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Autore: Akemichan    12/07/2015    3 recensioni
"Per gli Alleati e per la Germania, sarà il giorno più lungo." E. Rommel.
Il 6 Giugno 1944 è il giorno che ha cambiato le sorti della Seconda Guerra Mondiale, permettendo agli alleati di sbarcare in Francia ed iniziare la controffensiva contro la Germania. Tuttavia, è stato anche il giorno che ha cambiato le sorti di molti soldati presenti, sia i morti e i sopravvissuti.
Come Sabo, nobile francese, che si è ritrovato a fare i conti fra il suo sogno, la sua famiglia e un paese invaso da liberare. Come Ace, che è diviso tra il desiderio di vendicare un fratello e il dovere di proteggere l'altro, senza dimenticare la promessa che ha fatto ad entrambi. E assieme a loro le storie delle persone che amano, dal fratellino Rufy con il sogno di diventare campione olimpico a tutte quelle persone che hanno caratterizzato la loro vita fino a quel fatale 6 Giugno.
Questa è la loro storia, la storia di tutti loro.
1° Classificata al Contest "Just let me cry" indetto da Starhunter
2° Classificata al Contest "AU Contest" indetto da Emmastar
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Ace/Marco, Koala, Marco, Monkey D. Rufy, Sabo, Sabo/Koala, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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1944 – Parte IV
 
 
Brest, 10 Agosto
 
«Cazzo! Merda!» Kidd era come al solito estremamente colorito nell'esprimere i suoi sentimenti. «'Sta cazzo di città di merda!» Anche se dopo settimane a stretto contatto, iniziava a diventare un po' ripetitivo.

Non che Ace non lo capisse, l'assedio di Brest andava avanti da giorni e in pratica riuscivano a conquistare una strada alla volta. I tedeschi erano con le spalle al muro, ma non si poteva dire che non fossero combattenti straordinari per come avevano deciso di resistere. Sapevano che le truppe alleate avevano bisogno di porti per i rifornimenti prima di partire per la Germania e non avevano intenzione di cedere.

Da parte sua, poi, c'era anche frustrazione. Brest era lontana da Parigi e praticamente dalla parte opposta rispetto a Berlino. Non era il posto dove sentiva di voler stare, per cui dopo un po' le lamentele di Kidd diventavano semplicemente intollerabili.

«Se non chiudi quella bocca ti sparo.» Erano tutti nella stessa situazione, stanchi e delusi da come stavano andando le cose.

Law alzò gli occhi al cielo. «Da quando è morto tuo fratello hai una scopa su per il culo» commentò. Non sapeva cosa fosse la delicatezza, o molto probabilmente non gliene importava abbastanza.

«Sparo anche a te» gli comunicò Ace.

Poi il M4 Sherman davanti a loro iniziò a bombardare, rendendo la conversazione impossibile. I tre Ranger imbracciarono i loro fucili e attesero che il fumo delle esplosioni si diradasse, prima di infilarsi nel buco delle difese tedesche. Spararono ancora prima di vedere qualcuno, quindi si ripararono dietro il primo edificio non appena sentirono il suono delle mitragliatrici.

Un attimo dopo era tornato il silenzio: come al solito i soldati tedeschi si ritiravano e preparavano un'altra barricata poco più avanti, in maniera da impedire alla fanteria di avanzare. I carri armati avevano difficoltà nelle vie strette e dovevano farsi avanti lentamente. Ace si guardò intorno: avevano conquistato dieci metri di terreno e perso due uomini.

Si sentì il suono di un'altra esplosione sulla sinistra e il gruppo dei Ranger si diresse in quella direzione, sperando che si fosse aperta un'altra via più larga dove passare. In quel caso, però, l'attacco era stato tedesco: un Panzer V aveva aggirato una delle sue stesse barricate e aveva iniziato a sparare contro uno degli Sherman. L'attacco aveva distrutto gli edifici vicini, colpendo un gruppo della 29° Divisione.

Kidd estrasse una delle sue granate anticarro e corse in avanti per lanciarla, mentre gli altri lo coprivano da dietro. Ace balzò verso un edificio vicino ancora intero ed entrò dalla finestra rotta, per poi affacciarsi lungo la strada e sparare ai soldati tedeschi dall'alto. Questi risposero al fuoco senza riuscire a colpirlo, poi vennero investiti in pieno dall'esplosione che distrusse il Panzer.

Ace balzò a terra, prima che anche l'edificio in cui era entrato crollasse, e si unì al gruppo dei Ranger che stava andando a recuperare i soldati feriti. Molti erano già morti, mentre alcuni erano riusciti a scampare al crollo e stavano obbedendo agli ordini di Law su come trattare le ferite prima che arrivasse lui a controllarle. Ace si diede un'occhiata in giro per vedere se poteva dare una mano ed individuò un paio di gambe che uscivano da un detrito più grosso.

Si avvicinò per notare che non si muovevano, ma gli pareva invece di aver notato che, dall'altra parte, un braccio aveva avuto un sussulto. Aggirò il detrito per vedere se apparteneva al proprietario delle braccia e improvvisamente non ebbe più importanza.

«Marco!» Ace si chinò immediatamente al suo fianco, controllando la situazione. Il masso gli era caduto sul corpo, schiacciandolo dall'addome in giù. Lo toccò per vedere se si scostava, ma sembrava troppo pensante per lui. «Law! Law, muovi il culo, maledizione!» chiamò. Poi tornò a voltarsi verso Marco. «Cosa posso fare?»

Marco tossì. «Mi dispiace, non avrei voluto che mi vedessi in queste condizioni.»

«Va tutto bene» gli rispose Ace, cercando di capire che cosa poteva fare. Poggiò la mano sull'addome per controllare al limite della pietra: non sembrava esserci molto sangue.

Law arrivò al suo fianco, scoccò una rapida occhiata e poi diede a Marco qualche antidolorifico. «Tutto qui?» esclamò Ace, balzando in piedi quando lo vide allontanarsi. «Dobbiamo spostare la pietra e poi ci saranno sicuramente delle ferite da curare!»

«Se levi quel masso, lo uccidi più in fretta.» Law lo guardò con uno sguardo di superiorità. «Non c'è nient'altro che io possa fare se non alleviargli il dolore.»

«Ma sei un medico!»

«Appunto per questo il mio dovere è cercare di guarire i feriti, non sprecare medicine con chi sta già morendo.» Non rimase ad attendere una risposta, ma si diresse verso il suo prossimo paziente.

«Oh, maledizione!» Ace si rifiutava di credere che non ci fosse una possibilità di fare qualcosa. Prese la pietra con entrambe le mani, da sotto, e provò a sollevarla, ma era chiaro che da solo sarebbe stata troppo pensate per lui. Allora la prese a pugni, con l'unico risultato di riempirsi le mani del suo stesso sangue.

«Basta così. Ace, per favore» mormorò Marco. Gli antidolorifici avevano iniziato a fare effetto e si sentiva in condizioni di dare ordini.

Ace lo fissò digrignando i denti, poi obbedì. Lo aggirò e si sedette su un altro detrito piatto, a pochi centimetri dalla sua testa. Con Sabo, era lontano mille miglia. Con Rufy, era impegnato a fare una missione inutile. Adesso era lì, davanti a lui, e gli veniva detto che non c'era comunque non poteva fare nulla. Tutto sommato, non aveva senso continuare a combattere, tanto evidentemente non aveva nemmeno una possibilità di salvare coloro a cui teneva.

Gli altri avevano terminato di impacchettare i feriti e, mentre alcuni tornavano indietro verso le linee americane, i ranger avevano intenzione di proseguire oltre l'apertura che la bomba di Kidd era riuscita ad aprire.

«Io resto qui» comunicò Ace quando Law venne a richiamarlo.

Lui lo guardò alzando un sopracciglio. «È diserzione, Capitano.»

«Allora sparami.» Ace non era riuscito a salutare i suoi fratelli per l'ultima volta, non se ne sarebbe andato.

«Se vuoi davvero far qualcosa, forse dovresti sparare a lui» accennò con il capo al corpo di Marco a terra, «e risparmiargli una morte dolorosa.» Poi si allontanò senza aggiungere altro e in lontananza iniziarono a sentirsi nuovamente spari ed esplosioni.

«Dovresti andare» disse Marco gentilmente.

«No» rispose Ace secco. Poi deglutì. «A meno che tu non voglia davvero... che io...» Non riusciva a pronunciarlo, non sapeva con che coraggio avrebbe estratto la sua pistola per sparargli.

«Voglio essere egoista» rispose Marco, allungando un braccio verso di lui. «Se posso avere qualche altro minuto con te.»

Ace gli prese la mano con le sue e gliela strinse forte. Non vedeva davvero come propendere per una morte lenta e tremenda solo per stare con lui fosse in qualche maniera egoistico. Non se lo meritava dopo che non era riuscito a proteggere nessuno. Eppure nemmeno lui aveva il coraggio di andarsene. Strinse i denti e cercò di non piangere.

«Mi dispiace» disse Marco dopo un po'. «Non avrei voluto lasciarti da solo. Sai... Quello di cui avevo più paura.»

«Smettila.» Non voleva sentirlo parlare della sua morte. Non voleva sentirlo scusarsi in quel momento. Non voleva piangere. «Io non capisco...» aggiunse poi. «Perché ho avuto la fortuna di sopravvivere? Proprio io?» Tra tutti quelli che conosceva, era quello che se lo meritava di meno.

«Se può valere qualcosa, io sono felice» rispose Marco. Se c'era una cosa che gli era sempre piaciuta di lui, era la sua forza di volontà. Sarebbe stato un peccato vederla morire. «Certo, avrei voluto sopravvivere anche io con te.» Ridacchiò. «Soprattutto dopo tuo fratello...» aggiunse, tornando serio. «Avrei voluto rimanere al tuo fianco.»

«Tu facevi sul serio. Tra di noi, intendo.» Ace non riusciva a capire perché fosse così interessato a lui. Non aveva niente di speciale, anzi, portava solo problemi. E ciò nonostante non era quello che stava per morire.

«Sì, lo sono» confermò Marco, ribadendo il tempo presente. «Ho una casa, a Phoenix, dove sono nato... Pensavo di tornare ad abitare là. C'è un bello stadio da baseball...» Si fermò un attimo per tossire. Si sentiva un vecchio, al pensiero che aveva fatto seriamente programmi su loro due. «Forse per te è meglio così. Ti troverai una ragazza e metterai su una famiglia normale, senza problemi.»

«Certo, perché sono sempre stato felice di quello che pensava la gente di me» ribatté Ace sarcastico. Aveva passato anni con gente che lo giudicava per quello che non era, passare il resto della sua vita da reietto perché viveva con un uomo anziché con una donna non sarebbe stato un problema per lui. «La voglio vedere, questa casa. Scommetto che ha bisogno di un po' di vita.»

Marco rise, una risata che diventò un colpo di tosse. «Non sono vecchio come pensi, sai.»

«Io non ero serio» ammise Ace, deglutendo per cercare di liberare la bocca dall'impastamento. «Avevo... Ho altro in mente e non...»

«Non mi sembri uno che non era serio» lo interruppe immediatamente Marco, e la presa sulle sue mani si fece più stretta.

Aveva ragione: era dannatamente serio. Non aveva nemmeno avuto il tempo di pensarci, perché non aveva deciso cosa avrebbe fatto dopo aver vinto la guerra. Non aveva nemmeno pensato di  trovare qualcuno nell'esercito. Era sempre stato sicuro che avrebbe passato il resto della vita da solo, dato che gli omosessuali erano ancora condannati nella società. Però sentiva che con Marco avrebbe potuto funzionare, ma  ovviamente proprio adesso che ne aveva la possibilità era già tutto finito.

«È stata comunque una delle migliori scopate della mia vita.»

«Ovvio.» Ace sorrise. Avevano passato così poco tempo assieme...

«Raccontami qualcosa di Rufy e Sabo» gli chiese Marco, chiudendo gli occhi.

«Perché?»

«Perché li incontrerò prima di te e vorrei portargli i tuoi saluti, dato che non hai fatto in tempo» fu la risposta. «Voglio che sappiano che cosa stai facendo per loro.»

Fu troppo: le lacrime iniziarono a scorrergli copiose lungo le guance mentre gli baciava la mano che ancora teneva stretta fra le sue. Persino in quel momento Marco si preoccupava più dei suoi sentimenti che di se stesso.

Iniziò a parlare, così come gli veniva. Del primo incontro con Sabo, di come avevano condiviso lo stesso sogno di diventare fotografi, di come Rufy aveva fatto danni e poi risolto la situazione, delle loro scorribande per Parigi. Più parlava più piangeva più diventava difficile andare avanti, ma non smise nemmeno per un attimo, finché non avvertì che la stretta si era fatta più leggera e il braccio di Marco scivolò dalla sua presa.

Non se n'era nemmeno reso conto, di quando fosse diventato importante Marco nella sua vita e adesso era troppo tardi per qualsiasi cosa. Probabilmente ci sarebbero voluti anni prima di ritrovare qualcuno che contasse così tanto per lui. Anzi, no, probabilmente sarebbe morto prima di amare qualcun altro come aveva amato Sabo, Rufy e Marco. Sarebbe stato troppo doloroso. Aveva chiuso definitivamente le porte della sua anima.

Con la testa chinata, si asciugò le lacrime dagli occhi e dal viso e si alzò. Gli spari risuonavano in lontananza, ma non se ne curò. Era stato così inutile combattere fino a quel momento, che aspettare qualche minuto in più non avrebbe fatto la differenza.

Scostò lo zaino dalla spalla e prese la sua macchina fotografica.


 
Parigi, 25 Agosto
 
Parigi era diventata un vero e proprio campo di battaglia da ben cinque giorni. Il gruppo di Sabo aveva passato tutto il mese di luglio a distribuire le armi dell'arsenale a chiunque volesse combattere, finché non ne erano rimaste. Smoker sapeva chi erano davvero i collaborazionisti e chi invece fingeva solo di esserlo, per cui avevano trovato le persone giuste e avevano potuto organizzare al meglio la futura rivolta.

Questa in realtà era scoppiata improvvisamente, approfittando del fatto che i tedeschi avessero spostato tutti i loro Panzer negli Champs Élysées, a partire dai conducenti del metrò e a seguire la polizia. Subito i gruppi delle Forces Français de l'Interior, con Sabo ed Henri al comando, avevano iniziato ad organizzarsi in maniera che quella rivolta fosse controllata e non andasse persa.

Così era cominciata una lotta senza quartiere con la guarnigione tedesca che era rimasta a controllare la città. I non combattenti avevano dato una mano innalzando delle barricate con tutto quello che si poteva trovare e i vicoli erano diventati i luoghi dove i ribelli erano asserragliati. C'erano state vittorie e sconfitte da entrambe le parti e non si facevano prigionieri, ma era chiaro a tutti che i tedeschi non avevano più l'umore per resistere, anche se non si arrendevano.

E poi erano arrivate le prime truppe della France Libre. Sabo e Koala avevano indossato la divisa e si erano uniti immediatamente a loro, in maniera che i soldati non rischiassero di colpire i civili in combattimento.

Sabo sentiva che lo scontro finale era finalmente arrivato. Era salito su una delle case vuote di Piazza della Concordia e teneva d'occhio la situazione sotto di lui. Aveva colpito qualsiasi soldato tedesco fosse passato nella sua visuale negli ultimi due giorni, ma da quando erano arrivate le truppe corazzate, la battaglia si era trasformata in uno scontro fra potenze sui carri armati e un membro della fanteria non aveva possibilità di intervenire. Il Panzer V, l'ultimo rimasto, era stato ormai immobilizzato, ma aveva ancora la possibilità di sparare, per cui nessuno riusciva ad avvicinarsi.

Poi però arrivarono altri carri armati di rinforzo, la produzione americana dei M4 Sherman guidati da un'altra divisione della France Libre. Era meglio costruito e più resistente rispetto al Panzer, per cui, essendogli arrivato su un lato, decise direttamente di speronarlo.

A quel punto Sabo lasciò la sua postazione sulla finestra e scese in fretta in strada, proprio quando il Panzer veniva finalmente ribaltato completamente. Lo sportello si aprì e i soldati tedeschi iniziarono ad uscire per tentare di fuggire, ma Sabo sparò per impedirglielo. Ne uccise due, prima che gli altri capissero che era finita.

Dallo Sherman scese il Sergente Bizier. Sabo gli fece immediatamente il saluto militare. «Quali sono gli ordini?»

«Facciamoli uscire» fu la risposta. «La battaglia è finita.»

Sabo annuì e poi parlò in tedesco. «Lasciate le armi e uscite con le mani alzate.» Aveva puntato nuovamente il fucile, perché non si fidava totalmente, anche se qualunque altra azione sarebbe stata semplicemente un suicidio, era possibile che qualcuno preferisse morire piuttosto che arrendersi. In questo caso i soldati uscirono obbedienti e abbandonarono indietro le loro armi.

«Chiedo il permesso di andare a recuperare i miei soldati» disse poi al Sergente.

«Accordato, Caporale. Non ci sono altre truppe tedesche in città, vero?»

«Non carri armati» fu la risposta. C'era ancora il gruppo di fanteria al loro quartier generale, ma da quello che sapeva se ne stava occupando la 2° Divisione, che era entrata in città per prima.

Sabo superò gli Sherman e si diresse in Rue de la Concorde: non c'erano barricate perché la strada era già stata liberata per far largo ai mezzi pensanti, per cui era facile camminarci, nonostante i detriti. Si fermò quando vide venire nella sua direzione una Renault, che era stata dipinta con i colori della France Libre: era stata una cosa tanto inutile quanto importante per tutta la resistenza e non erano poche le automobili sistemate in quel modo. Si spostò sul ciglio della strada immaginando che potesse essere uno dei suoi che veniva a controllare la situazione.

L'automobile si fermò prima ancora di raggiungerlo e Koala balzò giù dalla porta del guidatore. «Che ci fai qui?» domandò Sabo. L'aveva lasciata a controllare le loro truppe perché si fidava solo di lei, ora significava che gli uomini erano allo sbando.

«Si sono arresi!» esclamò lei, raggiungendolo. «Si sono arresi!» ripeté, perché Sabo non sembrava aver capito perfettamente quello che era successo. «Stanno firmando la resa proprio adesso. Abbiamo vinto!»

«Dio!» Sabo non riusciva a crederci. «Abbiamo vinto!» La abbracciò senza nemmeno pensarci e rise per il sollievo. Non pensava che quel giorno sarebbe mai arrivato. Parigi era libera.

«Andiamo, De Gaulle terrà un discorso» lo informò lei, liberandosi dal suo abbraccio ma tenendogli la mano mentre lo guidava dentro l'auto.

«De Gaulle è qui?» Aveva lavorato per quel Generale così a lungo da ritenerlo quasi un conoscente, ma non l'aveva mai visto dal vivo. Dovevano andare ad ascoltare il suo discorso: così come il primo che aveva tenuto quattro anni prima aveva iniziato la sua avventura nella resistenza, quest'altro ne avrebbe decretato la fine.

Capirono subito che viaggiare in automobile sarebbe stato impossibile: i soldati della Forces Français de l'Interior non erano abituati alla disciplina e appena erano stati informati si erano scatenati per la città, presto accompagnati dal resto della popolazione. Se non fosse che non c'erano rumori di spari sarebbe sembrata una battaglia, ma era una gioia da guardare, pieno di persone che ridevano, gridavano e agitavano bandiere francesi.

Abbandonarono l'auto praticamente in mezzo alla strada e proseguirono a piedi, facendosi trascinare da quella massa festante. I ragazzi si divertivano a strappare anche gli ultimi manifesti rimasti con le scritte tedesche, lasciando solamente gli avvisi che la resistenza aveva appeso negli ultimi giorni. Le finestre erano nuovamente aperte e tutti sentivano che era venuto il momento di mettere allo scoperto anche le poche risorse che avevano custodito per tempi migliori.

Per la strada incontrarono anche Tashigi e Smoker, il quale aveva acceso il suo ultimo sigaro. «Danno Via col Vento!» disse lei con entusiasmo. «La Cineteca ne ha trovato una copia. Basta film tedeschi finalmente!»

«Non che questo sia tanto meglio...» borbottò Smoker fra sé.

«Vuoi vederlo anche tu?» domandò Sabo, mentre proseguivano fra la folla cercando di farsi strada.

«Sono più interessata al discorso di De Gaulle» rispose lei con un sorriso. «D'ora in poi al cinema potremo andarci quando vogliamo.»

La quantità di gente che si era radunata sotto il Comune, in Rue San-Dominique, era impressionante. Alcune persone avevano sfondato le porte delle case adiacenti per affacciarsi dalle finestre, altre che ancora vi abitavano avevano aperto le porte affinché tutti potessero beneficiarne.

«Koala! Sabo!» I due si voltarono e videro Jinbe che si faceva strada verso di loro. Aveva la giacca strappata ed era dimagrito rispetto a quello che si ricordavano, ma stava bene. Li abbracciò entrambi quasi soffocandoli.

«Quando sei arrivato?»

«Stamattina» rispose lui. «Eravamo al confine con la Spagna quando abbiamo saputo dello sbarco, per cui siamo tornati subito indietro, ma solo oggi siamo riusciti ad entrare a Parigi. E Hack?» aggiunse.

Sabo si incupì: avrebbe voluto che il compagno che era stato con lui per tutti quegli anni potesse vedere il giorno della libertà per la Francia. «Purtroppo ci ha lasciato.»

Jinbe non disse nulla, ma rafforzò la presa che aveva sulle loro braccia. «Anche noi abbiamo avuto delle perdite, come tutti.»

La confusione attorno a loro si bloccò quando la finestra sul balcone si aprì e il Generale De Gaulle uscì. Tutti stavano aspettando di vederlo finalmente in Francia a riprendere il comando delle truppe. Era stato l'unico che non si era mai arreso ai tedeschi. Sabo strinse maggiormente la mano di Koala mentre De Gaulle iniziare a parlare: l'aveva presa per non perdersi nella folla, ma adesso voleva sentirla vicina.

«Bene, bene.» Jinbe probabilmente interpretò in una maniera differente questo gesto, ma c'era un'altra cosa che lo aveva colpito di quei due ragazzi. Due combattenti della resistenza, due eroi, uno alto e biondo come un ariano puro e una ebrea per scelta e non per nascita. Nel giorno della liberazione della Francia, non avrebbe potuto chiedere altro di vedere una coppia che simboleggiava la libertà di essere e scegliere chi si voleva.

Era così preso a osservarli che perse una parte del discorso. Quando si voltò ed alzò la testa verso il balcone, ormai De Gaulle aveva quasi finito.
 
“Per questo le nostre coraggiose e preziose truppe della Forces Français de l'Interior imbracceranno ancora le armi, armi moderne. É per la vendetta, per la vendetta e per la giustizia, che continueremo a combattere fino all'ultimo giorno, fino la giorno della vittoria completa e totale.”
 
Sabo aveva stretto ancora maggiormente la mano di Koala. Aveva già deciso, in cuor suo, che sarebbe rimasto nell'esercito finché non avrebbe costretto la Germania a capitolare da ogni paese che aveva invaso. Sentire De Gaulle che diceva la stessa cosa gli riempiva il cuore di forza, così come le esclamazioni “Vive la France” che si alzavano ad ogni parte.

«Io non potrò venire, adesso che abbiamo vinto le donne non servono più» disse Koala, al suo fianco. Aveva già capito cosa aveva deciso. «Ma tu devi andare.»

«Sarai utile anche qui» rispose lui, per incoraggiarla. «E poi questa cosa la cambieremo, quando tutto il mondo sarà in pace.»

Ma era vero, doveva andare. De Gaulle aveva parlato di vendetta e giustizia: Sabo aveva un buon motivo, di nome Rufy, per riconoscersi in quelle parole. E un altro buon motivo, di nome Ace, per voler combattere e far terminare la guerra il prima possibile.

Prima Parigi, poi Berlino.

E dopo, forse, sarebbe stato davvero libero.
   
 
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