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Autore: _Frame_    20/07/2015    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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45. Neutrale e Parassita

 

 

30 agosto 1940, Vienna

 

Ungheria intrecciò le mani sul tavolo, tenendole posate davanti a sé. Le spalle dritte contro lo schienale della sedia, i capelli raccolti all’indietro ricadevano lungo la giacca dell’uniforme da cerimonia che le aderiva ai fianchi e al seno. Il fiorellino rosa puntato alla tempia destra. Ungheria strinse le dita e mosse i piedi sotto il tavolo, incrociando le caviglie. Il cuoio degli stivali tirati a lucido fece un leggero attrito. Ruotò gli occhi alla sua destra, senza spostare il capo e tenendo la fronte alta. Romania aveva lo sguardo basso. Gli occhi in ombra sotto i capelli, le spalle chiuse, le gambe rigide poggiate a terra, e i pugni stretti sulle cosce. La veste rossa assunse un colorito scarlatto sotto la fioca luce della sera che entrava dalle finestre.

Germania fece un piccolo passo davanti al loro tavolo. Piegò un braccio dietro la schiena e strinse la mano libera sulla cartella di appunti. Fece scivolare il pollice tra i fogli e scartò una pagina con un fruscio, passando a quella successiva. Gli occhi scorsero lungo le righe del trattato.

“Questo implica la concessione della regione della Transilvania settentrionale a Ungheria da parte di Romania.”

Germania sollevò gli occhi, lo sguardo volò verso la figura di Romania. Lui non mosse una piega, standosene chiuso contro lo schienale della sedia, a volto basso. Ungheria distolse lo sguardo e si fissò le mani giunte sul bordo del tavolo. Le dita tamburellarono sulle nocche. Una lieve espressione di afflizione le velò il volto.

Germania sollevò un sopracciglio. “Ovviamente le tue frontiere saranno ampiamente sorvegliate da parte nostra.” Socchiuse le palpebre e arrivò all’ultima riga della pagina. “La perdita del territorio non ti causerà in alcun modo svantaggi o retrocessioni.”

Romania affondò un canino acuminato nell’angolo del labbro inferiore. Si irrigidì, trattenne il fiato. La frangia biondo cenere gli nascose le palpebre strizzate e le pieghe che gli contraevano il volto. Un rapido ma profondo fremito lo scosse passando lungo la spina dorsale.

Italia fece scivolare il petto all’indietro lungo la superficie del secondo tavolo alle spalle di Germania, e si appoggiò con i gomiti sul bordo. Piegò il collo di lato, sbirciò da dietro la stazza di Germania che otturava la vista, e inquadrò Romania. Germania voltò un’altra pagina, riprese a parlare a voce più bassa, e fece un passo davanti a Ungheria. Lei sollevò gli occhi seguendo ogni suo più piccolo movimento con aria attenta.

Italia si sporse di lato poggiando tutto il peso sul gomito sinistro. Romania non si era ancora mosso. Sotto l’ombra calata sul suo viso si scorgeva solo la luce emanata dalla punta del canino che spingeva sul labbro.

Italia sospirò. Inarcò le sopracciglia in un’espressione malinconica. “Romania sembra così triste.”

Prussia spinse all’indietro la sua sedia, facendo singhiozzare il pavimento sotto l’attrito. Annodò le braccia al petto e accavallò le gambe toccando l’orlo del tavolo con il ginocchio rialzato.

“Ma è ovvio, adesso non è più padrone della Transilvania, la terra dei vampiri.”

Prussia voltò il capo verso Italia che lo stava guardando. Snodò un braccio dall’intreccio sul petto, rivolse il palmo della mano verso il basso, contrasse le dita come fossero zampe di ragno, e gliele avvicinò alla punta del naso. Stese un sorriso aguzzo da guancia a guancia, gli occhi brillarono di rosso, un’ombra nera gli mascherò il volto. Prussia agitò le dita davanti al viso di Italia, tastando l’aria.

“Ha perso parte della sua tenebrosa identità.”

Italia si retrasse stringendo un pugno al petto, come per proteggersi. “Eeh?” Tremò. La voce stridette in un piagnucolio, la paura gli rabbuiò il volto. “Davvero ci sono i vampiri in Romania?”

Prussia sgranò le palpebre e annuì. “Certo che sì!” Ritirò la mano e impennò la punta dell’indice verso l’alto. “Sapessi cosa –”

“Avreste la cortesia di fare silenzio, per piacere?”

Il richiamo mormorato di Austria li fece voltare tutti e due. Italia sobbalzò sulla sedia per la sorpresa, Prussia fece strisciare un gomito in avanti e rimase con la guancia premuta contro il pugno. Uno sguardo annoiato e indifferente dipinto sul volto.

Austria sciolse le braccia conserte sul petto. Sollevò una mano e si tenne gli occhiali fermi sul viso con la punta di due dita. Lo sguardo severo scoccò una scintilla violacea da dietro le lenti.

“Sto cercando di seguire, se non vi dispiace.”

Prussia fece roteare gli occhi al soffitto ed emise un piccolo sbuffo. Lui e Italia tornarono ad appoggiarsi agli schienali delle sedie, con gli sguardi rivolti al tavolo di fronte dove sedevano solo Ungheria e Romania. La gamba accavallata di Prussia dondolò, le dita tamburellarono sull’avambraccio, premettero sul tessuto delluniforme e sfregarono la manica contro la pelle. Prussia sollevò la mano e la sventolò davanti al viso, facendo prendere aria alla guancia arrossata dal caldo. Infilò due dita sotto il colletto e lo aprì di un bottone. La gola era umida di sudore pizzicante.

Germania fece un altro passo di lato, rimettendosi davanti a Romania, e proseguì. “Gli articoli Tre e Quattro di questa decisione arbitrale danno la facoltà ai cittadini rumeni che si trovano nel territorio che da ora in avanti sarà ceduto a Ungheria...”

Italia poggiò la fronte sull’orlo del tavolo. Il discorso di Germania divenne un brusio insabbiato in sottofondo. Italia scavalcò la spalla con un braccio e si grattò in mezzo alle scapole, dove il tessuto della divisa stringeva e formicolava. Voltò il viso, premette la guancia sul legno fresco lasciandolo lievemente umido di sudore, e sospirò. Sbatté le palpebre, attirato di nuovo dal luccichio che proveniva dall’altro tavolo di fronte al loro.

“Quindi Romania è triste perché non potrà essere più un vampiro?” chiese.

Prussia smise di far sventolare la mano davanti al viso e tornò a incrociare le braccia al petto. Scrollò le spalle. “Nah, in fondo i denti aguzzi non glieli toglie nessuno.”

Fece scivolare un gomito sul tavolo, il pugno sempre chiuso contro la guancia. Gli occhi scarlatti volarono oltre la schiena di Germania, si spostarono alla sua sinistra dove Romania se ne stava rannicchiato contro la sedia, a spalle basse. I pugni ancora serrati sulle cosce, la bocca piatta, la punta del canino premuta contro il labbro, i capelli davanti agli occhi. Germania continuava la sua spiegazione davanti a lui e a Ungheria.

Prussia fece tamburellare le unghie sul tavolo. “Credo che sia così giù di morale anche per la questione di Moldavia. Ora che suo fratello è sotto sorveglianza di Russia, sono mesi che non si incontrano.”

Italia sospirò, stringendosi nelle spalle. “Oh, poverini.” Una luce di compassione gli attraversò gli occhi ancora fermi, in cerca dello sguardo di Romania. Italia strinse un pugnetto sul petto e rabbrividì. “Essere separati dal proprio fratello è la cosa peggiore che ci sia.”

Prussia fermò le dita che battevano sul banco. Gli occhi fissi sulle larghe spalle di Germania.

“Viceversa, se i cittadini ungheresi verranno a trovarsi in territorio rumeno...”

Italia sospirò con vocina avvilita. “Che storia triste.”

Una luce più debole e opaca spense lo sguardo di Prussia. L’unghia dell’indice diede due piccoli colpetti al tavolo, le sopracciglia si restrinsero lievemente, e una riga di sudore gli scivolò dietro il collo.

Prese un respiro anche lui, dimenticandosi del prurito dell’uniforme. Socchiuse le palpebre. “Già.”

Germania sollevò gli occhi dalla cartella di appunti. Guardò Romania. “Appurato questo, Romania ha a disposizione quattordici giorni per attenersi ai patti presi con Ungheria e lasciare il territorio al suo esercito.” Giunse le mani dietro la schiena, stringendole entrambe sui fogli impaginati. Sollevò il mento. “Qualche domanda?”

Romania innalzò gli occhi per la prima volta. Due profondi segni neri sciupavano le palpebre, i riflessi ambrati delle iridi erano deboli e opachi, coperti ancora dalle ombre frastagliate dei capelli. Romania scosse il capo. “No,” rispose con voce fioca.

Ungheria scrollò la testa a sua volta. “Nemmeno io.”

Germania annuì. “Bene.” Pose la cartella di documenti sul tavolo di fronte a lui, tra Ungheria e Romania. Sulla prima pagina spiccavano le firme già siglate dei due. “Dichiaro sciolto il Secondo Arbitrato di Vienna.”

Prussia impennò le braccia al cielo e fece dondolare lo schienale all’indietro. Il viso annoiato riprese vita. “Yep!”

Italia batté le mani. Lo sguardo si illuminò, gli occhi si riempirono di scintille. “Uh, non vedo l’ora di andare a cena.” Si posò un indice tra le labbra e rivolse gli occhi sognanti al cielo. Dal sorriso inebetito scese un rivolo di saliva. “Spero che per dolce ci siano le torte alla crema di Austria. Quelle con sopra la gelatina ai frutti di bosco e la panna di lato.”

Austria allontanò la sua sedia dal tavolo e si voltò di fianco, senza alzarsi. Piegò un gomito sul ginocchio e si prese la fronte tra le dita, respirando lentamente.

Italia si sporse verso di lui, si appese al suo braccio e gli strattonò la spallina della giacca.

“Ci saranno le torte, Austria? Mhm, ci saranno?”

Austria si lasciò ballonzolare da Italia senza ritrarsi. Gli rivolse un’occhiata sciupata da sopra la spalla, inarcò le sopracciglia in uno sguardo austero più fioco del solito, e riprese un po’ di colorito sulle guance che erano sbiancate.

“Sì, sì, ci saranno, ma tu comportati adeguatamente e non agitarti così.”

“Waah, che bello!” Italia sollevò le braccia al soffitto e corse incontro a Germania.

Austria scoccò un’occhiata scocciata alla sedia vuota, piegando un sopracciglio. Italia non l’aveva rimessa a posto sotto il tavolo.

La stretta di Italia passò dal braccio di Austria a quello di Germania. Salì sulle pinte dei piedi, saltellando per l’eccitazione. “Ehi, Germania, vieni! Andiamo a cena a mangiare le torte di Austria.”

Germania stropicciò lo sguardo. Italia continuava a sorridergli, teso sulle punte degli stivali, con le braccia fasciate attorno alla sua spalla.

Germania distolse gli occhi grigi e seri. “Vai avanti, Italia.”

Si sfilò delicatamente dalla presa, si voltò. Ungheria e Romania si erano alzati dal tavolo. Romania era ancora a capo basso, con il viso nascosto nell’ombra, e i pugni immobili stesi sui fianchi. Ungheria gli si avvicinò, gli posò una mano sulla spalla rivolgendogli uno sguardo apprensivo e premuroso, e gli disse qualcosa a bassa voce. Romania annuì, rispose anche lui a bassa voce con un movimento delle labbra quasi impercettibile, e voltò la testa. Ungheria gli disse ancora qualcosa, batté piano la mano sulla sua spalla, gli fece un tiepido sorriso, e camminò verso la porta. Romania rimase immobile. Quando ruotò gli occhi verso Germania, i canini premuti agli angoli della bocca scintillarono come lame di rasoi.

Germania restrinse le sopracciglia. “Io ti raggiungo, non ho ancora finito.”

“Sicuro?” chiese Italia con tono deluso.

Germania annuì.

Italia giunse le mani dietro la schiena e piroettò verso la porta stando in bilico su un piede solo. “Uh, va bene, ma non lavorare troppo.” Sventolò il braccio sopra la testa e allargò il sorriso. “Ti aspetto prima di iniziare a mangiare e ti tengo il posto vicino a me.”

Fece un piccolo saltello e corse via. Germania lo tenne d’occhio fino a che non sparì nel corridoio insieme agli altri.

Romania camminò a passo lento e molle percorrendo il lato lungo del tavolo. Passò vicino alla cartella di documenti pinzati e firmati, le rivolse un’occhiata tagliente, aggrottò la fronte per un istante, e puntò anche lui la porta.

“Romania.”

Si fermò. Ruotò lo sguardo verso Germania senza dire niente.

Germania gli indicò di nuovo una delle sedie con un gesto del capo.

“Resta qui, devo discutere con te in privato.”

Romania guardò fuori dalla stanza, le palpebre gonfie e violacee di stanchezza si restrinsero di poco, gli occhi traballarono, le labbra rimaste sempre piatte ebbero il primo cedimento. Chinò la fronte, nascose lo sguardo sotto l’ombra dei capelli. Si voltò lentamente.

“Va bene,” soffiò.

Tornò dentro. La porta si richiuse alle sue spalle.

 

.

 

Il fischio nelle orecchie si affievolì poco a poco, lasciò spazio alla voce di Ungheria che inveiva contro Prussia.

“... cresciuta e tu no.”

“Ah, dai, dov’è finito il tuo senso dell’umorismo?” Prussia sventolò la mano. “Startene a gironzolare attorno a lui ha avuto una pessima influenza su di te.”

Si sentì il suono dei pugni di Ungheria che si serravano. “Cresci un po’! Se solo...”

Austria socchiuse gli occhi, le ginocchia tremarono. Una vampata ghiacciata lo travolse fino alle punte dei capelli, dandogli un mancamento.

L’aria attorno a lui si condensò in una spessa bolla che gli otturò le orecchie, appannò la vista, e si strinse fino a fargli mancare il fiato. Gli girò la testa. La litigata tra Prussia e Ungheria divenne un brusio confuso, come se li stesse ascoltando e guardando da dietro un muro d’acqua.

Austria si prese la fronte tra le dita, premette con i polpastrelli sulle tempie, dove faceva male, e strizzò gli occhi. Ebbe un altro capogiro che gli fece salire un’altra ondata di sudori freddi. Il brusio mutò in un lungo e acuto fischio che perforava le orecchie. Austria fece due passi di lato, incontrò il muro con una spallata, e rimase fermo con il fianco incollato alla parete. Tenne la mano davanti al viso, le dita scivolarono sotto le lenti degli occhiali e premettero sulle palpebre chiuse e bagnate dal sudore pungente. A ogni respiro, l’anello che strideva attorno alla testa diventava più stretto e dolorante sulle tempie. Le ginocchia traballarono, e lui aprì una mano sulla parete per non cadere. Il palmo cominciò a scivolare verso il basso.

“...ria? Austria.”

La bolla scoppiò.

Austria spalancò le palpebre di colpo, le dita erano ancora posate attorno agli occhi e premevano sulle guance.

Il viso appannato di Ungheria si avvicinò. Lei piegò il capo di lato, facendo fluire i capelli sulla spalla, e gli rivolse la stessa occhiata preoccupata e apprensiva che si era scambiata con Romania.

La ragazza sbatté le palpebre, sollevò le sopracciglia. “Ti senti bene? Hai bisogno di sederti?”

Austria scosse il capo. Riprese a respirare a ritmo regolare, raddrizzò la schiena aiutandosi con la mano aperta sul muro. Un soffio di aria calda spazzò via l’ondata di sudori gelati che gli aveva infradiciato il collo. Austria richiuse gli occhi e si massaggiò le palpebre con i polpastrelli. “Sto bene.” Socchiuse la vista e aggiustò la montatura degli occhiali alla radice del naso. Soffiò un sospiro indebolito. “Dev’essere il caldo o l’aria chiusa.”

Ungheria chinò il capo dallaltro lato. “Sei sicuro? Sei pallidissimo.”

“Lascia perdere quella lagna,” esclamò Prussia, dietro di lei. Il suo braccio sventolò per aria come in richiamo.

Italia comparve vicino a Ungheria. ”Uh?” Sbatté le palpebre un paio di volte. “Austria sta male?”

Austria sentì un impeto di stizza scuotergli il cuore. Aggrottò la fronte, alzando la voce. “Non sto male.”

“Forse è meglio se vai a riposarti un po’,” disse Ungheria.

Prussia andò vicino ad Austria, allungò un indice e gli punzecchiò la guancia impallidita. “Se è bianco come un cadavere è solo perché tiene il suo regal sedere dentro casa tutto il giorno senza fare niente,” ghignò.

Austria aggrottò le sopracciglia ma non disse nulla.

Ungheria strinse il pugno davanti al petto, lo mostrò a Prussia e digrignò i denti. “Smettila di importunarlo!”

Prussia spalancò le palpebre. Arretrò di due passi, indignato. “Io? Vuoi scherzare?” Si posò una mano sul petto. Sorrise e sbatacchiò le ciglia dipingendosi in volto una finta espressione innocente. La mano libera si aprì indicando Austria, il palmo rivolto al cielo. “Non mi permetterei mai di importunare la tua fidanzata.”

Il pugno di Ungheria prese fuoco come i suoi occhi. Ungheria raccolse le maniche fino ai gomiti e caricò la corsa verso Prussia con i pugni alzati sopra le spalle.

“Se ti prendo!”

Il frastuono della corsa si perse in fondo al corridoio mescolandosi all’aspra risata gracchiante di Prussia.

Italia sobbalzò sul posto. Li rincorse sventolando le braccia per aria. “Ehi! Aspettate anche me!”

Austria si sporse restando poggiato con la spalla al muro. “Non correte nei corridoi!” esclamò con tono irritato.

Un altro capogiro gli martellò la testa. Austria richiuse gli occhi e si appoggiò con la fronte alla parete. Tutte e due le mani aperte sul muro, le ginocchia deboli e vacillanti piegate in avanti, le spalle gobbe, e la bocca socchiusa. Prendeva fiato ad avide boccate. Inspirò a fatica un altro boccone d’aria e gli arrivò una pugnalata al cuore. Trattenne il fiato per il dolore, lanciò un’occhiata alle sue spalle per verificare che nessuno lo vedesse, e si accasciò in ginocchio facendo scivolare le mani verso il basso. Il petto faceva ancora male come se il pugnale avesse scheggiato le costole che ora affondavano e uscivano dal cuore a ogni sospiro. Il dolore si propagava a onde pulsanti, gli raggelava il corpo come una morsa di vento siderale. Austria tolse una mano dal muro e la strinse sulla giacca. Le dita tremavano di paura.

 

♦♦♦

 

Austria si sporse dal sedile posteriore dell’auto in corsa, avvicinò il viso al finestrino fino a vedersi riflesso sul vetro. L’auto aveva rallentato, l’asfalto sulla strada si era fatto più granuloso e rarefatto, forato da ampi crateri di sterrato. Le ombre degli alberi ai lati della carreggiata si inspessirono, un’aria fitta e buia si espanse all’interno dell’abitacolo, rendendo l’ambiente più freddo.

Austria sollevò gli occhi. Non riusciva a vedere le cime degli abeti che entravano nelle nuvole grigie sparse sopra la foresta. Prese un piccolo respiro di incoraggiamento e tornò ad appoggiare le spalle allo schienale di pelle.

“Si fermi pure qui.”

Le dita dell’autista si irrigidirono contro il volante. L’auto decelerò ancora. Le briciole di asfalto e terra battuta scricchiolavano sotto gli pneumatici. Un ramo secco che era caduto da uno degli abeti finì sotto una delle ruote. Schioccò. La gomma posteriore finì di macinarlo.

L’autista voltò lo sguardo all’indietro, l’auto proseguiva la corsa. L’uomo corrugò le sopracciglia in un’espressione preoccupata. “È sicuro, signore?” Le mani strette al volante divennero bianche. Gli occhi dell’uomo volarono per un istante fuori dal parabrezza, vacillarono, e tornarono su Austria. “Siamo proprio al confine.”

“Non si preoccupi.”

Lo sguardo di Austria tornò fuori dal finestrino. Oltre la sua immagine opaca che si specchiava sul vetro – il volto aveva riguadagnato un po’ di colorito sulle guance –,  si estendeva l’oscurità del bosco avvolto nell’ombra. Pochissimi raggi di un pallido sole filtravano tra le fronde degli abeti, si tendevano lungo l’aria donandole sfumature verdi e marroni, e si posavano sul terreno nascosto nel buio. Austria aprì una mano sul finestrino, posandoci sopra solo i polpastrelli. Un piccolo sorriso di malinconia gli incurvò di poco le labbra verso l’alto.

“Mi lasci qua. La chiamerò non appena dovrò essere scortato indietro.”

L’autista annuì. Un gesto lento, poco convinto. “Come desidera, signore.” Le mani si distesero e tornarono a stringere sul volante.

L’auto rallentò, curvò verso il ciglio della strada e si inclinò di lato sprofondando nella parte di sterrato oltre il confine di asfalto. Si spense. L’autista staccò la mano dalla chiave, tornò ad avvolgere il volante e guardò un paio di volte fuori dal finestrino alla sua sinistra. Le dita tamburellarono, graffiarono gli sfilacciamenti di cuoio che avvolgevano la forma ad arco del volante.

Austria si aprì da solo lo sportello.

Una ventata di aria di montagna gli inebriò la testa. Chiuse gli occhi. Il fresco vento delle Alpi gli scosse i ciuffi di capelli sulla fronte, frizzò sulle guance, sibilò dietro le orecchie. C’era profumo di pioggia, di muschio umido, di corteccia bagnata, e un intenso aroma di aghi di pino unito a quello delle erbe che si arrampicavano lungo le rocce. Il vento soffiò di nuovo, gli agitò la giacca attorno alle ginocchia e il bavero dietro il collo. Il fresco e familiare profumo di bosco gli strinse un nodo attorno al cuore.

Austria riaprì gli occhi, si voltò verso l’autista e piegò il capo in una piccola riverenza.

“Grazie infinite.”

Accompagnò lo sportello e lo chiuse senza fare rumore.

Austria si strinse il colletto della giacca attorno alla guancia, prese un avido respiro dell’aria di montagna, e puntò il boschetto davanti a lui. Sollevò un piede, mosse il primo passo scricchiolante tra lo sterrato.

“Signore.”

Il richiamo dell’autista lo fece voltare.

L’uomo era sporto sul sedile, teneva il braccio teso, le dita artigliate alla maniglia. Un pallido fascio di luce che passava tra i rami ai bordi della strada gli strisciava attraverso il viso, pallido anche quello. L’autista corrugò la fronte. Gli occhi preoccupati assunsero un’intensa luce apprensiva. 

“Stia attento, la prego.”

Il corpo di Austria si irrigidì, un altro alito di vento gli era passato sul collo.

Annuì, si strinse nella giacca, ed entrò nella foresta.

 

.

 

La punta della scarpa gli finì dentro una pozza di fango rappreso che si apriva tra due massi piatti avvolti da un tappeto di licheni. Aghi secchi e gialli di abete galleggiavano sopra lo strato molliccio di fanghiglia. Austria sollevò il piede ballonzolando di lato. Agguantò il lembo della giacca con una mano per non far sporcare anche quella, e si tenne in equilibrio con l’altra. Scrollò il piede sporco. Un’espressione disgustata gli fece arricciare il naso e le labbra. Posò la scarpa a terra e la strofinò tra i ciuffi di erbe. I petali rosa di un rametto di timo montano rimasero incollati alla suola.

Austria schioccò la lingua tra i denti, irritato.

Si ricompose lisciandosi la giacca fino ai fianchi e aggiustandosi il colletto, e si allontanò dallo spazio più umido e in ombra del bosco. Entrò nella scia di un fioco raggio di sole e posò i piedi tra le erbe asciutte. Restò fermo, con ancora un palmo fermo sopra la spalla, e sollevò gli occhi.

Due rami di abete si scossero, un uccellino frullò le ali cinguettando lontano, e svanì dietro il tetto verde scuro che ricopriva la foresta. Altri uccellini cantarono dietro di lui, emettendo un suono più acuto e prolungato. Un soffio di vento fece agitare uno dei rami di abete, le chiome si abbassarono e ingrandirono il raggio di luce che tagliava in due l’aria del bosco. Austria sbatté lentamente le palpebre. Chiuse gli occhi e fece altri piccoli passi in avanti. Rametti secchi e sottili scricchiolarono sotto le suole. Sassolini aguzzi affondarono dentro il suolo argilloso. Austria inspirò un’altra volta l’aria di montagna. Si era addensata. L’aroma di bosco entrava nelle narici infittendosi fino a diventare un sapore fresco e liquido che scendeva lungo la gola come un olio balsamico.

Il vento gli scosse i capelli sulla fronte. Aria piovosa e umida che soffiava trasportando l’odore della neve, un cielo plumbeo e brontolante che si estendeva dietro le catene montuose ricoperte di bianco.

Schiacciò un altro ramoscello secco. Odore di erbe, fiori di montagna, fieno di stalla, legno resinoso, corteccia umida e tappezzata da morbido muschio spugnoso che si sfalda sotto le dita.

Austria si fermò tra due alberi. Sollevò una mano e la posò sulla corteccia ruvida e bagnaticcia, premendo i polpastrelli sulla superficie frastagliata e irregolare.

I rami di abete frusciarono sopra e dietro di lui. In lontananza, gli uccellini continuavano a fischiettare.

Austria inspirò una forte boccata e la trattenne nel petto. L’aria di bosco gli rimase incollata alla pelle, gli entrò nella testa e nel cuore.

Sapeva di latte di capra appena munto, di formaggio fuso che filava da una fetta di pane abbrustolito, di una coperta che lo teneva avvolto dietro le spalle mentre se ne stava accoccolato davanti alla luce del fuocherello scoppiettante. Di una manina calda che scivolava vicino alla sua, stendeva le piccole dita fino a intrecciarle e carezzargli il dorso e –

Lo schiocco di un otturatore che scattava alle sue spalle lo fece irrigidire. Austria riaprì le palpebre di scatto, il fiato rotto restò fermo in gola.      

“Non muoverti.”

Un altro profumo familiare si aggiunse alla miscela che componeva l’aria di montagna. Ferro, polvere da sparo, e cuoio vecchio di stivali consumati e incrostati di terra.

La canna di un fucile gli premette tra le scapole. La bocca di metallo spinse tra due vertebre della spina dorsale, costringendolo a inarcare leggermente le spalle all’indietro. Brividi corsero dal punto toccato dal fucile e salirono fino alla base del collo.

“Metti le mani in alto.”

Austria sospirò. Fece roteare gli occhi al cielo e sollevò gli avambracci, aprendo i palmi sopra le spalle.

“Non sparare,” disse con tono calmo. Il respiro lento e regolare, i muscoli rilassati e i nervi sciolti. Austria ruotò la coda dell’occhio, guardando dietro di sé da sopra la spalla. “Sono io.”

Svizzera aggrottò le sopracciglia da dietro il profilo del fucile puntato davanti a lui. Modello ‘Schmidt Rubin Karabiner 31’.

Le braccia alte, i gomiti piegati verso il basso, le mani strette attorno al corpo dell’arma. La fronte in ombra, i capelli arruffati che ricadevano sulle spalle chine, e gli occhi che brillavano come la luce che si rifletteva sui rami degli abeti.  

Svizzera restrinse le palpebre. “Lo so.”

L’indice scivolò dalla meccanica dell’otturatore a cilindro verso il grilletto. La punta del dito spinse, la levetta cigolò. La bocca del fucile che spingeva tra le scapole premette con più forza.

Austria irrigidì come un blocco di ghiaccio. Abbassò le mani e mosse un piede di lato, per voltarsi. “Svizzera, aspetta, fammi solo –”

“Tieni le mani in alto.” Svizzera alzò la voce.

Le mani strette sul fucile fecero gemere il legno che lo rivestiva. Il braccio che avvolgeva il calcio fece impennare la punta dell’arma, il metallo della canna diede un colpo tra le costole di Austria, costringendolo a rimbalzare in avanti. Austria tornò a impennare gli avambracci.

“Il fucile è carico. Non fare movimenti bruschi o improvvisi o faccio fuoco.”

Austria fece di nuovo roteare gli occhi dietro le lenti.

Buon vecchio Svizzera.

“Non sono qui per quello che pensi.” Ignorò la pressione del fucile tra le costole e ruotò il capo all’indietro, mostrandogli la guancia. Un rivolo di sudore era sceso dietro la nuca, bagnandogli il collo. Austria restrinse le sopracciglia. “Ti prego, lascia che ti parli.”

“Perché dovrei crederti?” Svizzera diede un altro colpetto alla sua schiena. L’indice era appeso all’anello del grilletto, sfiorava la levetta ricurva. “Non sei altro che un nemico qualsiasi che sta volontariamente invadendo il mio territorio. Che motivo avrei di risparmiarti?”

“Perché non sono venuto qui in quanto nazione.”

Austria si voltò senza esitare. Il fucile di Svizzera gli scivolò sul fianco, la punta rimase alta, impennata davanti al suo petto. Austria alzò una mano e posò il palmo sulla canna, abbassandola di qualche centimetro, in modo da guardare Svizzera dritto negli occhi.

“Ma in quanto persona.”

Svizzera sollevò un sopracciglio. Il primo accenno di esitazione nel broncio che gli stropicciava il viso.

Austria strinse le dita sulla punta del fucile. Parlò con voce lenta e pacata. “E tutto ciò che ti chiedo è di concedermi di discutere faccia a faccia con te. Da uomo a uomo.”

Il vento mosse le cime sopra di loro, fece frusciare i rami degli abeti frastagliando la luce che maculava il suolo del bosco. I capelli di entrambi si agitarono sul viso.

Svizzera sbuffò. Strinse il calcio del fucile sotto il braccio e sollevò la canna sfiorando lo sterno di Austria. “Come posso fidarmi?” Lo sguardo di nuovo buio. Gli occhi brillanti in mezzo al nero che gli avvolgeva la fronte. “Come posso sapere che non ti stia mandando Germania per tendermi una trappola?”

Austria prese un piccolo sospiro. “Perché hai la mia parola.”

Svizzera socchiuse una palpebra, aggrottò il sopracciglio fino a toccarsi la radice del naso. L’altro occhio rimase aperto, il sopracciglio alto, ad aggrottare solo una parte della fronte. Una fine, sottilissima curva gli piegò un angolo della bocca, infossandolo nella guancia.

Austria sospirò.

Meglio cambiare tattica.

“Nemmeno Germania oserebbe mettersi contro la tua posizione o proverebbe a fartela cambiare, per quanto discutibile essa sia.” Riprese a guardarlo fisso negli occhi. “E nemmeno tenterebbe di infrangere il tuo sistema difensivo.”

Lo sguardo di Svizzera tornò serio e rigido. Le mani ben salde attorno al fucile e il calcio premuto sotto il braccio, contro il fianco.

Austria sollevò le spalle. “Dopotutto, anche se Germania decidesse di compiere una manovra così folle, inutile e rischiosa, non manderebbe di certo me a portarla avanti.” Sollevò le sopracciglia. Un rapido lampo di luce passò attraverso le lenti. “O sbaglio?”

Svizzera aspettò che il vento calasse prima di rispondere.

Inarcò un angolo delle labbra verso l’alto, senza nasconderlo, in un pungente sorriso sarcastico. Soffiò uno sbuffo.

“Su questo non potrei essere più d’accordo.”

Rilassò le braccia, piegò i gomiti richiamandoli alla pancia, e ritirò il fucile.

Il metallo smise di far pressione sullo sterno, e Austria abbassò le palpebre esalando un sottile sospiro di sollievo.

Svizzera poggiò la canna sulla spalla e tenne il calcio avvolto nella piega del gomito. Raddrizzò la schiena, puntò lo sguardo su quello di Austria e tenne le sopracciglia aggrottate. Lo sguardo feroce, perennemente immusonito.

Svizzera piegò il capo di lato con un rapido scatto.

“Seguimi.”

Si girò infilando la cinghia del fucile Karabiner a tracolla lungo la spalla. L’arma rimase appesa sulla sua schiena incrociandosi con il corpo di un secondo fucile fissato sull’altra spalla.

 

.

 

Svizzera premette il panno lucido di olio sulla cima della canna metallica. Disegnò piccoli cerchi concentrici con il pollice, strofinando sulla cima del fucile Karabiner, aderì con l’intero palmo al profilo dell’arma e il tocco sfregante scese fino alla tacca del rialzo della mira. La fronte rimase bassa, i capelli sulle guance. Gli occhi si sollevarono dal fucile. Guardarono attraverso il velo di fumo che si innalzava dalle tazzine di tè poste sul tavolino, e si incrociarono con quelli di Austria, seduto sul divanetto di fronte.

Austria fece scattare le sopracciglia. Entrambi guardarono altrove. Il tocco di Svizzera sfregò con più insistenza tra le rientranze metalliche numerate dietro la levetta.

Liechtenstein si sporse dal divanetto reggendo la sua tazzina con entrambe le mani e cercò lo sguardo del fratello chino di fianco a lei. Svizzera teneva le palpebre socchiuse, le pupille seguivano ogni più piccolo movimento della sua mano, i capelli sulle guance andarono a sfiorargli le labbra lievemente tremolanti.

Era da cinque minuti che nessuno dei tre apriva bocca.

Liechtenstein incrociò le caviglie, si accoccolò contro lo schienale del divanetto e piegò il capo in avanti, tenendo gli occhi bassi. Strinse di poco le dita sulla tazzina, avvicinò i vapori dellinfuso al viso, e prese un piccolissimo sorso poggiando le labbra al bordo di porcellana.

Il panno di stoffa unto scivolò all’indietro sotto il tocco di Svizzera. Sfregò sulla meccanica dell’otturatore, emise un piccolo singhiozzo contro il metallo, e insistette sullo scudo svizzero inciso sul fianco.

Austria abbassò le palpebre. Si sporse in avanti e prese una delle due tazzine che erano rimaste sul vassoio d’acciaio. Tenne il manico tra pollice e indice, la avvicinò al viso facendo ondeggiare il tè a sfioro dell’orlo. Semplice porcellana bianca. Il fondo era leggermente scheggiato, i cucchiaini erano in acciaio – non in argento – e oltre le tazze, sul vassoio era presente solo la coppetta dello zucchero mezza vuota.

Austria sospirò, poggiandosi il bordo della tazzina tra le labbra. “Minimalista come al solito.” Sorseggiò il tè alle erbe. Profumava di malva.

Svizzera corrugò le sopracciglia. La mano premette sullo scudo svizzero inciso sul fucile con più forza, facendolo stridere. “Stiamo risparmiando. Con i tempi che corrono è preferibile investire su qualcosa di più utile delle tazzine da tè.” Fece scivolare via il panno sporco di olio dal fucile. Impennò la canna tenendo il calcio tra le ginocchia. Seguì con gli occhi la scintilla che corse dalla punta fino alla croce stampata nel lucido rosso dello stemma. “Sulle armi, per esempio.” Un lampo di orgoglio gli attraversò lo sguardo.

Le labbra di Austria, nascoste dietro il bordo della tazzina, si piegarono in un sottile sorriso di sfida. “Anche se poi non vengono usate?”

Lo sguardo di Svizzera divenne più affilato della punta di una baionetta. Lui e Austria si guardarono come si fossero trovati sul campo di battaglia, uno dalla parte opposta rispetto all’altro, separati solo dai fumi delle esplosioni che salivano dai crateri nel terreno.

Liechtenstein sollevò gli occhi sul fratello. Svizzera era irremovibile. La piccola si strinse nelle spalle, fece dondolare i piedi, e tamburellò i polpastrelli sulla tazzina ancora avvolta dalle sue mani. La dolce e tenera vocina provò a infrangere il silenzio. “Ehm...”

“È stato parecchio rischioso da parte tua addentrarti nel mio territorio.” Svizzera accavallò le gambe, adagiò il calcio del fucile sul ginocchio e lo tornò a porre in orizzontale. “E non solo per quanto riguarda me.” Il palmo aperto sul corpo dell’arma tornò a scorrere fino alla punta. Lo lasciò steso sulla parte di volata rialzata e allungò la mano libera sull’otturatore. Lo sganciò con un colpo e lo posò vicino alla tazzina da tè che non aveva ancora toccato. “Non hai considerato quello che Germania potrebbe farti se lo venisse a scoprire?”

Austria allontanò il tè dal viso. Il vapore gli aveva leggermente appannato gli occhiali. “Nessuno farà la spia.” Si strinse nelle spalle. “Comunque, Germania non avrebbe motivo di temere più di tanto questa mia visita.”

“Forse è vero.” Svizzera fece scorrere il palmo fino all’aggancio dell’otturatore, ora vuoto. Premette le punte delle dita sul panno unto e ripulì ogni singola zigrinatura e rientranza del metallo. “Uno come te non solleverebbe mai una qualsivoglia di ribellione contro l’alleanza di sua iniziativa. E in ogni caso, il tuo orgoglio ti impedirebbe di venire a chiedere aiuto a me.” Svizzera sollevò gli occhi senza alzare la fronte. Una ciocca finì davanti a un occhio, nascose la luce di sfida che si era accesa nella pupilla. “O Germania è riuscito a toglierti anche quello?”

Lo sguardo di Austria divenne di colpo scuro e austero. Irrigidì le dita attorno al manico della tazzina e si chinò a rimetterla sul tavolo. Il fondo toccò il vassoio di acciaio e tintinnò.

“È appunto di questo che ti volevo parlare.”

Rimise la schiena dritta, incrociò le mani poggiando i gomiti sul ginocchio della gamba accavallata, e aspettò di incrociare lo sguardo di Svizzera.

Rimasero a guardarsi. La mano di Svizzera che avvolgeva il fucile si fermò poco più sopra del calcio, i polpastrelli premettero, le nocche piegate si irrigidirono. Occhi contro occhi.

Liechtenstein sentì la tensione stringersi attorno a lei come un ramo di elettricità, farsi palpabile e scoppiettare tra le dita che si muovevano sulla superficie liscia della tazzina. Liechtenstein abbassò un braccio, le piccole e sottili dita scivolarono verso la gamba di Svizzera, gli sfiorarono il ginocchio.

“Fratellone...”

“Liechtenstein.”

La piccola sollevò gli occhi, sbatté piano le palpebre.

Svizzera le indicò la porta con un lieve movimento del capo.

“Vai in giardino, controlla che i fiori dell’aiuola abbiano abbastanza acqua.” Lo sguardo di Svizzera volò per un istante di nuovo verso Austria. “Prima li vedevo deperiti.”

Austria restrinse lievemente le palpebre e resse lo sguardo. Gli occhi vivi e lucidi dietro le lenti rettangolari.

Liechtenstein annuì. “Sì.”

Si alzò dal divanetto e posò la sua tazzina di tè sul vassoio in mezzo al tavolo. Giunse le mani sul grembo, sopra il grembiulino della gonna, e fece una piccola riverenza con il capo, rivolta ad Austria.

“Arrivederci, signor Austria.”

Il nastrino blu puntato ai capelli scivolò sulla guancia assieme a una ciocca di capelli.

Austria le rivolse un piccolo ma sincero sorriso e ricambiò il gesto. “Ciao, Liechtenstein.”

Liechtenstein guardò unultima volta il fratello. Svizzera le indicò un’altra volta la porta lasciata socchiusa e lei annuì, trotterellando fuori con le mani ancora unite sul grembo. Chiuse piano la porta, accompagnando la maniglia, e lasciò il salottino nel silenzio.

Il vento fuori dalla finestra soffiò contro le imposte, fece scricchiolare i vetri e le pareti di legno. Austria guardò fuori dalla finestra. Il ramo di uno dei pini piantati nel giardino sfiorò il vetro facendolo tintinnare. Le erbe stese sul campo si inchinarono al passaggio di uno sbuffo d’aria, rischiarino il prato che si inclinava verso il basso come il versante di una collina. Fiori rosa e bianchi nascevano alla base di un tronco d’albero che era stato tagliato. Ne rimanevano solo le grosse radici che affondavano nel terreno arricciandosi come tentacoli di polipo.

Austria sospirò, poggiando le spalle all’imbottitura del divanetto. Un nodo di malinconia gli strinse il petto.

“Sembra che non siano solo i fiori a essere deperiti,” disse Svizzera.

Austria si voltò verso la sua voce. Svizzera diede un’ultima lucidata al fucile lungo tutto il suo profilo e lo sollevò dalle ginocchia.

“Non farmi perdere altro tempo.” Lo posò a terra, contro il guanciale del divano, in bilico sul calcio. Svizzera piegò le spalle in avanti e incrociò le mani sulle ginocchia. Lo sguardo fermo, di ghiaccio, fissava Austria da dietro il pallido strato di vapore proveniente dalle tazzine, che si era assottigliato. “Cosa volevi dirmi?”

Austria sospirò un’altra volta e trattenne il fiato. Incrociò le braccia al petto. Mento alto, posizione composta. “Probabilmente, dovrò iniziare anche io a prendere attivamente parte al conflitto.” Sollevò una mano e spinse due dita sulla montatura degli occhiali. Socchiuse le palpebre. “Immagino che tu conosca la mia situazione, a grandi linee.”

Svizzera si sporse verso la sua tazzina da tè ancora intoccata. Prese il manico con tre dita e la portò sotto il viso. Guardò il fluido brunastro al profumo di malva con occhi annoiati. “So solo di un trattato che avevate firmato tu e Germania prima ancora che iniziasse tutto.” Agitò il tè con piccoli movimenti rotatori. Minuscoli coriandoli di erbe fluttuavano nel fondo, muovendosi a spirale. Fermò la tazzina. “Pensavo fossi già ufficialmente in guerra.”

Austria scosse il capo. “No, io sono semplicemente una pedina appartenente a uno dei giocatori.” La mano scivolò via dagli occhiali. Austria tornò a intrecciare le braccia al petto e si strinse le spalle. Lo sguardo vacillò, e lui lo spostò sulla parete del salottino. “Una pedina che è rimasta fuori dal tavolo da gioco per troppo tempo e che rischia di essere dimenticata e quindi di scomparire.”

“Scompar...” Svizzera sollevò di colpo lo sguardo. Le dita ebbero uno spasmo, fecero stillare uno zampillo di tè fuori dall’orlo che gli bagnò il dorso della mano. Svizzera restrinse le sopracciglia, gli occhi scorsero sulla figura di Austria da capo a piedi. “Non sarai mica...”

“No, non ancora,” scosse il capo. Austria sbatté piano le palpebre, la luce delle iridi divenne più opaca. “Ma sento che non riuscirò a resistere a lungo in queste condizioni. Dunque, l’unica soluzione per non morire è...” Tornò a stringersi le spalle. “Prendere parte a questa follia.”

Svizzera continuò a guardarlo senza dire nulla. Le spalle gobbe in avanti, verso le ginocchia, e la tazza ancora immobile tra le mani. Il tè aveva smesso di fumare.

“Sono due sole strade,” disse Austria. “Con il poco potere che mi è rimasto in mano, non sono in grado di crearmene altre.” Prese un lungo, profondo sospiro, e sprofondò di peso sullo schienale del divanetto. Parlò con voce flebile e stanca. Rassegnata. “Tutto qui.”

Il vento soffiò un’altra volta. La finestra scricchiolò, il ramo di pino batté tre volte contro il vetro e lo fece stridere. Svizzera lanciò un’occhiata fuori. Le nuvole dietro le Alpi si erano scurite, spessi strati nebbiosi avvolgevano le cime delle catene montuose ghiacciate.

Svizzera esalò un respiro. Si chinò in avanti e rimise la tazzina sul vassoio.

“Perché sei venuto ad avvertire me?” Sprofondò con le spalle nel divano, sollevò le braccia dietro lo schienale e accavallò le gambe. “Sai benissimo che non mi interessano i vostri affari. Fate quello che volete, basta che lasciate in pace me e la mia terra, o non mi farò scrupoli nel difendermi con le unghie e con i denti,” lo sguardo ridivenne tagliente, la voce bassa e feroce, “da chiunque di voi.”

Austria piegò un sopracciglio. Fece tamburellare le dita su un avambraccio, la voce assunse un lieve tono scocciato. “Sì, ce ne siamo accorti tutti, dopo che hai abbattuto quei sette aerei della Luftwaffe che erano passati sopra il tuo territorio.”

Dieci aerei.”

“Dieci.” Austria fece roteare gli occhi e restò a guardare il soffitto. C’era una crepa non fissata nell’angolo a sinistra, sopra il quadretto che ritraeva una baita con il camino fumante immersa nella neve. La finestrella brillava di arancio. “Ancora ai tempi della campagna di Francia, se non ricordo male.” Sotto il quadretto, due fucili a schioppo appesi come trofei di caccia. “Mi chiedo tutt’ora perché Germania te l’abbia fatta passare liscia.”

Svizzera sollevò il mento e spostò lo sguardo altrove. Il petto gonfio e inorgoglito. “Non vi conviene mettervi contro di me. In fondo, quelle belle armi che fanno fuoco tra le vostre mani...” Sollevò le sue mani e le girò lentamente, mostrando i palmi e i dorsi ad Austria. Mosse le dita. “Provengono pur sempre dalle mie.”

Austria gettò l’occhio d’inconscio sul Karabiner appoggiato sul guanciale del divano. Fermo e quieto ai piedi del padrone come un cane ammaestrato.

“Non ho motivo di temere un attacco da parte di Germania, e nemmeno dai vostri nemici.” Svizzera invertì la posizione delle gambe. Lo sguardo acceso e affilato come una lama trafisse l’aria. “La mia posizione non cambierà.”

“Proprio per questo ti sto avvertendo.” Austria snodò le braccia dal petto, si sporse più avanti, sull’orlo del divanetto, e rivolse un palmo al soffitto. Guardò Svizzera dritto nelle pupille. “Tu stai mantenendo un atteggiamento neutrale proprio come me, se non agisci subito e continui a restartene in disparte –”

“Tu non sei come me,” esclamò con voce dura e secca, come lo sparo di un fucile. Svizzera aggrottò la fronte. “La mia posizione è ben diversa dalla tua, lo è sempre stata.”

Austria trattenne il respiro per un secondo, come se un proiettile gli avesse centrato il petto. Rimasero a guardarsi. La voce di Svizzera tornò bassa e severa, accusatoria. La penombra della camera gli scurì il volto.

“Neutrale,” mormorò Svizzera. Spostò lo sguardo di lato e spinse un pugno sulla guancia, poggiando il gomito sullo schienale. “Neutrale è chi sceglie di non combattere assumendosi le proprie responsabilità, mantenendo il coraggio di essere pronto a morire pur di difendere le proprie ideologie in cui crede.” Inspirò e premette il pollice sul petto. “Io sono neutrale. Tu sei solo un parassita. Tu scegli di non combattere per nasconderti dietro alla forza di qualcun altro.” Ruotò gli occhi verso Austria senza muovere il capo. Un sottilissimo sorriso gli stese le labbra. “Ti sei sempre fatto portare sulle spalle degli altri, incapace di proseguire solo con le tue gambe.”

Austria ebbe un piccolo spasmo al sopracciglio destro. “Farmi portare sulle spalle...”

Svizzera sgranò le palpebre sobbalzando sul posto. Gli occhi di Austria seguirono i suoi, tra i due scorsero gli stessi ricordi, e le stesse immagini.

Austria aggrappato alle spalle di Svizzera che lo trasportava tenendo le spalle gobbe, le piccole braccia strette sui suoi fianchi per tenerlo fermo, la sensazione del suo viso appoggiato al suo collo, del fiato tiepido e lento che soffiava vicino al suo orecchio. Le piccole mani di Austria che si stringevano sulle sue spalle, la fronte e il nasino che sfregavano tra il cespuglio di capelli biondi che gli solleticavano le guance.

Svizzera adulto irrigidì come il manico di un fucile. Schiaffò una mano sul viso a nascondere il rossore che gli imporporava le guance, il luccichio degli occhi e i tremori delle labbra.

“Non... non intendevo quello,” esclamò. Sollevò la mano libera e la sventolò verso Austria. “Toglitelo dalla testa!”

Austria distolse gli occhi dalle immagini. I ricordi svanirono, lasciarono solo uno Svizzera adulto rannicchiato contro il guanciale del divano, con le mani aperte a nascondersi il viso scarlatto e i fiotti di fumo che gli uscivano dalle orecchie.

Austria si lasciò scappare un piccolo e sincero sorriso di malinconia.

“Forse...”

Svizzera sbirciò da dietro la mano. Una luce verde si accese tra gli spazi delle dita.

Austria sospirò. “Forse è proprio vero che tu potresti essere l’unico a uscirne tutto intero.”

Il viso di Svizzera tornò a irrigidirsi. Lui lasciò scivolare i palmi dal viso, le guance erano tornate bianche, e tossicchiò per ricomporsi, guardando verso un angolo della stanza.

Un alito di vento ululò fuori dalla finestra. Gli scricchiolii dei vetri e dei muri in legno riempirono il silenzio tra i due. Austria giunse le mani sopra un ginocchio e intrecciò le dita. Mosse piano le unghie, sollevando un lieve ticchettio. Inspirò. Espirò piano. L’espressione nostalgica rimase a velargli lo sguardo.

“Immagino che da ora in poi saremo nemici.”

Il vento si abbassò. La stanza ridivenne silenziosa, le erbe sul campo e i rami di pino immobili fuori dalla finestra.

Svizzera guardò di lato. “Io non ho nemici come non ho alleati.” Tornò ad appoggiare il peso sul gomito, spingendo le nocche sulla guancia. “Ora che mi hai confessato le tue intenzioni, tu diventerai un mio nemico nel momento stesso in cui rimetterai piede qua dentro, da adesso in poi.” Lanciò un’occhiata a terra, verso il guanciale del divanetto. “Prima ho accettato di abbassare il fucile.” Restrinse di poco le palpebre e spostò lo sguardo su Austria. “La prossima volta non sarà così.” Gli occhi brillavano, spietati e accesi. Non era uno sguardo bugiardo.

Austria abbassò le palpebre, ignorando il lieve brivido di paura che si era arrampicato lungo la spina dorsale.

“Naturalmente.” Si rialzò dal divanetto. “Buona fortuna, Svizzera.” Abbassò lo sguardo su di lui e piegò il capo in avanti. “È stato bello rivederti, in un contesto pacifico.”

Svizzera restò a guardarlo per qualche secondo. Gettò di colpo gli occhi di lato e aggrottò la fronte, imbronciando il viso.

“Vai via dalla mia terra prima che ci pensi io a buttarti fuori.”

Uscirono entrambi. I ricordi restarono ingabbiati nel piccolo salotto, abbandonati alle loro spalle.

 

.

 

Liechtenstein sfilò con un gesto delicato le dita dai petali viola delle campanule. Voltò lo sguardo in direzione dei passi che si stavano avvicinando, frusciando tra le erbe alte agitate dal vento. Due figure stavano camminando verso di lei.

Liechtenstein stese un tiepido sorriso. Si rimise in piedi raddrizzando le ginocchia, e fece ricadere la gonna fino ai polpacci. Lisciò il grembiulino bianco e saltellò verso la prima delle due figure.

“Fratellone.”

Svizzera e Austria si fermarono di fianco a uno dei pini scossi dal vento di montagna. Rimasero sotto la sua ombra, si scambiarono una rapida occhiata, e distolsero subito gli sguardi.

Liechtenstein si fermò davanti a Svizzera, raccolse le mani sul grembo, e sollevò gli occhi. Le guance leggermente imporporate.

“È andata bene la riunione?”

Svizzera sobbalzò come avesse singhiozzato. “Quale riunione? Quella non era una riunione.”

Austria emise una risata soffusa.

Svizzera lo squadrò con la coda dell’occhio. Un alito di freddo vento alpino gli mosse le ciocche di capelli sul viso, un ciuffo biondo scompigliato si mosse davanti alle palpebre, gli sfiorò le labbra piatte e rigide. “Austria se ne sta andando, comunque.”

Svizzera sollevò una mano e la posò delicatamente sul capo di Liechtenstein. Le carezzò i capelli, pettinandoli dietro l’orecchio.

“Da brava, saluta.”

Liechtenstein strinse le mani sul grembiulino. Annuì. Fece un piccolo passo in avanti, Svizzera sfilò le dita dai suoi capelli, e lei chinò le spalle.

“Arrivederci, signor Austria. Grazie per la visita.”

Austria le sorrise. “Anche a te, Liechtenstein.” Piegò anche lui le spalle in una piccola riverenza. “Sono stato felice di rivederti.”

Svizzera roteò gli occhi al cielo. Incrociò le braccia al petto e si voltò di fianco, mentre il vento gli scuoteva i capelli sulle guance.

Le labbra di Austria tornarono piatte. L’espressione grigia come il cielo sopra di loro. Gli cercò il viso, anche se Svizzera non lo guardava.

“Addio, Svizzera,” disse. “Spero...” Si voltò anche lui, strinse il colletto della giacca contro la guancia, e mosse il primo passo lungo il prato di erbe che scendeva a valle. Austria socchiuse gli occhi. “Spero sinceramente di rivederti in un contesto migliore, un giorno.”

Svizzera gli lanciò un’ultima occhiata. Le braccia annodate al petto si strinsero, le dita sfregarono contro la stoffa della giacca verde militare che si agitava al vento. Svizzera si strinse le spalle. “Vai via,” mormorò.

Austria lo fece. Si riempì i polmoni di quell’aria nostalgica che profumava di bosco, di neve, di baita di legno, e si incamminò in mezzo alle erbe alte che si inchinavano sotto la carezza del fresco vento alpino.

Si fermò. Rimase immobile, con gli occhi fissi per terra, tra i fiori di timo e trifoglio che ondeggiavano. Una bianca e tozza stella alpina ricoperta di soffice peluria che si apriva a raggio dalla corona gialla di pistilli granulosi sbucava nel prato. Una macchia bianca in mezzo alle sfumature di rosa e di viola.

Austria si voltò all’indietro un’ultima volta.

“Svizzera.”

Svizzera e Liechtenstein guardarono nella sua direzione. Erano entrambi girati di schiena, le mani unite, le dita intrecciate, e i fianchi vicini.

Austria e Svizzera si guardarono negli occhi. Il vento smise di soffiare, le nuvole che si spostavano nel cielo si immobilizzarono dietro i profili delle montagne.

“Sono solo le tue idee che ti spingono a farlo?”

Svizzera storse un sopracciglio. Rimase muto. Liechtenstein sollevò la punta del nasino per cercargli il viso, la sua mano strinse di più contro quella del fratello.

Austria fece un passo verso di loro. “La tua neutralità.” Raddrizzò le spalle. Di nuovo fermo in mezzo al prato. “È solo la tua ideologia che stai cercando di difendere?”

Svizzera restrinse le sopracciglia. La sua presa attorno alla mano di Liechtenstein si fece più forte e calda, mosse le dita avvolgendo le nocche e il dorso, il pollice sfregò sul suo palmo, carezzandole la pelle. Svizzera diede le spalle ad Austria e camminò verso la cima del prato portandosi dietro la sorellina. Il vento tornò a soffiare.

“Non ho nient’altro da dirti.” Sollevò la mano libera. “Addio, Austria,” disse con voce più forte. Richiamò il braccio più vicino a sé e abbassò il tono, facendolo diventare un soffice mormorio, come il lento brontolare delle nuvole sopra di loro. “Vieni, Liechtenstein.” Strinse la mano un paio di volte. “Torniamo a casa.”

Liechtenstein lanciò un ultimo sguardo dietro di sé. Accelerò il passo e si tenne stretta al fianco di Svizzera. “Sì.”

Svizzera guardava in basso. Il vento che soffiava dietro di loro gli agitava i capelli sul viso, le ciocche volavano davanti alle orecchie, si scompigliavano sulle guance e sulla fronte, coprendogli le labbra e le palpebre socchiuse. Teneva il capo leggermente piegato in avanti. La presa della mano era rigida, le dita tremolanti contro quelle di Liechtenstein.  

“Fratellone.”

Svizzera voltò il capo. Scoprì la luce di un occhio che scintillò da dietro i capelli.

Liechtenstein piegò il capo di lato. Sentiva il cuore del fratello battere più forte, pulsando dalla mano alla sua.

“Va... va tutto bene? È capitato qualcosa?”

Svizzera scosse il capo. “No.” La voce più bassa del solito.

Liechtenstein abbassò gli occhi. Sentì una debole fitta al petto, e l’ombra di preoccupazione rimase a riempirle il cuore.

“Tu...”

Liechtenstein sobbalzò all’improvviso richiamo.

Svizzera inspirò una forte soffiata d’aria che gli gonfiò il petto. Le guance si spolverarono di rosso. Gli occhi brillavano della solita luce. “Tu sei felice, vero, Liechtenstein?”

Liechtenstein sbatté le palpebre, confusa in un primo momento. Annuì con decisione, rispondendo con sincerità. “Sì.” Stese le labbra in un piccolo e dolce sorriso. I grandi occhi acquosi si riempirono di luce. “Se tu sei felice, fratellone, allora anche io sono felice.” Strinse la mano più forte che poteva. Sentì nuovamente il cuore del fratello battere contro il suo.

Svizzera annuì. “Bene.” Si fermò proprio in cima al prato. La mano che stringeva quella di Liechtenstein si sfilò lentamente dalle dita, risalì il braccio, e le avvolse le spalle, tenendola vicino al petto. Posò le labbra sulla sua fronte, le passò le dita tra i capelli stando attento a non disfarle il nastrino puntato sopra l’orecchio, e le parlò a fior di pelle. “Allora non c’è nulla di cui preoccuparsi.”

Il vento agitò i capelli e i vestiti di entrambi. 

Svizzera guardò giù dal prato. La figura di Austria voltato di spalle si faceva più piccola e lontana. Una macchiolina scura dentro il verde, il rosa e il viola. Una macchiolina scura davanti al grigio del cielo.

Svizzera strinse Liechtenstein tenendola protetta con il braccio che le passava dietro le spalle.

Loro due, da soli. Com’era sempre stato.


.


N.d.A.

 

“Il Miele sul Bicchiere” si concede una piccola pausa estiva di una settimana per permettermi di organizzare ed elaborare al meglio la parte finale di questo arco narrativo. Appuntamento dunque tra due settimane e grazie a tutti per la comprensione!

 

Buone vacanze e divertitevi. ^_^


   
 
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