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Autore: LammermoorLace    22/07/2015    2 recensioni
[Carmen (Bizet)]
Operafic in quattro atti.
La storia vede i personaggi de I Miserabili catapultati nello sfondo spagnolo di Carmen, e legati l'un l'altro da una vicenda simile a quella dell'opera, articolata in quattro atti.
Per leggere ed amare questa storia non è necessario conoscere sia I Mserabili che Carmen, anzi.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ATTO PRIMO
 
 
 
Da una chiesetta non lontana dalla piazza, nella quale regnava un incessante viavai di persone, veicoli e animali come tutti i martedì di mercato, sopraggiunsero undici lenti rintocchi, quasi soffocati nell’afoso clamore della ressa.
Le undici.
Mancava solo mezz’ora… Combeferre sospirò, passandosi una mano sulla fronte coperta di sudore a causa della calura; il sole era quasi a picco sull’intrepida città di Siviglia.
Quelle giornate di servizio ufficiale erano oltremodo massacranti.
Combeferre aveva appoggiato l’elmetto e la spada al muro dell’edificio accanto alla fabbrica, ma l’uniforme di tessuto spesso lo copriva dal collo ai polpacci, con le maniche lunghe fino ai polsi, e poco valeva che fosse di colori chiari come il giallo e l’azzurro: starci dentro era comunque un vero inferno. Ma fra mezz’ora avrebbero smontato la guardia, e un’altra compagnia di Dragoni sarebbe venuta a prendere il posto della sua.
Combeferre si guardò attorno, dando un’occhiata ai suoi soldati, che sembravano accaldati e stanchi quanto lui. La consegna era di pattugliare la piazza perché non accadessero furti o risse, ma Combeferre non aveva il cuore di biasimarli per il fatto che preferissero starsene nelle chiazze d’ombra invece di esporsi ai raggi feroci del sole.
 
Esaminando con rapide occhiate ciò che accadeva fra le bancarelle, Combeferre incontrò lo sguardo di una fanciulla vestita d’azzurro che guardava verso i Dragoni con aria circospetta, come se non sapesse decidere se avvicinarsi o meno. Vedendo il brigadiere guardarla a sua volta, la ragazza deviò lo sguardo nervosa, girando la testa di lato. Poi, però, sembrò improvvisamente prendere una certa risolutezza, e con la testa dritta e lo sguardo fermo si avvicinò a passi incerti al gruppo di soldati.
 
“Avete bisogno di qualcosa, señorita?”
Chiese il brigadiere, con un tono rassicurante e professionale.
Azelma fece un sorriso studiato per sembrare leggermente in imbarazzo, poi assunse il suo miglior tono da signorina per bene, dicendo: -Sì, ecco… cerco qualcuno, veramente.
Sul viso di Combeferre si dipinse un educato interesse.
“Un Dragone?”
Lei annuì, “Sì, ecco… un brigadiere, in vero.”
Bah. “In vero”… Quel vocabolario da ragazza ricca non le calzava per niente, pensò Azelma.
In vero, non riusciva a capire come chi usava certi vocaboli potesse essere preso sul serio. Sperò di risultare convincente comunque; ne andava della copertura.
 
La ragazza sbirciò intorno per vedere se magari lui si trovasse fra i soldati alle spalle del brigadiere, ma se c’era non riuscì a scorgerlo.
Riportò immediatamente la sua attenzione su Combeferre, che le stava dicendo :
“Sono il brigadiere di questo squadrone, señorita, Brigadier Combeferre, se vi piace “
Accompagnò la presentazione con un cenno con il capo, che Azelma indovinò essere un inchino.
“Oh…” Azelma si morse il labbro. I gradi, certo. Come aveva potuto non notarli? La medaglietta era appuntata in bella vista sulla casacca dell’uomo. Quasi splendeva
“Allora devo essermi sbagliata, io…” Arrossì per davvero, ma forse era solo il caldo.
“Potete dirmi il suo nome? Potrei conoscerlo, e indicarvi dove trovarlo” Lui non mollava. Azelma si chiese se ciò rientrasse nel suo ambito professionale. Ma alla fine, che male poteva fare?
“Ah, sì chiama… Josè. Don Josè, sì. Brigadiere. “
“Don Josè! Certo che lo conosco…”
“E sapete dirmi dove si trova?”
“Al momento no, señorita, ma credo che il suo squadrone verrà a dar cambio al nostro fra meno di venti minuti, se attendete. Siete la sua…?”
“Fidanzata” Azelma rispose, troppo veloce.
Lui le sorrise, nient’affatto contento. Azelma fece lo stesso.
 
Ci fu un breve silenzio, poi Azelma drizzò le spalle e fece per congedarsi.
“Ehm, io…”
“Il vostro nome, señorita?”
Azelma fu tentata di non rispondere, ma non era quello che una vera senorita avrebbe fatto. Prima di girarsi per andarsene, quindi, regalò al brigadiere un ultimo, educato sorriso, dicendo: “ …Micaela”
Non sapendo cosa aggiungere per terminare la conversazione, si voltò e camminò via a passi troppo veloci, senza guardare indietro. Si immaginò il brigadiere scrollare la testa e voltarsi, deluso della conquista mancata.
 
 
Dopo il cambio di guardia, venti minuti dopo, Montparnasse schierò i suoi Dragoni in punti diversi della piazza. Li dispose in formazioni di quattro o cinque, sparsi lungo il perimetro della piazza, in modo di avere il controllo della situazione senza doversi occupare personalmente di ogni furtarello o incidente che prima o poi, come di consueto, sarebbe inevitabilmente accaduto. Si compiacque della sua efficienza con un ghigno; come brigadiere, in fondo, non era niente male. Come falso sbirro, era bravo… così bravo da meritarsi la nomina a brigadiere in meno di un mese dalla quella di Dragone.
Certo, con tutte le probabilità in quello c’era lo zampino di Thenard, ma che importava?
 
La diligenza di Montparnasse, in questo preciso caso, era comunque ben distante dalla sua serietà lavorativa, e maggiormente dovuta al fatto che aveva adocchiato il Tenente Javert seduto fuori dall’osteria, con un bicchiere in mano e la sua solita aria inquisitrice… non c’era da scherzare, quindi.
Dicevano che ci fosse lui, dietro agli affari interni del Corpo di Guardia, con il controllo, anche se non ufficiale, su tutto.
Parnasse sporse la testa verso l’osteria, cercando di vedere se Javert fosse ancora seduto là, ma la folla gli impediva la completa visuale.
Proprio mentre considerava di cominciare un giro d’ispezione per accertarsi della presenza del Tenente, una voce graffiata, dal timbro profondo e severo lo raggiunse alle spalle.
 “Brigadiere!”
 
Girandosi, Montparnasse trovò Javert a pochi passi di distanza da lui. Sorpresa.
Montparnasse si pentì del sobbalzo involontario provocato da quella voce. Era colpa dell’istinto; quel tono gli portava alla mente memorie di crepuscoli furtivi, passi silenziosi, agguati e rapine andate male. Non che se lo fosse mai trovato faccia a faccia, no. Ma un’ape conosce l’odore del fuoco, anche se non si è mai trovata a fronteggiarlo.
Diede una rapida occhiata all’uomo al quale apparteneva la voce.
Il Tenente era di qualche centimetro più alto di lui, il collo e le spalle muscolosi, e il fisico possente vestito di una semplice camicia di cotone grezzo e un paio di brache da paesano color castagna. La barba era corta e brizzolata, e i basettoni sottili ai lati del viso erano striati di bianco. Gli zigomi alti, gli occhi ombrosi e i segni delle cicatrici indurivano l’aspetto di quello che sarebbe sembrato un comune uomo sui quarantacinque, se non fosse stato per gli occhi; le iridi erano color giada, inquisitorie e piene di costante sospetto e di fredda determinazione.
 
Affrettandosi verso il Tenente, Montparnasse richiamò alla mente i tratti del suo personaggio e le sue abilità da attore. Imprecò dentro di sé, ma accettò la sfida che gli si poneva davanti.
Se davvero Javert era di natura sospettosa come lo descrivevano, se davvero era l’uomo più pericoloso per la sua missione, l’ostacolo più intimidatorio.... allora non c’era che da superarlo.
Lui era Montparnasse, dopotutto. Sapeva cavarsela.
Questo era l’ultimo baluardo per testare la sua copertura. Il test finale, da cui non si torna indietro.
- Ha bisogno di me, señor?- chiese.
 Meglio non dare segni di riconoscerlo; era più probabile che a riconoscere il Tenente in borghese fosse uno della cosca di Thenard, che un novello brigadiere.
 
“Il suo nome, Brigadiere?”
Montparnasse, ladro e spia, al suo servizio.
“Don Josè, señor” Calandosi nella parte, Montparnasse fece un inchino accennato e raddrizzò le spalle, come un perfetto soldato sicuro di sé e dei suoi gradi. Si sentì vagamente ridicolo.
Javert non battè occhio e si presentò a sua volta; Tenente Javert, in veste non ufficiale, s’intende. Montparnasse diede un lieve segno di sorpresa dovuto alla parte.
Cercò tuttavia di limitare i convenevoli, e mantenere il personaggio. In quel momento lui era Josè, non ‘Parnasse. Annuì, mostrandosi pronto a qualsiasi domanda da parte di Javert.
 
“C’è qualcosa che devo… fare? … Per lei, intendo” chiese incerto Montparnasse.
Javert lo stava studiando con lo sguardo.
Negli occhi freddi del Tenente passò un guizzo. Quando prese a parlare, usò un tono voluto di circostanza, come se stesse facendo una pigra chiaccherata.
“Ditemi, Brigadier Josè…”
“Sì?” Il tono rilassato del tenente mise all’erta Montparnasse. Si sarebbe aspettato tutto, tranne la domanda che seguì.
“ … Siete fidanzato?”
 
L’espressione di Montparnasse lasciò trapelare genuina sorpresa. Perché mai il Tenente si sarebbe interessato ad affari personali come quello?
Eppure Don Josè gli doveva una risposta. Per fortuna Montparnasse aveva memorizzato il copione.
“…Sì, Tenente.” Cercò di andarci cauto.
Javert sembrava allo stesso tempo compiaciuto e insoddisfatto (ovviamente non ad un primo sguardo; un primo sguardo lo avrebbe definito impassibile, come sempre… ma Parnasse seppe scorgervi qualcosa, e riconobbe appunto compiacimento e insoddisfazione).
-Ah, e come… si chiama, lei? – continuò il Tenente.
Montparnasse si sforzò di ricordare la copertura di Azelma, nel ruolo della fidanzata di Josè. Una copertura più che credibile, considerato che la realtà non andava molto più in là della frasa. Ma qual’era il nome…? Ah.
“Micaela”
L’aveva scelto Azelma. Era stata l’unica cosa concessale dal padre riguardo il suo ruolo nel piano; per il resto, lei era una pedina, esattamente come lui.
“Ditemi, è forse di statura minuta, bruna, con lunghe trecce ai lati del viso?”
Come?
Cosa sapeva Javert? L’aveva vista? Li aveva scoperti? Il cuore di ‘Parnasse mancò un battito per la sorpresa. I sensi all’erta, Montparnasse rispose cauto:
 “Sì, lo è…”
Javert sorrise. Non un sorriso allegro, più che altro stirò le labbra, annuendo.
“E veste di azzurro?”
Javert doveva averla vista. O incontrata. O peggio.
I sensi all’erta, Montparnasse sorrise, come se non lo sapesse.
“Può darsi, Tenente.”
 
“Come la conoscete?” rilanciò, noncurante all’apparenza.
“E’ venuta a chiedere di voi, stamattina.”
“E’ venuta da voi?”
No, non poteva essere… non era da Azelma essere così stupida.
“No, ha chiesto di voi al Brigadier Combeferre”
Ah. E Combeferre lo era andato a dire a lui? Al Tenente Javert?
A che gioco si stava giocando?
Javert stava di fronte a lui, ma con il busto leggermente rotato e lo sguardo altrove, come se stessero facendo una chiaccherata di poca importanza. E in effetti, in apparenza, la situazione era quella…
Ma no, Montparnasse se la sentiva nel petto, una sensazione di disagio crescente. Javert aveva indagato su di lui. Il suo personaggio era a rischio, e Thenard doveva saperlo. Ma dove si era cacciata Azelma?
 
In quel momento suonò il mezzogiorno. Le porte della manifattura di sigari furono spalancate lentamente, e subito dopo una lunga fila di ragazze e donne vestite di bianco cominciò a dipanarsi dall’entrata.
Javert spostò lo sguardo su di esse, e così fece Montparnasse.
Nessuno dei due sembrava intenzionato a continuare la “chiaccherata”.
“Brigadiere, c’è Alvarez che vi chiede…” cominciò un dragone accaldato che era sopraggiunto alle spalle di Montparnasse, di fretta.
Il ‘brigadiere’ ne fu sorpreso, ma gli fece segno che sarebbe venuto dai suoi uomini.
La tensione era rotta. Javert sembrò capirlo:
“Beh, brigadier Josè, sembra che riprenderemo la nostra conversazione un’altra volta”
Montparnasse rispose “Sarà un piacere”.
Quindi il tenente in borghese si girò e in poco tempo si dileguò fra la folla, forse diretto alla sua osteria, o alla Caserma.
 
Montparnasse aggrottò la fronte e fece per andare a sentire cosa voleva quel benedetto di Alvarez. Si guardò intorno, in cerca dei suoi Dragoni, e non fu sorpreso di vederli tutti intenti a occhieggiare alle belle sigaraie.
Decise di lasciarli fare; che gliene fregava, ora come ora? Aveva cose ben più importanti a cui badare.
Scrollò le spalle e si voltò, disinteressato, cercando Azelma con lo sguardo nella piazza assolata. C’erano serie minacce di cui una certa persona doveva venire a sapere.
 
 
 
Uscivano le sigaraie; fumavano, chiacchieravano e lanciavano occhiatine maliziose ai giovanotti assemblati lì intorno, che le guardavano passare. Fra i giovani uomini spettatori di quella sfilata c’erano anche non pochi Dragoni, che conciliavano senza problemi il lavoro con il piacere, spiando le signorine. Volentieri le più ardite si fermavano a parlare con loro, forse a causa dell’osannato “fascino dell’uniforme”, cosa che gli uomini sfruttavano a loro vantaggio.
 
Eponine era tra le ultime, e uscì chiacchierando con altre due ragazze, l’una una biondina con grandi occhi celeste e la lingua sciolta, l’altra una mora con i lunghi capelli alzati in una crocchia elaborata. “Carmen”, le stava dicendo la prima, “Hai più incontrato quel soldato che ti faceva la corte, come si chiamava…”
“Amaury” intervenne l’altra, e la bionda, Cosette, annui, con un piccolo sorriso eccitato.
“Sì, sì, Amaury! … allora? Ti piaceva?”
Eponine sospirò dentro di sé, ma davanti all’entusiasmo un po’ infantile di Cosette decise di lasciarla credere quello che voleva. “Beh… era carino” disse, con noncuranza.
Carino? Era bellissimo! Se fossi stata in te, io…”
“Lo sappiamo, lo sappiamo Cosette… “ intervenne  Mercedes, la ragazza castana, che evidentemente aveva sentito quella frase già troppe volte.
“E allora, Mercedes? Vuoi dirmi che tu non avresti…”
“No, e lo sai “
“Uuuh” Cosette alzò le sopraccigli, e ridacchiò “ti vedi ancora con Lucero? Lucero Rojas?
“Sì”
“Io non penso che sia vero amore” sentenziò Cosette, ma l’amica scartò la sua opinione scuotendo la testa.
“Non ho mai detto” disse lei “che io penso che lo sia”
“Ma allora…” iniziò la bionda, ma fu interrotta dal sonoro fischio di un giovanotto in brache di tela che balzò loro davanti con un gran sorriso sul volto.
Le tre non fecero in tempo a dire una parola che lui iniziò: “Carmen, Carmen, vi amo alla pazzia! …” Eponine scambiò un’occhiata di disagio con le altre due, ma quello non sembrava volersi fermare. Cominciò a sproloquiare di angeli tentatori, e profumi soavi e amanti scelti dal destino, mentre Eponine lo fissava con una punta di sgomento e Cosette e Mercedes avevano iniziato a ridere. Il giovane sconosciuto, perché Eponine avrebbe potuto giurare di non aver mai visto quel mentecatto in vita sua, non sembrava imbarazzato dalla folla che poteva benissimo sentire ogni parola che diceva, dato il volume della sua poetica arringa amorosa.
“E vi prego in ginocchio, mia Carmen adorata, di concedermi l’accesso alle porte più segrete del vostro cu…” ma non potè finire, perché un altro ragazzotto, apparso dal nulla, prese il suo posto spingendolo di lato, e a sua volta cominciò ad osannare la bellezza e tutte quelle altre virtù uniche che Carmen sembrava avere in bocca a quegli adulatori. Eponine lo riconobbe; era Joaquin, detto Quin, un amico di Amaury con cui non aveva mai scambiato più di quattro parole in croce. Mentre parlava si capiva che le parole non erano sue, e che non intendeva quello che diceva; di questo la ragazza fu sollevata. Ma poi alle sue spalle giunse anche Pueblo, un altro amico di Amaury e, meno di due secondi dopo, lo stesso Amaury le si presentò davanti. La cosa incredibile (e alquanto imbarazzante) era che tutti e quattro i giovani la circondavano, blaterando parole su parole che Eponine aveva smesso di ascoltare, chi in ginocchio, chi con le braccia spalancate, e con aria adorante declamavano i fatti loro come se non ci fosse nessuno ad ascoltarli. Ma il pubblico c’era, eccome. Cosette e Mercedes si erano tirate da una parte, e ridevano a non finire, anche se segretamente imbarazzate e sconcertate quanto Carmen. Altre sigaraie si erano fermate ai limiti della scena, sconcerto dipinto sui loro volti, e più di un giovanotto assisteva divertito. Dalla piccola folla si udirono addirittura un paio di incoraggiamenti per i quattro giovani uomini che continuavano la farsa attorno ad Eponine.
Seccata, Eponine pensò ad un modo per uscire dalla situazione. Cercò di uscire dal cerchio, ma i ragazzi assecondarono il suo spostamento, rimanendo comunque in formazione compatta attorno a lei. “Ho speso notti insonni pensando ai nostri corpi che si intrecciano nella frenesia dell’amore, e…” stava declamando a quel punto Pueblo, troppo vicino e abbastanza forte da rischiare di assordarla. Bleah.
Eponine si voltò allora verso le due amiche in cerca di supporto, ma le bastò una sola occhiata per capire che non sarebbero venute in suo aiuto. Fossero state al posto suo, le due avrebbero trovato la situazione divertente, e si aspettavano che si stesse divertendo anche lei. Certo.
Sospirando, Eponine si arrese all’ultima alternativa; stare al gioco.
 
Sorrise.
Un sorriso falso, senza dubbio, falso come le dediche d’amore di quegli idioti.
Per primo si avvicinò a Quin, che era in piedi di fronte a lei. Percorse la breve distanza che li separava velocemente, poi, a meno di mezzo metro da lui, alzò un sopracciglio in maniera “sensuale” e si morse il labbro. Gli altri allora tacquero, e fu subito chiaro che Carmen aveva rubato la scena quando Eponine cominciò a parlare, scimmiottando nel tono i loro discorsi di prima. Era la beffa in risposta alla beffa.
-Mis queridos niños, l’amore… beh, l’amore è ribelle. E’ selvaggio, indomabile, libero come una rondine… - Eponine non poteva credere a ciò che stava facendo.
Tutti stavano in silenzio, attenti, ma era sicura che Cosette e Mercedes, nel loro angolo, stessero sorridendo sotto i baffi. Sospirò, con una certa teatralità. Si accorse che Amaury le aveva strizzato l’occhio, ma lei lo ignorò e riportò l’attenzione al giovine biondiccio che si trovava davanti.
Alzò una mano e, come un’attrice nel ruolo della femme fatale, tracciò uno svolazzo leggero sullo zigomo di Quin, guardandolo negli occhi. Il ragazzo sembrava eccitato e a disagio al tempo stesso. Lei gli sorrise, accattivante. Lui le rispose, incerto.
Un secondo, e poi Carmen si esibì in una piccola giravolta e, voltando le spalle al, si trovò di fronte a Pueblo. Quest’ultimo sembrava aver capito il gioco, e non sembrò affatto spaesato come l’altro quando Eponine si avvicinò a lui.
Dalla folla partì un’incoraggiamento gridato in dialetto, così volgare che Eponine avrebbe voluto girarsi e picchiare chi l’aveva urlato. Ma decise di lasciar correre, e riprese il suo dicorso: “L’amore… è figlio di zingara, e non conosce alcuna legge…”
Chiedendosi dove l’avrebbe portata tutto questo, Eponine si sporse verso il giovane uomo come per dargli un bacio, ma all’ultimo frappose la propria mano fra lei e il viso del giovane, e con un rapido movimento diede uno schiaffetto teatrale a Pueblo. Quindi voltò le spalle anche a lui, come aveva fatto prima con Quin.
Le si presentò davanti Amaury, con la stessa espressione che aveva avuto Pueblo, solo meno sfacciata perché temeva a sua volta uno schiaffo, anche se teatrale e assolutamente indolore.
Uomini, pensò Eponine con un filo di disprezzo. L’orgoglio prima di tutto.
Eponine rifilò ad Amaury un’occhiata della serie fai bene ad avere paura e, con un gesto solenne, lo spinse da parte (cosa che riuscì soltanto perché lui non se l’aspettava; Amaury era un tizio abbastanza piazzato, spalle larghe e gambe salde) e così uscì dal cerchio.
Un piccolo applauso sorse dall’angolo di Cosette e Mercedes, ed Eponine sorrise. Ma non era finita.
Portandosi un dito alla bocca per far capire le sue intenzioni, cercò fra la folla qualcuno di estraneo alla vicenda adatto ai suoi scopi. Quasi tutti avevano lo sguardo fisso su di lei, notò Eponine, tranne una persona. Si trattava di un dragone; era girato di spalle ed evidentemente molto immerso nei suoi pensieri, o molto disinteressato in quello che stava accadendo. Tanto meglio.
Eponine saltellò fino a lui, declamando soave: “Niente può conquistarlo, ne’ minaccia ne’ preghiera. Infatti, fra un uomo che mi loda e uno che tace, colui che tace io sceglierei…”
Era incredibile che il dragone non si fosse ancora voltato. Eponine arrivò ad un passo da lui, allungò la mano, poi si fermò, e continuò il discorso, indirizzata alla folla, ma con un tono di voce meno teatrale, più vicino al parlare normalmente: “Non amarmi, e t’amerò…”
Le dita di Eponine quasi sfioravano la spalla del soldato.
Abbassò ulteriormente la voce: “Ma se Carmen ti ama…”
Lo toccò, e quello si volse di scatto, come svegliatosi da una riflessione. Fu un movimento rapido, improvviso.
La folla esplose in riso, ed Eponine terminò, stavolta con voce forte e limpida: “… Dio tremi per te!” Rise anche lei, trascinata dagli spettatori.
Poi il dragone, che si era portato una mano al volto come per stropicciarsi gli occhi, la levò e i due si guardarono.
Eponine si bloccò.
Era ‘Parnasse.
 
Eponine.
Montparnasse non ci poteva credere. Era davvero lei, la stessa ragazza che fino ad un anno prima era stata la sua, diciamo, “complice” e amica, la stessa giovane donna troppo magra, con le ossa sporgenti e l’anima malata quanto la sua? La stessa Eponine?
Ma nonostante continuasse a chiederselo, Parnasse non aveva dubbi. Erano cresciuti insieme, lei come figlia maggiore dei peggiori genitori che Montparnasse potesse immaginare, e lui come il ragazzo che andava e veniva per conto di Thenard, già coinvolto negli affari dei Patron Minette all’età di nove o dieci anni.
Si erano nascosti insieme dalle guardie nelle strade buie, di notte, e avevano corso nel fragore della piazza affollata, rubando spiccioli e frutta che poi dividevano fra loro. Una volta Eponine aveva tagliato i capelli all’amico, lasciandolo solo con una zazzera irregolare di ciuffi nerissimi; un’altra volta ‘Parnasse l’aveva baciata mentre dormiva, raggomitolata nel suo letto di paglia e stracci, e aveva trovato le sue labbra fredde come l’inverno di chi soffre la miseria. Da adolescenti, le cose erano cambiate. Montparnasse aveva iniziato a guardarla con occhi diversi, in maniera più fisica e meno idealizzata. Non era bella, no; non era pulita, sana e sorridente come le figlie dei ricchi borghesi che passeggiavano davanti alla chiesa al braccio di gentiluomini ben vestiti, no… Ma era una donna, selvaggia, fiera e, a suo modo, sensuale. I lunghi capelli scuri, gli occhi vivi e gli zigomi alti; la sua figura snella, il suo passo leggero e la sua risata sarcastica… tutto ciò la rendeva desiderabile agli occhi di lui, che perdonavano lo sporco e i rari sorrisi di lei nel nome dell’affetto col quale erano legati.
Ma non era stato tutto rose e fiori, oh no; piuttosto il contrario. Thenard la picchiava un giorno ogni tre, quando tornava ubriaco dall’osteria; e se solo Montparnasse osava dire qualcosa in merito, picchiava anche lui, e non con meno crudeltà di quanto facesse con la figlia. Più volte il ragazzo aveva desiderato di scappare, ma poi non l’aveva fatto. Un po’ perché sapeva che difficilmente avrebbe trovato una vita migliore sulla strada, un po’ anche perché non gli piaceva l’idea di lasciar sola Eponine, nonostante gli trovasse difficile ammetterlo a se stesso.
A ‘Parnasse non era mai piaciuto dipendere dalle persone, ma si era ritrovato suo malgrado a doverlo fare, fin dalla morte di sua madre; si era dovuto affidare a Thenard in primis, per sopravvivere e avere di che mangiare, e in seguito anche ad Eponine, per ritagliarsi un po’ di vita normale nella sua esistenza nei bassifondi, per recuperare dall’amica quanto più possibile dell’affetto che dal resto del mondo non aveva ricevuto.
 
Un anno prima lei se n’era andata di casa, senza dire niente a nessuno. Nemmeno a lui, Montparnasse, suo unico amico da una vita.
Thenard l’aveva cercata per non più di una settimana, e senza troppo impegno o convinzione. In fondo, per lui era meglio così. Una bocca in meno da sfamare, denaro in più da usare per le disastrose finanze della famiglia. Nessuna perdita, in fin dei conti.
Montparnasse aveva sperato che lei avesse trovato un posto migliore, un posto dove non aveva un padre ubriaco e iroso che la picchiava per sfogarsi o per noia, né una madre assente che non sapeva far altro che urlarle insulti e negarle i pasti. Aveva sperato che… no, lei non avrebbe sentito la sua mancanza. Se n’era convinto senza troppa difficoltà. Dopo poche settimane aveva iniziato a girare con Azelma, la sorella minore, soltanto per avere qualcuno con cui parlare liberamente, qualcuno in cui riconoscerla. O dimenticarla.
Azelma aveva dimostrato fin da subito un enorme interesse nei suoi riguardi, cosa che ‘Parnasse non sapeva bene come gestire; Zelma pendeva dalle sue labbra, rideva ad ogni sua battuta, gli sorrideva ogni volta che lo vedeva. Sorrideva molto di più di ‘Ponine.
Sebbene fossero sorelle, oltre che per qualche tratto del viso e la corporatura, Eponine ed Azelma non si somigliavano molto. L’una era sfacciata, critica, malinconica, dura; l’altra era gentile, quasi allegra, dolce e insicura. Montparnasse non capiva da dove quella dolcezza e allegria fossero uscite; la vita che conducevano era ostile e pericolosa come una valle di rovi… come poteva crescervi un fiore?
Senza davvero dirlo apertamente, Azelma aveva dimostrato interesse nel ragazzo, e Montparnasse non si era tirato indietro. Così, una cosa tira l’altra, una sera i due si erano baciati, grazie anche ad una bottiglietta di liquore che il ragazzo aveva sottratto a uno della banda. E la cosa non era finita lì.
Ad Azelma ‘Parnasse piaceva davvero. E lui si lasciò trascinare…
Poi ci fu un giorno che la moglie di Thenard li vide, ed entrambi temettero il peggio.
Ella andò subito a raccontarlo al marito, che convocò Montparnasse e Azelma. ‘Parnasse si accorse della paura nello sguardo della ragazzina, ma la rassicurò come potè, nonostante la stizza. –Dovresti essere più forte-, le disse, ma Azelma tacque.
Comunque Thenard non fece nulla a nessuno dei due; semplicemente, li dichiarò fidanzati.
Mentre Azelma sembrò tutto sommato sollevata, ‘Parnasse sentì un peso calargli sul cuore.
Ma non aveva mai creduto nell’amore, quindi cercò di considerare la cosa da un punto di vista razionale.
Azelma era una bella ragazza, gentile e forte, nonostante le apparenze. Una vita come la sua non avrebbe potuto non temprarle lo spirito, insieme al corpo.
Inoltre, se lui avesse protestato, si sarebbe trovato contro nientedimeno che Thenard stesso, e, di mettersi in una tale situazione, sinceramente non ne aveva nessuna voglia.
 
Mentre la piccola folla che aveva assistito allo spettacolo si disperdeva, Parnasse seguì la schiena di Eponine finchè non scomparve alla vista, rimuginando. Ah, no; non Eponine – Carmen. Aveva senz’altro cambiato nome per sfuggire a suo padre; una mossa che Parnasse si sarebbe assolutamente aspettato da lei. Carmen.
D’altra parte, pure lui ora aveva un nome nuovo: Don Josè, brigadiere. Era stato Thenard ad architettare tutto, e Parnasse ammise che l’aveva fatto davvero bene. Infiltrare uno dei suoi fra i Dragoni della Guardi, farlo promuovere brigadiere con un po’ d’aiuto “sporco” ed ecco qui Don Josè, novello capo di squadrone, con per famiglia una vecchia madre lontana, un’adorabile fidanzatina di nome Micaela e una posizione insospettabile ideale per aiutare Thenard nei suoi loschi traffici.
Per Montparnasse si trattava di un lavoro come un altro, solo un grado di difficoltà maggiore; non poteva dire di esservi stato obbligato, ma non era così stupido da ignorare i sottintesi dei discorsi dei coniugi Thenardier, quando cominciavano con “in qualità di futuro sposo di nostra figlia”.
 
Lei fuggì, come una lepre davanti al cacciatore. I suoi istinti agirono prima della sua mente; girò sui tacchi e semplicemente corse via, tutta scossa, e corse finchè non fu al sicuro, nascosta dietro un banco di frutta, confusa fra la folla del mercato, sicura che lui non l’avesse seguita. Ci mise qualche minuto per riuscire a riprendere a respirare normalmente, e perché il suo cuore tornasse a battere al ritmo regolare.
Aveva appena incontrato un fantasma del passato, della sua vita precedente; da mesi, ormai, non pensava più a lui.
Montparnasse.
Non era cambiato, lui: d’altra parte, doveva lavorare ancora per suo padre, sotto il giogo della subdola tirannia che Thenard esercitava tanto bene.
Doveva essere Azelma, ora, ciò che gli impediva di andarsene. Azelma, Azelma…
Il ricordo di questo secondo spettro, se possibile, le provocò ancora più dolore del primo. Povera Az… l’aveva abbandonata. Ma non aveva avuto altra scelta.
Per diventare Carmen, aveva spezzato tutti i legami che la trattenevano alla sua vecchia vita, ma aveva dovuto spezzarli tutti.
 
Montparnasse stava passeggiando per la piazza, finito il turno; aveva ancora il pensiero ad Eponine, che gli era apparsa davanti così all’improvviso, ed era fuggita altrettanto in fretta.
Chissà dov’era fugggita. Sie era abilmente confusa fra la folla, e poi era scomparsa alla vista in un batter d’occhio. E lo aveva lasciato a mani vuote e testa piena, piena di ricordi e domande.
D’un tratto, camminando, udì delle grida provenire dal negozio del gioielliere, che era pochi passi avanti a lui, e vi giunse appena in tempo per vedere Eponine, che aveva l’aria di uno scoiattolo spaventato, correre fuori dalla gioielleria con aria colpevole.
Montparnasse si fece avanti tentando di fermarla, afferrandola per un braccio, ma lei si divincolò con uno strattone. La forza che aveva impiegato nel brusco movimento, però, era stata troppa, e lei si trovò sbilanciata e in procinto di cadere in avanti.
Con una certa prontezza di riflessi, Montparnasse prese la ragazza prima che finisse a terra, ma Eponine iniziò subito a dimenarsi e a gridargli di lasciarla andare; intanto le persone che fino ad un attimo prima avevano affollato il negozio, compreso il gioielliere, erano uscite correndo e andavano a formare un fitto capannello urlante attorno a loro.
Eponine riuscì a divincolarsi dalle braccia di Montparnasse, ma non fece tre passi che altri due Dragoni le misero le mani addosso e la bloccarono per le braccia.
Montparnasse cercò di capire meglio la situazione: a quanto pare nella gioielleria era stato commesso un furto, e c’erano pochi dubbi che l’accusa di ciò fosse caduta su Eponine.
Il gioielliere, spalleggiato dalla maggioranza delle persone che puntavano il dito contro ‘Ponine, urlava che ‘quella ragazzaccia’ aveva ‘sgraffignato’ dei certi orecchini sotto il suo naso, e poi aveva cercato di uscire dal negozio senza pagare.
L’opposizione, ossia quello sparuto gruppetto di donne (Montparnasse ne individuò tre) che difendeva Eponine, urlava di rimando che erano tutte accuse false, che l’orefice era un truffatore e quegli orecchini erano già di Carmen da prima che entrasse nel negozio.
-Calma!- Don Josè alzò la voce, usando il suo migliore tono da comandante –Silenzio! Tutti in silenzio!
Alcuni Dragoni alle sue spalle intuirono l’ordine e corsero a separare le fila agitate dei litiganti, fino a far diminuire il volume delle voci in modo che il brigadiere potesse risolvere la questione.
Montparnasse si girò verso uno dei suoi e gli disse di andar a chiamare il Tenente. Meglio non immischiarsi con una ladra (perché Eponine glielo aveva confessato, anche solo con lo sguardo; e poi, i cerchietti d’oro che brillavano ai lobi della ragazza erano sicuramente tre cose: nuovi, costosi e fuori dalla portata di una comune sigaraia). Meglio non immischiarsi con ladri in maschera…’ come me, fra l’altro’, pensò Montparnasse. Poi gli corse alla mente che Javert avrebbe potuto fare il collegamento fra Eponine e lui, e la ragazza se interrogata avrebbe potuto svelare il personaggio di Parnasse, mandando in aria ogni cosa.
Se solo il brigadiere avesse potuto richiamare quel Dragone… ma, giratosi, lo vide già di ritorno.
Cazzo, pensò Montparnasse.
Cercò lo sguardo di Eponine e lo trovò fissato su di lui. Come se avesse letto nella mente del ragazzo, un sorrisetto simile ad un ghigno si dipinse sulle sue labbra sottili. I suoi occhi scuri lampeggiavano; avresti dovuto lasciarmi andare, dicevano. E Montparnasse sapeva che avrebbe dovuto.
Quando il Tenente Javert arrivò sulla scena del crimine tutti si acquietarono improvvisamente, e Josè si sentì calare un velo di sudore freddo su collo.
Fermatosi, Javert guardò prima Eponine, poi a folla e l’orefice e infine Montparnasse in rapida sequenza. A quest’ultimo chiese che gli fosse spiegata la situazione.
 
Montparnassse fece per aprire la bocca, ma l’impavido orefice parlò prima di lui.
-E’ la ragazza! E’… è una ladra!
Javert lo guardò con aria interrogatoria e lievemente irritata, ma lo lasciò continuare.
Montparnasse pregò che Eponine non decidesse di prendere parola a sua volta, e di parlare a suo scàpito.
Intanto il gioielliere raccontava concitatamente l’accaduto. A quanto pare nessuno aveva visto la ragazza mentre rubava gli orecchini in questione, ma guarda caso erano proprio gli orecchini che il gioielliere stava per mostrare a una coppia di mezza età (lui alto e barbuto, lei bionda e bassina, con un’aria disorientata) presente fra la piccola folla.
Quando il gioielliere non li aveva individuati con lo sguardo, sulla mensola dove li aveva messi in bella mostra, si era allarmato all’istante e, guardando verso la porta, aveva visto Eponine che si guardava intorno cercando di uscire non vista, i due cerchietti dorati già saldi alle orecchie. Non aveva dubitato per un attimo che fossero quelli mancanti sulla mensola del negozio, e la fuga precipitosa di Eponine non aveva certo contribuito al ritenerla estranea al furto.
Verso la fine del racconto, però, dal gruppetto di donne nei pressi di Eponine si levò un coro di proteste. Ma erano più che altro insulti e negazioni di una testimonianza fin troppo plausibile, e Javert le fece mettere a tacere.
-Mi dica, senorita- disse poi, rivolto ad Eponine.
-Il suo nome?
Eponine dilatò le pupille, cosciente della prova di verità alla quale il Tenente la stava sottoponendo. Cercando di sembrare il più naturale possibile, Eponine rispose : - Carmen.
-Carmen?
C’era una forte carica di sospetto nella voce di Javert. Eponine rabbrividì, ma drizzò le spalle fiera. Perché ciò che stava dicendo era… la verità. Eponine era scomparsa il giorno il quale aveva rinnegato i suoi genitori, la sua sorellina Azelma e il suo unico amico per una sola essenziale cosa; la libertà.
Carmen era libera; Eponine no, non lo era mai stata.
Javert aveva aggrottato la fronte.
-Sei colpevole di questo furto?
Dio, no… il cuore di Eponine perse un battito. Javert la fissava dritta negli occhi, e lei sapeva che un no l’avrebbe condannata quanto un . Era questo il gioco di Javert; scrutarti dentro, far venire a galla le tue colpe con uno sguardo. Devo sbrigarmi a rispondere, pensò Eponine. Il silenzio mi marchierà colpevole comunque.
Ma poi un altro pensiero si fece strada nella mente della ragazza. Una rivelazione: e invece no.
Il silenzio l’avrebbe fatta sembrare colpevole, ma non l’avrebbe condannata.
Non osò sorridere, ma i suoi occhi persero la sfumatura di panico che avevano avuto un secondo prima.
Javert capì, e le sue labbra si tirarono in una linea dritta, severa.
-Brigadier Josè- chiamò.
-Porta questa donna in cella, dove mi attenderà per un interrogatorio più convincente. Se non parla ora- i suoi occhi erano di ghiaccio, sicuri e determinati - …parlerà in prigione.
Le amiche di Eponine proruppero in altre proteste e reclami, mentre Montparnasse si avvicinava ad Eponine con una corda tra le mani. La fece girare a forza, le unì i polsi e li legò stretti con la corda, sentendosi le spalle perforate dallo sgaurdo inquisitorio del Tenente. Ma cos’era, una prova di fiducia? Javert stava giocando anche con lui, pensò Parnasse. Quindi svolse il suo compito diligentemente, con indifferenza e senza fiatare.
Per lo meno Eponine aveva taciuto. Finora.
 
 
 
Spingendo la ragazza davanti a sé, Montparnasse ed Eponine attraversarono in breve tempo la piazza. La gente faceva loro spazio e li lasciava passare, ma nelle loro occhiate si leggeva più curiosità che timore della legge.
Eponine fissava dritto davanti a sé, gli occhi intenti a chissà quali piani di fuga, e quegli occhi fieri, acuti, determinati mettevano una certa fastidiosa irrequietezza addosso al suo accompagnatore, il quale sembrava voler affrettare il passo per concludere il prima possibile quella faccenda. Ma sapeva, dentro di sé, che non poteva filare tutto liscio, non sapendo che si trattava di Eponine, o Carmen, come adesso si faceva chiamare.
Le tempie di Montparnasse erano lucide di sudore non dovuto soltanto alla calura del primo pomeriggio; le gote ambrate di Eponine, invece, non recavano alcun segno di stanchezza o affaticamento, e negli specchi scuri dei suoi occhi, le possibilità di fuga venivano esaminate e meticolosamente scartate l’una dopo l’altra, finchè la migliore, o almeno la migliore secondo la ragazza, si presentò chiara e tutto sommato semplice alla sua mente.
Un impercettibile lampo di orgoglio, allora, le illuminò gli occhi.
A quel punto erano giunti a poca distanza dalla loro meta, e Montparnasse si sentiva quasi di tirare il fiato, quando (con grande ma non sorpreso disappunto di Montparnasse), lei scelse di piantare bruscamente i piedi a terra, arrestando la marcia che fino ad allora era proseguita senza intoppi.
Montparnasse berciò una maledizione, ed Eponine per tutta risposta gli confisse i gomiti nello stomaco, facendogli sbottare qualche altra bestemmia e ottenendo che lui la girasse verso di sé, trattenendola per le spalle con una presa rude, e i loro visi si trovassero l’uno di fronte all’altro: il suo schiumante di rabbia, quello di lei pressochè inalterato, o forse solo lievemente divertito.
-Liberami – Eponine scelse di andare dritta al punto: girarci intorno non sarebbe servito a niente. – Lasciami andare – ripetè con convinzione, guardandolo direttamente in faccia.
Il volto di lui,  sorvolando sull’espressione irosa e ostile del momento, era quello di un bellissimo giovane uomo. I capelli neri gli incorniciavano morbidamente il viso, dai tratti aspri, ma dolci, e in certe occasioni (Eponine pensava alle labbra, piene e rosse, d’un rosso naturale che faceva colpo), femminili. A contrastare questa caratteristica, però, sul suo viso c’era un’ombra di barba, e le sopracciglia erano folte, disordinate, ma non animalesche. Sembrava un angelo del buio, ed un angelo del buio per Eponine era stato, nella sua vecchia vita… ma erano ricordi lontani, e che Carmen si era proibita di riportare alla memoria il giorno che era diventata tale.  Eponine pensò che, comunque, Montparnasse era bello come lo aveva lasciato, e forse di più. L’uniforme, per quanto ridicola sotto certi aspetti, gli donava.
 
Lui alzò un sopracciglio. –Liberarti? Ma scherzi, Eponine? –
Lei gli dette un mezzo sorriso e una scrollatina di spalle in risposta, e lui decise che era il momento di mettere in chiaro le cose. Corrugò la fronte, ed indurì il tono di voce, mentre le diceva: -  Io sono un brigadiere, Eponine. Un soldato che risponde un tenente… E, cosa che tu sai perfettamente, il mio tenente è Javert. Lui mi dice di portarti in prigione, io ti ci porto. Non c’è spazio per trattative, qui. Io non ti conosco, non fai parte del piano, non ti posso aiutare. Così stanno le cose. Ora ti condurrò in cella e là resterai, e non me ne frega assolutamente niente se credevi che io ti avrei aiutato. Non lo farò e basta, hai capito? Sei stata una stupida a farti beccare con quei gioielli, e per quello ti farai una bella chiacchieratina con Javert. A me, non me ne importa nulla. Ed ora cammina, o ti trascino fino alla prigione, e di peso. Sono cazzi tuoi, hai capito? Non osare di chiedermi di liberarti…–
Eponine assisteva al suo monologo con un’espressione fra l’annoiato e l’irritato. Alla fine sbottò, interrompendolo nel mezzo di una frase: - Perché parli tanto, Parnasse? Non devi agitarti così – e qui lo guardò come si guarda un bimbo che fa i capricci – Non devi agitarti così, la tua copertura non salterà. Non ti costa nulla, liberarmi. Certo, il nostro vecchio Javert potrebbe insospettirsi… ma tu sei un bravo attore. Puoi farcela. Dirai che sono scappata, magari anche che ti ho minacciato con un pugnale, e ti ho costretto –
- Ma proprio non capisci… non ho intenzione di rischiare niente per te! Stai solo complicando le cose. E comunque, pensavo che conoscessi Javert quanto me, o l’hai dimenticato, di che pasta è fatto? Quello mi sbatte in prigione al posto tuo, o mi toglie il grado, e lo sai. Non posso aiutarti, punto. Fattene una ragione, ed ora… andiamo-
Eponine assunse un’aria sconfitta, abbassò lo sguardo e mormorò: - Ah, ‘Parnasse… -
Poi si avvicinò ancosa di più a lui, lentamente, con cautela, alzando il viso finchè il suo e quello di lui non rimasero che a pochi, davvero pochi centimetri di distanza.
Dischiuse le labbra in modo innocentemente provocatorio; Montparnasse sbarrò gli occhi, interdetto eppure… per qualche motivo, non abbastanza interdetto da allontanarsi da lei.
Intanto nei tratti di lei si rivelava un’emozione che lui non avrebbe mai pensato di vedere: tristezza, sconsolata, malinconica tristezza.
-‘Parnasse… non farlo. Non voglio finire chiusa in cella, lo sai… là lui mi troverebbe. Anzi… forse ti verrà in mente di portarcelo tu, per guadagnarti il suo favore. E allora lui sogghignerà, e mi prometterà che, appena uscita, ci rivedremo.
Ma guardami, ‘Parnasse; io non sono più Eponine; ora sono Carmen. Ma tu, tu devi aiutarmi.
Carmen è libera, Carmen non può finire in prigione, e poi venire sgozzata da un padre che non è il suo, per una futile, perversa vendetta, per un abbandono più che giustificato…
Ma se mi porti in prigione, questo accadrà, ‘Parnasse. Lo sappiamo tutti e due, che accadrà.
Non capisci? Le mie ultime parole su questa terra – e in quel momento lei era così vicina a lui che l’avrebbe potuto baciare, e lui poteva quasi sentire il suo respiro sulla propria pelle – saranno una maledizione, ‘Parnasse. – Ma lo disse non con piglio minaccioso, ma con un filo di voce, implorante, e Montparnasse sentì una morsa gelida stringergli lo stomaco.
La ragazza che lo guardava sembrava così fragile, spaventata e supplice che pur senza volerlo, lui si trovò a valutare la sua richiesta.
Ma l’avrebbero messo in prigione, lo sapeva. Javert l’avrebbe sbattuto dentro fin troppo volentieri, e pure senza nessuna forzatura sospetta; un soldato che non si dimostra all’altezza del suo grado viene punito. E’ la regola.
 
- No – disse. I suoi lineamenti si indurirono, e lui si fece determinato a non cedere.
Eponine sbuffò internamente. Non che ci avesse davvero sperato, ma se avesse funzionato, sarebbe stato assai meno rischioso.
Esternamente, invece, finse un gemito, e i suoi occhi si fecero lucidi.
Arretrò, barcollante e disorientata, di appena due passi, le mani sempre dietro la schiena, sfuggendo così alla presa di Montparnasse.
Poi successe tutto in un secondo.
Mentre le si disegnava in viso un sorrisetto di trionfo, Eponine, in un’unica movenza fluida, disciolse l’ultimo cappio dello scadente nodo che le aveva fermato i polsi, e con la destra  sfilò il corto, sottile pugnale che aveva fissato fra le pieghe della donna all’altezza della cintura, e lo brandì di fronte a sé, puntandolo dritto all’addome dello sgomento brigadiere.
Montparnasse si irrigidì tutto. Ah, Eponine.
L’espressione, soddisfatta e maliziosa, sul volto di lei gli provocò un involontario e sottile senso d’orgoglio. Era la sua ‘Ponine, nonostante tutto: ancora la sua ‘Ponine, non si poteva negarlo. Non riuscì a impedirsi un mezzo sorriso.
Non tentò neppure la storia del ‘non lo faresti mai, non ne avresti il coraggio’, un po’ perché non poteva esserne del tutto sicuro, un po’ per un istinto ce gli diceva che ormai la partita era finita, e aveva vinto lei.
 
Con un piede, Eponine spinse il garbuglio di corde dalle quali si era liberata ai piedi di Montparnasse. Lui constatò che non sembrava minimamente dispiaciuta per ciò che stava per fare (condannarlo alla prigione prima, e all’ira di suo padre poi), anzi.
Apparentemente Carmen era una ragazza senza rimpianti né remore. Carmen era la parte di Eponine che, pur sempre facendo parte di lei, era stata soffocata, incupita dalle ombre e la miseria della sua vita passata.
Ora Carmen si era liberata, fulgente e senza paura alcuna, da tutte le ombre e tutta la miseria che l’avevano sempre circondata.
E Montparnasse capì che si era liberata anche di lui.
Non esistevano più gli stracci e il freddo e i baci a labbra secche della loro infanzia, non in quegli occhi di libero fuoco.
Non esistevano più i lividi e le lacrime amare, né le lunghe notti solitarie e i gelidi pagliericci sui quali avevano dormito, non per quella giovane donna che gli stava di fronte.
Non esistevano più Montparnasse ed Eponine, che si erano consolati, avevano fatto l’amore e la guerra, che si erano fatti bene e male l’un l’altra, che si erano giurati odio e fratellanza, vendetta e affetto. Non per Carmen.
Lo diceva la punta acuminata del pugnale che sentiva, pronta a squarciargli il ventre.
-Dirai che sono scappata, e non hai potuto farci nulla –
Lui tacque, ad esprimere il suo consenso.
-Spenderai qualche giorno in prigione, credo, ma non più di qualche settimana-
Lui tacque ancora.
Poi Eponine si sporse verso di lui e lo baciò sulle labbra, ad occhi chiusi. Li chiuse anche lui.
Era strano, sentire allo stesso tempo il gelo metallico di un pugnale e il calore umano di un bacio, soprattutto se riconducibili alla stessa persona, contemporaneamente.
Montparnasse, che aveva sempre amato la poesia, lo trovò quasi poetico.
Quando le labbra di lei si staccarono, Montparnasse sentì qualcos’altro toccargli il viso, e anche quel qualcos’altro contrastava in modo perfetto con la sensazione del pugnale puntato ai suoi organi vitali; la carezza lieve della corolla di un fiore, come opposto al duro metallo dell’arma. Aprì gli occhi, e la vide sorridere.
-Grazie – gli disse lei. E aggiunse: - Quando uscirai, potrai trovarmi la sera a Lillas-Pastià. Se vorrai rivedermi – E aveva negli occhi una sfumatura d’incertezza, che però non affievoliva la convinzione di ciò che stava dicendo.
Poi Eponine si voltò, e sparve a rapidi passi, quasi di corsa, svoltando nel vicolo più vicino.
Guardandola andarsene, Don Josè si portò una mano tremante al fiore che Carmen gli aveva lasciato infilato dietro all’orecchio.
 
 
 
FINE ATTO PRIMO.
 
 
 
 
Vi prego, per qualsiasi cosa (osservazioni, critiche, etc) recensite e fatemi sapere.
 
  
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