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Autore: Twiggy_Earlgrey    16/07/2015    1 recensioni
[Autori Libri]
[Autori Libri][Autori Libri][Autori Libri] AGGIORNATA CON ALTRI CAPITOLI - Questo potrebbe essere un "missing moment" tratto dai libri di James Bowen e del suo gatto Bob.
Ci sono spoiler dei libri, ma non è un problema enorme, non preoccupatevi. E comunque vi consiglio di leggerli, perchè sono meravigliosi. Tant'è che, oltre al mio amore per i gatti che mi ha spinto a comprare il libro, ho sviluppato anche una bella cotta letteraria per James. Ma comunque...
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AVVERTIMENTI: Se vi disturbano le tematiche legate alla droga o per qualche motivo vi "infastidiscono" le persone che hanno condizioni più disagiate della vostra, per favore non leggete e non commentate, grazie. Ci sono accenni di linguaggio scurrile, ma niente di riprovevole.
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Personaggio reali, solo Malvina e quel che accade che la riguarda é di mia invenzione.
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[dal testo] Quando sparì oltre la porta di servizio, non potei impedire ad una lacrima di solcarmi la guancia
Nessuno mi aveva mai definito così.
Era bello essere l’angelo di qualcuno.
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AVVISO: Volevo solo dirvi che questa è la mia ultima storia. Chiuderò l'account a tempo da definirsi. Non la sento più una cosa mia quindi è inutile trascinarlo oltre. Grazie di cuore a chi mi ha seguito.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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NOTE PRE-LETTURA: i personaggi dei libri, che sono anche persone reali e tutt'ora viventi, non sono "opera mia". E non è mia intenzione offendere nè loro, nè la vostra sensibilità. Anzi! Diciamo che è una specie di "omaggio", vogliamo definirlo tale? E che reputo James un uomo meraviglioso, per quel poco che ho"conosciuto ed appreso di lui" da libri, social, interviste ecc ecc. E che adoro Bob <3 E sì, che ho una bella cotta letteraria, ve bene. ^_^
EDIT DEL 17-07: Allora dato che ieri non ero soddisfatta ho aggiunto un altro capitolo. Non so dirvi se ce ne saranno altri, ci sto pensando. Dato che ormai era memorizzata come one-shot non potevo cambiarla quindi tra un capitolo e l'altro metterò delle immagini. (Quella del II cap è di una tenerezza assoluta! <3 ) Nel II cap trovate dei cambi di POV tra James e Malvina che sono evidenziati dai nomi compresi tra due asterischi cioè così *nome*
Buona lettura!


 
“Ehi pezzente! Te ne devi andare da qui, capito? Non ci puoi rimanere. Quindi alza il tuo sudicio culo da quel marciapiede e vattene. E portati via quel sacco di pulci! Non voglio ribeccarvi di nuovo qui, quando torno!”.
Gettai la sigaretta e mi concentrai, per evitere di controbattere. L’esperienza mi aveva più volte insegnato che per sottrarsi ad una gran quantità di problemi, la cosa migliore è evitare le discussioni inutili, soprattutto con le autorità. E soprattutto se, come me, sei in una situazione sociale di assoluto svantaggio, perché sei un ex-eroinomane che va avanti a Subotex e vivi di quella manciata di sterline che faticosamente racimoli suonando per strada dalla mattina alla sera, in qualsiasi giorno e con qualsiasi tempo.
Il poliziotto se ne andò, lasciando me e Bob da soli in mezzo a Neal Str. Mi strinsi nel cappotto e tirai sulla testa il cappuccio per proteggermi dal freddo. Bob, il mio amico pel di carota, mi fissò per qualche secondo strusciando poi, la sua testolina contro il mio ginocchio, come per dirmi “forza James, spostiamoci da qualche altra parte”.      
Ficcai la mia roba nello zaino alla rinfusa, mi alzai e messa a tracolla la mia vecchia e malconcia Fender , presi in braccio il mio amico, che si arrampicò lungo il braccio per accomodarsi, come d’abitudine, sulla mia spalla, come se fosse di vedetta sulla prua di una nave.
Erano quasi le diciannove e a metà novembre, significava il buio più completo, se non fosse stato per le vetrine dei negozi e le illuminazioni natalizie che  già rallegravano l’atmosfera. Contai gli incassi della giornata – ventitrè sterline – e decisi di andare con Bob, in una caffetteria poco distante, per mangiare qualcosa di diverso dal solito tonno in scatola e crackers e soprattutto stare al caldo e all’asciutto per un po’.
E poi, certo, C’era lei. Malvina.
 
 
Ci aveva trovati, me e Bob, addormentati all’angolo tra New Row e Bedfordbury, una sera di fine settembre. Personalmente parlando, non ero esattamente al massimo della forma già di mio, in più io e il mio compagno di avventure ci eravamo beccati in pieno un acquazzone verso metà pomeriggio, che ci aveva lasciati entrambi infreddoliti e bagnati per il resto della giornata. A volte, in giorni come quello, quando prendevo veramente poco, perché la gente non si fermava ad ascoltare la mia musica, ma tirava dritto senza degnarmi di uno sguardo, mi assaliva lo sconforto e la stanchezza si faceva sentire più del solito. Così, semplicemente, dovevo essermi addormentato.
A farmi aprire gli occhi, non saprei dire quanto tempo dopo, erano state le fusa marcate di Bob e qualcuno, certamente non lui, che mi scuoteva leggermente per una spalla.
“Scusi…”
Bofonchiai qualcosa di intellegibile, senza aprire gli occhi.
“Signore, mi scusi! Devo aprire il bar e lei se ne sta con la schiena appoggiata contro il lucchetto della saracinesca!”. Mi picchiettò di nuovo la spalla e a questo punto fui costretto a svegliarmi.
La ragazza, una giovane acqua e sapone di circa venticinque anni, mi sorrise lievemente, guardandomi perplessa.
“Era ora!” Questo stava pensando, certamente.
A fatica mi rimisi in piedi e presi Bob in braccio. Lui incuriosito, guardava la ragazza armeggiare con le chiavi e il lucchetto.
“Scusa, mi dispiace. Non sapevo di essere d’intralcio”. Borbottai, con la voce ancora impastata dal sonno.
Lei si voltò, stringendosi, appena, nelle spalle.
“Non preoccuparti, non è successo niente.!” Era di gran lunga più gentile e comprensiva della maggior parte delle persone con cui avevo quotidianamente a che fare, anche se dovevo ammettere che da quando avevo conosciuto il mio amico miagolante, le cose erano migliorate. Nessuno resisteva al magnetismo di Bob! “E’ carino il tuo amico, come si chiama?”
“Bob. Forza Bob, sii educato, saluta!”
La ragazza, si avvicinò al micio, grattandogli dietro un orecchio e poi avvicinandosi di più, per dargli un bacio sulla testa. Nessuno aveva mai osato tanta confidenza. Erano tutti gentili con il mio micio, ma non invadevano i suoi spazi personali sino a quel punto. Eppure lui rimase tranquillo, accentuando il concertino di fusa, del tutto a suo agio, con questa sconosciuta dai capelli color magenta scuro, come potei constatare da tanto vicino. A quanto pare gli piaceva.
“Come sei dolce Bob…”. Disse quella frase con un tono così sommesso e tenero, che per un attimo desiderai che avesse detto quelle parole a me.
“Vuoi una tazza di caffè caldo?”
Ero ancora destabilizzato dal pensiero che avevo appena avuto, da non essere in grado di rispondere prontamente. Poi mi guardai. Ero conciato davvero da schifo: jeans sdruciti, cappotto infangato,i capelli lunghi scarmigliati e le mani impolverate e piene di calli per via della chitarra, e di graffi per via, invece, di Bob…anche se si trattava di una semplice caffetteria, mi sentii a disagio; e lei colse la mia sensazione immediatamente.
“Non ti preoccupare, mancano ancora quarantacinque minuti all’apertura. Non c’è nessuno…”
Vedendo che esitavo ancora allungò una mano e mi tirò piano per una manica, proprio come avrebbe fatto Bob, quando mi prendeva la manica del maglione fra i denti, perché voleva attirare la mia attenzione.
Quello che mi lasciava più sconcertato, era la fiducia di questa ragazza nei miei confronti. Per fortuna sua non ero un malintenzionato, altrimenti sarebbe stata davvero nei guai.
“Allora, umh, un caffè e poi?”
“Solo quello, grazie”. Non potevo certo dirle che non potevo permettermi di più, anche se morivo di fame.
“Ok, arriva subito. Intanto accomodatevi pure!”.
Lei sparì da qualche parte, mentre io e Bob, ci accomodammo al tavolo più appartato che trovai.
Tornò qualche momento dopo, reggendo un vassoio, con il mio caffè ed una ciotolina di acqua per Bob.
“Tieni, mh…”
“James”
“Lieta di conoscerti, James. Mi chiamo Malvina” Mi porse la mano, che strinsi, confuso. Nessuno al di fuori della mia “classe sociale” se possiamo azzardarci a definirla tale, mi aveva mai stretto la mano.
Poco importava che, benché abitassi in una casa popolare e vivessi in gran parte grazie ai sussidi statali, sapessi bene cosa fossero doccia e sapone. Quando la gente vedeva un artista di strada, seduto sul marciapiede, con una vecchia chitarra che stava assieme col nastro adesivo e indossava abiti sbrindellati e informi, automaticamente pensava che tu fossi sudicio. Anche se, certo, ripeto: lavorare in strada non aiutava a mantenere a lungo la pulizia personale. Alla sera, ti riducevi a fare veramente schifo.
Presi un sorso di caffè, chiudendo per un attimo gli occhi, un gesto che ormai mi viene quasi automatico; sentire il caffè caldo scendermi in gola, mi fa rilassare. Lei tenne, lo sguardo fisso su di me incuriosita, anche se non saprei dire da cosa. Ma forse, dopotutto, aspettava solo di essere pagata.
Frugai nella tasca alla ricerca degli spiccioli e schiusi la mano sul tavolo; le mie dita sporche, formicolavano per il freddo.
“Ecco…”
Lei trasalì, come se si fosse svegliata di colpo da un sogno assurdo e scosse la testa.
Tornò dietro al bancone, senza dire nulla e nei minuti che seguirono, mentre ero indeciso se andarmene o rimanere per capire cosa avesse intenzione di fare, ricomparve portando con sé fish and chips – assolutamente uno dei miei piatti preferiti- una birra e del pollo a pezzettini per Bob.
“Cosa…?”
“Mangia. Hai l’aria di non fare un pasto caldo da secoli!” disse solamente.
“E, no. Non devi pagare. Offro io! O meglio…condividiamo le patatine, non ho cenato nemmeno io, perché ho staccato tardi dall’università …”
Mi avvicinò il piatto con fare incoraggiante e poi prese una patatina fritta, dalla piccola montagnola dorata, posata sul piatto.
Mi ritrovai di tanto in tanto, mentre chiacchieravamo, a fissarla come imbambolato, con lo sguardo da stupido, quasi certamente. Era molto timida, ma spiritosa e buffa. Scoppiammo a ridere di gusto, un paio di volte, mentre le raccontavo delle birichinate del mio amico a quattro zampe. Ed anche, maledetto me, fu sull’orlo delle lacrime quando le raccontai del nostro primo incontro – tralasciando i miei problemi con la droga, che sono certo l’avrebbero fatta inorridire e fuggire, così come avrei voluto fare io da me stesso-.
Un quarto d’ora prima dell’apertura alla clientela, ero in procinto di andarmene, quando mi fermò.
“Aspetta un secondo! E’ da un pezzo che ti guardo quel taglio che hai sul sopraciglio; hai intenzione di disinfettarti, o di infischiartene altamente e farlo infettare?”
Non me ne ricordavo nemmeno.
Così, mi fece sedere al tavolo nella saletta del personale e prese la valigetta del primo soccorso.
“Stringi i denti” mi avvertì “Il taglio è profondo e quindi brucerà parecchio!”
Con le dita fresche, mi scostò i capelli sporchi dalla fronte, sistemandomi la ciocca dietro all’orecchio. Mi ritrovai a deglutire nervoso per quel contatto e per il profumo sottile che mi giunse alle narici, quando si avvicinò. Patatine fritte e…Lavanda, ne ero quasi certo. Come ero certo, di non avere un profumo altrettanto buono.
Quando tamponò il cotone imbevuto di disinfettante sulla mia ferita, sussultai, facendomi sfuggire un gemito strozzato. Bob saltò sul tavolo, accostandosi, preoccupato per me.
“Perdonami, mi dispiace. Non posso evitarlo”. Adesso il tono dolce che aveva utilizzato nel salutare Bob, era rivolto a me. E un impulso rovente e incontrollabile, mi fece pensare, per un secondo, di voler fare l’amore con lei.
Non era stata maliziosa. Non c’era niente in questa ragazza che urtasse il senso del pudore. Era semplicemente come una fonte di acqua cristallina che gorgogliava tranquilla, fra le rocce di un paesaggio montano da fiaba. Non si poteva passare oltre, senza rimanere incantati da quel paesaggio. O in questo caso, da lei.
“Metti a tacere gli ormoni Jam” mi rimproverai “Non è per te. Scordatelo!”
Mi accarezzò una guancia, con la punta delle dita. Non potevo dire se fosse un atteggiamento dettato dal suo cuore buono, o se – iniziai a pensare scioccamente, ma non potei trattenermi dal non farlo- fosse, anche solo lontanamente, attratta da me.
O tutt’e due.
Finì di disinfettare e applicò un cerotto per riparare il taglio.
“Ecco fatto” sorrise compiaciuta del proprio operato, come se avesse restaurato il David di Michelangelo.
“Almeno”, proseguì, sistemandomi i capelli sulla fronte “ se ti ci si appoggiano i capelli, non ti daranno problemi appiccicandosi alla ferita”.
Mi spostai nervoso i capelli dietro l’orecchio.
“Quelli, suppongo siano opera tua Bob, vero, ragazzaccio?” ghignò divertita, dando un grattino al gatto e indicando le mie mani.
“Ti basterà lavarle e metterci della pomata disinfettante.” Mi indicò il bagno, mentre tornava a rovistare nella valigetta alla ricerca della suddetta pomata.
In bagno, mentre mi lavavo le mani, mi presi qualche secondo per calmarmi. Che diavolo mi succedeva? Nemmeno la conoscevo quella ragazza. Il fatto che avesse la sindrome della crocerossina, e fosse una persona gentile, non poteva farmi crollare rincoglionito, come una pera cotta!
“Porca puttana, maledette lampadine della guerra di Seccesione!” La sentii imprecare, mentre la luce della saletta si indeboliva, lampeggiava e poi spariva del tutto.
Si avvicinò al bagno, mentre con la carta mi asciugavo le mani. I graffi di Bob, ma anche alcune escoriazioni che avevo sulle nocche – ricordo non molto lontano, assieme al taglio sopra l’occhio, di una scazzottata contro un deficiente, che aveva tentato di sferrare un calcio al mio amico- si riaprirono, riprendendo a sanguinare.
“Ahi…Aspetta, si deve fermare il sangue” Prese della carta pulita, tamponando con delicatezza le ferite, cosa che mi metteva a disagio non poco e sapevo benissimo il perché. E perché tentassi in tutti i modi di sottrarmi a lei.
Capii che era troppo tardi, quando ormai, aveva girato la mia mano con il palmo rivolto verso l’alto, per controllare i graffi e aveva rimboccato un poco la manica del mio maglione. Sotto quella luce intensa, appoggiati, io al lavabo e lei contro la porta socchiusa, era impossibile che le fossero sfuggiti gli ematomi e le piccole protuberanze in corrispondenza dei fori dell’ago.
La sentii trattenere il respiro e le dita che mi tenevano il polso, farsi sempre più fredde.
“Complimenti James. Bel lavoro, coglione! Adesso scapperà via terrorizzata e tu l’avrai persa!” Perché di certo non avrei avuto il tempo di spiegarle, che sarebbe servito tanto e tanto tempo perché i segni sulla mia carne scomparissero e che ad ogni modo, ero in terapia da un sacco di tempo e ormai mancava poco alla mia completa guarigione. Non ci sarebbe stato né tempo, né modo, per spiegarle tutto questo e lei si sarebbe fatta un’idea – al momento in cui si parla- sbagliata, o quasi, sul mio conto.
“Scusami!” mi sentii in dovere di giustificarmi, mentre sfilavo la mia mano dalle sue e la superavo per andarmene via da lì, il più in fretta possibile.
Non avevo fatto più di qualche passo, quando sentii la sua voce tremante chiamarmi per nome.
Mi voltai a guardarla, osservando le lacrime disperate, cadere silenziose ai suoi piedi. Perché piangeva per me? Fece qualche passo, instabile sulle gambe tremanti, e cosa del tutto impensabile, mi abbracciò.
Prima si rannicchiò contro di me, con la fronte appoggiata al mio petto, respirando a fondo, e deglutendo frequentemente, come per impedirsi di rimettere. Poi, mi circondò il corpo con le braccia e poggiò l’orecchio contro il mio cuore.
“Non andare via…”. Il tono angosciato con cui sussurrò quelle poche parole, mi fece capire che non si riferiva a quel luogo, a quel momento. Non voleva che io mi distruggessi per colpa della droga.
Non so come accadde, ma a quel punto, tutto il mio disagio e l’imbarazzo si dileguarono come neve al sole e mi ritrovai a mia volta, ad abbracciarla forte, per confortarla.
Lei stava male per me. Era in pena per me.
Eppure non mi conosceva nemmeno.
Cosa sapeva di me, al di là di quello che le avevo raccontato io stesso, davanti a quel piatto di fish and chips e che per quanto poteva saperne lei, potevano essere anche tutte bugie? Inoltre non sapeva nemmeno che mi stavo disintossicando. Stava correndo un rischio enorme, si sarebbe potuta ammalare a causa mia. Se solo fossi stato un individuo dal carattere diverso e se fossi stato in uno dei punti più bui della mia esistenza – e ce n’erano stati di degni di nota- avrei potuto violentarla e ucciderla.
Ed invece…era stato, come con Bob, quando l’avevo incontrato la prima volta. Una sorta di, per me inspiegabile, sesto senso, l’aveva indotto a fidarsi, al di là delle apparenze. Così stava facendo lei.
“Starò qui…” Bisbigliai a mia volta. Non potei frenarmi, non volli farlo, e mi concessi di darle un piccolo bacio, uno di quei baci assolutamente privi, al tocco, di sensualità, anche se col pensiero riversai in quel semplice atto, tutto il turbinio di emozioni che stavo provando.
La sentii tranquillizzarsi e smettere di tremare. Non si infuriò per il mio gesto avventato, non si spostò di un millimetro.
“Non vado da nessuna parte”.
Tolse una mano dalla mia schiena, per massaggiarsi una tempia, con dei piccoli circoletti. Teneva gli occhi chiusi.
“Scusa per la sceneggiata da bambinetta idiota. Avevo un fratello, che è entrato nel giro della droga e…bè, è morto un paio di mesi fa. Quindi è un tasto un po’ delicato per me”
Quindi…si comportava così perché le ricordavo il fratello.
“Non ti devi giustificare” Mi mostrai comprensivo, nonostante una sottile, ma bruciante delusione mi stesse ingabbiando l’anima. Lei non aveva colpa, ero stato io a fraintendere i suoi comportamenti.
“Ti ho incrociato parecchie volte a Covent Garden. Suoni davvero bene. Anche se quella chitarra, poverina, quante ne ha passate?”
“Sì…”
Sorridemmo entrambi. La mia Fender con il nastro adesivo.
“Posso confessarti, senza darti l’idea di una donnina allegra…” rise del proprio modo di esprimersi “Parlo come mia nonna, lo so! Posso confessarti, che mi piaci davvero tanto?” Faticai a sentirla
Nascose la faccia nel mio maglione infeltrito e bucherellato. Per quel poco che avevo compreso dai suoi atteggiamenti, non era come le ragazze della sua età, sfacciatamente esibizioniste, con le quali ti potevi concedere il divertimento di una scopata senza sensi di colpa. Faceva parte di quelle rarità umane, che arrossiva nel dichiararsi al ragazzo che le piaceva e  poi si nascondeva per paura di essere derisa o di aver fatto una brutta figura
La strinsi contro il mio corpo, accarezzandole i bei capelli dalle sfumature viola.
“Posso confessarti che speravo me lo dicessi?”
Sollevò la testa, guardandomi con gli occhioni ancora lucidi di lacrime, come se avesse mal interpretato la mia risposta.
“Ma tu…” continuai, posandole la punta delle dita sulla bocca, perché non mi interrompesse “Come puoi volere così poco dalla vita?” Protestò inudibile, accarezzando le mie dita ruvide, con le labbra “Io non ho niente da darti. Vivo con quello che guadagno lavorando per strada, abito in un buco, a parte Bob non ho nessuno”
“Non importa. E’ da quando ti ho visto la prima volta, che non faccio altro che pensare a te” soffiò, questa volta abbastanza forte, perché la udissi. Prese la mia mano, togliendosela dal viso e intrecciò le mie dita con le sue.
“Mi sto disintossicando, ma sono sempre col piede sull’orlo di un baratro. I terapisti dicono che ne sono quasi del tutto fuori, da questa merda, ma per un sacco di anni mi sono strafatto di eroina. Non sono un soggetto interessante e meno che mai semplice.”
Le faceva male, ma doveva essere cosciente che giocava col fuoco. La mano che aveva ancora sulla mia schiena, mi artigliò il cappotto.
Nessuno dei due disse nulla per qualche secondo che sembrò dilatarsi in secoli. Doveva capire. Doveva fare la scelta giusta. E Dio solo sapeva, quante ne avessi fatte io di sbagliate in quegli anni, di scelte.
Interruppe lei il silenzio, parlando come se fosse lontana dal suo corpo.
“Sono contenta di sentirtelo dire”
Bene. Aveva capito. Per entrambi sarebbe stato doloroso, perché non serviva essere un genio per capire che, a discapito della logica, eravamo entrambi pesantemente coinvolti emotivamente. Ma era meglio così. Da quando avevo incontrato Bob, lui mi aveva insegnato a cercare e volere il bene per gli altri, ad essere responsabile, anche se a volte non era semplice. E stavolta non lo era affatto.
“Ma se credi” riprese decisa “che per questo io ti lasci in pace, stai sbagliando”.
“Testarda! Lo vuoi capire che non va bene? Senti…” inspirai ed espirai lentamente, nel tentativo di riorganizzare i pensieri e a farle vedere la situazione sotto la giusta luce, senza però essere troppo brusco da ferirla “E’ sbagliato. La mia vita è un casino. Io sono un casino. Non ho un lavoro decente, non ho un titolo di studio, non ho il tuo futuro radioso, fra le mani. Tu sei intelligente, bella, dolce, piena di qualità fantastiche e meriti un uomo che ti completi e ti valorizzi e non uno che ti svilisca!” la voce mi si spense sul finale, quando la verità di quelle parole mi spezzò il fiato, come un pugno nello stomaco  .
Nell’elencare a voce alta tutti i pro e i contro di noi due, mi vergognai di me stesso. E ciononostante la desiderai ancora di più.
Lasciò cadere entrambe le braccia, come se qualcosa l’avesse colpita con forza. Leggevo nel suo sguardo esausto, la resa, la sofferenza, il rimprovero e qualcos’altro che non seppi definire.
Piegò la testa un po’ di lato, come faceva Bob a volte, per supplicarmi per qualcosa e si sfregò il dorso della mano sugli occhi serrati, con insistenza.
Sembrava davvero la versione umana di un gatto, in tanti atteggiamenti, mi ritrovai a pensare.
Allungai una mano per accarezzarle i capelli  che le ricadevano ondulati sulle spalle.
“Sei un idiota, Jam. Prima le dici che non vai bene per lei e poi cerchi il contatto!” Ma io lo volevo quel contatto, ammisi finalmente a me stesso. Me lo sarei sognato la notte. L’avrei agognato. L’avrei voluto disperatamente sempre.
“Ma io non voglio. Non voglio un bastardo per il quale, sarei solo una bella bambolina ammaestrata da esibire alle cene. Voglio te, che ti ritieni esser poco nel mondo. Voglio te, che non hai quasi niente, ma che hai tutto quello che voglio davvero. Anche se hai un passato terribile e un presente difficile. Anche se non sai come arrivare a fine giornata. Io voglio te, James”.
Colpito e affondato. Solo sentendo il mio nome. Me la immaginai di nuovo, mormorarlo, mentre facevamo l’amore a casa mia, durante un pomeriggio piovoso come quello di quel giorno. Lei avvolta solo dalle lenzuola, distesa sotto di me ed io privilegiato dal poter accarezzare la sua pelle e baciarla, sempre. Dio! Stavo diventando pazzo!
A quel punto la ragione poteva anche andare a farsi fottere. Se avevo davanti a me l’opportunità di essere felice, per una volta della mia vita, perché dovevo essere così maledettamente autolesionista, da voltarle ancora le spalle?
La abbracciai di nuovo, con il naso nei suoi capelli, inspirandone il profumo. Si rilassò tra le mie braccia, come se finalmente, avesse trovato il suo porto sicuro. Che cosa ironica! Io, il rifugio di qualcuno, quando non ero in grado di esserlo nemmeno per me stesso e Bob, a volte. Personalmente, tra le sue braccia, mi sentii in pace e per una volta forte e con un istinto protettivo così violento, da volerla proteggere da tutto e voler distruggere qualsiasi cosa la potesse mettere in pericolo.
Le accarezzai il volto, prendendolo fra le mani e avvicinandolo al mio. Volevo le sue labbra sulle mie, come se ne andasse della mia vita, se non l’avessi sentita addosso a me. Le sue labbra erano morbide, proprio come me le ero immaginate. Era incerta, forse per non voler osare troppo sin da subito.
Avevamo già osato a sufficienza in quanto a sentimenti, in poco più di mezz’ora. Meglio andarci piano.
E tuttavia, l’incertezza, che a parere di altri uomini sicuramente, avrebbe significato inesperienza – e che conseguentemente li avrebbe portati a lasciarla per altre esponenti della categoria femminile più esperte, oppure, peggio, li avrebbe eccitati a dismisura, al pensiero che quasi sicuramente, lei fosse ancora vergine – era così spontaneamente alternata ad una tale dolcezza da lasciarmi senza fiato.
Mentre ci sfioravamo le labbra, Malvina non aveva smesso un attimo di accarezzarmi il viso, i capelli, la barba. E per me tutto questo era il Paradiso. Tutta questa dolcezza alleviava i dolori della mia anima, mi alleggeriva il cuore, come se fosse un palloncino gonfiato ad elio. Mi inebriava molto, molto più dell’eroina. Mi guariva.
“E se…” mi disse scostandosi quel poco, da poter riprendere fiato e prendendomi di nuovo le mani, baciandomi le ecchimosi, che spiccavano nere sui polsi. “Se potessimo andarcene, lontano da tutto. In una casetta di quelle da fiaba, in mezzo ad un bosco, io, te e Bob. E rimanessimo lì, e basta, in pace, ad invecchiare insieme…”
Doveva aver avuto un passato non semplice nemmeno questa giovane donna, per parlare a questo modo.
“Ehi…” la baciai di nuovo “ Devi andare adesso”.
Non voleva separarsi da me, così dolcemente la allontanai. Anche se il Cielo solamente sa, quanto avrei voluto restare sospeso in quell’istante per sempre.
Restò a fissare un punto imprecisato accanto a me, come se faticasse a riprendere contatto con la realtà. Il suo viso mutò espressione, tornando ad essere, come sapevo ora, una maschera di gentile ma impenetrabile riservatezza e solitudine. Rimase solo nei suoi occhi la luce, impossibile da nascondere, di chi aveva trovato qualcosa di meraviglioso e prezioso nella sua vita.
 Qualcosa di prezioso, che per assurdo che potesse apparire, ero io
 “Ci vediamo domani”
Il sorriso che le illuminò il volto, mi spezzò quasi il cuore, per la gioia che mi procurava.
“A domani… Buona notte Bob. Buona notte angelo mio”
Quando sparì oltre la porta di servizio, non potei impedire ad una lacrima di solcarmi la guancia
Nessuno mi aveva mai definito così.
Era bello essere l’angelo di qualcuno.




Era la vigilia di Natale. Mancavano pochi minuti, al cenone luculliano, che la maggior parte degli inglesi avrebbe consumato per dare inizio ai festeggiamenti.
Per quanto mi riguardava avevo odiato quella festa per anni, o per meglio dire, non mi aveva minimamente toccato. Mai. D’altra parte, nei dieci anni precedenti, l’unica cosa di cui mi importasse era trovare il modo per procurarmi la dose successiva. Iniettarmela. E dimenticare tutto il resto. L’infanzia, sballottato da una città all’altra e da un continente all’altro, per seguire mamma e la sua carriera. La prima adolescenza, emarginato, perseguitato dagli immancabili bulli bastardi, che si trovano un po’ ovunque nelle scuole. E poi incattivito, frustrato, impregnato di strafottenza fino al midollo, me n’ero andato via di casa, tornando in Inghilterra.
Dopo qualche tempo, compreso che non avrei mai davvero sfondato con la mia musica – ce ne sono troppi che ci provano ed io ero un altro dei tanti, a cui il sogno non aveva lasciato altro che un pugno di mosche in mano – avevo perso definitivamente l’ago della bussola. Io mi ero perso. Degli anni successivi ricordo pochissimo, è tutto inglobato in una nebbia fitta; quel poco che ricordo distintamente invece, mi fa provare talmente ribrezzo per la mia persona, da volerlo volutamente cancellare.
 
Quindi non c’è da stupirsi se il Natale non avesse mai suscitato in me particolari interessi. Almeno finchè, alcuni anni prima,  non avevo incontrato il mio amico Bob. Un vero angelo custode felino. Lui aveva fatto scattare qualcosa in me, qualcosa che pian piano aveva irradiato una luce brillante, anche se piccola, nella mia vita e che mi aveva riportato sulla strada giusta, scaldandomi il cuore. Da quel momento, il Natale e il suo spirito erano tornati a contagiarmi, anche se non avevo mai fatto grandi festeggiamenti. Ero troppo povero per permettermi un albero decorato, o una bella porzione di tacchino e patate arrosto per me e Bob.
Così, non una volta sola, era capitato che gli unici addobbi di cui disponessi per le festività, fossero quelli raccolti dai bidoni dell’immondizia. Con un po’ d’ingegno li sistemavo ed una volta puliti, per quanto fosse possibile farlo, li appendevo in giro per casa. Quanto ai pranzi e alle cene erano distribuiti dalla mensa per i poveri o se avevo qualche spicciolo in tasca, dal discount più vicino, sotto forma di confezioni di cibo precotto, prossimo alla scadenza e pane raffermo.
Ma quest’anno sarebbe stato diverso. Avevo messo un po’ di soldi da parte – dodici sterline e quarantasette cents, non abbastanza per una cena – e li avevo spesi per acquistare un regalo a Malvina – che ormai chiamavo Mauve, in onore dei suoi capelli viola – che sarebbe arrivata entro pochi minuti a casa mia.
Ero sempre sulle spine quando veniva da me, il mio monolocale era lontano da ogni idea di splendore, ma a lei non sembrava importare. Era un suo pregio intrinseco: non vedeva la cattiveria, lo squallore, che la circondavano. Si sentiva felice, se lasciata tranquilla a se stessa. O, come in questo caso, con me; anche se a distanza di quasi tre mesi di frequentazione, ancora non mi capacitavo della situazione. Più volte ci rimuginai sopra, senza arrivare al bandolo della matassa: undici anni di più, in cura per dipendenza da droghe pesanti, un tetto sulla testa a fatica e nemmeno l’ombra di un quattrino per poterle assicurare un futuro. Cosa trovava in me?
Il campanello trillò, distogliendomi dai miei pensieri cupi. Bob, che fino a quel momento era rimasto acciambellato vicino al calorifero, sfrecciò fino alla porta, iniziando a grattare l’uscio come un forsennato. Quando Mauve fu in casa, ovviamente, salutò il mio amico per primo; non le avrebbe lasciato fare diversamente. Accadeva così tutte le volte e mi sarei sentito offeso, se dopo aver finito di strapazzare il mio gatto, non avesse coccolato me, altrettanto a lungo.
“Ehi, piccolo, allora? Come stai? Cosa mi racconti di interessante?”
Bob le balzò in grembo, strusciandosi e facendosi coccolare, con un sottofondo di fusa, degno di un Harley Davidson.
“Che dolce che sei!” rideva come una bambina, quando lui le dava dei colpetti con la testa sul braccio.
“Guarda cosa ho qui per te? Pappa e un topolino nuovo, con l’erba gatta!”. Scartò il giocattolo, lasciandolo rotolare sul pavimento e baciò Bob sulla testa, come d’abitudine, prima di lasciarlo libero di giocare e rincorrere come un invasato il topo per tutta casa.
A quel punto alzò lo sguardo e scoppiò a ridere di cuore.
“Cos’hai combinato Jamie? Questa cucina è un campo di battaglia!”
In effetti c’era cioccolato un po’ ovunque. La cucina era completamente schizzata di puntolini scuri ed io, bè, probabilmente sarebbe stato più immediato capire quale parte di me non fosse ricoperta di crema.
“Ma io ho messo il grembiule!” mi lamentai. Ed era anche un grembiulone di quelli super, da pasticcere, un vecchio regalo di mio nonno. Eppure non era bastato allo scopo di preservare i miei indumenti e tutto il resto di me dall’invasione del cioccolato.
“Cosa stavi preparando?” chiese incuriosita, tirandomi una ciocca di capelli, mentre gli occhi ancora le ridevano.
“Non è granchè, poteva essere se non altro più presentabile”
Aprii il frigorifero, mostrandole con il broncio un ammasso tutto storto, di biscotti cioccolato e lamponi, che volevo spacciare per torta.
“So che ti piace e non avevo abbastanza soldi per comprarti un regalo, così ho pensato che…”. Lo sguardo dolcissimo che mi rivolse, prima di abbracciarmi, mi inchiodò il cuore alla casa toracica.
“Ti sporchi tutta…” bisbigliai. La sentii sorridere, mentre mi teneva stretto.
“E’ un regalo perfetto, grazie Jamie”.
Se nella vita avevo mai fatto qualcosa di buono, di certo venivo ripagato più abbondantemente di quanto avessi mai osato sperare.
“Adesso però fatti un bagno, io intanto sistemo la scena del crimine”
 
*Mauve*
 
Ero alle prese con spugna e detersivo, quando sentii James imprecare nella stanza accanto.
“Porca puttana! E’ freddissima!”
Bussai alla porta del bagno.
“Jamie stai bene? Posso entrare?”
Mugugno incomprensibile; lo presi come un sì.
Entrata in bagno lo trovai ricoperto dalla schiuma, rannicchiato in un angolo della vasca tutto tremante. Batteva letteralmente i denti.
Immersi una mano nell’acqua.
“Cazzo Jamie, ma quest’acqua è gelida!”
“Non ho l’acqua calda per il bagno. O i termosifoni o il bagno...” Borbottò infastidito.
“E perché non me l’hai detto? Mettevo le pentole sul fuoco” lo rimproverai.
“Sì in genere faccio così, solo che, stavolta ho gestito male i tempi”
Cercai di capire cosa intendesse.
“Non dirmi che…? Mi stai dicendo che hai preferito farti un bagno gelido col rischio di ammalarti, piuttosto che dirmi di non avere l’acqua calda in casa?”
Evitò di guardarmi in faccia. E io non sapevo se mettermi ad urlare per la stupidaggine che aveva fatto, o lasciare che le lacrime mi riempissero gli occhi per la sofferenza che provavo nel vederlo in quelle condizioni.
“Aspetta…ti preparo l’acqua calda” gli accarezzai la testa prima di tornare in cucina.
Dopo un’eternità e innumerevoli viaggi con le pentole bollenti, l’acqua finalmente fu così calda da riempire la stanzetta di vapore. Miscelai l’acqua in una brocca e mi inginocchiai accanto alla vasca da bagno. Lui finalmente si era riscaldato e si era messo a giocare con la schiuma. Così vedendolo troppo intento a guardare le bolle che fluttuavano a pelo dell’acqua gli versai un po’ di acqua sulla testa per sciacquare i capelli dalla schiuma.
“Ma dimmi una cosa” mi chiese borbottando ad un certo punto “Non ti imbarazza nemmeno un po’ questa situazione?”
“Sto studiando chirurgia, ricordi?” gli feci presente “Non è il primo corpo nudo che vedo e anzi, di solito sono aperti in due, quindi…! Adesso stai fermo, finisco di sciacquarti i capelli. Porta la testa indietro, su, o il sapone ti finirà negli occhi”
Mentre versavo lentamente il contenuto della brocca sui suoi capelli, con le dita libere districavo le ciocche; e lui ad un certo punto iniziò ad imitare Bob. Lo guardavo, mentre ad occhi chiusi, faceva vibrare piano le corde vocali per riprodurre il suono delle fusa feline.
Sorrisi.
Posai la brocca sul pavimento avvicinando la mia bocca alla sua. Lui riaprì piano gli occhi, accarezzandomi con le labbra il viso. Sollevò la mano dall’acqua, sistemandomi i capelli e inumidendoli.
“Che poi, a differenza degli altri” continuai “questo corpo lo ami, è un altro discorso”
Posò le labbra sul mio orecchio.
“Voglio fare ‘amore con te” soffiò, piano.
“Non in questo modo, spero!” ribattei, divertita.
 
*James*
 
“No, certo” risposi.
“Ti aspetto di là”
Non era difficile captare in quella frase il nervosismo di Malvina, anche se aveva tentato di non dare particolari inclinazioni al tono che aveva utilizzato.
Mi lasciò solo, chiudendo dietro di sé la porta del bagno. Nel tempo che impiegai ad asciugarmi e infilare una tuta  - so bene che possa sembrare insensato, dato quello che stavamo per fare, ma ritengo che uno dei preliminari più sensuali, sia svestire l’altro, anche se spesso è un rito che viene ignorato e risolto in gran fretta – pensai a come mi sarei dovuto comportare con lei. Perché era chiaro come il sole che per lei era la prima volta. Era decisamente imbarazzata, adesso. E io non volevo rovinare tutto come al solito.
La trovai in camera, seduta sul letto a gambe incrociate, che tormentava il bordo del pullover.
“Mauve…” mi sedetti vicino a lei, prendendole la mano e le parlai più dolcemente possibile “E’ la prima volta?”
Fissò il muro che aveva davanti, mordendosi il labro inferiore con i  denti, fino a farlo sbiancare, tanto che temetti potesse farsi male.
Le accarezzai il labbro con le dita, per convincerla a smettere di tormentarlo.
“E’ solo che aspettavo qualcuno che amassi davvero tanto prima di fare un passo del genere. So che sembro mia nonna e che adesso non si usa più comportarsi così, solo che…Oh bè, sembro una stupida!” aveva buttato fuori l’ansia, ma sospettavo che non fossimo ancora al nocciolo del problema.
“Non sembri stupida. Sembri dolce. E a costo di sembrare la predica di un padre, io credo che tu abbia fatto una scelta molto saggia. Ma ascoltami: se non te la senti, non voglio costringerti. Va bene?” Le accarezzai di nuovo il viso.
“No…non è questo. Sei l’uomo giusto Jamie, lo so!” Fremetti nel sentirle dire quelle parole “E solo che…oh Cristo! Sembro una cretina totale! Ho paura. Ecco, l’ho detto!”.
Mi guardò negli occhi per cercare di capire se le sarei scoppiato a ridere in faccia. Era diventata una pietra. Temeva che ridicolizzassi la sua ansia.
“Di cosa hai paura?”
Mi strinse convulsamente la mano, chinando il capo per non essere costretta a guardami.
“Di tutto. Di rimanere incinta. Del dolore…”
“Adesso calmati Mauve. E’ tutto a posto. Per quanto riguarda la gravidanza, ovviamente sai meglio di me le precauzioni che ci sono. In quanto al fatto che faccia male, piccola, temo che non si possa evitare, ma per quel poco che ne so, non dovrebbe durare molto. Credo…” mi grattai la testa, perplesso.
“Davvero non sembro stupida?” mi chiese di nuovo, ansiosa.
“No, piccola, no” . Portai le sue mani all’altezza del mio viso e le baciai le nocche, come se fossi un gentiluomo d’altri tempi. Poi le feci posare le braccia sulle mie spalle e mi circondò il collo, posando la testa vicino al mio collo. Con estrema cautela infilai le mani al di sotto del suo maglione, sganciando la chiusura del reggiseno e continuando ad accarezzarle la schiena.
Si allontanò da me, senza distogliere lo sguardo, permettendo che le sfilassi la parte superiore degli indumenti. Le accarezzai delicatamente il collo e il seno, scendendo in basso fino al bordo dei jeans e a quel punto mi fermai.
“Adesso tocca a te” suggerii.
Avvicinò le mani, che le tremavano leggermente, al mio viso tracciandone i contorni con le dita, come era abituata a fare. Poi mi liberò dalla felpa di due taglie più  grande che portavo addosso, e mi sfiorò il pomo d’adamo, il torace e poi le spalle. Prima di scendere lungo le braccia, mi strinse a sé.
“Sei sicuro?”
Sapeva che detestavo i segni lasciati dagli aghi, ancora visibili sulla carne. Annuii.
Sempre con tocco leggero, porto alla luce gli avambracci. L’incavo dei gomiti era ridotto peggio, dei polsi. In pochissimi hanno la “perseveranza”, se vogliamo definirla tale, di iniettarsi una dose nel polso, anche più volte al giorno. Così l’interno delle mie braccia era davvero ripugnante ai miei stessi occhi. Accostò le labbra alla mia pelle baciandola. Sentivo il suo respiro caldo sul mio braccio e chiusi gli occhi assaporando quella sensazione deliziosa.
Restammo immobili così per un po’, finchè di sua iniziativa, la vidi togliersi i jeans e l’intimo, al che feci lo stesso e poi la spinsi delicatamente sul letto posizionandomi sopra di lei.
“Mi sembri convinta”
“Ho una paura fottuta, però sì. Lo sono”
La baciai sul collo,
Mi presi tutto il tempo di questo mondo, per accarezzare e baciare il suo corpo delizioso, proprio come avevo sognato di poter fare dalla prima volta che ci eravamo visti. Il suo respiro si era fatto accelerato e per quanto mi riguardava, ero già sufficientemente inebriato da lei e dal suo corpo, da non dover indugiare ulteriormente.
Infilai il profilattico e le tornai accanto, abbracciandola. Adoravo i nostri abbracci: mi facevano sentire in pace col mondo intero.
“Mauve” bisbigliai “ci siamo, piccola. Se ti faccio troppo male devi dirmelo, intesi?”
Fece sì-sì con la testa.
“Adesso rilassati…”
Cercai di essere il più leggero possibile, tentando di muovermi delicatamente dentro di lei. Tenni lo sguardo fisso sul suo volto e ad un certo punto la vidi digrignare i denti, serrando gli occhi.Una lacrima le colò nell’orecchio destro. Spalancò gli occhi, aggrappandosi al lenzuolo con la mano ed emise un rantolo soffocato, nel tentativo di immettere aria nei polmoni senza urlare.Restai in lei, continuando a spingere piano. Non avrei voluto farle così male, ma l’imene si doveva lacerare e non avrei più voluto vederla ripetere quell’esperienza.
“Fa’ male, Jamie…”si lamentava fra le lacrime “fa’ male…”
Continuavo a baciarla e contemporaneamente tentavo di rassicurarla.
“Resisti bambina, tra poco passerà. Mi dispiace…”
Quando finalmente, qualche tempo dopo, il dolore cessò, e la vidi tranquillizzarsi, mi spostai dal suo corpo e la avvolsi con le lenzuola. Mi coprii anch’io con la trapunta  e mi misi accanto a lei restando in silenzio, solo guardandola.
Ad un certo punto si alzò, rimanendo avvolta nel lenzuolo guardò il letto. Il coprimaterasso era sporco di sangue.
“E’ disgustoso” mormorò pallida e col volto madido di sudore e umido di lacrime “fa un male del diavolo ed è disgustoso…”
Si chiuse in bagno. La sentii vomitare e scoppiare a piangere. Mi alzai raggiungendola e bussai piano alla porta.
“Mauve…ti prego. Apri la porta”
Mi chiese flebilmente di aspettare.
Sentii l’acqua scorrere nella vasca. Non attese nemmeno che la vasca si riempisse, non le importava che l’acqua fosse gelida.
Uscì dal bagno un quarto d’ora più tardi. Con un paio di slip puliti e una mia t-shirt sformata addosso.
Mi alzai dal pavimento, restando a guardarla, pallida e gelata.
Quando si accoccolò contro di me chiedendomi di abbracciarla, tirai un sospiro di sollievo. Avevo temuto che fosse stata colpa mia.
Lei quasi per rispondere a quella mia segreta paura, prese a spiegarmi.
“Perdonami Jamie. Non sei tu. Tu sei la dolcezza personificata, credimi. Sono dei brutti ricordi, sai, che non riesco a scacciare. Quando i miei sono morti avevo quindici anni e mi hanno mandata in orfanotrofio. Dei ragazzi più grandi hanno tentato di violentarmi, per questo…ho…” La voce le si incrinò e rinunciò a parlare.
La strinsi a me più forte che potei.
Ero così incazzato da iperventilare. Mi girava la testa. Avrei voluto mettere le mani addosso a quei figli di puttana e ucciderli nella maniera più atroce.
Fu lei questa volta a calmare me.
“Sta tranquillo Jamie, forza…”
Ci recammo in cucina, e mettemmo sul fuoco il bollitore per la camomilla. Ne avevamo bisogno entrambi. Mentre aspettavamo che l’acqua bollisse, andammo accanto al calorifero, il punto preferito da Bob, che difatti sollevo la testolina, per squadrarci e cercare di capire se avessimo intenzione di invadere la sua tranquillità.
Mauve restò rannicchiata contro di me, giocherellando con i miei capelli.
Sorseggiammo tranquilli la nostra camomilla, distesi sul mio divano sfondato, guardando un vecchio cartone animato di Natale.
“L’hai finita Jamie?” Le porsi la tazza, che mise nel lavabo insieme alla sua.
Mi pose la mano, un chiaro invito a non addormentarmi su quel vecchio e scomodissimo divano. Era serena adesso. E questo non poteva che rendermi felice.
Tenne sempre la mano nella mia, mentre raggiungevamo la camera. Cambiammo le lenzuola e fece partire il carico nella lavatrice con una quantità spropositata di candeggina, per liberarsi del sangue e del ricordo.
Sistemammo bene la trapunta e gattonai sul letto, per abbracciarla. Non riuscivamo ad evitarlo. Adesso che avevo scoperto del suo passato orribile, meno che mai. Avevamo bisogno di quegli abbracci, tenevano insieme le macerie di noi, ci scaldavano il cuore, non ci facevano sentire soli contro il mondo.
“Sai…”
“Mh?” mormorai, baciandole i capelli ancora umidi.
“Mi chiedevo” iniziò, posando la testa all’indietro contro di me “ se ti andasse di riprovarci…”
Sorrisi, perplesso.
“Dici sul serio?”
“Bè…tecnicamente il peggio è passato. Adesso dovrebbe arrivare il divertimento, o come preferisco pensare io più giustamente, la parte dolce!”
“Così dicono…” ironizzai.
Usai comunque tutta la delicatezza possibile e questa volta andò effettivamente molto meglio.
Per quanto fosse alle “prime armi” superato l’imbarazzo, grazie al sentimento, non se la cavò affatto male. Aveva questa sua consueta dolcezza che riusciva a sorprendermi ogni volta.
“E no, “ mi ritrovai nuovamente a pensare, come durante il nostro primo bacio “non hai l’ombra della malizia o della volgarità”.
Anche quando, poco dopo il sottoscritto, giunse al picco del piacere, suscitò in me passione, senza quel risvolto sporco che potevi trovare da qualunque puttana. E tanta tenerezza.
“Ti voglio, Jamie. Ti vorrò sempre. Promettimi di non andartene”.Chiuse gli occhi sopraffatta dalle sensazioni.
“Come potrei andarmene, se ci sei tu qui con me?” bisbigliai.
Al sicuro contro il mio corpo, avvolta nella trapunta, riprese a giocare con i miei capelli.
Stavo quasi per addormentarmi quando mi accarezzò il volto.
“Che cosa c’è?”
“Ti amo James”
Rabbrividii di gioia, ripensando a quando durante il nostro primo incontro avevo desiderato di sentirle pronunciare quelle parole, in quel momento.
E andava benissimo così. Anche se non era un pomeriggio piovoso. Era perfetto.
“Anche io ti amo, Mauve. Buon natale bambina…”
  
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