lei, curiosa, “Credevo che avessi messo la parola ‘fine’ a questa carriera”.
“Beh, Maria, ci ho provato, ma il tuo capo sa essere molto… tedioso, oltre che persuasivo. Diciamo che non contemplava un “No” come risposta”, replicai tranquilla, perché tanto avercela a morte con la maledetta cornacchia non aveva alcun senso, ormai. Fatica sprecata.
“Ti trovo in forma, Anja. E lavorare con te in Messico è stato un piacere.”
“Anche per me, Maria. Avrei voluto avere un secondo come te… Avevo quasi meditato di rubarti a Nick, dopo quella missione.”
            Lei mi elargì uno dei suoi rari sorrisi; non era mai stata portata per le conversazioni spicciole, nè amava perdersi in chiacchiere inutili, però avevamo comunque instaurato un discreto rapporto, quattro anni prima. Era bello vedere che nessuna di noi due aveva cambiato parere sull’altra.
            “Eccoci, siamo arrivate. Da qui hai la visuale completa della palestra, di chi arriva e di chi se ne va. Immagino tu abbia già visto qualche foto della ragazza, quindi saprai riconoscerla.”
“Certo, Nick mi ha mostrato il suo dossier. Grazie mille, Maria, non ti trattengo oltre.”
            La Hill assentì con un secco cenno del capo e sparì alla velocità della luce nella direzione da cui eravamo arrivate. Mi sistemai meglio i pesanti borsoni sulle spalle e percorsi lo stretto corridoio, che curvava bruscamente a sinistra dopo una dozzina di metri. A detta di Fury, lì doveva esserci una specie di pianerottolo con un paio di sedie, la cui balaustra dava direttamente sulla palestra.
Oh, una sedia, finalmente! Lanciai a terra le borse e mi sedetti, anzi, mi stravaccai, esausta. Sul fronte “viaggi con partenze rapide e improvvise”, mio malgrado dovetti ammettere che ero parecchio arrugginita. Rimasi seduta per quelli che mi parvero quindici, venti minuti al massimo, poi alzai e mi diressi verso la balaustra, le mani nelle tasche posteriori dei jeans, con l’intento di studiare un po’ l’ambiente.
            Un lampo fulvo, circa sette metri più sotto, mi fece intuire che la mia pupilla fosse finalmente arrivata, dopo la lavata di capo della mia cornacchia preferita. Oh sì, ora le cose si facevano interessanti sul serio. Con un mezzo sorriso, appoggiai i gomiti alla balaustra e sgombrai la mente, pronta a cogliere tutte le informazioni possibili.
 
- Emilie -
 
Triskelion – 7 Febbraio 2014  
 
            Entrai a passo di marcia in palestra, seguita da Mark, che era rimasto in religioso silenzio per tutto il tragitto. Tipico… io mi prendo la lavata di testa e lui fa il broncio. Lanciai occhiate di fuoco tutt’intorno, e con piacere notai che gli occupanti del mio posto preferito si dileguarono all’istante, lasciando libero il tatami. Posai con cura la mia balestra –regalo del mio non-così-morto padre- sulla rastrelliera e mi voltai, togliendomi le scarpe e sgranchendo le giunture.
“Smettila di rognare, Mark, e mettiti in posizione maledizione!” sbottai come conseguenza della sua immobilità. Sapeva che sarebbe finita così, finiva così ogni volta, ma dovevo sempre e comunque trascinarlo di peso in palestra e comandarlo a bacchetta.
            Sottolineai il concetto con un’occhiataccia e solo a quel punto anche lui tolse le scarpe, ma ancora non accennava a muoversi. Lo strattonai per un braccio, tirandomelo dietro e ricordandogli che aveva tacitamente acconsentito ad impegnarsi in quello scontro semplicemente seguendomi.
            Iniziammo a girare in tondo, studiando il momento giusto per far partire l’attacco. Se l’esperienza non mi ingannava, Mark non avrebbe mai iniziato per primo. Tardai volontariamente l’assalto, sperando di fargli perdere la pazienza, ma mi stufai, preda com’ero di una rabbia cieca e bisognosa di sfogarmi facendo andare le mani. Come sempre negli ultimi due anni, del resto.
            Mi buttai sul mio partner, ormai ridotto ad un semplice fantoccio contro cui smaltire l’ira, e il mio corpo impattò violentemente contro il suo mentre gli tiravo una poderosa spallata, più utile a sbilanciarlo e prenderlo di sorpresa che ad altro.
Mark indietreggiò di un paio di passi, incassando il colpo e reagendo spingendomi via e chinandosi in avanti, il peso sulle punte dei piedi pronto a schizzare via al mio prossimo attacco. Non tardai a fingere un destro, che schivò, quindi gli tirai una ginocchiata al fianco opposto. A questo punto Mark iniziò a reagire, bloccando i miei colpi e riversando alcune mie mosse quando poteva, mandandomi a terra un paio di volte. Quando ribaltai una caduta a mio favore, spedendolo a gambe all’aria a mia volta, proposi una tregua.
            Dopo soli dieci minuti grondavamo già di sudore e ci tamponammo con un asciugamano, senza badare troppo al dolore provocato dai lividi. Era quasi piacevole arrendersi al combattimento, dove le sole cose importanti erano colpire e cercare di non essere colpiti, con occasionali sprazzi di lucidità dovuti al dolore di calci e pugni non schivati per tempo.
            Riprendemmo a combattere dopo esserci dissetati velocemente e aver sciolto i muscoli. Ricominciai a dargli addosso come una Furia, senza badare ad impostare una vera e propria tattica e sapendo perfettamente che presto sarei diventata prevedibile. Non mi importava, in quanto mi premeva solo sfogarmi e perdermi nel torpore della lotta, quell’alienazione in cui tutto si riduceva ad uno scambio continuo di colpi, al tendersi dei muscoli, al dolere dei colpi e all’annebbiamento del cervello. Come dicevo prima, annichilimento totale.
            Con un montante ben assestato spaccai un labbro a Mark, che chiese una seconda, breve, tregua. Al terzo assalto, partì per primo, e gli bloccai immediatamente un calcio diretto al mio stomaco girandogli il piede, senza preoccuparmi del fatto che avrebbe potuto ribaltare la situazione a sua favore. Cosa che fece, sfruttando lo slancio per colpirmi all’orecchio. Finii in ginocchio parzialmente stordita e con l’orecchio ronzante, ma più furente che mai. Mi rialzai urlando e scagliandomi contro di lui, protesa in avanti e spedendolo a terra. Gli finii a cavalcioni sul torace e presi a tempestarlo di pugni in faccia e sulle braccia che aveva alzato a difesa.            
            Approfittando di un attimo di tregua che gli concessi per sciogliermi una spalla dolorante, mi levò di dosso con un colpo di reni e si rialzò, massaggiandosi guance e zigomi. Aveva un occhio leggermente gonfio, ma il naso miracolosamente illeso. Restai volutamente a terra, ma rimasi delusa: non decise di attaccarmi in quella posizione per lui più vantaggiosa.
            Mark era poco più alto di me, e decisamente più muscoloso, sulla forza l’avrebbe sempre avuta vinta lui. Purtroppo tutta quella massa lo impacciava leggermente nei movimenti, anche se compensava lo svantaggio con l’esperienza. Si era tolto la maglia e potevo vedere già i primi segni lasciati dai miei colpi fulminei sul suo fisico tonico e ben allenato.
            Mi rialzai lanciando un’occhiata all’orologio a parete: eravamo lì dentro da circa una mezz’ora a darcele di santa ragione. Non c’era più nessuno in palestra, nemmeno i due agenti che stavano combattendo sul ring al nostro ingresso nella stanza.
            “Sembra che siamo rimasti soli”, buttai lì con un sorriso sghembo e un tono  di voce volutamente provocante. Era un gioco che facevamo tempo addietro, e si sa: le vecchie abitudini sono dure a morire, e si ripresentano a tradimento.
            “Purtroppo temo significhi che mi ammazzerai di botte, ma non che poi ti prenderai cura di me, come una brava crocerossina premurosa di lenire ogni mia sofferenza”, si rammaricò scherzosamente Mark, dandomi corda.
“Forse, se ti ridurrò in fin di vita, potrei anche restare al tuo capezzale stringendoti la mano”, cercai di svicolare. Non intendevo andare oltre la mia provocazione.
“Non era esattamente ciò che pensavo…”, replicò invece Mark.
            Inaspettatamente, e lontano da ogni mia previsione in merito, mi cinse i fianchi trascinandomi verso il basso, ruzzolammo a terra e mi ritrovai Mark a cavalcioni che mi inchiodava i polsi a terra. Provai a divincolarmi, ma la sua presa era salda. Mi aveva fregata approfittando della velocità con cui tutto era accaduto.
            “Che diavolo stai facendo?!”, gli urlai in faccia.
Si chinò verso il basso, e già iniziai a pensare che avesse frainteso le mie intenzioni. Sapevo di essere stata io stessa a provocarlo, avendo ormai smaltito il grosso della rabbia, ma non avrei mai immaginato una reazione del genere da parte sua, non più perlomeno.
C’era stato un tempo in cui avrei anche apprezzato, ma ormai faceva parte del passato e Mark lo sapeva.
            Ad ogni modo, dovetti ricredermi quando, con plateale lentezza, portò le labbra ad un soffio dal mio orecchio, sghignazzando sommessamente.
“Dovresti vedere la tua faccia, Barton”, sussurrò perfido e soddisfatto.
Decisamente non avrebbe dovuto lasciarsi distrarre.
Decisamente non avrebbe dovuto rilassarsi, allentando così la presa sui miei polsi.
Decisamente non avrebbe dovuto, punto.
“Sei un cretino”, risposi al suo scherzo con un sorriso spietato.
Ribaltai al volo la situazione con una spinta, lo tirai in piedi di slancio e gli mollai un calcio al torace. Rimase boccheggiante qualche istante, incredulo ma ancora divertito.
            “Che hai da ridere?”
Alzò una mano nell’universale gesto di tregua.
“Volevo essere sicuro che sbollissi tutta la rabbia. Sai, non ci tengo a farmi dare una ripassata anche domattina. Forza, concludiamo questo scontro con un’ultima raffica di colpi!”, spiegò lui.
            Rimasi impietrita. Non avrei mai immaginato che arrivasse a tanto. Poche ore prima ce l’aveva con me per aver mandato a monte il piano, e ora eccolo lì ad immolarsi ad agnello sacrificale per farmi stare meglio. Scrollai le spalle, ormai mi prudevano le mani e nemmeno lo stupore mi avrebbe fermata.
            “Come vuoi.”
            Gli feci segno di attaccare.
Coprì la distanza che ci separava in due ampi passi, slanciandosi per tirarmi un prevedibilissimo pugno in faccia. Mi limitai a schivare e gli afferrai il braccio all’altezza del gomito, facendo leva per scaraventarlo a terra. Da lì, Mark mi falciò le caviglie e persi l’equilibrio finendo a terra a mia volta. Ci rialzammo e mi accanii su di lui, la testa incassata fra le spalle e gambe e braccia che si muovevano veloci. Mentalmente notai che le sue reazioni erano leggermente cambiate nel corso del combattimento, andando a migliorare sia la difesa che l’attacco. Mark mi conosceva bene e sapeva come lottavo, ci eravamo allenati per ore assieme, prima che la mia vita si riempisse solo di rabbia, dubbi e amarezza.
            Lo sfogo finì con un montante al mento che stordì il mio partner al punto che restò diversi istanti steso a terra. Ansimante, mi inginocchiai di fianco a lui per accertarmi che stesse bene. Lo trovai ad ansimare quanto me, e trassi un sospiro di sollievo. Mi mancava giusto mandare K.O. un agente per completare il curriculum di casini che avevo tirato in piedi.
            Ad una sua richiesta, gli tesi la mano e lo aiutai ad alzarsi.
            “Tutto a posto?” chiesi.
“Per qualche giorno mangerò solo brodini, ma poteva andare peggio. Senza contare che sono un dolore unico.”
Non mi scusai. Inoltre, la scarica di adrenalina era ormai scemata e anch’io iniziavo a risentire, e soprattutto a sentire, i colpi subiti.
Agguantai la balestra e mi defilai silenziosa e un poco claudicante, senza guardarmi indietro.
 
            “Emy aspetta!” mi sentii chiamare poco dopo essere uscita dalla palestra.
Feci finta di niente, ma Mark mi raggiunse di corsa, sfiorandomi con una mano la spalla libera.
            Camminammo per un breve tratto senza parlare, ma sentivo i suoi occhi puntati addosso; mi chiedevo perchè mi avesse raggiunta con cotanta premura, se poi non aveva nulla da dirmi.
            “Senti, Emilie,” iniziò subito dopo che ebbi formulato quel pensiero, “prima, ecco, non avrei dovuto. Credo. Insomma, non so perché l’ho fatto. O meglio, sì, cioè, era un modo per farti sbollire del tutto, perché ti conosco e sapevo che ancora non avevi dato sfogo a tutta la tua rabbia, ma forse, ecco, forse avrei dovuto trovare un altro modo per provocarti. L’ho capito dopo, quindi ti chiedo scusa.” Spiegò Mark, impacciato e imbarazzato al punto da impappinarsi diverse volte.
            Gli lanciai un’occhiata con la coda dell’occhio: era avvampato e sapevo che non c’entrava nulla con lo sforzo fisico del combattimento. Mi fermai di colpo.
            “Esatto, avresti dovuto”, esordii lapidaria, a voce relativamente bassa ma con tono fermo e deciso. “Comunque accetto le tue scuse”, conclusi. Non serviva a nulla tenergli il broncio.
Mark annuì e sorrise. Da come si rilassarono i suoi muscoli, dedussi che aveva già temuto il peggio.
            Riprendemmo a camminare in silenzio, ci salutammo con un cenno quando le nostre strade si divisero e imboccammo ognuno il corridoio che conduceva alla propria stanza.
           
            Sbattei la porta dietro le mie spalle, esausta.
Tra il sudore e tutti i lividi post-allenamento che si stavano formando, decisi che mi ero più che meritata una lunga, rilassante doccia bollente.
Mi spogliai, lanciando i vestiti in un mucchio disordinato sul pavimento del bagno, accanto al lavandino; mi infilai sotto il getto ustionante e ci rimasi per un bel po’, pensando a tutto e a niente allo stesso tempo.
            Quando la mia pelle si riempì di grinze realizzai che forse era il caso di uscire dalla doccia; arraffai un paio di pantaloni a caso e una maglietta sformata, quindi mi buttai sul letto dopo aver sgranocchiato qualche schifezza
Ripensai, involontariamente, a qualche anno prima, quando io e Mark avevamo avuto una storia.
            Era iniziato tutto pochi mesi prima che la mia vita si sconvolgesse al tal punto da trasformarmi in una mina vagante. Mark ed io avevamo già lavorato assieme, ma solo in quel periodo eravamo diventati una squadra. Partner. In una missione sotto copertura recitavamo la parte dei novelli sposi, col compito di sorvegliare un presunto terrorista biochimico che viveva, guarda caso, nella villetta di fianco a quella che lo S.H.I.E.L.D. ci aveva fornito. Fu in quei giorni che Mark mi confessò i suoi sentimenti. Non lo respinsi apertamente, ed eravamo entrambi consapevoli che una relazione fra colleghi fosse severamente proibita dal regolamento.
            Non si poteva certo negare che fosse un brutto ragazzo, con gli occhi celesti e i capelli scuri, quasi neri, e il fisico tonico di un uomo ben allenato, ma non pompato, il viso ricoperto da un sottile velo di barba ben curata. Semplicemente, non avevo mai pensato a lui sotto quell’aspetto.
Purtroppo, o forse no, gli eventi fecero sì che ci avvicinassimo sempre più, e due mesi dopo accadde che finimmo a letto insieme. Non fu una cosa voluta, semplicemente successe. Iniziammo a vederci di nascosto, anche se qualcuno, col tempo, si pose delle domande. Per parte nostra, ci limitavamo a negare su tutta la linea.
            Sempre più di frequente i nostri allenamenti si concludevano fra le lenzuola, soprattutto quando in palestra non c’era nessuno e ci divertivamo a provocarci quando avevamo ormai quasi finito la sessione quotidiana di esercizi. Spesso non ci prendevamo nemmeno la briga di uscire dalla palestra, rimettendo magliette che erano state tolte con la scusa che faceva troppo caldo e sudavamo troppo. Ogni tanto Mark mi portava in stanza tenendomi in braccio o ci fermavamo contro la porta a baciarci prima di entrare e liberarci dei vestiti. Eravamo felici e non temevamo le conseguenze delle nostre azioni.
            Poi scoprii di non essere orfana, e che i miei genitori erano agenti della stessa organizzazione segreta per cui lavoravo io: lo S.H.I.E.L.D.. Scoprii anche che erano dei pezzi grossi, e tutte quelle informazioni mi mandarono il sangue al cervello. Per un po’ continuai la relazione con Mark, ma pian piano i nostri incontri si limitarono a scontri atti a sfogare la rabbia e sempre meno di frequente si spingevano oltre come un tempo. Le voci su di noi scemarono; le conseguenze della nostra storia non arrivarono mai perché si smise di pensare che fosse esistita.
            Nel giro di sei mesi, troncai di netto.
            Il mio lento declino aveva raggiunto il punto di non ritorno: da quel giorno iniziava sul serio la lunga serie di atti sconsiderati e sguardi impauriti che avevano portato Fury a cercare addirittura qualcuno che mi riaddestrasse. La prima persona che ci aveva provato, tuttavia, aveva mollato il colpo poco dopo, sostenendo di non essere il mentore migliore. Ci sentivamo ancora, di tanto in tanto; se non altro, era il mio compagno di bevute preferito.
            Raramente tornavo quella di un tempo, e forse in palestra Mark doveva aver scorto qualcosa che lo aveva portato a pensare che fossi in uno dei miei sporadici momenti buoni.
            Sospirai.
            Aveva avuto il sangue freddo di sfruttare la cosa a mio favore.
Non vorrei ammetterlo, ma in fondo devo ringraziarti, Mark: sento di non avere più nulla di cui sfogarmi. Per ora. Almeno fino a quando Fury non mi presenterà alla fantomatica risorsa. Chissà se è un uomo o una donna. Quanti anni avrà? Sarà una risorsa dello S.H.I.E.L.D. o un esterno? Chissà da dove arriva... Chiunque sia, troverò il modo di rispedirlo da dove è venuto, di farlo scappare a gambe levate dalla disperazione.
Fu con questi pensieri che pian piano mi addormentai.
  
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