*Love the Nemesis**
Capitolo IX : Forsaken
Per
Kamui fu come trovarsi nell’acqua, come essere immersi nell’utero materno. Non
era in grado di vedere nulla, ma provava una sensazione strana, simile a quella
che si prova quando si è travolti da una corrente di aria calda. Dove si
trovava? Appena lo sentì possibile, aprì gli occhi: abbagliato, l’unica cosa
che riuscì a distinguere fu uno spazio di cui non riusciva a definire i limiti,
permeato da una molle impressione di luce. Era un sogno? Ancora? Era da quando
aveva iniziato a lavorare al locale che aveva ‘smesso’ si sognare, o meglio,
tutto ciò che ricordava di quelle notti la mattina dopo, era solo una sequenza
di immagini confuse, senza senso. Ma quello… Non poteva sbagliarsi.
Gli
bastò un’occhiata per riconoscere il luogo in cui si trovava: era a casa, in
cucina, più precisamente. Era seduto in modo da dare la faccia alla finestra;
davanti a lui c’era il tavolo su cui usavano consumare i pasti, e oltre era
seduto lui, Subaru. Nonostante non riuscisse a vedergli chiaramente il volto, il
modo in cui stringeva tra le dita la tazzina di caffè nero, la compostezza con
cui era seduto, la silhouette tutto sommato esile per un uomo di quell’età:
tutto gli parlava di lui. Avrebbe voluto alzare un po’ più lo sguardo per
riceverne conferma, ma scoprì che il suo corpo non gli obbediva: quando si
mosse, peraltro contro la sua volontà, fu solo per bere la tazza di tè che gli
era davanti. Era come se fosse solo pensiero.
Per
capire il significato di quel sogno così atipico, cercò di fare mente locale
sugli avvenimenti del giorno prima nel ‘mondo reale’ ma un ronzio di fondo nel
suo cervello gli impediva di concentrarsi; dunque lasciò stare e si mise
istintivamente a scrutare la figura avanti a sé, chiedendosi perché mai non gli
fosse permesso vedere il suo volto. E subito si diede dello stupido; se c’era una
cosa da desiderare ora, era svegliarsi: non voleva vederlo anche nei sogni, non
quando il sonno era l’unica occasione per dare spessore e profondità al ricordo
di Fuuma. Tentò di chiudere gli occhi, di impedirsi di guardarlo, ma le
palpebre non si mossero di un millimetro; il focus dello sguardo era puntato su
di lui. O meglio, notò, il motivo per cui non riusciva a vedergli il volto, era
perché ciò che fissava, in realtà, era un punto imprecisato tra il petto e il
collo. Comunque, abbastanza per vederne la linea delle labbra, fredde, composte.
Che senso aveva fissare un volto che non gli avrebbe mai sorriso? L’angoscia si
abbatté su di lui. Era così senza speranza, desiderare di non capire quando il
suo sorriso era falso? Quando, se sorrideva, era solo per nascondere un vuoto
che nessuno più poteva riempire?
Quando
lo aveva conosciuto, aveva capito all’istante di avere davanti una persona
devastata. Spesso si era chiesto come sarebbe stato avere accanto un Subaru che
ancora credeva in tutte quelle meravigliose illusioni che la vita offre: era
sicuro che avrebbe cercato di proteggerlo, fino alla fine, come aveva fatto con
Segawa. Ma le buone intenzioni, come la felicità, sono pretese egoistiche. Un
Subaru del genere, era probabile che non gli avrebbe mai consigliato di essere
felice a costo di mandare a morte un’umanità intera. Non sarebbe stato in grado
di capirlo così profondamente, e lui, Kamui, avrebbe finito col tracciare una
linea di confine anche con lui; non gli avrebbe permesso di avvicinarglisi
tanto da arrivare quasi a fondersi con lui.
Ma
nonostante ciò, Subaru si era allontanato lo stesso. Aveva scelto di realizzare
il desiderio di quell’uomo, anche se questo avrebbe significato lasciarsi dietro
Kamui. E lui lo aveva lasciato andare: come Subaru aveva fatto la sua scelta,
anche lui doveva fare la sua e non poteva permettere che il pensiero di Subaru
gli fosse d’impiccio, perché non era lui la persona dalla quale poteva ottenere
la felicità. Quindi era inutile rimanergli così attaccato, desiderare di
vederlo sorridere, e tutte quelle ridicole sviolinate. Tuttora, se era
arrabbiato con se stesso, era perché il suo corpo lo ricordava e non voleva
separarsi da lui.
Si
maledì con la mente. Sembrava che fosse capace, ogni volta, di imboccare sempre
la strada più difficile e dolorosa. Sarebbe bastato andarsene, allontanarsi da
lui, e invece era ancora lì, legato ad un uomo che non aveva altra pretesa se
non vivere per uccidere. Era inutile farsi illusioni: sapeva che se lo aveva
preso con sé, era solo perché il Subaru che conosceva aveva voluto dargli una
speranza, per quanto esile questa fosse. Ma lui, Kamui, gli voleva bene proprio
per questo e per questo desiderava vederlo sorridere. E la verità era proprio
il contrario di ciò che si era augurato prima: attualmente era terrorizzato dall’eventualità
di non essere in grado di capire se il suo sorriso fosse vero o no.
Angosciato
dalla possibilità di non poter più dimostrare a se stesso di ‘essere speciale’
per lui.
Il
cuore gli divenne pesante, mentre tutta una serie di sentimenti confusi presero
a rodergli il petto. Non era stato capace di dirglielo, ma il fatto che
desiderasse restargli accanto era davvero per poterlo cambiare e nient’altro.
Per non perdere anche lui, si potrebbe dire. L’averlo cercato si sarebbe
rivelato un errore solo nell’istante in cui avesse compreso che era davvero
impossibile cambiarlo. Non voleva nient’altro. Non voleva vivere per quello, ma
questo poteva essere un buon punto di partenza, no?
Aspettò
qualche secondo, ma vedendo che il sogno non accennava a svanire, cominciò a
sentirsi a disagio. Era forse intrappolato là dentro? Ma prima che iniziasse ad
andare in panico, udì se stesso parlare.
“Subaru,
la nostra vita è davvero reale? O sono gli altri a vivere in semplici illusioni?
…Talvolta ho il sentore di star quasi vivendo un sogno dentro un altro sogno. Magari
sono io ad essere ancora in coma, ed effettivamente questo è davvero un sogno.
Quest’incubo… sento che un giorno di questi mi ingoierà.”
Cosa
stava dicendo? Perché quelle parole? Perché ora? Mentre pensava queste cose, lo
vide posare delicatamente sul piattino la tazzina di caffè che stava
sorseggiando, e appoggiare compostamente le mani sul tavolo. Per un attimo,
Kamui ebbe paura di tanta freddezza.
“Kamui,
se sei solo un sogno, allora svanisci.”
L’illusione si
dissolse. Sentendo la guancia premuta sulla pelle del divano, ricordò dove si
era addormentato la sera prima e rimase immobile, con gli occhi chiusi, con le
guancie bagnate. Quando aveva pianto? Durante il sogno? Il cuore gli faceva
male: quelle non erano lacrime liberatorie, erano lacrime di dolore. Erano
lacrime che facevano male. Aveva appena realizzato da cosa dipendesse la sua
debolezza, e Subaru gli aveva chiesto di ‘svanire’. Proprio come egli stesso
aveva detto di fare, senza tanti complimenti, a quella ragazza. Questo era
stato solo un sogno, ma l’episodio della sera prima no, era la realtà. Aveva
ferito qualcuno per colpa di quell’uomo. E questa era una cosa che non sarebbe
dovuta accadere, assolutamente. Stanco dei propri pensieri, si concentrò sul
silenzio circostante, che però non riuscì a restituirgli la calma di cui aveva
bisogno.
oOoOoOoOoOoOoOoOoOo
Passò un altro
giorno. La solitudine continuava sempre identica a se stessa, mentre durante la
notte gli incubi si fecero più oscuri, più inquietanti, più deformanti. Erano
diversi dal sogno che aveva avuto la prima notte: qui non c’era alcuna luce, e
la sensazione di terrore era notevole; essenzialmente non faceva che scappare,
ma per quanto la cosa lo seccasse (e lo seccava molto), sentiva che andava bene
così. Solo non capiva perché i suoi sogni fossero diventati tutti così simili,
devastati e coronati di terrore.
Era
come se il suo mondo in rosso&nero volesse ucciderlo.
Se tempo prima
avrebbe considerato questa possibilità assurda, ora non la riteneva più così
improbabile. Semplicemente i sogni erano notevolmente peggiorati. Si sentiva
braccato, disperato. Nonostante razionalmente non ci fosse nulla da temere,
provava puro e semplice terrore. Neanche più andare al lavoro lo stancava
abbastanza da poterli cancellare dalla sua mente, e il motivo era che
l’illusione sembrava essersi fatta più forte. Più potente. Era innegabile che
da quando Subaru se ne era andato, la situazione era peggiorata. Avrebbe voluto
che tornasse anche solo per poter trovare un po’ di pace. Certo, non poteva
essere sicuro che se lui fosse tornato, le cose sarebbero andate a posto, ma
come speranza, bastava a dargli la forza di resistere, anche se lo infastidiva
il pensiero di dover dipendere così da lui.
Quella sera si
recò al lavoro particolarmente stanco. Non era riuscito a dormire bene, e il
sonno non gli era venuto nemmeno durante quel pomeriggio. Eppure riuscì a
mimetizzare così bene la cosa, che solo una delle cameriere, una certa Kurenai-san,
se accorse.
“Ehi, tutto
bene? Non è da te sbagliare la miscela dei cocktail!”
Gli piaceva
come ragazza. Era una buona osservatrice, e andava sempre dritta al punto. E
soprattutto, non lo guardava come se si aspettasse sempre qualcosa da lui.
“Non
preoccuparti. Ho cambiato materasso, e non sono riuscito a chiudere occhio. Ma
vedrai che domani andrà meglio.”
Vedendola in
difficoltà, si offrì quindi di aiutarla a buttare i sacchi della spazzatura, ma
quando arrivarono accanto ai bidoni nel vicoletto dietro al locale, trovarono
tre ragazzi intenti a scambiarsi qualcosa la cui natura Kamui non capì in
fretta come la ragazza, che dunque li scacciò arrabbiata come si potrebbe fare
con i gatti randagi, mentre quelli la guardavano con l’aria di che viene preso
con le mani nel sacco.
“Ma cosa
stavano…?” chiese Kamui, dopo che quei ragazzi si furono dati alla fuga.
“Si stavano
drogando.”
Kamui rimase in
silenzio, troppo basito per dire qualunque cosa.
“Ma non è
quello il problema.” Continuò lei. Kamui la guardò stranito: che intendeva?
“Molti ragazzi
che vengono da noi assumono droghe. Io non sono d’accordo, ma comunque liberissimi
di farlo, ognuno deve decidere per sé. Ma bisogna saperlo fare: bisogna avere
coscienza del limite e del tipo di droga che si va assumendo. E ultimamente nei
locali come il nostro, se ne sta diffondendo una che chiamano Forsaken. È una
droga sintetica, ma i cui effetti non sono stati ancora appurati. Non tutti lo
sanno e ci cadono.”
“E tu come lo
sai?”
“Ho un parente
che lavora in polizia, che sapendo dove lavoro, mi avvisa sempre di queste
cose. Sai, come misura preventiva.” E gli sorrise.
Kamui ricambiò
il sorriso. Per un attimo aveva temuto che ne sapesse tanto perché ne aveva
avuto a che fare direttamente, ma era stato un pensiero sciocco: una come lei
non ci sarebbe mai caduta. Nascose il sollievo dietro il sorriso, e per quella
sera si dimenticò delle angosce che lo perseguitavano senza tregua. La seguì
dentro, ma vedendole il viso ancora pensieroso, le chiese se fosse tutto a
posto. Lei rimase un po’ in silenzio, poi si decise a parlarne.
“È che sono
preoccupata. Non ho ancora rivisto nemmeno uno dei ragazzi che ne facevano uso.
Non erano molti nel nostro locale, per fortuna, ma… ancora nulla.”
Kamui, non
sapendo che dire, rimase in silenzio finché non tornarono dentro. Quella non
era una questione da prendere sotto gamba, e immischiarsi poteva essere
pericoloso. Ma non riusciva a togliersi l’impressione che ci fosse qualcosa di strano.
Persone che sparivano? E dopo aver assunto droghe di cui non si conoscevano le
origini? Di sprovveduti ce n’erano molti in giro, senz’ombra di dubbio, ma
quando la voce si fosse sparsa abbastanza, una droga del genere non avrebbe
avuto più mercato. Che senso avrebbe avuto metterla in circolazione, se anche
gli spacciatori, per non perdere il loro giro, tra un po’ avrebbero smesso di
venderla?
/A meno che non
fosse un altro lo scopo di chi l’ha creata./
Rabbrividì. Non
erano affari suoi, comunque. Aveva smesso di preoccuparsi di cose simili. Sentì
una voce che dal bancone lo richiamava ai suoi doveri, quindi mise da parte
tutto e si concentrò su altro.
Tornato a casa,
la trovò ancora deserta e desolata. Nonostante tutto, era abituato a vivere da
solo, e quell’assenza non avrebbe dovuto turbarlo più di tanto, se non fosse
stato che ancora accarezzava il sospetto che Subaru volesse in qualche modo
scappare da lui. Non aveva alcun senso, dato che era stato lui a chiedergli di
rimanere, ma l’impressione era quello che era. Il resto della giornata seguì
sempre lo stesso pattern. Come se fosse ricaduto nella solita routine, le ore
in qualche modo passarono e tornò la sera. Doveva tornare al lavoro.
Il personale
del locale aveva un’entrata secondaria situata dietro al locale; Kamui vi
passò, fermandosi però pensieroso davanti ai bidoni del giorno prima. Poi,
sempre senza pensare a niente di particolare, entrò dentro. Non poteva farlo.
Non poteva farci proprio niente, anzi. Non poteva mettersi a controllare la
situazione, perché sentiva che se lo avesse fatto, si sarebbe messo nei guai.
Scacciò quel pensiero classificandolo come ridicolo e iniziò a lavorare, ma
come un pensiero fisso, ogni tanto tornava sui suoi passi e dava un’occhiata
fuori, per vedere se i ragazzi del giorno prima erano tornati. Sapeva che era
male, ma aveva voglia di fare qualcosa, e gli sarebbe andata bene qualunque
cosa, anche giocare a fare la squadra anti-droga. Voleva impegnare la mente in
modo che non ci fosse più spazio per null’altro.
Il turno finì
in fretta. Mise via le sue cose, aspettò che tutte le colleghe uscissero, e poi
chiuse le saracinesche. Salutò tutte, ma prima di andarsene decise di fare un
altro salto nel vicoletto. Per tutta sera non aveva visto nessuno e la cosa non
lo meravigliava più di tanto: la sortita di Kurenai-san del giorno prima,
doveva essere stata abbastanza efficace. Si affacciò: completamente deserto.
Tirò un sospiro di sollievo. Per un attimo era stato quasi sicuro che lì ci
fosse qualcuno: ne aveva avvertito la presenza, ma a produrre quel rumore di
foglie schiacciate, doveva essere stato quel gatto che vedeva ora laggiù. Si
fermò ad osservarlo: era nero maculato in bianco. Lo raggiunse e si chinò su di
lui, rimanendo sorpreso quando vide che non era scappato, ma che giocava con le
mani che Kamui gli poneva avanti al muso. Gli piacevano gli animali, molto.
Ma quello fu un
errore. Abbassò la guardia e questo gli impedì di evitare in tempo il colpo che
forte gli si abbatté sulla nuca. Crollò a terra, mentre poteva sentire il
sangue che colava lento dalla ferita. Maledizione. Nel tentativo disperato di
non perdere i sensi, si morse il labbro, a sangue, mentre due individui lo
alzarono di forza da terra con l’intento di caricarselo in spalla.
“Ehi, ma questo
è ancora cosciente!”
“Che dici? È
impossibile! Non dopo un colpo del genere, perlomeno.”
Ma dovette
ricredersi. Kamui non era in grado di fingere di essere svenuto; il dolore che
sentiva gli faceva vedere doppio, e nello sforzo di rimanere cosciente, teneva
l’intera mascella contratta.
“Che facciamo,
gliene tiro un altro?”
“E se lo
uccidi, poi che facciamo? Meglio non fare nulla senza il consenso del capo.”
“Portiamolo da
lui, allora. Dopotutto è perché questo tizio ha fatto la ronda tutta sera, se non
siamo riusciti ad avvicinare nessuno, stasera.”
“Buona idea.
Così se la prende con lui.”
Presero Kamui
indebolito sotto braccio, e lo portarono con sé. Era questa ‘l’avventura’ che
voleva? Bene, come desiderava, era finito nei guai. E alla faccia del ‘non
erano affari suoi’. Ora lo erano, eccome.
I due scagnozzi
lo trascinarono fino ad un deposito relativamente vicino, e suonarono la
campanella fuori. Mentre aspettavano che qualcuno rispondesse per farsi aprire, poggiarono Kamui per terra, ma dato che dopo
5 minuti buoni non era ancora venuto nessuno, iniziarono a preoccuparsi.
“Ma secondo te
è normale?”
“Riprova, no?
Magari sono nel laboratorio sotterraneo.”
“Si, ma tutti?
È impossibile che non ci sia nessuno di guardia. C’è sempre qualcuno, lo sai!”
L’altro, in un cenno d’impazienza, riprovò a suonare.
Kamui seguiva ogni passaggio con la maggiore attenzione possibile, per quanto
glielo permettesse il gran mal di testa che gli ottundeva il cervello. Quella
era una commozione cerebrale, come minimo; si andava in ospedale, e di corsa,
per una cosa del genere, e lui invece era steso lì per terra, come un cretino.
Passarono altri
10 minuti, e ancora, niente.
“Inizio ad
avere freddo, porca. E con questo tra le palle non possiamo neppure andarcene.”
“E cosa vorresti
fare, buttare giù la porta?”
“Io ci provo.”
Senza tanta
pietà nei confronti del mal di testa di Kamui, lo spacciatore iniziò a prendere
a calci la porta, furiosamente. L’altro decise di unirsi all’esempio del
compagno, e insieme con una spallata, riuscirono a buttare giù la fragile porta
d’ingresso. Kamui era appoggiato al muro poco fuori, quindi non riuscì a
guardare dentro, ma poté sentire. Quelle che arrivarono al suo orecchio furono
autentiche urla d’orrore.
Le
urla di chi ha appena visto un cadavere.
Con un enorme
sforzo, cercò di spostarsi in direzione della porta, in modo da poter vedere
cosa avesse suscitato quelle grida, ma il dolore gli attraversò la spina
dorsale come una scarica elettrica. Intanto i due continuavano a gridare, a
gridare. Poté distinguere solo in parte quello che le loro voci, quasi mischiate
in un’unica, urlarono e non gli piacque: “Chi ha fatto questo?!” , “un demone!”
e “è ancora qui!”.
Allarmato,
finalmente riuscì ad affacciarsi, ma quello che vide gli gelò l’anima.
I due malcapitati
erano inginocchiati, anche se sicuramente ancora in vita. Tra loro due si
stagliava la figura di un uomo nero, senza volto. Si concentrò, e capì che era
senza volto solo perché lo vedeva di spalle. Teneva le braccia alzate, puntate
verso le teste dei due, incapaci di muoversi, chissà per quale motivo. Lo
fissavano, e urlavano, semplicemente. Accanto a loro, un mare di cadaveri. Non
tutto ciò che vide giacere per terra, aveva aspetto umano, ma sicuramente,
qualunque cosa fossero quelle ‘bestie’, non respiravano più. Chi le aveva
uccise? Spostò lo sguardo sull’uomo di spalle, appena in tempo per vederlo
trapassare le gole dei due uomini di prima.
E vedendo il
sangue, urlò. Urlò così forte che era impossibile che quell’uomo non lo
sentisse, avvolto com’era dal silenzio della morte. E infatti si girò.
Era Subaru, con
il volto macchiato di sangue.
Se Kamui non
fosse stato minimamente preparato a quell’eventualità, probabilmente avrebbe
perso la ragione, completamente. Ma non poté impedirsi comunque di subire lo
shock di vederlo, così, per la prima volta. Le urla di poco prima si spensero a
causa dell’affanno, mentre il dolore alla nuca svaniva, per far spazio al
tormento ben più potente che prese a divorarlo. Vedendo la sua figura
avvicinarglisi, fu preso dal vago ma vano istinto di scappare. E sogno e realtà
nella mente di Kamui si mescolarono. Sovrappose il volto ghignante
nell’oscurità del mondo in rosso&nero, a quello di Subaru. Rantolò che non
doveva avvicinarsi, che quello era solo un sogno, e che in quanto tale, non
poteva ucciderlo, mentre la figura rossa e nera, bella come Biancaneve, gli si
inchinava accanto.
“Perché? Perché
sei qui?”
Subaru era
scosso. Kamui sentì le sue dita accarezzargli i capelli, mentre con il palmo
della mano gli asciugava le lacrime.
“Mi ucciderai…?”
sussurrò, senza fiato, tremando.
L’uomo non
rispose subito. Con le sopracciglia aggrottate, prese a scuotere ripetutamente
la testa, non riuscendo a trovare subito le parole. E sì che era suo diritto
chiederglielo, dato che ‘quella’ era la regola.
“No, Kamui, no.
No.” Disse, e continuò a ripeterle come una ninna nanna, come un incantesimo
che scaccia la paura e la morte dal cuore.
Se Kamui non
fosse stato sicuro che non avrebbe ottenuto risposta, gli avrebbe chiesto
perché. Perché vuoi che io viva? Ma rimase in silenzio. Non disse una parola
nemmeno quando Subaru lo abbracciò e caricandoselo in spalla, gli disse di
addormentarsi, che tutto sarebbe andato bene, dolcemente. Kamui si rilassò, lasciando
andare tutta la tensione che il suo corpo aveva accumulato fino a quel momento.
E per una volta si addormentò non temendo gli incubi che lo avrebbero
tormentato quella notte.
Aside
A chiunque non
abbia capito la questione della droga, non si preoccupi: arriveranno
delucidazioni in merito nel corso stesso della storia.^^
Aggiornamenti:
dato che devo dare ancora due esami (di cui l’ultimo il 9 febbraio), ho paura
che sarò impegnata fino a quella data. Dopo, mi impegnerò affinché gli
aggiornamenti tornino regolari come una volta, prometto. Le condizioni per
postare rimangono dunque le stesse, la domenica sera, non prima di due o tre
settimane (se non un mese, come è successo per questo capitolo, purtroppo)
Grazie per
l’attenzione!