Mi
muovevo lentamente. Infilai la chiave nella toppa. Girai la chiave; la
estrassi. Sempre con cautela aprii la porta. Sul tavolo c’era la bottiglia
d’acqua della solita marca, la pianta nel vaso e delle riviste ammucchiate
nell’angolo; tutto era rimasto intatto.
Aprii il frigorifero.
Dentro c’era il burro, il latte, uno yogurt, una bottiglia di spumante aperta
la scorsa Epifania (il cucchiaino sull’orlo ricordo perfettamente come ce
l’aveva messo), del formaggio. Il resto l’aveva già buttato la mamma. Lo
richiusi. Aprii la dispensa. Dentro vi trovai il sacchetto dei crackers, e poco
altro. La richiusi piano. Aprii la porta della cucina; me la chiusi alle
spalle. In soggiorno passava poca luce, così premetti il tasto per accendere il
lampadario. Sul tavolo c’erano tanti fogli, pratiche, assegni, appunti,
bollettini. Le tre sedie erano sotto il tavolo. Una era fuori posto.
Attraversai l’ingresso. C’era una strana sensazione lì. Aprii la porta del
salotto, entrai. Mi sedetti sul divano. Sul tavolino c’erano… erano proprio
davanti a me, come se avessi potuto dimenticarmi. C’erano i suoi occhiali. Le
lenti erano ellittiche, la montatura era color oro. Li riposi sul tavolino. Mi
alzai tenendomi le ginocchia. Sorpassai il tavolino, giunsi al mobile. Presi
una fotografia. C’erano lei e Alessandro e Annachiara, i suoi nipoti, un po’ di
anni fa. Erano a Gardaland, in gita con la scuola. Mi aveva riportato una
maglietta bianca con scritta grande l’insegna.
Erano il suo orgoglio,
parlava sempre di lui. Non saremmo mai stati grandi abbastanza.
Non ne sarò mai
sicura, dice che io ero la sua stella, le faceva sempre piacere se la chiamavo
quando ero in gita. La riappoggiai piano sulla mensola più alta. Feci un po’
avanti e indietro nella stanza. Mi decisi a uscire.
A destra c’erano le
scale, portavano al piano superiore.
Salii a due a due gli
scalini, finita la seconda rampa entrai nella camera a sinistra, quella dove
dormiva.
Mi sedetti sul letto.
Erano davvero tante le emozioni legate a quel luogo.