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Autore: Xenelle    08/07/2015    1 recensioni
“Sta facendo meditazione?” mi disse con il suo sorriso ironico.
Rimasi in silenzio per qualche secondo che mi sembrò eterno. Poi trovai la forza e risposi:
“Sì, almeno così posso illudermi di essere una persona saggia.”
“Alla sua età non è ancora tempo di essere saggi ma, al contrario, sconsiderati.” mi disse, stavolta serio.
“E alla sua?” lo provocai.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
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Guardavo le facce strane che faceva quando lo studente di turno diceva qualche fesseria cercando di non scoppiare a ridere: erano talmente buffe! Era il professore più giovane che avessi mai avuto ma allo stesso tempo, incredibilmente, uno dei più bravi: l’esperienza sembrava non servirgli per fare quel lavoro come se lo facesse da un’eternità. Anche i concetti più complessi riusciva a spiegarli con una semplicità fuori dal comune e manteneva sempre quel tono pacato e lento, e gli occhi fissi sui nostri per cercare di cogliere qualsiasi lampo di incertezza.
Ricordo il primo giorno che entrò in aula, con una camicia e un maglioncino; posò la cartella sulla cattedra e cominciò a fare lezione.
La prima cosa che pensai è che avremmo dovuto avere a che fare con uno spocchioso presuntuoso che non avrebbe perso occasione per deriderci e umiliarci; le prime lezioni non fece altro che confermare la mia supposizione: quando rispondevamo alle sue domande ci avvolgevano i suoi interminabili silenzi e le sue facce disgustate dalle nostre parole, qualche volta un sorrisino per sbeffeggiare o qualche frecciatina tagliente.
Più passavano i giorni, più però mi rendevo conto che non lo faceva con presunzione o vanità: era semplicemente una persona ironica e pungente, ma senza cattiveria. Incominciai ad apprezzare il suo lato sfottò e mi innamorai della sua sfacciata schiettezza: trattava tutti alla stessa maniera, dal più ingenuo dei ragazzi al signore di mezz’età che interrompeva la lezione con le sue domande assurde.
Quel giorno ero andata a seguire gli esami dei miei colleghi per farmi un’idea di come si sarebbe svolto l’esame, che avrei provato l’appello successivo.
Mi sono seduta al primo banco con carta e penna per prendere appunti, lui era davanti a me che interrogava i miei compagni. Indossava una polo blu e bianca a righe che metteva in risalto le sue braccia lisce e forti che teneva a volte conserte, a volte appoggiate sulla nuca.
Tra una domanda e l’altra, un appunto e l’altro mi ritrovavo a fissarlo negli occhi e a domandarmi come mai avrei potuto sostenere un esame con lui senza confondermi e arrossire. Come se mi avesse letto nella mente, spostò lo sguardo su di me e mi sorrise; io abbassai lo sguardo imbarazzatissima e finsi di scrivere qualcosa sul quaderno mentre ghirigori si espandevano sulla pagina bianca. Smisi di fissarlo insistentemente come prima e mi concentrai sugli esami.
Quando anche l’ultima studentessa ebbe terminato il suo esame, cominciai a raccogliere le mie cose e sistemarle nella mia borsa; la ragazza salutò e andò via, lui si alzò e si avviò verso l’uscita, poi si girò indietro verso di me, mi sorrise e mi disse: “Salve!”. Io ricambiai il sorriso e gli augurai una buona giornata.
Sospirai: quanto è antica e ridicola la cotta per il proprio professore universitario? Mi sentivo una stupida ragazzina adolescente: e dire che da adolescente ero molto più consapevole e razionale! Dovevo smetterla di guardarlo in quel modo, dovevo togliermelo dalla testa e basta. Insomma, non ero mai stata una sognatrice folle né una sentimentale; sempre con i piedi per terra, sempre padrona di me stessa. Perché non doveva continuare ad essere così?
Finii di sistemare le mie cose, rimasi qualche minuto in silenzio in quella grande aula vuota, chiusi gli occhi e sospirai. Quando li riaprii mi accorsi che sulla cattedra vi era un cellulare e un attimo dopo mi accorsi che appoggiato alla porta, a fissarmi, vi era lui.
“Sta facendo meditazione?” mi disse con il suo sorriso ironico.
Rimasi in silenzio per qualche secondo che mi sembrò eterno. Poi trovai la forza e risposi:
“Sì, almeno così posso illudermi di essere una persona saggia.”
“Alla sua età non è ancora tempo di essere saggi ma, al contrario, sconsiderati.” mi disse, stavolta serio.
“E alla sua?” lo provocai, pentendomene immediatamente.
Sorrise. “Alla mia ci si illude di essere saggi, pur concedendosi ogni tanto qualche sconsideratezza.”
“Ha dimenticato il suo cellulare.” dissi per cambiare il discorso.
“Lo so, crede che fossi tornato per disturbare la sua meditazione?”
“Conoscendola, non mi stupirebbe!” dissi sorridendogli.
“E cosa conosce di me?” mi chiese incuriosito.
“Conosco il gusto che prova nello stuzzicare chiunque, in qualsiasi momento, in qualunque modo.”
Mi accorsi solo dopo che quel ‘in qualunque modo’ suonava un po’ strano, avrei dovuto smetterla di dire qualsiasi cosa mi passasse per la testa.
Lui si avvicinò a me, mi accarezzò il braccio nudo destro con la mano sinistra e mi disse: “Lei la sa lunga sullo stuzzicare, vero?”
Arrossii. I miei sguardi non erano passati proprio inosservati.
Poggiai la mia mano sinistra sulla sua e il freddo metallo contrastò con la mia pelle calda.
“Lei è sposato e, come se non fosse abbastanza, ha un figlio.” gli dissi giocherellando con la sua fede.
“Spesso si fanno errori per cercare di rimediare ad altri errori e si entra in un circolo vizioso. Le sconsideratezze che ci si concede alla mia età sono un tentativo di rimediare a vecchie sconsideratezze che si sono fatte alla tua età e a cui non si potrà mai porre veramente un rimedio.”
Era passato a darmi del tu, mi parlava come se fossi la sua confidente e non più una facile preda.
“E cosa dovrò fare poi io, alla sua età, per rimediare ad una sconsideratezza del genere?” lo interrogai.
“Dimenticare.” disse e mi baciò.
Facemmo l’amore sopra i banchi, eccitati dal rischio di poter essere scoperti in qualsiasi momento da un qualsiasi alunno, da qualsiasi professore o addirittura da sua moglie, che lavorava all’Università.
Mi accarezzò una guancia con le dita, stavolta della mano destra. Aveva gli occhi lucidi.
“Ho fatto tanti errori nella mia vita.” – disse – “So che è sbagliato ma tu sei la cosa più bella che io abbia mai visto; non mi sarei mai potuto perdonare di morire senza averti avuta anche solo per un attimo. Tu ti dimenticherai di me, ed è giusto così, ma io non ti dimenticherò mai: sei l’opportunità che ho perso perché ho avuto fretta di vivere tutte le esperienze, anche quelle che richiedevano più tempo e pazienza. Ti ho osservata a lungo; ho sentito la musica che ascolti e sono riuscita ad associarla al tuo stato d’animo, ho visto i disegni che fai quando sei pensierosa, ti ho vista aiutare tanti dei tuoi colleghi e non chiedere aiuto mai, nemmeno ai tuoi amici più stretti; ti ho vista piangere un giorno, in silenzio, mentre guardavi il mare. Ci sono tante cose che vorrei scoprire di te, tante cose che ho solo potuto intuire. Mi piacerebbe passare il tempo ad ascoltarti parlare dei tuoi sogni, delle tue ambizioni, dei tuoi dolori, dei tuoi dubbi, delle tue incertezze. Mi sarebbe piaciuto nascere dieci anni dopo e avere davvero l’opportunità di farlo.”
Una lacrima gli solcò il viso.
Non riuscivo a credere all’assurdità di quello che stava succedendo. Rimasi in silenzio.
Lui sorrise, ma era un sorriso amaro. “Adoro anche e soprattutto i tuoi silenzi, le tue parole sono troppo preziose per essere sprecate.”
“I silenzi sono troppo preziosi per essere inquinati.” ribattei.
“Appunto.” disse sorridendo e sistemandosi la polo un po’ stropicciata.
Poi uscì dalla stanza senza aggiungere altro, e io rimasi in quell’aula vuota per due ore a fissare il vuoto. Arrivò il portiere a dirmi che doveva chiudere l’aula, raccolsi la mia borsa lasciata sulla sedia al primo banco e tornai a casa. Ci pensai tutta la notte, ci pensai tutto il mattino seguente e tutto il pomeriggio e tutta la sera e tutti i giorni a venire.
Ogni tanto ci incontravamo per i corridoi dell’Università: distoglievamo lo sguardo.
Un giorno però mi guardò dritto negli occhi e mi sorrise con lo stesso sorriso amaro di quel giorno; non lo vidi mai più.
Scoprii che aveva chiesto il trasferimento, e il divorzio.
Lo pensai per giorni, per settimane, per mesi, per anni. Poi feci quello che lui mi disse che avrei dovuto fare: dimenticai.
   
 
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