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Autore: Relena_AliScheggiate    18/01/2009    2 recensioni
Pubblicazione sospesa
"Si sentì stringere una spada, le lacrime rigargli il volto, lentamente. Era ancora lì, lo sapeva, nel luogo dove la ‘luce’ non poteva arrivare. Per questo tenne gli occhi chiusi, dolcemente, solo un po’ più a lungo di un istante, quasi per non permettere al dolore di scavargli dentro eccessivamente. Sapeva quello che sarebbe successo di lì a poco, quando sarebbe stato costretto ad aprirli: avrebbe ucciso lui, Fuuma, ancora una volta. Avrebbe sofferto di nuovo quel dolore profondo sette solitudini, fino ad impazzire per il senso di colpa. Ne aveva terrore, ma era anche quello che desiderava: dunque, ora doveva solo anestetizzarsi la mente. [...]"
Ambientata dopo la fine di X, *Love the Nemesis** tratta del dolore di chi è sopravvissuto a quella tragedia, proponendo una visione in negativo delle vicende di X e TB. [SubaruKamui]
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kamui Shiro, Subaru Sumeragi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*Love the Nemesis**

Capitolo IX : Forsaken

Per Kamui fu come trovarsi nell’acqua, come essere immersi nell’utero materno. Non era in grado di vedere nulla, ma provava una sensazione strana, simile a quella che si prova quando si è travolti da una corrente di aria calda. Dove si trovava? Appena lo sentì possibile, aprì gli occhi: abbagliato, l’unica cosa che riuscì a distinguere fu uno spazio di cui non riusciva a definire i limiti, permeato da una molle impressione di luce. Era un sogno? Ancora? Era da quando aveva iniziato a lavorare al locale che aveva ‘smesso’ si sognare, o meglio, tutto ciò che ricordava di quelle notti la mattina dopo, era solo una sequenza di immagini confuse, senza senso. Ma quello… Non poteva sbagliarsi.

Gli bastò un’occhiata per riconoscere il luogo in cui si trovava: era a casa, in cucina, più precisamente. Era seduto in modo da dare la faccia alla finestra; davanti a lui c’era il tavolo su cui usavano consumare i pasti, e oltre era seduto lui, Subaru. Nonostante non riuscisse a vedergli chiaramente il volto, il modo in cui stringeva tra le dita la tazzina di caffè nero, la compostezza con cui era seduto, la silhouette tutto sommato esile per un uomo di quell’età: tutto gli parlava di lui. Avrebbe voluto alzare un po’ più lo sguardo per riceverne conferma, ma scoprì che il suo corpo non gli obbediva: quando si mosse, peraltro contro la sua volontà, fu solo per bere la tazza di tè che gli era davanti. Era come se fosse solo pensiero.

Per capire il significato di quel sogno così atipico, cercò di fare mente locale sugli avvenimenti del giorno prima nel ‘mondo reale’ ma un ronzio di fondo nel suo cervello gli impediva di concentrarsi; dunque lasciò stare e si mise istintivamente a scrutare la figura avanti a sé, chiedendosi perché mai non gli fosse permesso vedere il suo volto. E subito si diede dello stupido; se c’era una cosa da desiderare ora, era svegliarsi: non voleva vederlo anche nei sogni, non quando il sonno era l’unica occasione per dare spessore e profondità al ricordo di Fuuma. Tentò di chiudere gli occhi, di impedirsi di guardarlo, ma le palpebre non si mossero di un millimetro; il focus dello sguardo era puntato su di lui. O meglio, notò, il motivo per cui non riusciva a vedergli il volto, era perché ciò che fissava, in realtà, era un punto imprecisato tra il petto e il collo. Comunque, abbastanza per vederne la linea delle labbra, fredde, composte. Che senso aveva fissare un volto che non gli avrebbe mai sorriso? L’angoscia si abbatté su di lui. Era così senza speranza, desiderare di non capire quando il suo sorriso era falso? Quando, se sorrideva, era solo per nascondere un vuoto che nessuno più poteva riempire?

Quando lo aveva conosciuto, aveva capito all’istante di avere davanti una persona devastata. Spesso si era chiesto come sarebbe stato avere accanto un Subaru che ancora credeva in tutte quelle meravigliose illusioni che la vita offre: era sicuro che avrebbe cercato di proteggerlo, fino alla fine, come aveva fatto con Segawa. Ma le buone intenzioni, come la felicità, sono pretese egoistiche. Un Subaru del genere, era probabile che non gli avrebbe mai consigliato di essere felice a costo di mandare a morte un’umanità intera. Non sarebbe stato in grado di capirlo così profondamente, e lui, Kamui, avrebbe finito col tracciare una linea di confine anche con lui; non gli avrebbe permesso di avvicinarglisi tanto da arrivare quasi a fondersi con lui.

Ma nonostante ciò, Subaru si era allontanato lo stesso. Aveva scelto di realizzare il desiderio di quell’uomo, anche se questo avrebbe significato lasciarsi dietro Kamui. E lui lo aveva lasciato andare: come Subaru aveva fatto la sua scelta, anche lui doveva fare la sua e non poteva permettere che il pensiero di Subaru gli fosse d’impiccio, perché non era lui la persona dalla quale poteva ottenere la felicità. Quindi era inutile rimanergli così attaccato, desiderare di vederlo sorridere, e tutte quelle ridicole sviolinate. Tuttora, se era arrabbiato con se stesso, era perché il suo corpo lo ricordava e non voleva separarsi da lui.

Si maledì con la mente. Sembrava che fosse capace, ogni volta, di imboccare sempre la strada più difficile e dolorosa. Sarebbe bastato andarsene, allontanarsi da lui, e invece era ancora lì, legato ad un uomo che non aveva altra pretesa se non vivere per uccidere. Era inutile farsi illusioni: sapeva che se lo aveva preso con sé, era solo perché il Subaru che conosceva aveva voluto dargli una speranza, per quanto esile questa fosse. Ma lui, Kamui, gli voleva bene proprio per questo e per questo desiderava vederlo sorridere. E la verità era proprio il contrario di ciò che si era augurato prima: attualmente era terrorizzato dall’eventualità di non essere in grado di capire se il suo sorriso fosse vero o no.

Angosciato dalla possibilità di non poter più dimostrare a se stesso di ‘essere speciale’ per lui.

Il cuore gli divenne pesante, mentre tutta una serie di sentimenti confusi presero a rodergli il petto. Non era stato capace di dirglielo, ma il fatto che desiderasse restargli accanto era davvero per poterlo cambiare e nient’altro. Per non perdere anche lui, si potrebbe dire. L’averlo cercato si sarebbe rivelato un errore solo nell’istante in cui avesse compreso che era davvero impossibile cambiarlo. Non voleva nient’altro. Non voleva vivere per quello, ma questo poteva essere un buon punto di partenza, no?

Aspettò qualche secondo, ma vedendo che il sogno non accennava a svanire, cominciò a sentirsi a disagio. Era forse intrappolato là dentro? Ma prima che iniziasse ad andare in panico, udì se stesso parlare.

“Subaru, la nostra vita è davvero reale? O sono gli altri a vivere in semplici illusioni? …Talvolta ho il sentore di star quasi vivendo un sogno dentro un altro sogno. Magari sono io ad essere ancora in coma, ed effettivamente questo è davvero un sogno. Quest’incubo… sento che un giorno di questi mi ingoierà.”

Cosa stava dicendo? Perché quelle parole? Perché ora? Mentre pensava queste cose, lo vide posare delicatamente sul piattino la tazzina di caffè che stava sorseggiando, e appoggiare compostamente le mani sul tavolo. Per un attimo, Kamui ebbe paura di tanta freddezza.

“Kamui, se sei solo un sogno, allora svanisci.”

 

L’illusione si dissolse. Sentendo la guancia premuta sulla pelle del divano, ricordò dove si era addormentato la sera prima e rimase immobile, con gli occhi chiusi, con le guancie bagnate. Quando aveva pianto? Durante il sogno? Il cuore gli faceva male: quelle non erano lacrime liberatorie, erano lacrime di dolore. Erano lacrime che facevano male. Aveva appena realizzato da cosa dipendesse la sua debolezza, e Subaru gli aveva chiesto di ‘svanire’. Proprio come egli stesso aveva detto di fare, senza tanti complimenti, a quella ragazza. Questo era stato solo un sogno, ma l’episodio della sera prima no, era la realtà. Aveva ferito qualcuno per colpa di quell’uomo. E questa era una cosa che non sarebbe dovuta accadere, assolutamente. Stanco dei propri pensieri, si concentrò sul silenzio circostante, che però non riuscì a restituirgli la calma di cui aveva bisogno.

oOoOoOoOoOoOoOoOoOo

Passò un altro giorno. La solitudine continuava sempre identica a se stessa, mentre durante la notte gli incubi si fecero più oscuri, più inquietanti, più deformanti. Erano diversi dal sogno che aveva avuto la prima notte: qui non c’era alcuna luce, e la sensazione di terrore era notevole; essenzialmente non faceva che scappare, ma per quanto la cosa lo seccasse (e lo seccava molto), sentiva che andava bene così. Solo non capiva perché i suoi sogni fossero diventati tutti così simili, devastati e coronati di terrore.

Era come se il suo mondo in rosso&nero volesse ucciderlo.

Se tempo prima avrebbe considerato questa possibilità assurda, ora non la riteneva più così improbabile. Semplicemente i sogni erano notevolmente peggiorati. Si sentiva braccato, disperato. Nonostante razionalmente non ci fosse nulla da temere, provava puro e semplice terrore. Neanche più andare al lavoro lo stancava abbastanza da poterli cancellare dalla sua mente, e il motivo era che l’illusione sembrava essersi fatta più forte. Più potente. Era innegabile che da quando Subaru se ne era andato, la situazione era peggiorata. Avrebbe voluto che tornasse anche solo per poter trovare un po’ di pace. Certo, non poteva essere sicuro che se lui fosse tornato, le cose sarebbero andate a posto, ma come speranza, bastava a dargli la forza di resistere, anche se lo infastidiva il pensiero di dover dipendere così da lui.

Quella sera si recò al lavoro particolarmente stanco. Non era riuscito a dormire bene, e il sonno non gli era venuto nemmeno durante quel pomeriggio. Eppure riuscì a mimetizzare così bene la cosa, che solo una delle cameriere, una certa Kurenai-san, se accorse.

“Ehi, tutto bene? Non è da te sbagliare la miscela dei cocktail!”

Gli piaceva come ragazza. Era una buona osservatrice, e andava sempre dritta al punto. E soprattutto, non lo guardava come se si aspettasse sempre qualcosa da lui.

“Non preoccuparti. Ho cambiato materasso, e non sono riuscito a chiudere occhio. Ma vedrai che domani andrà meglio.”

Vedendola in difficoltà, si offrì quindi di aiutarla a buttare i sacchi della spazzatura, ma quando arrivarono accanto ai bidoni nel vicoletto dietro al locale, trovarono tre ragazzi intenti a scambiarsi qualcosa la cui natura Kamui non capì in fretta come la ragazza, che dunque li scacciò arrabbiata come si potrebbe fare con i gatti randagi, mentre quelli la guardavano con l’aria di che viene preso con le mani nel sacco.

“Ma cosa stavano…?” chiese Kamui, dopo che quei ragazzi si furono dati alla fuga.

“Si stavano drogando.”

Kamui rimase in silenzio, troppo basito per dire qualunque cosa.

“Ma non è quello il problema.” Continuò lei. Kamui la guardò stranito: che intendeva?

“Molti ragazzi che vengono da noi assumono droghe. Io non sono d’accordo, ma comunque liberissimi di farlo, ognuno deve decidere per sé. Ma bisogna saperlo fare: bisogna avere coscienza del limite e del tipo di droga che si va assumendo. E ultimamente nei locali come il nostro, se ne sta diffondendo una che chiamano Forsaken. È una droga sintetica, ma i cui effetti non sono stati ancora appurati. Non tutti lo sanno e ci cadono.”

“E tu come lo sai?”

“Ho un parente che lavora in polizia, che sapendo dove lavoro, mi avvisa sempre di queste cose. Sai, come misura preventiva.” E gli sorrise.

Kamui ricambiò il sorriso. Per un attimo aveva temuto che ne sapesse tanto perché ne aveva avuto a che fare direttamente, ma era stato un pensiero sciocco: una come lei non ci sarebbe mai caduta. Nascose il sollievo dietro il sorriso, e per quella sera si dimenticò delle angosce che lo perseguitavano senza tregua. La seguì dentro, ma vedendole il viso ancora pensieroso, le chiese se fosse tutto a posto. Lei rimase un po’ in silenzio, poi si decise a parlarne.

“È che sono preoccupata. Non ho ancora rivisto nemmeno uno dei ragazzi che ne facevano uso. Non erano molti nel nostro locale, per fortuna, ma… ancora nulla.”

Kamui, non sapendo che dire, rimase in silenzio finché non tornarono dentro. Quella non era una questione da prendere sotto gamba, e immischiarsi poteva essere pericoloso. Ma non riusciva a togliersi l’impressione che ci fosse qualcosa di strano. Persone che sparivano? E dopo aver assunto droghe di cui non si conoscevano le origini? Di sprovveduti ce n’erano molti in giro, senz’ombra di dubbio, ma quando la voce si fosse sparsa abbastanza, una droga del genere non avrebbe avuto più mercato. Che senso avrebbe avuto metterla in circolazione, se anche gli spacciatori, per non perdere il loro giro, tra un po’ avrebbero smesso di venderla?

/A meno che non fosse un altro lo scopo di chi l’ha creata./

Rabbrividì. Non erano affari suoi, comunque. Aveva smesso di preoccuparsi di cose simili. Sentì una voce che dal bancone lo richiamava ai suoi doveri, quindi mise da parte tutto e si concentrò su altro.

Tornato a casa, la trovò ancora deserta e desolata. Nonostante tutto, era abituato a vivere da solo, e quell’assenza non avrebbe dovuto turbarlo più di tanto, se non fosse stato che ancora accarezzava il sospetto che Subaru volesse in qualche modo scappare da lui. Non aveva alcun senso, dato che era stato lui a chiedergli di rimanere, ma l’impressione era quello che era. Il resto della giornata seguì sempre lo stesso pattern. Come se fosse ricaduto nella solita routine, le ore in qualche modo passarono e tornò la sera. Doveva tornare al lavoro.

Il personale del locale aveva un’entrata secondaria situata dietro al locale; Kamui vi passò, fermandosi però pensieroso davanti ai bidoni del giorno prima. Poi, sempre senza pensare a niente di particolare, entrò dentro. Non poteva farlo. Non poteva farci proprio niente, anzi. Non poteva mettersi a controllare la situazione, perché sentiva che se lo avesse fatto, si sarebbe messo nei guai. Scacciò quel pensiero classificandolo come ridicolo e iniziò a lavorare, ma come un pensiero fisso, ogni tanto tornava sui suoi passi e dava un’occhiata fuori, per vedere se i ragazzi del giorno prima erano tornati. Sapeva che era male, ma aveva voglia di fare qualcosa, e gli sarebbe andata bene qualunque cosa, anche giocare a fare la squadra anti-droga. Voleva impegnare la mente in modo che non ci fosse più spazio per null’altro.

Il turno finì in fretta. Mise via le sue cose, aspettò che tutte le colleghe uscissero, e poi chiuse le saracinesche. Salutò tutte, ma prima di andarsene decise di fare un altro salto nel vicoletto. Per tutta sera non aveva visto nessuno e la cosa non lo meravigliava più di tanto: la sortita di Kurenai-san del giorno prima, doveva essere stata abbastanza efficace. Si affacciò: completamente deserto. Tirò un sospiro di sollievo. Per un attimo era stato quasi sicuro che lì ci fosse qualcuno: ne aveva avvertito la presenza, ma a produrre quel rumore di foglie schiacciate, doveva essere stato quel gatto che vedeva ora laggiù. Si fermò ad osservarlo: era nero maculato in bianco. Lo raggiunse e si chinò su di lui, rimanendo sorpreso quando vide che non era scappato, ma che giocava con le mani che Kamui gli poneva avanti al muso. Gli piacevano gli animali, molto.

Ma quello fu un errore. Abbassò la guardia e questo gli impedì di evitare in tempo il colpo che forte gli si abbatté sulla nuca. Crollò a terra, mentre poteva sentire il sangue che colava lento dalla ferita. Maledizione. Nel tentativo disperato di non perdere i sensi, si morse il labbro, a sangue, mentre due individui lo alzarono di forza da terra con l’intento di caricarselo in spalla.

“Ehi, ma questo è ancora cosciente!”

“Che dici? È impossibile! Non dopo un colpo del genere, perlomeno.”

Ma dovette ricredersi. Kamui non era in grado di fingere di essere svenuto; il dolore che sentiva gli faceva vedere doppio, e nello sforzo di rimanere cosciente, teneva l’intera mascella contratta.

“Che facciamo, gliene tiro un altro?”

“E se lo uccidi, poi che facciamo? Meglio non fare nulla senza il consenso del capo.”

“Portiamolo da lui, allora. Dopotutto è perché questo tizio ha fatto la ronda tutta sera, se non siamo riusciti ad avvicinare nessuno, stasera.”

“Buona idea. Così se la prende con lui.”

Presero Kamui indebolito sotto braccio, e lo portarono con sé. Era questa ‘l’avventura’ che voleva? Bene, come desiderava, era finito nei guai. E alla faccia del ‘non erano affari suoi’. Ora lo erano, eccome.

I due scagnozzi lo trascinarono fino ad un deposito relativamente vicino, e suonarono la campanella fuori. Mentre aspettavano che qualcuno rispondesse per farsi aprire,  poggiarono Kamui per terra, ma dato che dopo 5 minuti buoni non era ancora venuto nessuno, iniziarono a preoccuparsi.

“Ma secondo te è normale?”

“Riprova, no? Magari sono nel laboratorio sotterraneo.”

“Si, ma tutti? È impossibile che non ci sia nessuno di guardia. C’è sempre qualcuno, lo sai!”

 L’altro, in un cenno d’impazienza, riprovò a suonare. Kamui seguiva ogni passaggio con la maggiore attenzione possibile, per quanto glielo permettesse il gran mal di testa che gli ottundeva il cervello. Quella era una commozione cerebrale, come minimo; si andava in ospedale, e di corsa, per una cosa del genere, e lui invece era steso lì per terra, come un cretino.

Passarono altri 10 minuti, e ancora, niente.

“Inizio ad avere freddo, porca. E con questo tra le palle non possiamo neppure andarcene.”

“E cosa vorresti fare, buttare giù la porta?”

“Io ci provo.”

Senza tanta pietà nei confronti del mal di testa di Kamui, lo spacciatore iniziò a prendere a calci la porta, furiosamente. L’altro decise di unirsi all’esempio del compagno, e insieme con una spallata, riuscirono a buttare giù la fragile porta d’ingresso. Kamui era appoggiato al muro poco fuori, quindi non riuscì a guardare dentro, ma poté sentire. Quelle che arrivarono al suo orecchio furono autentiche urla d’orrore.

Le urla di chi ha appena visto un cadavere.

Con un enorme sforzo, cercò di spostarsi in direzione della porta, in modo da poter vedere cosa avesse suscitato quelle grida, ma il dolore gli attraversò la spina dorsale come una scarica elettrica. Intanto i due continuavano a gridare, a gridare. Poté distinguere solo in parte quello che le loro voci, quasi mischiate in un’unica, urlarono e non gli piacque: “Chi ha fatto questo?!” , “un demone!” e “è ancora qui!”.

Allarmato, finalmente riuscì ad affacciarsi, ma quello che vide gli gelò l’anima.

I due malcapitati erano inginocchiati, anche se sicuramente ancora in vita. Tra loro due si stagliava la figura di un uomo nero, senza volto. Si concentrò, e capì che era senza volto solo perché lo vedeva di spalle. Teneva le braccia alzate, puntate verso le teste dei due, incapaci di muoversi, chissà per quale motivo. Lo fissavano, e urlavano, semplicemente. Accanto a loro, un mare di cadaveri. Non tutto ciò che vide giacere per terra, aveva aspetto umano, ma sicuramente, qualunque cosa fossero quelle ‘bestie’, non respiravano più. Chi le aveva uccise? Spostò lo sguardo sull’uomo di spalle, appena in tempo per vederlo trapassare le gole dei due uomini di prima.

E vedendo il sangue, urlò. Urlò così forte che era impossibile che quell’uomo non lo sentisse, avvolto com’era dal silenzio della morte. E infatti si girò.

Era Subaru, con il volto macchiato di sangue.

Se Kamui non fosse stato minimamente preparato a quell’eventualità, probabilmente avrebbe perso la ragione, completamente. Ma non poté impedirsi comunque di subire lo shock di vederlo, così, per la prima volta. Le urla di poco prima si spensero a causa dell’affanno, mentre il dolore alla nuca svaniva, per far spazio al tormento ben più potente che prese a divorarlo. Vedendo la sua figura avvicinarglisi, fu preso dal vago ma vano istinto di scappare. E sogno e realtà nella mente di Kamui si mescolarono. Sovrappose il volto ghignante nell’oscurità del mondo in rosso&nero, a quello di Subaru. Rantolò che non doveva avvicinarsi, che quello era solo un sogno, e che in quanto tale, non poteva ucciderlo, mentre la figura rossa e nera, bella come Biancaneve, gli si inchinava accanto.

“Perché? Perché sei qui?”

Subaru era scosso. Kamui sentì le sue dita accarezzargli i capelli, mentre con il palmo della mano gli asciugava le lacrime.

“Mi ucciderai…?” sussurrò, senza fiato, tremando.

L’uomo non rispose subito. Con le sopracciglia aggrottate, prese a scuotere ripetutamente la testa, non riuscendo a trovare subito le parole. E sì che era suo diritto chiederglielo, dato che ‘quella’ era la regola.

“No, Kamui, no. No.” Disse, e continuò a ripeterle come una ninna nanna, come un incantesimo che scaccia la paura e la morte dal cuore.

Se Kamui non fosse stato sicuro che non avrebbe ottenuto risposta, gli avrebbe chiesto perché. Perché vuoi che io viva? Ma rimase in silenzio. Non disse una parola nemmeno quando Subaru lo abbracciò e caricandoselo in spalla, gli disse di addormentarsi, che tutto sarebbe andato bene, dolcemente. Kamui si rilassò, lasciando andare tutta la tensione che il suo corpo aveva accumulato fino a quel momento. E per una volta si addormentò non temendo gli incubi che lo avrebbero tormentato quella notte.

 

Aside

A chiunque non abbia capito la questione della droga, non si preoccupi: arriveranno delucidazioni in merito nel corso stesso della storia.^^

Aggiornamenti: dato che devo dare ancora due esami (di cui l’ultimo il 9 febbraio), ho paura che sarò impegnata fino a quella data. Dopo, mi impegnerò affinché gli aggiornamenti tornino regolari come una volta, prometto. Le condizioni per postare rimangono dunque le stesse, la domenica sera, non prima di due o tre settimane (se non un mese, come è successo per questo capitolo, purtroppo)

Grazie per l’attenzione!

  
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