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Autore: Angel_to_Fly    18/07/2015    6 recensioni
E' l'inverno del 1943 quando la vita di Beatrice viene scombussolata e tutte le sue certezze cadono al suolo.
La guerra è in pieno svolgimento in tutto il Mondo, lei e la sua famiglia si trovano nella loro casa di campagna nel Nord Italia, sotto le mani dei Tedeschi e di Mussolini.
Si vive ormai fra razionamenti, bombe incendiarie e quel poco di acqua che il fiume regala alla famiglia.
Beatrice è una sedicenne innamorata della scrittura, ma costretta ad abbandonarla a causa della guerra che irrompe prepotente nella sua vita. E' forse l'essere più innocente e bonario su quella terra di traditori.
In casa Volkov tutto gira secondo le regole della fame, finché non entra un nuovo membro della famiglia.
Nikolay Tarasovic Kolov, cugino russo, appena tornato dalla Campagna di Leningrado.
Ma non è tutto, l'incontro con Hadrian Krämer - Capitano Tedesco - e Gabriel Reed, soldato americano sotto copertura la metteranno a dura prova. Nuove sensazioni l'attanaglieranno, sedicenne circondata da uomini troppo grandi per lei.
Fra radio, pomeriggi a passi di Jazz e sigarette profumate Beatrice sboccerà nella maniera più errata.
Mentre intorno a loro l'apocalisse è solo all'inizio.
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Triangolo, Violenza | Contesto: Storico
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Ci tenevo a farvi sapere che questa storia è puramente inventata, ha certamente basi storiche vere, ma nessuna di queste persone è realmente esistita (credo) e nessuna di queste persone ha mai fatto ciò che sarà scritto durante la storia.
Ci tenevo anche a ringraziare la zia di una mia cara amica che mi ha aiutato con le date storiche, gli avvenimenti, che - non so in che modo - è riuscita a conservare molti dei giornali di quel periodo. Quindi grazie e spero di non deluderti!
Grazie mille, spero che la storia vi possa piacere. Abbracci, ATF




1 | Il Cavallo Russo - Domenica, 3 Ottobre 1943 
 
La penna seguiva il delicato movimento che la mano imponeva lei. Tracciava linee di inchiostro color petrolio sul bianco foglio di carta stropicciata. Era pomeriggio tardo, il cielo si tingeva di un delizioso rosa pesca e le nubi erano bianche. La ragazzina china sul blocco di fogli scriveva, principalmente della sua giornata, poi immaginava ciò che le sarebbe potuto accadere in un giorno alternativo, in un altro paese. Non che lì fosse noioso, anzi, spesso e volentieri le bombe che i Tedeschi buttavano sulla cittadina poco lontana giungevano fin lì, causando rumori inumani. Grazie al cielo loro ancora abitavano nella casetta di legno, in campagna, del nonno materno, il padre di Virginia Diamante.
«Bea, torna immediatamente dentro». Carlotta dall'altro lato del campo di grano, proprio all'entrata dalla casa, la guardava alternando occhiate a lei e al cielo, terrorizzata dal pensiero che altri aerei Tedeschi sorvolassero la loro abitazione sganciando bombe incendiarie.
Anche Beatrice alzò la testa osservando quel cielo spumoso e aspettandosi di vedere planare a bassa quota i Tedeschi, ma quel giorno sembravano essere piuttosto taciturni e invisibili. Non avevano ancora bombardato.
«Bea, ti prego» ringhiò la sorella battendo un piede sullo scalino più alto, in marmo. La gonna che le cadeva fino alle caviglie si alzò sotto il comando del vento, ma lei non se ne curò, tenne lo sguardo furente sul corpicino di Beatrice.
Questa si alzò dal terriccio e scavalcò le alte piante di grano, dorate. Aveva il naso puntato al cielo, osservava ammaliata ogni sfumatura di quella distesa dai colori caldi, mentre il piede di Carlotta picchiettava contro il marmo grigio, era irritata. Beatrice camminò lentamente tenendo stretto al petto il blocco di fogli ormai consumati e in una mano la penna che aveva rubato alla nonna Valeska la sera prima.
Con una leggera corsetta entrò il casa e scampò per miracolo ad una sberla della sorella, questa, però, si lasciò sfuggire un debole sorrisino.
Era sempre così, tutta la famiglia si lasciava coinvolgere dalla genuinità, dall'infantilità della piccola Beatrice, la bambina di casa. Lasciò cadere i sandali bianchi al lato dell'entrata e a piedi scalzi scavalcò il gradino in legno, proprio in quel momento il padre uscì dalla camera da letto con il giornale in mano.
«Dove sei stata, Bea?» domandò curioso entrando il cucina. Beatrice lasciò il blocco e la penna ben nascosti sotto le sue scarpe e quelle di Ginevra e lo seguì a testa bassa.
«Sono stata fuori» sussurrò mordendosi il labbro e raggiungendo la madre ai fornelli. A giudicare dall'odore che fluttuava nella stanza Virginia stava cucinando un delizioso stufato di cipolle.
«Fuori... » borbottò Liev, il padre, sedendosi sul piccolo divano che si trovava in stanza e aprendo il giornale. Le solite notizie erano evidenziate in grassetto: Le razioni sono state dimezzate. I Tedeschi hanno in mano il Nord Italia. I morti sono arrivati a più di novecento al giorno, fra soldati e civili.
«Fuori dove?» continuò scorrendo le pagine, poche perché la carta stava terminando o veniva utilizzata dai Tedeschi per manifesti nazisti.
Beatrice esitò dandogli le spalle. Lo stava facendo innervosire, lo notava dall'accento russo che prendeva il sopravvento nel suo italiano stentato. «Nel campo di grano» rispose senza guardarlo.
«A fare cosa?» continuò lui.
Beatrice scambiò uno sguardo con la madre, ma Virginia le sorrise come se non si fosse accorta che il marito stava perdendo le staffe, poi si voltò verso il padre, lui teneva gli occhi fissi sul giornale, pizzicandosi di tanto in tanto i baffi grigi.
Solo la nonna Valeska ridacchiava tentando di non farsi notare, intenta a cucire un ennesimo vestitino per una delle nipoti.
«Beatrice Lievovna Volkova! Hai intenzione di rispondermi o vuoi continuare a guardare le mosche che volano?» sbottò Liev battendo un pugno sul bracciolo alla sua destra, ma il rumore venne attutito.
Beatrice sbatté le palpebre tornando su di lui. «Sono andata a dormire» rispose prontamente.
Non poteva certo dire loro la verità, andava a nascondersi nel campo di grano appunto per non farsi vedere da loro. Un tempo Liev e Virginia Volkov erano i primi a lodare di buon grado la dote della figlia, a spronarla a scrivere sempre meglio, ma poi era subentrata la guerra, la fame, la povertà, le malattie. Non potevano permettersi fogli per Beatrice, né penne nuove, né inchiostro, dovevano pensare a mangiare, a guadagnare quella lira in più per riuscir a sfamare sei bocche, tre delle quali a carico. Solo Liev, Virginia e Ginevra - la figlia più grande - lavoravano, e nonostante le razioni per loro fossero maggiori, spesso non bastavano neanche a sfamare loro stessi. 
«Dormire» bofonchiò il padre tirandosi la punta del baffo destro.
«Come se facessi altro».
Virginia sorrise alla figlia e mescolò rudemente l'impasto che si trovava dentro la pentola, pochi secondi dopo annunciò con un forte urlo che la cena era pronta. La luce fuori dalla casa stava scemando, grazie al Cielo la lampadina appesa al soffitto funzionava ancora, anche se ad intermittenza.
Erano stati davvero molto fortunati, in periodo di guerra molte persone che abitavano in città erano state costrette a condividere appartamenti comuni, abitare con persone a loro sconosciute o direttamente per strada, loro invece avevano una casa propria con due stanze da letto, cucina, bagno e stalla. Era la casa che Adriano e Ester Diamante avevano lasciato alle due figlie, Virginia e Maddalena, l'ultima era morta di tubercolosi i primi mesi del 1940.
Ginevra e Carlotta arrivarono in cucina e tutti si raggrupparono intorno al tavolo, solo la madre, Beatrice e Carlotta dedicarono una preghiera al pasto a loro regalato dal Signore, Liev, Valeska e Ginevra erano fortemente comunisti.
Consumarono lo stufato di cipolle in un religioso silenzio. Mangiarono lentamente, tentando di saziarsi, ma nessuno era capace di farlo con dell'acqua insapore.
«Non sa di nulla» si lamentò Liev guardando il cucchiaio dove galleggiava quell'acqua giallastra che gli ricordava tanto il vomito.
«E' stato tutto ciò che ho trovato! Al razionamento mi hanno dato del pane, ma lo avete mangiato tutto a mezzogiorno, dobbiamo ringraziare Dio che Suora Iris mi abbia dato due cipolle e due patate» sentenziò Virginia tenendo lo sguardo fisso sulla sua brodaglia. Ne aveva abbastanza delle lamentele del marito, anche lei mangiava ciò che lui mangiava, quella era la guerra, non avevano potere di nulla.
«Hai ragione, cara» sorrise nonna Valeska accarezzando l'avambraccio di Virginia.
«Dobbiamo anche ringraziare il tuo dio se siamo ancora tutti vivi, quindi, Liev, non fare lo schizzinoso e mangia! Io e tuo padre ti abbiamo insegnato a mangiare la buccia delle patate per anni e ora che trovi una buona donna che ti cucina stufato di cipolle in tempo di guerra sentiti lodato» sentenziò sbattendo un pugno debole sul tavolo e facendo tremolare il piatto di Carlotta, al suo fianco. Liev non rispose e bofonchiando sotto i baffi mangiò tutto ciò che il suo piatto conteneva.
Beatrice assaporò tutto con la massima calma, immersa nel suo mondo, sentì forte e chiara la cipolla ballarle sulla lingua e quella brodaglia ora era salata e non insipida.
Quando terminarono di mangiare Beatrice e Ginevra sparecchiarono, mentre la madre prendeva in mano il giornale del marito e lo apriva, osservando le scritte, senza leggerlo; la nonna riprese a fare a maglia, il padre andò in bagno a lavarsi e Carlotta andò nella stalla per pulire, un'ennesima volta.
La radio era accesa a massimo volume e alcune canzoni americane facevano da sottofondo, Liev era riuscito ad intercettare le loro stazioni.
«Bea» sussurrò Ginevra avvicinandosi all'esile corpo di Beatrice. La sorella la imitò lanciando un'occhiata alla madre che era intenta ad ascoltare la musica.
«Cosa c'è?» domandò passando un'ennesima volta lo straccio sui fornelli arrugginiti della cucina.
Ginevra le si strinse contro guardandola in viso, i suoi occhi verdi la ispezionarono attentamente. «Domani mattina vado in paese» sussurrò rimboccandosi le maniche del vestito bianco sporco.
Beatrice alzò lo sguardo fissando la sorella, stupita.
«Per quale assurdo motivo?» chiese ingenuamente scuotendo la testa. Entrambe si accorsero che la radio venne abbassata e girandosi trovarono gli occhi scuri della madre, fissarle.
Ginevra si staccò dalla sorella guardandola, come a volerle far capire qualcosa, ma Beatrice non capiva, non era maliziosa come Ginevra o Carlotta.
"Devo vedere Massimo", mimò con le labbra mordendosi, poi, il labbro inferiore a sangue.
Beatrice spalancò gli occhi strofinando lo straccio con più enfasi, un dolore al polso la fece fermare. La cucina era lustrata nonostante il poco grasso che non si toglieva.
«Vieni con me» sussurrò Ginevra ancora passandole di fianco. Beatrice fece finta di non sentire, ma scosse la testa.
Non aveva alcuna intenzione di farsi beccare dalla madre, o peggio, da Carlotta, quella civetta avrebbe detto tutto al padre e, come minimo, si sarebbero trovate senza pasto per due giorni. Non che cambiasse qualcosa.
E poi, il pensiero di vedere la sua adorata Ginevra a sbaciucchiarsi con quel pidocchioso di Massimo le faceva venire il voltastomaco, se solo avesse avuto qualcosa in pancia anche solo il pensiero l'avrebbe fatta rimettere. Massimo Centi era un partigiano che vantava di essere tale senza nessun interessamento a liberare il Nord Italia dai nazisti, lo diceva solo per farsi "bello" agli occhi delle ragazze.
«Tu potrai andare in biblioteca, o da Isabella, lei ti darà quel poco di pane che le è rimasto» continuò ad insistere Ginevra. Beatrice stava quasi per ribattere quando due bei botti alla porta, ben assestati, la fecero cicatrizzare al suolo.
Si osservò intorno, Ginevra al suo fianco, la madre sul divano, Valeska sulla sedia, il padre affacciato dalle scale e Carlotta di fianco alla porta dell'entrata, tutti con uno sguardo ansioso in faccia.
«Chi potrebbe essere?» sussurrò allarmata Virginia alzandosi e tentando di guardare oltre le tende bianche.
Fuori era buio e le uniche luci erano del paese in lontananza, tutto intorno era buio, sia nel campo di grano dorato, sia nel boschetto alla loro destra.
«La vera domanda è 'chi è riuscito a vederci'?» domandò allarmata Carlotta allontanandosi dalla porta e raggiungendo il padre che era sceso dalle scale e fissava la porta curioso. La fronte aggrottata.
«E se sono ladri?» commentò Virginia stringendosi la collana d'oro fra le mani.
«E se sono i Tedeschi?» domandò allarmata Ginevra.
«Catia mi ha raccontata che vanno di casa in casa chiedendo donne, non importa l'età, basta che plachino i loro bisogni animali» continuò rabbrividendo al ricordo delle parole dell'amica.
Liev si girò verso le donne guardandole, una ad una: «Tutti ci possono vedere, Carlotta, abbiamo la lampadina accesa. Vir, smettila di tenerti quella catenella, avresti dovuto cederla già quando Mussolini aveva detto che era obbligatorio darla via, nell'estate del '42. E poi, tu, Ginevra che te ne vai appresso a quella stolta di Catia, se loro vorranno avervi noi cosa possiamo fare? Ci uccideranno, vi uccideranno se non li soddisfacente» ringhiò non volendo farsi sentire da chiunque si trovasse fuori da quella casa.
Altri due colpi fecero sussultare Beatrice. Quelli di sicuro non erano colpi assestati da una mano, ma dalla canna di un fucile, come minimo.
Liev, senza paura, rizzandosi sulla schiena andò ad aprire uno spiraglio di porta, osservando il giovane armato che si trovava davanti alla porta. Il viso del ragazzo era illuminato solo dalla poca luce che arrivava da dentro la casa, ma Liev ebbe un colpo al cuore.
«Nikolay Tarasovic Kolov» sbottò incredulo. Il tappo di sughero che gli aveva bloccato lo stomaco ora si era sciolto, finalmente.
«Ragazzo, cosa diavolo ci fai qui?» domandò sempre in italiano, sapeva che suo nipote lo conosceva e lo parlava deliziosamente. Nikolay entrò affaticato, tenendo su una spalla un bagaglio e a tracolla la sua arma da combattimento. Ginevra, Carlotta e Beatrice lo squadrarono da capo a piedi.
«Sono tornato dalla battaglia contro i Tedeschi a Leningrado, sono sopravvissuto. Sono tornato a Stalingrado, ho provato a vivere da solo per qualche mese, ma credo di star impazzendo, allora mi sono ricordato di te zio, e anche di te zia. Sei davvero bellissima, proprio come ti ricordavo» sussurrò avvicinandosi a lei e abbracciandola.
Virginia si sentì mancare, tremava e lo stringeva al suo petto con una forza disarmante.
«Bambino mio, mi dispiace così tanto, per tutto» sussurrò accarezzandogli forte la testa.
«Non fa niente zia, ora mamma e papà sono al sicuro» sorrise staccandosi e raggiungendo la nonna. Valeska lo abbracciò dandogli qualche pacca sulla schiena.
«Guardati Nik, il mio Capitano dell'Armata Rossa» sorrise asciugandosi gli occhi bagnati da deboli lacrime.
Le ragazze si scambiarono occhiate perplesse. Da quando avevano un cugino?
«Mi sei mancata anche te, nonna» la strinse a sé.
Beatrice guardò incantata l'uniforme da soldato che portava, era diversa da quella che indossavano i Tedeschi in paese, era color cachi e raggiungeva le caviglie, tenuta stretta alla vita solo da un cinturino nero, e sulla parte superiore, sopra il cuore era piena di medagliette di ogni colore e statura, le osservò ammaliata. Guardò il viso di quel soldato, occhi grandi e azzurri e capelli neri come la pece, leccati da un lato, ma la pelle era bianca, pallida, quasi da morto.
«Oh, mio dio» sospirò la madre togliendogli dal groppone lo zaino pieno e pesante. Liev si portò zoppicando sulla gamba buona fino alla piccola dispensa sotto i fornelli e raccattò del vino forte, quello che Adriano gli aveva lasciato anni prima.
«Nik» s'intromise Valeska alzandosi e raggiungendo il ragazzo. Lui si voltò verso di lei e le sorrise.
«Togliti la giubba e siediti, ti presento le tue cugine, l'ultima volta hai visto solo Ginevra e avevi due anni, non so cosa tu possa ricordarti» ridacchiò aiutandolo a spogliarsi e portando via la giacca scura. Sotto Nikolay portava un'altra giacca color cachi e dei pantaloni di stoffa ruvida, marroni.
Lui voltò lo sguardo e osservò le tre giovani, prima Carlotta, Ginevra e infine Beatrice. L'ultima era rossa come un pomodoro.
«Loro sono Ginevra, Carlotta - la seconda - e Beatrice, la più piccola» spiegò Virginia avvicinandosi al soldato e accarezzandoli i folti capelli neri. Nikolay strinse la mano a tutte loro con un sorriso vivo in faccia, sembrava un bambino felice.
«Quanto resterai, caro?» intervenne Liev passandogli un bicchiere di vetro contenente della sostanza gialla. L'odore scombussolò la mente di Beatrice nonostante lo conoscesse bene.
«Fin quando voi non mi buttate fuori casa, purtroppo non ho dove andare» disse Nikolay bevendo un sorso di limoncello, poi tornò a fissare le tre ragazze. Beatrice si sentì arrossire un'ennesima volta.
«Le avete fatte con il pennello, zia. Fossero così anche le compagne russe, voi italiane siete tutte talmente belle da mozzare il fiato» sorrise caldo voltandosi verso la zia.
Beatrice ci pensò su, aveva visto molte foto di donne russe e invidiava la loro carnagione pallida, il viso ben calcato e i capelli neri come la pece. Invidiava le russe e lui diceva il contrario.
«Smettila, Nik. Così farai imbarazzare le ragazze, guarda le guanciotte scarlatte di Beatrice» sorrise la madre avviandosi verso la figlia.
Lei si ridestò dai suoi pensieri senza capire ciò che la donna le avesse detto, ma notò gli sguardi divertiti delle sorelle e quello compiaciuto dell'uomo. Virginia le circondò le spalle con un braccio esile e bianco.
«Tuo padre mi aveva raccontato tramite lettera che eri in prima linea a Leningrado, è un miracolo che tu ti sia salvato» si intromise Liev riempiendo ancora il bicchiere di Nikolay.
«Sì, zio. Non riuscirò mai a spiegare ciò che ho visto, lo schifo che il mondo ha creato! Dovevo partire per un ennesimo fronte, ma a causa di una ferita alla gamba mi hanno dato la ritirata e - anche se sono rimasto Capitano - evito di andare in guerra» spiegò. Buttò giù il liquido giallastro perlustrando gli sguardi in tutta la stanza, evitando quello di Liev.
«Hai fatto bene, ragazzo. Ti sei già sacrificato per la Santa Madre Russia, ora lascia il lavoro ad altri» si schiarì la voce Valeska, riprendendo a cucire il vestito bianco.
«Come farai ad uscire e ad andare a prendere la tua Tessera della Fame?» chiese Ginevra facendo qualche passo in avanti e togliendosi il panno dal cinturino in vita della gonna.
«Infatti, i Tedeschi noteranno la divisa diversa» continuò la madre stringendo maggiormente Beatrice. Lei osservò il pavimento intenta a pensare ad altro.
Avevano un'altra bocca da sfamare, a quello nessuno ci pensava?
«Non fa nulla, gli darò io dei vestiti» si intromise Liev buttando giù il liquido pieno di alcol. Beatrice sentì la gola bruciare al posto di quella del padre.
«Cambierò il mio in uno italiano... »
«Non ce n'è bisogno, qui accettano anche gli stranieri. Solo gli ebrei non sono ammessi» si intromise Carlotta, ma appena Nikolay la guardò bofonchiò un timido: torno nella stalla.
«A proposito: Nikolay purtroppo dovrai dormire nella stalla, abbiamo due stanze, una per me, lo zio e la nonna e una per le ragazze. Non ti dispiace, vero tesoro?» domandò rammaricata Virginia staccandosi da Beatrice e avvicinandosi al ragazzo.
«Dispiacermi di cosa? Vi sono solo grato, mi state dando una casa» sussurrò afferrando la mano della zia che ora era posata sulle sue spalle.
Virginia tirò su con il naso.

   
 
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