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Autore: Sea    09/07/2015    2 recensioni
Il ragazzo della biblioteca è il classico esempio di ragazzo emarginato, lontano dalla società e dai contatti amichevoli, ma dietro il suo aspetto e i suoi modi c'è una storia complessa, una grave perdita. La vita sembra essersi stancata di lui, ma Ed continua ad andare al lavoro e a combattere contro il suo patrigno e il suo fratellastro per non perdere l'eredità di suo nonno: la sua casa. Sua nonna e la sua chitarra sono le uniche cose che gli restano, ma gli eventi prenderanno una piega inaspettata e tra un lavoro e l'altro, Marina entrerà prepotentemente nella sua vita.
Ecco una nuova storia dopo Afire Love! Spero di non deludere le aspettative. :)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ed Sheeran, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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II

 

Non era la prima volta che andava al lavoro con un livido in viso, pensava che la gente si fosse abituata a vederlo barcollare dietro il bancone, cercando di resistere alla forza di gravità.
Quella mattina sembrava che il desiderio di farsi prestare un libro dalla biblioteca avesse conquistato tutti, dato che era passata solo un’ora e aveva già fatto compilare 27 moduli. Il mondo ce l’aveva con lui, ma per fortuna quella sera sua nonna aspettava la sua visita ed aveva una buona scusa per rientrare il più tardi possibile.
Una ragazza gli aveva chiesto di trovarle un libro sulla mitologia greca che non aveva mai sentito nominare, quindi si avventurò nella sezione più sperduta della biblioteca, sperando di trovarlo come per magia. Come se il suo desiderio si fosse realizzato, una scritta a caratteri dorati lo attirò ed era proprio quel libro. Quando lo riportò al bancone e ve lo poggiò sopra, una nuvola di polvere si alzò, facendo tossire la ragazza che, ancora colpita dal suo livido, firmò in fretta e furia e andò via. Succedeva sempre così. La gente aveva una mentalità ristretta, si comportava come se quel livido se lo fosse meritato, come se fosse un poco di buono da cui stare alla larga.
Guardava tutti quei ragazzi in fila per il prestito come fossero degli allocchi, in attesa che un libro gli cambiasse la vita, ma non sapevano che non era così che funzionava?
Di modulo in modulo, sentiva lo stomaco aggrovigliarsi per quel pugno e per la nausea, desiderando soltanto fare 5 minuti di pausa per concentrarsi sul dolore.
Gironzolò per la grande sala per tutta la mattina, il suo maglione blu si riempiva sempre più di polvere ad ogni libro, provocandogli spesso e volentieri qualche starnuto che non faceva che acuire il suo mal di testa.
  • Mi servirebbe un libro sui pipistrelli.
Un libro sui pipistrelli. L’avevano preso per mago Merlino, forse? Che ne sapeva lui dei libri sui pipistrelli? E poi a cosa gli serviva un libro sui pipistrelli?
La gente era strana, lo capiva da tutti i libri strani che cercava in quel posto: libri sui fantasmi, sul ricamo, sulle leggende medievali ed ora sui pipistrelli.
Si avventurò nuovamente nella sezione “animali” e cominciò a cercare tra gli scaffali alla sua altezza. Non era una novità che qualcuno si cercasse libri da solo, ma di solito chi lo faceva non si arrampicava sulle mensole. Proprio dall’altra parte della libreria, riusciva a scorgere qualcuno intento a raggiungere un posto decisamente più alto di lui, così fu costretto ad aggirare gli scaffali e andare a controllare cosa stesse succedendo: guarda tu se doveva dire ad una persona adulta di scendere dalla libreria. Sbuffò mentre si affacciava dall’altra parte, ma poi vide qualcuno di familiare: era quella tizia nuova del caffè.
Era tutta intenta a raggiungere la quota 1.80 m dalla sua statura, ma non ci riusciva. D’un tratto si voltò verso di lui e strabuzzò gli occhi, vedendo il suo tesserino. Scese dallo scaffale e parlò.
  • Scusi, scusi! Non lo faccio più! – era davvero in imbarazzo.
Ed trattenne una risata, sentendo il livido pulsargli al minimo movimento del viso.
  • Ti serve qualcosa? – disse soltanto, tirandosi giù le maniche del maglione.
  • Quel libro lassù.
Indicò un libro con la copertina rossa davvero troppo in alto per lei. La vide spostarsi indietro i lunghi capelli castani, probabilmente ripensando alla figuraccia che aveva appena fatto. Ballonzolando nel suo jeans, si avvicinò a lei e senza dire una parola, si sporse in alto per recuperare il libro. “Un mondo di fiabe”.
Senza indugiare un momento, glielo porse, vedendola da vicino per la prima volta. Era più alto di lei di almeno 7-8 centimetri, ma la sua corporatura minuta la faceva sembrare ancora più piccola. Afferrò il libro con le dita lunghe e gli sorrise, illuminando il viso.
Si sentì in imbarazzo dinanzi a quel gesto, nessuno gli sorrideva mai, soprattutto quando aveva un livido in faccia. Tentò di rifugiarsi dentro il maglione quando lei lo ringraziò.
  • D-di niente. – doveva essere davvero patetico.
La ragazza alzò la mano in segno di saluto e andò via, lasciandolo di nuovo solo. Ultimamente gli capitavano cose strane e non sapeva se fosse un bene. Tornò alla ricerca del libro sui pipistrelli, senza smettere di ripensare agli occhi verdi di quella nuova sconosciuta. Probabilmente avrebbe fatto meglio a dimenticarsi presto anche della sua esistenza, ma per qualche motivo si sentì meno solo per quella mattinata.
 
Non la vide più, né al caffè né in biblioteca. Probabilmente non l’avrebbe affatto vista nemmeno nei giorni a seguire.
Quando uscì dalla caffetteria, facendo tintinnare il campanello, il suo cellulare vibrò. Lo prese dalla tasca e rispose a Jef.
  • Papà vuole che tu vada a ritirare delle cose per lui. – la voce era ancora assonnata.
  • Sto rientrando a lavoro, Jef. – rispose, atono.
  • Penso che tu faccia meglio ad andare, fratellino. Non è di buon umore oggi. Fatti trovare fuori alla stazione centrale tra 15 minuti o sarà peggio per te quando tornerai a casa. Ma non c’è bisogno che te lo dica io.
Chiuse la chiamata percependo chiaramente il dolore allo stomaco tornare a tormentarlo. Aveva vergogna di se stesso ad ammettere di avere paura di quell’uomo, ma riusciva sempre a perdonarsi quando ripensava a tutto ciò che gli aveva fatto passare. Un altro come lui sarebbe nelle sue stesse condizioni, trovandosi a preferire l’obbedienza al dolore fisico.
Sotto i primi fiocchi di neve, andò a prendere la bicicletta e cominciò a pedalare verso la stazione più veloce che poteva, pregando di non cadere.
Il freddo di quella giornata gli anestetizzava il livido che gli copriva lo zigomo e gli spostava i capelli rossi sulla fronte. Incurante del fatto che sarebbe arrivato tardi a lavoro, si fermò fuori alla vecchia stazione. Era una di quelle classiche stazioni inglesi in ferro battuto, tutte decorate di intarsi e lampioni dalla luce gialla. L’uomo dietro al vetro della biglietteria sonnecchiava col giornale in mano.
Col respiro pesante, scese dalla bici, pregando che questa persona arrivasse presto, altrimenti avrebbe avuto un richiamo. Non poteva permettersi di perdere il posto.
Fece vagare i suoi occhi chiari tra la gente, alla ricerca della persona che lo aspettava, ma qualcuno lo fece sobbalzare mettendogli una mano sulla spalla.
  • Edward?
  • Sì! – disse, scattando. – Sì, sono io.
  • Mi raccomando. – e gli porse una busta gialla porta-documenti – Devono arrivare intatti.
Quell’uomo di mezza età, calvo e con gli occhiali, poteva sembrare una persona normalissima nel suo completo da ufficio, ma a lui sembrava appena uscito da un manicomio con quello sguardo da psicopatico. Afferrò la busta e lasciò che l’uomo andasse via, camminando a passo svelto sulla neve fresca. Guardò il malloppo e vide che era tutto sigillato. Non poteva ficcare il naso in nessun modo.
Qualche volta credeva che quelle commissioni che sbrigava per Ben riguardassero anche lui, come se gli tenesse nascosto qualcosa di vitale importanza. Forse era il fatto che il testamento di suo nonno era sparito, a farlo fantasticare in quel modo. O forse era soltanto paranoico.
Rimontò in sella e quando arrivò alla biblioteca, decine di ragazzi erano già in attesa fuori al portone. Corse nel retro, poi dentro ed andò ad aprire il portone dall’interno. Immediatamente i ragazzi tornarono a sedersi ai lunghi banconi, lasciandosi sfuggire qualche commento poco carino sul fatto che il tipo dei prestiti non riuscisse nemmeno ad aprire in orario.
Come se non bastasse, il suo responsabile fece il suo ingresso nella sala e lui doveva ancora togliersi il cappotto: era nei guai.
  • Sheeran! – urlò, incurante del fatto che fossero presenti altre persone. – Cosa stai combinando? Dove ti eri cacciato?
Sì, era proprio nei guai.
  • Hai aperto la porta con 15 minuti di ritardo! Di nuovo! Non vedi che la gente aspetta? Questo è un luogo pubblico, non puoi fare come ti pare.
  • Sì, signore. – disse, abbassando il capo.
  • Se lo fai di nuovo, potrei licenziarti. Quindi, che non accada mai più!
Dopo avergli puntato il dito contro ed aver messo fine alla sua pubblica umiliazione, si voltò e andò via. Come sempre, si trovò a dover ignorare gli sguardi dei presenti.
Ripose la busta gialla sotto al bancone, al sicuro e finalmente potè riprendere a respirare regolarmente.
Diverse ore dopo, si ritrovò solo a pulire il pavimento da tutto il fango che la gente aveva portato all’interno. In quei momenti gli piaceva ascoltare musica, isolandosi per un po’ da quella vita. Chiunque lo avesse visto cantare con la mazza delle pulizie in mano, avrebbe detto che quel tizio aveva davvero qualche rotella fuori posto. E poi non sapeva ballare, quando lo faceva era davvero ridicolo, ma tanto non c’era nessuno.
Doveva sbrigarsi, altrimenti sarebbe arrivato in ritardo da sua nonna e il supermercato avrebbe chiuso e in quel caso sarebbero stati guai.
Fece partire la musica dal computer della biblioteca e per un po’ lasciò che le sue angosce scivolassero via attraverso la sua voce.
Qualcuno lo stava ascoltando in silenzio, nascosto dietro gli alti scaffali in fondo alla biblioteca, ma non se ne accorse. Continuò a pulire il fango come se stesse pulendo le sue ferite e quando ebbe finito, si allontanò per andare a riporre i suoi fedeli compagni, secchio e spazzolone, nello stanzino in fondo alla sala.
Quando tornò indietro, trovò un biglietto sul bancone. Pensò che fosse caduto a qualcuno, ma quando lesse cosa ci fosse scritto, capì che era proprio per lui:
Se ti va, puoi venire a cantare all’Hawking Pub, sabato.
Presentati, cercano qualcuno come te.
Ma cosa…? L’unica spiegazione plausibile era che qualcuno lo aveva sentito cantare mentre faceva le pulizie. Oh Dio, che figura. Non lo avrebbe fatto mai più.
Si portò una mano sulla fronte, dandosi dello scemo, poi tornò a guardare il biglietto. La scrittura apparteneva chiaramente ad una donna, ma non sapeva se potesse fidarsi. Certo, tentare non gli costava nulla…ci avrebbe pensato. L’Hawking Pub era uno dei migliori pub della città e non credeva di essere all’altezza di quel posto. Quando tempo fa vi entrò, leggendo l’annuncio “Cercasi cantante/band per lavoro part-time”, non doveva aver fatto una buona impressione, perché non appena lo videro – un povero ragazzo trasandato e stanco – lo mandarono via. Perché mai quella volta doveva essere diverso?
Uscì dalla biblioteca che la luce era già del tutto sparita e si diresse dall’altra parte della città, a trovare sua nonna.
Evangeline, 80 anni, era il suo angelo custode, la sua stella cometa. La donna più straordinaria che conoscesse. Viveva in un ospizio da quando sua madre era morta e riusciva appena a campare con la sua pensione, quindi Ed provvedeva alla metà delle sue spese mediche, ogni mese. Era l’unica persona che gli fosse rimasta. La sua famiglia.
Quando entrò nella stanza delle visite, fu lieto di vedere il caminetto acceso e lei che si scaldava le mani, con indosso il suo scialle azzurro.
  • Nonna! – la chiamò, tirando fuori un sorriso stanco.
  • Edward, tesoro. Pensavo che il freddo ti avesse fermato.
La vide allargare le braccia, per accoglierlo nel suo abbraccio e lui, come sempre, non si tirò indietro. Qualche volta si chiedeva come avrebbe fatto quando lei fosse andata via, ma in quel momento preferì non pensarci e godersi la sensazione delle sue dita nodose sul viso.
Quando si allontanò, la vide cambiare espressione.
  • Edward, quando ti deciderai ad andare via da quella casa? – gli carezzò lo zigomo violaceo. – Sei un così bel ragazzo, meriti di meglio.
  • Lo so, nonna, ma…
  • …ma non vuoi abbandonare la casa del nonno. – terminò lei, sistemandosi la crocchia di capelli bianchi che aveva in testa. I suoi occhi chiari parlavano per lei.
  • E non ho abbastanza soldi da poter pagare un affitto da solo e mantenere contemporaneamente altre due persone.
Sua nonna non sapeva che pagava le sue spese non coperte dall’ospizio e quello era il motivo principale per cui non poteva andarsene dalla sua casa. Poi c’era il fatto che quella dimora gli apparteneva per eredità e che suo nonno aveva lasciato un testamento, ora scomparso. Non avrebbe mai lasciato quella casa a Ben e Jef, che asserivano di essere comproprietari da quando sua madre era venuta a mancare. Prima o poi, quando il tempo glielo avesse concesso, avrebbe fatto chiarezza in quella storia.
  • Oh, Edward… - riprese Evangeline – Tuo nonno sarebbe orgoglioso di te. Diceva sempre…
  • …che il valore di un uomo di misura dalla forza del suo cuore. – finì lui, sorridendo al ricordo della voce di suo nonno. – Come stai, nonna?
  • In perfetta forma, tesoro, non preoccuparti per me. Piuttosto, cosa ti ha fatto quel bruto? – tornò a concentrarsi sul suo livido.
  • Niente, nonna, sono caduto dalle scale. – disse, poco convincente.
  • Sì, certo e io sono Marylin Monroe. – fece una pausa. – Come va al lavoro? Sei andato in quel locale?
Sua nonna era a conoscenza di molti dettagli della sua vita, compreso il fatto di avere un sogno nel cassetto.
  • Sì, è andata bene. Pensa che qualcuno mi ha offerto una birra e oggi ho trovato questo biglietto. – e glielo mostrò.
  • Hawking Pub. È quello carino sulla terza strada, vero? Cosa stai aspettando? – non perdeva mai l’occasione di incoraggiarlo. – Vai lì e fagli vedere chi sei.
Se qualcuno gli avesse chiesto di descrivere sua nonna, probabilmente si sarebbe trovato senza le parole giuste. Quella donna non diceva le cose a caso, apriva la bocca soltanto per dire quello che pensava e quando gli diceva che credeva in lui, sapeva che era vero.
Uscì dall’ospizio prima del solito, ma si diresse al supermercato con un insolito sorriso.
Fece la spesa per la successiva settimana e riuscì a portarla a casa senza che la bici si piegasse sotto il suo peso. Preparò la cena, fece il bucato e pulì il vialetto dalla neve.
Ovviamente, Ben aveva sempre qualche commissione da affidargli, come andare a riordinare il garage. Non avevano un’automobile, ma quel posto era in disordine come se ci entrassero tutti i giorni. D’un tratto, Ben alzò la saracinesca grigia, provocando un fracasso insopportabile e facendogli cadere quell’enorme scatolone per lo spavento.
  • Sei andato alla stazione?
Oh cazzo.
  • Rispondi, idiota, sei andato alla stazione? – agitò la bottiglia che aveva in mano.
  • Sì, ci sono andato. – disse, cercando di controllarsi.
  • Dove hai messo la mia consegna? – fece un passo verso di lui.
  • L’ho… - deglutì, al pensiero di ciò che lo aspettava. – L’ho dimenticata in biblioteca.
  • Cosa?!
Cominciò ad avanzare verso di lui, che protese le mani istintivamente, mentre indietreggiava verso gli scaffali di ferro.
  • Ben, te la porto domani mattina, ok? – disse, sperando che servisse a qualcosa.
  • Non sei in grado nemmeno di portarmi quattro scartoffie! – la sua voce rimbombava nel piccolo garage, facendogliela percepire ancora più scura e arrabbiata. – Se domani non mi porti quei documenti – e lo afferrò per il collo del maglione – ti farò passare i momenti più brutti della tua vita.
Quando partì il primo cazzotto, tentò di fermarlo, ma ottenne soltanto una reazione peggiore. Ben lo spinse con forza contro il muro, facendogli picchiare la testa e – come sempre – sfogò la sua ubriachezza su di lui. Era incredibile come riuscisse a placcarlo e ad impedirgli di fuggire. Ci provava ogni volta, in qualsiasi modo, ma quell’uomo era troppo grosso, troppo forte, troppo arrabbiato. L’unica cosa che riusciva a fare era evitare qualche colpo, ma ben presto il suo maglione si macchiò di sangue.
Quando fu abbastanza soddisfatto, lo lasciò a terra, piegato su se stesso. Passavano sempre diversi minuti prima che riuscisse a muoversi, perché non solo Ben era forte, ma sapeva dove e come colpire. Tossì, sentendo il sangue caldo scorrergli sul viso e macchiandosi ulteriormente le mani di sangue. Che macello.
Jef entrò nel garage, riconobbe la sua andatura da “Io sono figo”, ma non si voltò verso di lui.
  • Sei patetico. – disse. – Adesso, per favore pulisci questa merda che hai combinato, altrimenti domani non posso organizzare la festa.
Respirò profondamente, chiudendo gli occhi. La rabbia cominciò a coprire la sensazione di dolore che aveva al petto, ma non avrebbe reagito. Non si sarebbe comportato come loro, mai.
A costo di essere deriso da quell’idiota, non avrebbe mai ricambiato quel trattamento con altrettanta violenza. Era sbagliato e non lo avrebbe mai fatto.
Un giorno avrebbe scoperto la verità su quel testamento e gliel’avrebbe fatta pagare. Doveva solo avere pazienza.
Si tirò su, aggrappandosi agli scaffali e si passò una manica del maglione sulla bocca.
  • Se non ti sbrighi, chiamo papà. Muoviti, idiota.
Quel deficiente con un negozio di collane al collo, lo lasciò solo. Non avrebbe sopportato di essere osservato per un minuto di più.
Doveva fermare l’emorragia, quindi andò in bagno e si diede una ripulita, premendo per diverso tempo un asciugamano inzuppato di acqua fredda sul naso e sul labbro. Guardandosi allo specchio, per un attimo le lacrime gli pizzicarono gli occhi, ma non cedette ad esse.
Il giorno dopo sarebbe sembrato il gobbo di Notre Dame o un hobbit e la gente lo avrebbe evitato come la peste.
Quando terminò di sistemare il garage, scappò in camera sua, sentendo nuovamente i passi di Ben sopraggiungere. Si chiuse dentro e si gettò sul letto matrimoniale di sua madre. Per fortuna aveva un bagno a sua disposizione.
Rimase sotto la doccia per un tempo indefinito, ma lungo. Lasciò che tutto quello schifo gli scivolasse di dosso, per cercare di trovare un po’ di pace.
Non chiedeva tanto, alla vita, solo un po’ di serenità, quella che non trovava mai in quelle brevi notti buie. Il giorno dopo si sarebbe alzato, ripromettendosi di dare una svolta alla sua vita, ma poi si sarebbe lasciato distrarre dalla necessità di sopravvivere.
Probabilmente non lo avrebbero accettato all’Hawking Pub, conciato in quel modo e per quel mese avrebbe dovuto fare i salti mortali affinchè Ben non si accorgesse che aveva guadagnato di meno.
Non sapeva come riusciva a vivere.
Non sapeva come riusciva a guardarsi allo specchio.
Non sapeva per quanto ancora avrebbe resistito.







Angolo autrice:

Eccoci con un altro capitolo!
Cominciamo a conoscere meglio questo strano Ed, frutto della mia insana e capricciosa mente.
Non so come andrà questa storia, non vedo l'ora di scoprirlo anch'io, ma intanto fatemi sapere cosa ne pensate, il vostro contributo mi è fondamentale!
Grazie per l'attenzione e alla prossima! :)
  
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