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Autore: Monoi    09/07/2015    6 recensioni
"Anche io volevo bene a Candy, tutti noi le volevamo bene... perchè in questa giornata lui non vuole mai dividere il suo dolore con noi?" - 1922. Sono passati sei anni da quando Candy ha perso la vita in un terribile incidente ferroviario di ritorno da Rockstown. La grande famiglia degli affetti di Candy si ritrova per ricordarla alla Casa di Pony. Tra il dolore di chi l’ha amata fioriscono silenzi, rancori e misteri inconfessabili.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Annie Brighton, Archibald Cornwell, Neal Leagan, Terrence Granchester, William Albert Andrew
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Terence risalì sul treno. A breve sarebbe ripartito alla volta di New York. Appoggiò di nuovo la testa al sedile. Forse adesso, con lo stomaco pieno sarebbe stato più facile addormentarsi, e fuggire dalla strada di pensieri pesanti che lo stavano accompagnando fin dalla partenza da Chicago. 
Si sentiva un uomo in fuga da moltissimi anni ormai. Fuggiva la felicità inseguendo il successo, ed anche se non era stato un cattivo affare, a volte si sentiva stanco. L’illusione di una vita serena, se non felice, si era spenta definitivamente sul letto di Susanna. E da allora nessun calore aveva più scaldato il suo cuore.
Terence ripensò a Caterine Andrew. Una ragazzina davvero notevole. Sorrise di nuovo, e questa volta con sincero divertimento, al ricordo di come aveva fatto sparire il tabacco di Neal mentre l’altro era k.o. per la scazzottata. L’espressione tenera che aveva lanciato al cugino gli aveva scaldato il cuore. Esistevano ancora persone così, ingenue, di buon cuore e coraggiose. Forse davvero le due donne della Casa di Pony sapevano come tirar su i bambini, come farli diventare adulti in gamba. 
Mentre il treno riprendeva la sua corsa verso Est, si scoprì, con una certa sorpresa, ad invidiare Neal Legan. Gli invidiava l'affetto di quella ragazza, che per sua stessa ammissione a lui ci teneva nonostante avesse un carattere orribile, affetto che, era palese, il viscido Legan incredibilmente ricambiava, a modo suo. Fortunato, davvero. Forse, pensò Terence, Neal l'aveva tenuta all'oscuro di tutto per non rischiare di perderla. 
Con una sorta di crescente apprensione, Terence cominciò a preoccuparsi per lei. Era una ragazza in gamba, quale futuro l'aspettava in quella famiglia? Di sicuro, un buon matrimonio, con qualche illustre rampollo della buona società. Un matrimonio che potesse portare nuove alleanze commerciali per la famiglia. Oppure perché no, l'ipotesi del matrimonio con Legan non era poi così assurda, anzi, era perfettamente in linea con le macchinazioni della vecchia Andrew.
Chissà quali erano i piani che Albert aveva per lei. Forse, allontanarla da lui e da quella famiglia non sarebbe stato solo un egoistico desiderio di vendetta. Con tutta probabilità, svelare i retroscena della relazione tra sua sorella e il padre adottivo le avrebbe permesso di guadagnare l'orrore sufficiente da farla fuggire.

Terence era entrato nel grande palazzo di Chicago, il quartier generale della Andrew Corporation. L'imponente facciata neoclassica rendeva subito chiaro a chi vi entrava che quello non era un posto qualsiasi. All'interno un gran numero di impiegati affaccendati si aggirava tra gli uffici, attraversando veloci il grande atrio. Appena aveva fatto il suo nome alla reception, un elegante uomo dai capelli e i sottili baffi scuri si era presentato come l'assistente del Signor William, e l'aveva accompagnato lungo i corridoi e le scale del palazzo.
Terence era un nobile, nonostante tutto, e da ragazzino gli era capitato di visitare le grandi dimore dell'aristocrazia inglese, dove si sentiva a suo agio. Eppure, in quel palazzo, si sentiva intimidito. Lì dentro giravano soldi, investimenti, grandi opere, finanziamenti importanti. Era un nodo nevralgico dell'economia di quella nazione. E in cima a tutto quello c'era Albert.
Quello che, fino a pochi giorni prima, lui conosceva come un vagabondo senza arte nè parte, un avventuriero la cui unica aspirazione, fino a quel momento, era stata vedere il mondo. Quello che, fino a qualche mese prima, lui aveva considerato uno dei suoi più cari amici, una delle persone più in gamba di sua conoscenza, l'adulto che avrebbe voluto diventare. 
Quello che aveva giocato con i sentimenti di Candy, e poi l'aveva abbandonata come una vecchia scarpa. Quello che nemmeno si era fatto vedere al suo funerale. Quello che li aveva presi in giro tutti, fingendo di essere un semplice signor nessuno quando in realtà era lui che aveva adottato Candy.
Quando era rimasto solo con Albert, nel grande ufficio dalle cui vetrate si vedeva buona parte della città, Terence si era trovato del tutto spaesato. Si era aspettato di trovare un miliardario strafottente, con un atteggiamento di superiorita seduto dietro alla sua pesante scrivania, che si abbassava a conversare con lui, attorucolo di alterne fortune che aveva incrociato quand'era in Europa.
Invece, aveva trovato un Albert ben diverso da quel che si era aspettato, e molto diverso da quello che aveva conosciuto. I capelli corti, la pelle molto meno abbronzata di come la ricordava, la faccia smagrita, gli occhi arrossati che fissavano inespressivi un punto impreciso dell'orizzonte. Non era il ritratto di un uomo in salute. E non era nemmeno sobrio, a giudicare dall'odore di alcol che aleggiava nell'aria, e dal numero di bottiglie vuote che giacevano in un angolo della scrivania.
"Ciao Terry" gli giunse alla fine, poco più di un debole sospiro mentre lo sguardo dell'uomo si muoveva lentamente per andare a posarsi su di lui "volevi vedermi?"
Terence deglutì, profondamente disgustato dalla scena che gli si parava davanti agli occhi. In realtà, l'irritazione che provava per Albert non era che il riflesso di una rabbia  che provava verso se stesso. Candy, a Rockstown, l'aveva visto nelle stesse condizioni. Stringendo i pugni, chiamò a raccolta tutto il suo odio nei suoi confronti.
"Mi fai schifo" sibilò, senza mezzi termini.
Lo sguardo inespressivo di Albert, fisso sui suoi occhi, non non aveva mostrato alcuna emozione.
"Mi fai schifo" aveva ripetuto, alzando la voce. "Come hai potuto?"
"Fare cosa, Terry?" Aveva chiesto lui, con la stessa inespressività, quasi che la cosa non lo riguardasse.
"Come hai potuto prenderla in giro, dopo tutto quello che lei ha fatto per te?" 
"È quello che pensi?"
"Sì. Per tutti questi anni l'hai tenuta all'oscuro di tutto... Perché? Stravedeva per te, per Albert... E stravedeva per lo Zio William. Sarebbe stata più che felice di sapere che eri tu."
Mentre parlava, lo sguardo di Albert era scivolato via dai suoi occhi, andando a perdersi chissà dove.
"Perché l'hai lasciata sola? Lei aveva bisogno di te, dannazione!"
"Perché sono un vigliacco." Aveva finalmente risposto l'altro, coprendosi gli occhi con il palmo della mano, come per non vedere la realtà che aveva davanti.
Ad ogni risposta di Albert, la rabbia di Terence aumentava sempre di più. Si aspettava una reazione, delle scuse, o delle discolpe. E lui invece accettava ogni sua accusa, sprofondando sempre di più nella sofferenza. Era arrivato lì per picchiarlo, per far uscire la rabbia e il dolore dal suo corpo a suon di pugni, ma quella larva che si era trovato di fronte faceva aumentare il suo livore senza dargli il conforto di uno sfogo.
"Ti sei divertito, almeno?" Aveva sussurrato Terence nel modo più ambiguo ed offensivo possibile, sentendosi davvero come Neal Legan, in quel momento.
Lo scatto con cui Albert aveva alzato la testa, e lo sguardo bruciante che gli aveva indirizzato, fece sorridere Terence. Finalmente aveva trovato il punto debole della disperazione del suo nemico.
"Com'è stato, scopare la tua figlia adottiva?" Gli aveva chiesto, andando a rigirare il coltello nella verità che, era palese, si apriva sanguinante sotto alla disperazione dell'uomo che aveva di fronte. Albert aveva stretto i pugni su una pila di carte, stropicciandole, la mandibola serrata. Terence sorrise tra sè. In quel momento, Albert lo stava odiando come nessun altro al mondo. Finalmente. Era confortante pensare di ritrovare dall'altra parte un sentimento simile al suo.
"Quanto ci hai messo, dopo che io e lei ci siamo lasciati, a convincerla ad aprire le gambe?"
Terence non immaginava, a quel tempo, che un uomo ubriaco avesse una tale velocità di reazione. Non aveva neanche fatto in tempo ad accorgersi che Albert si era alzato, quando si era sentito prendere per il collo della giacca ed alzare di peso. "Vattene" fu il ringhio sommesso che gli giunse all'orecchio, mentre i suoi piedi riguadagnavano il pavimento.
Albert aveva aperto la porta, facendogli cenno di uscire mentre si allontanava verso le grandi finestre. 
"Non mi importa di quello che dici di me. Di sicuro non è diverso da quello che già mi dico da solo. Ma lascia stare Candy. Non permetterti più usare un linguaggio del genere quando parli di lei. Capito?"

Sbattendo il pugno contro il finestrino, Terence non poté fare a meno di tormentarsi con i pensiero che in quegli anni gli era rimasto appiccicato addosso. Perché comunque, Albert non aveva negato.
Il maledetto. Col suo silenzio, Albert non aveva fatto altro che confermare l'accusa di aver messo le mani su di lei. Prima di quel colloquio, aveva sperato che Albert gli rispondesse indignato, che negasse le accuse. Aveva sperato, Terence, che tutto fosse solo una menzogna partorita da Iriza per screditare Candy agli occhi di Neal. Ma se proprio Albert, l'eroe senza macchia della sua adolescenza, non aveva negato, ciò significava che era tutto vero.
Povera Candy. Sedotta e abbandonata dall'uomo che credeva un amico, quasi un fratello maggiore, e che per ironia della sorte si era rivelato addirittura il suo padre adottivo. 
Non avrebbe avuto alcuna pietà, per lui. 
Terence sprofondò suo malgrado in un sonno nervoso, fortunatamente senza sogni, mentre all'orizzonte, il nero della notte si stingeva leggermente in un blu intenso. Il treno per New York correva incontro alla luminosità che si levava in fondo alla sua corsa. 
L'alba del 9 maggio sarebbe sorta di lì a poco.
   
 
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