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Autore: Fede_Wanderer    10/07/2015    5 recensioni
Angie e Peggy e la vita nella villa di Howard.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Peggy Carter
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Caffè

Le mattine, nella villa di Howard Stark, erano contrassegnate da una dolce routine.
Peggy apriva gli occhi alle 7.00 in punto - scorgendo, ancora assonnata, un comodino in legno alla sua destra e sopra di esso una sveglia dal suono gracchiante, il suo rossetto, una vecchia fotografia di Steve in un medaglione - e sentiva, intenso e inconfondibile, l’odore del caffè provenire dalla cucina, tre stanze oltre la sua.
Sorrideva, istantaneamente. Liberamente. Senza sentire la mente offuscata da preoccupazioni, senza sentire il bisogno di stare sull’attenti, pronta ad agire, pronta a reagire, pronta a sparare, pronta a rispondere a un collega presuntuoso con parole più affilate di una lama.
E mentre si gustava quel sorriso, puntuale, giungeva la voce squillante di Angie.
“Sbrigati, Inglese!”
Ogni mattina, a villa Stark, alle 7.01, l’agente Peggy Carter rideva.

Angie era un essere umano straordinario, pensava Peggy, raggiungendola in cucina, ancora in vestaglia da notte. 

Nei giorni peggiori, le capitava di riversarle addosso frustrazioni su frustrazioni e dolori su dolori - il lavoro, i compiti da segretaria, le morti sulle sue spalle - ed Angie se ne usciva sempre, sempre, con qualcosa di assolutamente assurdo e inopportuno, tipo, “Sì, sai, anche mio cugino una volta si è sentito così, perché ha schiacciato una tartaruga e poi…”. 

Peggy non aveva ancora capito se lo facesse apposta per far scena e farla ridere (d’altronde, era la migliore attrice del mondo) o se avesse davvero l’umorismo e l’ingenuità di un bambino, ma non le importava. Angie era una boccata d’aria fresca.
Ogni mattina, prendevano il caffè insieme, scambiandosi confidenze su sogni ancora vividi, e poi si preparavano per avviarsi al lavoro, con l’odore del caffè che pervadeva ancora la stanza, mischiandosi alle note di una qualche canzone di Frank Sinatra alla radio.

Peggy non le disse tutto insieme.
Le rivelò la verità un caffè alla volta, piano, lasciando che la riconoscenza che le doveva vincesse sulla paura di sbagliare, su quel terrore strisciante di coinvolgerla troppo e perdere anche lei.
Al primo caffè, le parlò di Steve, della guerra, di quella volta che aveva preso a pugni un soldato che l’aveva chiamata principessina, corredando l’appellativo con una serie di allusioni sessuali.
Angie si infuriò tantissimo con lui - un soldatino americano che non aveva mai visto - e poi aggiunse, un po’ in imbarazzo, che nessun rozzo villano doveva permettersi di trattare così l’Agente migliore della SSR.
Peggy, per un istante, rivide nel suo sguardo quello di un ragazzino smilzo che le chiedeva di ballare senza saperlo fare. E sentì qualcosa cambiare dentro di lei.

Al secondo caffè, le parlò di Howard Stark, di Jarvis, delle invenzioni, della Russia, di cos’era successo davvero quando era entrata in casa di Angie dalla finestra.
Parlò del sangue di Steve e per qualche motivo si sentì al sicuro, abbastanza al sicuro da rivelarle della fiala, dell’addio definitivo a Steve, di quell’addio privato di cui nessuno sapeva. Nè quel pallone gonfiato di Howard, nè Jarvis, nè Sousa o Thompson, nessuno. 

Abbassò lo sguardo, la voce tremante, aspettandosi una risposta assurda e irriverente, come “Beh, sai, Peggy, so esattamente come ti senti, una volta ho versato del latte giù dal tavolo!”, ma Angie le prese la mano e gliela strinse e Peggy alzò gli occhi.
E vide sostegno e rispetto.
Peggy Carter conosceva il proprio valore e no, le opinioni altrui non importavano. E non sarebbe importato, non davvero, se Angie l’avesse compatita. Ma la rispettò.
E, ancora una volta, Peggy ebbe l’inspiegabile sensazione che un pezzetto di sè cadesse e prendesse il volo, come una farfalla.

Al terzo caffè, le parlò di Coleen e degli Agenti caduti per colpa sua.
Non disse mai che le aveva mentito per proteggerla, ma Angie lo capì, e rimase a lungo a fissare quella donna, reduce di guerra, vera eroina dell’America, quel concentrato di forza e dignità e rispetto per se stessa avvolto in un vestito blu ed un cappello rosso fuoco, e non si accorse neppure che il suo caffè s’era raffreddato.

Al quarto caffè, Peggy non le parlò.
Arrivò in cucina, ancora assonnata, la vestaglia blu e bianca scomposta, con un sorriso, come ogni mattina, ed Angie le fece segno di star zitta. “Oggi parlo io”, aggiunse, con un occhiolino.
Parlò di sè, dei clienti al bar, dei sogni su Broadway, parlò a lungo e riempì la caffettiera tre o quattro volte prima di concludere.
Non concluse, in verità. Non voleva neppure finirlo, quel discorso. In effetti, non c’era un discorso, solo l’impellente bisogno di mostrare ogni parte di sè a quella donna, che - Angie, dopotutto, l’aveva sempre saputo - teneva il suo cuore tra le mani, come una fragile tazzina da caffè.

“Lo amavi tanto, vero?”, le chiese un giorno, con uno sguardo un po’ triste. D’altronde, chi mai poteva competere con Capitan America?
Peggy sorrise. “Sì”, rispose - nella voce, la stessa fermezza con cui affermava le sue abilità o il suo valore sul posto di lavoro. “E tu? Ti è mai successo?”
“Di non fare un ballo con Capitan America?”
Peggy rise. “Idiota, di innamorarti.”
Angie rimase in silenzio. Fissò il fondo della sua tazzina, ascoltando il rimbombo del proprio cuore. “Sì, direi di sì”.

Fu, forse, il decimo caffè, quello che infine cambiò le cose.
Fu un caffè preparato e mai bevuto. Peggy fece per prenderle la tazzina dalle mani, ma Angie la bloccò, le strinse la mano, lasciò andare la tazza.
Cadde a terra come in un film. E come in un film, non ci fecero caso.
There's a saying old says that love is blind…’
La radio, sul mobile della cucina, cantava, ma come in un film, loro non la udirono.
‘Still we’re often told, seek and ye shall find…’
Angie si avvicinò senza rifletterci, senza preavviso, premette le proprie labbra sulle sue d’istinto, e (non proprio come in un film) le venne da ridere e pensare “fortuna che prima di colazione non mette mai quel coso allucinogeno”.
Peggy le circondò la vita con un braccio, la strinse a sè e (non proprio come in un film) si rese conto che s’era sbagliata: Angie non aveva lo sguardo di Steve, nè forse la sua purezza; ma aveva uno sguardo dolce e una risata ammaliante, e aveva una leggerezza ingenua che la portava tra le nuvole quando le pistole nelle sue mani erano troppo pesanti.
E forse era la persona giusta per un ballo.

{Peggy Carter ed Angie Martinelli appartengono alla Marvel.
‘Someone To Watch Over Me’ appartiene a Frank Sinatra.
Il femslash appartiene al mio cuore e alle mie speranze di averlo canon in s2.}

   
 
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