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Autore: MegWH    20/07/2015    5 recensioni
In un tempo lontano, al lume tremolante di una candela, un vecchio scrive le sue passate avventure di viaggio nella sconfinata e misteriosa terra d'Oriente. La pergamena che sta utilizzando è sottile, forse troppo, e il pennino è rozzo e scomodo, ma l'inchiostro è perfetto, di ottima qualità, perché i fasti della sua gioventù si tramandino nel tempo.
Genere: Avventura, Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Due piccole note prima di cominciare...
Si tratta della prima storia che pubblico e, anche se qui la troverete divisa in più capitoli per facilitare la lettura online (non so voi, ma a me dopo un po' bruciano gli occhi davanti allo schermo del pc...), è stata concepita come un racconto. Spero davvero che la storia vi piaccia e attendo commenti e feedback per migliorare.

...Buona lettura! 

 

 

Nella mia lunga vita ho visto cose straordinarie, incredibili persino; città magnifiche, splendidi palazzi, vaste praterie e montagne così alte da toccare il cielo. Ho commerciato con i veneziani a Laiazzo, ho venduto ai genovesi i più pregiati tappeti della Turcomannia, un tripudio di sete preziose e fili d’oro di ogni colore, ho trattato per gli emissari papali un passaggio sicuro lungo la Via della Seta, anche se nessuno di loro ha resistito a sufficienza per cantare le mie lodi di viaggiatore in Occidente.
L’Occidente. Quasi nessuno al di fuori dei miei familiari conosce il mio nome, qui. Tutt’al più sono solo un vecchio pazzo con il cervello arrostito dal sole dei deserti dal nome impronunciabile che si estendono a est di Acri e non ho altro da dare, se non delle storie di fantasia. Ma sapeste, invece, come è onorato il mio nome in Oriente! Non c’è contrada, dalla piccola Armenia fino all’India Minore e alle coste del Cauli, che non sappia chi sono e con quali grandi signori ho cavalcato. Dicono che il ricchissimo Califfo di Baldac sia un mio caro amico – e forse bisognerebbe domandarlo a lui di persona, ma è pur vero che Sua Eccellenza mi ha sempre trattato con cortesia e generosità -, che i monaci di San Leonardo presso Ghenuchelan pregano per me ogni giorno, che persino gli Adoratori del Fuoco di Cala Atuperistan mi hanno permesso di toccare il viso di quei grandi signori che la Cristianità conosce come Re Magi.
Forse, alcune di queste cose sono veritiere, o forse no.
Forse è vero che i monaci di San Leonardo pregano, ma perché io non torni più sulle rive del loro grande lago, che chiamano Mare di Ghenuchelan, e non denunci la vera natura del loro miracolo. Ne conoscete la storia?
Ghenuchelan è, per così dire, un mare sterile, non ci sono pesci per tutto l’anno, salvo il periodo di Quaresima. Dal primo giorno dei quaranta fino al Sabato Santo, infatti, il lago si riempie di pesci grossi e saporiti e, siccome il monastero sta su un monte proprio sopra il lago, i monaci hanno gridato al miracolo dal giorno stesso del loro insediamento nella regione. Tuttavia, se li trattate con rispetto e offrite loro qualche striscia di carne essiccata, i non cristiani di Giorgiania vi racconteranno volentieri una storia diversa, nascosti nelle loro case, ben inteso, e di sera, illuminati dalla luce delle lampade accese con l’olio della Fontana della Grande Armenia. Una storia che comincia con l’osservazione di uno degli anziani di famiglia, che può ancora testimoniare che i pesci, a Ghenuchelan, sono sempre apparsi nello stesso periodo dell’anno, e molto prima che i monaci posassero il primo mattone di San Leonardo, e continua in una maniera che i miei cristianissimi lettori non vorranno leggere e che quindi tacerò. A chi possiede l’animo da esploratore ed è curioso di conoscere cosa davvero accade nel lago sotto al monastero di San Leonardo durante la nostra santa Quaresima, altro non resta che prendere la prima nave diretta ad Acri, e da lì proseguire sempre verso est, sul cammino che altri hanno tracciato e percorso lui.

Ho camminato lungo la Via della Seta molte volte, sia verso oriente che verso occidente, con molti compagni e pochi amici. Ho vissuto avventure incredibili, ma nessuna nemmeno lontanamente paragonabile al mio viaggio verso Samarcanda al fianco di Baithu generale del Gran Khan.
Quella calda estate di molti anni fa, il grande signore si trovava nel suo palazzo di Ciandu, una meraviglia di finestre istoriate e muri affrescati come non se ne sono mai visti nel mondo occidentale, e volle ricevermi nel suo immenso giardino. Quando giunsi in sua presenza, il Gran Khan stava nutrendo il suo falcone preferito, uno splendido animale capace di afferrare ogni preda che incontrava sul suo cammino. I Tartari sono degli abilissimi cacciatori e più di tutto amano la caccia con il falcone; in molti luoghi dell’Impero si allevano una grande quantità di uccelli atti a questo divertimento – falchi, falconi, grifoni, persino girifalchi -, e lo stesso Gran Khan possiede moltissimi esemplari da caccia, essendo egli solito trascorrere con questo passatempo i mesi primaverili.
Come dicevo, il Gran Khan era seduto su uno splendido trono di pietra intagliata, sopra una piattaforma a pochi passi dalla riva di uno squisito laghetto che i suoi giardinieri avevano costruito per lui, intento a nutrire il suo uccello da caccia con striscioline di carne cruda. La bestia, senza cappuccio, posava i suoi possenti artigli sul bracciolo del trono e attendeva pazientemente che il sovrano le porgesse il cibo. Poco distante, sulla riva del lago, la prima e amatissima moglie del Gran Khan osservava i pesci colorati che si rincorrevano tra le ninfee e il loto del laghetto, con gli occhi socchiusi. Anche io mi ero perso in quel meraviglioso spettacolo di colori e trasparenze; poco prima, attraversando il rosso ponticello di legno che mi avrebbe condotto alla presenza del più potente e ricco dei sovrani, mi ero fermato proprio nel mezzo e mi ero sporto verso le acque cristalline, con l’attenzione puntata su un gruppetto di pesciolini gialli, con la coda e le pinne tanto leggere e delicate da sembrare piccoli drappi di seta. Poi, la guardia che mi aveva condotto fin lì si era spazientita e mi aveva spinto in avanti in modo piuttosto brusco, ponendo fine ai miei sogni ad occhi aperti.
Mi inchinai di fronte al Gran Khan e rivolsi i miei omaggi all’imperatrice, che, come spesso accadeva, non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Il suo regale consorte, invece, parve rallegrarsi nel vedermi, consegnò il falcone al suo falconiere e mi si rivolse direttamente, pronunciando il mio nome storpiato come solo i Tartari riescono a fare.
“Desidero inviare un’ambascia al mio fratello di sangue che regna sulla provincia di Jarcan. È molto che non lo vedo e voglio sincerarmi della sua salute.”
“È molto generoso da parte vostra, mio signore.” Risposi io, ma con cautela, perché per quanto il Gran Khan sapesse essere estremamente generoso, non ci si poteva ingannare sul fatto che fosse anche molto furbo.
“Il generale Baithu guiderà la spedizione.”
“È una magnifica idea, Gran Khan.”
Baithu era uno dei migliori guerrieri di tutto l’esercito, un uomo di corporatura formidabile anche per la media dei soldati Tartari, che sono molto possenti; si era guadagnato il ruolo di generale per aver tenuto il campo di battaglia con poche centinaia di uomini a fronte di un nemico sei volte superiore e uscendone vittorioso e privo di ferite. I suoi uomini dicevano che era un favorito del Grande Cielo Blu – il più potente tra i loro dei -, la madre, concubina del Gran Khan, che aveva preso tutto lo spirito battagliero del padre. Io lo conoscevo abbastanza bene ed ero lieto di poterlo chiamare amico.
In ogni caso, il fatto che il Gran Khan inviasse uno dei suoi figli, certo, ma anche il più valente tra i suoi generali per far visita al fratello lasciava intendere che le sue intenzioni differivano in parte da ciò che aveva scelto di confidarmi.
“Essendo il fratello di sangue Ciagatai cristiano, tu farai parte della spedizione, converserai con lui e gli porterai un dono da parte mia.”
Mi inchinai profondamente davanti al sovrano ed espressi la mia gratitudine per l’incarico affidatomi nei più alti termini possibili. Il dono che mi si affidava, come scoprii più tardi, era una preziosissima copia dei Santi Vangeli, con miniature dettagliatissime e la copertina di argento e oro massiccio, sapientemente lavorata. Il valore del codice, comprensivo di un pesante scrigno di palissandro che lo racchiudeva, era inestimabile.
“Cavalcherai al fianco del generale” aggiunse il Gran Khan, interrompendo i ringraziamenti in cui ancora mi stavo profondendo “converserai con il mio fratello di sangue fin quando egli vorrà e gli illustrerai al meglio delle possibilità il mio dono. Poi, farai ritorno qui e mi racconterai ogni cosa che hai visto e udito.”
“Sì, Gran Khan.”
Non era una richiesta insolita per me. Era già capitato che il gran signore mi mandasse in giro per il suo regno con mercanti, funzionari e guerrieri perché io gli raccontassi ciò che vedevo, spesso per la prima volta. Ho sempre amato raccontare storie ed ebbi la fortuna di incontrare un sovrano che apprezzasse i racconti quanto chi li pronunciava. Inoltre, grande com’era il suo regno, era impossibile per il Gran Khan percorrerlo tutto, soprattutto quando la gotta lo tormentava, ma egli amava sentire parlare delle sue genti e tenersi informato su tutte le province dell’Impero.
Per nulla impensierito dalla richiesta, quindi, mi inchinai profondamente dinnanzi al sovrano e mi preparai a lasciare la sua presenza, quando la sua voce mi fermò.
“C’è un’ultima cosa.”
“Mio Khan?” domandai, perplesso. Cos’altro poteva volere la massima autorità dell’Impero Tartaro da un umile mercante come il sottoscritto, che viveva negli agi e nelle comodità solo grazie alla sua munificenza? 
“Tra i monti del Pamier, dove le nevi non si sciolgono mai, è stata trovata una pietra di rara bellezza, sacra alle divinità del luogo. Il Pamier appartiene a me, come tutto quello che si trova in esso, e perciò il generale Baithu ha l’ordine di chiedere al fratello Ciagatai la restituzione della reliquia. Essendo egli un cristiano e affidandogli la custodia di un oggetto sacro alla sua religione, non dovrebbe avere remore nel cedermi ciò che gli chiedo. Che cosa ne pensi?”
“Khan Ciagatai è un signore fedele al Gran Khan, non vedo motivo per cui dovrebbe negarvi alcunché, Vostra Maestà.” Cominciai io, badando a parlare con molto tatto, per non adirare il sovrano “Tuttavia, se la pietra che ricercate si trova in possesso di Ciagatai ed egli non ve l’ha ancora inviata, potrebbe esistere una fondata ragione per le sue azioni.”
L’avidità, pensai, era una fondata ragione per chiunque, e la smania di potere ancora di più. Se la reliquia era preziosa e importante come il Gran Khan lasciava intendere, infatti, chi la possedeva acquisiva indubbiamente un enorme prestigio.
Il Gran Khan sbuffò alle mie parole.
“Scoprirai le ragioni di questo rifiuto, se di rifiuto si tratta, e tornerai da me con la pietra.”
“Con la pietra, mio signore?”
“A qualunque costo.” Sentenziò il sovrano, congedandomi con un gesto della mano.

 

Il mattino seguente, il mio stato d’animo era ben diverso dall’eccitazione che mi pervadeva quando partivo per una di queste missioni e anche Baithu, che aveva molte qualità apprezzate dai Tartari, ma di certo non brillava per sensibilità e intelligenza, se ne accorse.
“Si direbbe che c’è qualcosa che ti preoccupa, fratellino.”
La concezione di famiglia dei Tartari è molto dissimile da quella dei paesi civilizzati come il nostro, un uomo o una donna possono considerarsi parte effettiva di un nucleo familiare pur non condividendo nemmeno una goccia di sangue con il capo famiglia. Funziona così anche nella famiglia del Gran Khan, in cui si contano parecchi innesti, anche non appartenenti alla razza tartara, che coprono anche cariche governative di un certo rilievo. Al mio arrivo a corte, il gran sovrano mi aveva preso in simpatia – sospetto che il mio talento nell’inventare racconti abbia giocato una grande parte in ciò -, e mi aveva dichiarato caro come un figlio, una carica, se così la possiamo definire, che non mi concedeva privilegi particolari, ma garantiva pur sempre la mia incolumità. Baithu non mi aveva mai degnato di particolare attenzione, fino a quando gli avevo prestato aiuto in uno stupido affare con alcuni mercanti cinesi, in cui stava avendo la peggio, perdendo grosse somme di denaro che tecnicamente non possedeva. Da quel momento in poi, il generale mi aveva preso sotto la sua grande ala protettiva, e mi chiamava fratellino, come avete letto per sottolineare la mia corporatura esile in confronto alla sua.
“Cosa potrebbe preoccuparmi nell’incarico che il Gran Khan mi ha affidato?” risposi io, suonando, lo ammetto, molto più teso di quanto volessi.
“Non hai di che preoccuparti, sarò io a domandare la restituzione della pietra.” Mi disse il generale, dimostrando, come già pensavo, di conoscere a fondo i piani del Gran Khan. “Il tuo compito è solo quello di allietare le orecchie di Ciagatai con qualcuna delle tue storie cristiane.”
“E di tornare con la pietra, a qualsiasi costo.” Aggiunsi io.
Il nostro gruppo di spedizione aveva da poco varcato le porte del grande palazzo del Gran Khan, con il generale in testa e io che gli cavalcavo affianco, rimanendo rispettosamente indietro di tutta la testa del suo cavallo, lungo le vie fangose della città di Ciandu.
“Ciagatai darà al Gran Khan ciò che gli chiede” tagliò corto Baithu, pieno di ottimismo “Perché non dovrebbe?”
Io avevo in mente molte ragioni per cui l’ambizioso signore di Jarcan potesse rifiutarsi di consegnare al fratello una pietra dal valore inestimabile, ma non ne pronunciai nemmeno una, mentre il mio buon destriero tartaro varcava i limiti ella città e, finalmente, l’eccitazione per la nuova avventura prendeva possesso del mio giovane spirito.

   
 
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