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Autore: Vas Happening_Mary    23/07/2015    5 recensioni
Alekia Margaret Rose è il nome completo, Rose per gli amici.
Odia il buio, l’ansia di sua madre, i telegiornali deprimenti e gli estranei.
Soprattutto quelli belli.
Ama suo padre, l’inverno, la filosofia ed il suo migliore amico Adam.
Farebbe di tutto per lui.
Anche rapinare.
Ma ci sono tante cose che Rose non conosce e che non è in grado di classificare, come il ballare sotto la pioggia, l’uscire di notte senza permesso, l’amare qualcuno incondizionatamente.
O l’essere salvata durante una rapina per poi essere portata in un luogo sperduto.
Perché lei tutto si aspettava, furchè quello.
Non era pronta a scoprire la verità, non voleva sapere chi fossero realmente i suoi salvatori. E non voleva cambiare idea.
Ma avrebbe presto scoperto che era tutta questione di indoli; correre con i lupi non dispiaceva neanche a lei, tutto sommato.
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E, se la trama non vi ha colpiti, date alla storia almeno una possibilità.
Genere: Fluff, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve!
Comincio con il dirvi che la roba sottolineata non ce l'ho messa io... non so perchè sia così, non ne ho la minima idea!
Spero che vi piaccia comunque il testo e che riusciate a leggere...il problema parte da microsoft office word da quanto ho capito.
Grazie a chi è qui e a chi sceglierà di restare nel corso della storia, davvero, posso garantirvi che vi innamorerete dei personaggi come me ne sono innamorata io. Cercherò di essere puntuale nell'aggiornamento almeno ogni due settimane, ma chi mi segue sa che a volte -spesso- sgarro. 
A presto e buona lettura,
May.




 

"I don't like them".




… altro attacco durante la nottata a Nashville, Tennessee. Si contano due feriti e tre dispersi, le vittime raccontano:- E’ successo all’improvviso, non abbiamo neanche avuto modo di capire cosa ci abbia colpiti-. In atto le indagini dalle otto di questa mattina alla ricerca dei dispersi, a seguire la spedizione a caccia dei soggetti”.
Presi un’altra cucchiaiata di cereali.
“Visto, Malcom? Lo hanno rifatto. Si avvicinano, la scorsa volta erano molto più lontani”.
“Ma se neanche ricordi quando c’è stato l’ultimo annuncio!”.
Lei lo guardò con aria impaurita, “No che non lo ricordo! Sono passati due mesi ed il nome di quel posto deserto era impossibile da pronunciare!”.
“Cedartown, mamma”.
Mi guardò e prese ad annuire convulsivamente. “Sì! Proprio quello! Era in Georgia, no? Hanno cambiato stato in soli due mesi! E chissà quanti altri fattacci sono avvenuti intanto che non hanno voluto segnalare!”.
Afferrò la tazzina di caffè con entrambe le mani ed attese una nostra risposta per qualche istante; se ne andò, ancora con le sue mille preoccupazioni in testa, verso il salotto.
Mia madre era una donna molto ansiosa. Sempre in allerta, attenta alle esigenze di tutti; non per niente lavorava in un centro di cura per anziani. Era l’esatto opposto di mio padre, abbastanza impassibile vivo finché posso, e ancora non avevo capito come facevano ad andare d’accordo tutti i giorni. Lui la assecondava, la lasciava parlare, poi il più delle volte mi faceva l’occhiolino e rideva; non credo che per lei fosse mai stato un problema però.
“Starà bene?”.
“Come sempre, lucciolina”.
Venne a darmi un bacio sulla fronte e sorrisi, ingoiando altro latte e cereali.
“Vado a fare un servizio, credo che ci vedremo direttamente stasera. Dì alla mamma che vorrei qualcosa di fresco, fa caldo oggi, non mi va di nuovo il pollo”.
Annuii distrattamente e mi appuntai di riferire più tardi.
“Ma oggi niente scuola? E’ giovedì, no?”.
“Entriamo alle 10, manca filosofia”.
Lui mi lanciò uno sguardo degno di chi la sa lunga e sorrise, “A stasera, non fare guai”.
Appena la porta d’ingresso si chiuse, la mamma tornò in cucina di nuovo apparentemente tranquilla. “E adesso che gli cucino?”.
Scossi la testa e andai a posare la ciotola vuota nel lavello già colmo di stoviglie.
La mamma era una persona attenta, sì… ma forse non molto alla pulizia.
Mi urlò dietro un “Non mi sei d’aiuto” mentre salivo le scale, ma sapevo che risponderle avrebbe solo dato foga ai suoi pensieri.
12 febbraio, 9:03 Am.
Troppo freddo per una maglia a maniche corte ma troppo caldo per una felpa e le alternative erano due: andare a scuola in pigiama, o mettere la divisa.
I tipi dell’istituto sembravano averlo fatto apposta: creare una divisa comoda e adattabile a qualsiasi stagione. Ma forse era solo il loro incarico, o forse la gonna morbida blu e rosa con maglia bianca e giacchetto blu con logo rosa della scuola aveva davvero fatto colpo.
Su me no di certo, erano colori alquanto detestabili per una quasi diciassettenne.
La misi comunque e legai i capelli in una coda alta cercando di non tralasciare nessun ciuffo ribelle; il dilemma era quello, al mattino: trovare un modo per far funzionare tutto.
Amavo i miei capelli, erano mossi e castani, forse banali, ma tanto folti e belli sia da vedere che da toccare; amavo anche il mio corpo, quasi del tutto, e di certo non me ne lamentavo come molte altre facevano. Ma mettere tutto insieme era un dilemma.
Vedevo un contrasto, sembrava che corpo e capelli non andassero d’accordo.
Papà diceva per questo che ero identica a mia madre.
Anche il mio viso mi piaceva, con occhi blu e lineamenti proporzionati tra loro; magari avrei fatto a meno delle lentiggini, ma la genetica non sbaglia mai.
Usavo di solito poco trucco, al massimo un correttore con mascara, ma quella mattina osai e misi anche la matita interna bianca. Olè!
E per la pulizia… lavare i denti fu più che sufficiente.
Anche in questo somigliavo alla mamma.
Scesi con lo zaino in spalla, sicura di aver dimenticato qualcosa ma comunque incurante, presi il telefono da sopra il tavolo della cucina, salutai mia madre ed uscii.
Il viaggio casa-scuola comprendeva di solito un bus e un buon chilometro da fare a piedi; si passava per il negozio di dolciumi, per quello di scarpe, a destra della chiesa e dritti fino alla fermata avanti la piscina –di proprietà del comune, ma usata dalla nostra scuola per fare attività fisica.
Quella mattina, santa la prof di filosofia, mi toccò camminare a piedi per buoni sei chilometri e venti minuti.
Camminare non era esattamente il mio forte; nessuna attività che prevedesse una parte attiva lo era.
Tirai un sospiro di sollievo arrivata alla piscina e mi strinsi nel giacchetto della divisa.
“Alek!”.
Urlato così, il mio nome pareva tutt’altro che femminile.
“Liz, ti ho chiesto il favore di chiamarmi Rose come tutti gli altri”.
“Ma io non faccio parte della massa” rispose e mi fece il solito sorrisetto vittorioso.
Evitai di lasciarle il bacio di saluto sulla guancia e mi avviai alle porte principali della piccola struttura; ospitava al massimo quaranta aule, compresi laboratori e uffici dei lavoratori, ma tutto sommato era carina.
“E dài, non dirmi che adesso ti offendi anche se ti chiamo con il tuo primo nome!”.
“Preferirei usassi il terzo, Bottle”.
Lei si fermò e piegò la testa di lato, “Che fai, ricorri al cognome?”.
“Il mio almeno è decente”.
“Certo, Gomez!”.
“Come se avessi scelto io in che famiglia nascere”.
Elizabeth, meglio conosciuta tra noi come Liz, non era certo nota per essere timida; al contrario della gemella, Samantha, era una di quelle che ti dice in faccia anche se hai l’alito pesante. Letteralmente, lo aveva fatto più di una volta, anche con il professore di fisica.
Ci somigliavamo molto caratterialmente, di meno d’estetica: sia lei che la sorella erano bionde, alte, secche come stecche e con occhi scuri. Non che mi sarebbe dispiaciuto avere il loro corpo, ma di certo avrei fatto qualcosa per renderlo più guardabile.
Questo non glielo avrei mai detto.
“Almeno sono americana al 100% io”.
“Credi che il Messico sia in Germania?”.
Lei mi guardò sorridente e saltellò sulle scale del cortile. Aprì un’anta della grande porta in legno e aspettò che passassi anche io.
“Chi abbiamo ora?” chiese, incamminandosi verso le scale.
“Credo Latino”.
“No,” sentii da dietro. “ora c’è letteratura. Poi latino, e dopo chimica”.
Girai la testa e sorrisi ad Angelica, la persona più bella che avessi mai conosciuto.
Non bella d’estetica… bella dentro. Era dolce, premurosa, buona; diceva che dopo scuola avrebbe lavorato con i bambini. In classe tutti la adoravano, era l’unica capace di ottenere qualcosa dai professori senza far scattare una nota disciplinare. Era sempre disponibile per tutti nel momento del bisogno, anche per me, specialmente nel periodo in cui persi mio fratello Nick; la conoscevo dalle elementari… e non era cambiata di una virgola.
“Come faremmo senza di te?”.
“Proprio non so.” rispose ironica lasciando un bacio sulla guancia ad entrambe. “Magari perdereste tutte le lezioni”.
Ridemmo fino ad arrivare alla porta dell’aula 47, quando ci fermammo di colpo.
Dal vetro rigato della porta si intravedevano all’interno due figure sospette –si fa per dire.
Erano con la professoressa Newman, di spalle, e parlavano di chissà che cosa con aria abbastanza presa.
“Entriamo o no?”.
“Tu sai chi sono?” chiesi a Liz.
Lei scosse la testa. “E tu?”.
“Scema”.
Angy aprì la porta e salutò cordialmente la donna ed i nuovi ragazzi, seguita da Liz e poi da me. La classe era ancora vuota, per qualche assurdo motivo, e sedermi all’ultimo banco della fila centrale mi parve un’impresa impossibile.
“…quindi sì, facciamo in questo modo: voi cominciate a vedere come vi trovate e se state bene con noi, in caso contrario chiederemo il trasferimento. Vi ripeto, purtroppo la scuola è piccola ed ospita solo due corsi paralleli per anno. Questo è il secondo… magari con gli orari del primo potreste trovarvi di più, non saprei”.
Non sentii la risposta né li vidi accennare ad un qualsiasi segno, troppo impegnata a cercare di raggiungere la mia postazione.
La mia era una classe di cavalli.
A fine giornata, quando era il momento di uscire, ogni spostava il proprio banco come più riteneva comodo. La mattina seguente poi, con l’arrivo degli stessi, le cose tornavano al proprio posto per poi ricominciare. Dato che quella mattina, sempre santa la prof di filosofia, i ragazzi ancora non c’erano e forse non sarebbero venuti… la classe era nel caos più totale.
“Razza di animali” sentii borbottare a Liz.
Risi e le lanciai un’occhiata d’approvazione. “La prossima volta vado dal preside, qui prima o poi ci scappa il morto”.
Anche Angelica rise, già seduta al secondo banco accanto la finestra.
Liz, che era seduta alla fila parallela alla mia, lanciò un’imprecazione a denti stretti nel sollevare una sedia incastrata con la sua.
“Qualche problema, Bottle?”.
“Ma si figuri, se per lei fare una gara di agility ogni volta che mettiamo piede qua dentro non lo è, perché dovrebbe esserlo per me?”.
La donna la guardò con aria di sufficienza e tornò a guardare i ragazzi; scoppiammo a ridere.
“Buon Dio, si può sapere che avete stamattina?”.
Sembrò arrabbiata e Liz si decise a chiudere la bocca.
“Come stavo dicendo prima dell’interruzione,” calcò bene “siete assolutamente liberi di fare quello che volete qui. Il preside ci ha informati dei particolari… dettagli, chiamiamoli così, e ci teniamo quindi a darvi la miglior accoglienza possibile”.
“Visto? Loro si beccano anche il trattamento speciale” bisbigliò Elizabeth.
“Saranno i figli di Obama”.
Ridemmo di nuovo, poi però i ragazzi si girarono e mi trovai personalmente a trattenere il fiato.
Erano belli, cavolo se lo erano.
Entrambi, gemelli, due gocce d’acqua; neanche Liz e Sam si somigliavano così tanto.
 “Non siamo i figli di Obama, signorina Gomez, anzi siamo praticamente figli di nessuno. Veniamo da Dalton, Georgia; i nostri genitori sono stati segnalati tra i dispersi del mese scorso” disse uno dei due, quello di destra. “Presumo però non ne sappiate niente; il Presidente ha preferito non divulgare la notizia, ha solamente chiesto il trasferimento per noi e nostra sorella per motivi ovvi di sicurezza”.
Lo guardai, mi persi a mirare i pozzi ambrati che aveva come occhi, e lo confusi con la figura omologa accanto. Un dio, forse; o forse un gran bastardo lecchino.
“Mi spiace per la perdita, ma capirete che i trattamenti di lusso ad altri non ci vadano molto a genio”.
Quello di sinistra sorrise a labbra chiuse e accennò un inchino. “Avete ragione anche voi”.
Per qualche strano motivo a me ancora sconosciuto, i due sembravano tutt’altro che turbati. Possibile avessero già elaborato la perdita? O forse non si erano rassegnati del tutto? Guardai Angelica che, come ad avermi letto nel pensiero, alzò le spalle.
Quello di destra abbassò la testa e fece oscillare leggermente i capelli neri. “Come no”.
Guardò me, poi la professoressa: “Non credo riusciremo a stare per molto in questo corso”.
“Lasciatemi almeno provare ad addomesticare queste due indisciplinate. Prometto che saranno l’ultimo dei vostri problemi”.
E quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Afferrai la cartella, Liz con me, e lanciai i banchi a destra e sinistra per raggiungere l’uscita. Sapevo che Elizabeth fosse dietro di me, come sapevo che la professoressa sarebbe scoppiata da un momento all’altro e che i gemelli continuassero a guardarmi, ma lasciai comunque che la porta sbattesse alle mie spalle.
“E’ malata, sta sul serio impazzendo. Chissà quando andrà in pensione” sentii dire dopo qualche istante da Liz, qualche metro più dietro. “Ha anche avuto il coraggio di chiedermi perché stessimo uscendo senza il suo permesso”.
“Ma che si fotta”.
“Chi deve fottersi?”.
Alzai lo sguardo dal pavimento bluastro e lo feci risalire sui jeans scuri e la maglietta senape di Kyle. “La Newman, ha occhi solo per i nuovi arrivati”.
Lui scrollò le spalle e si aggiustò con la mano libera i capelli liscissimi e biondissimi che solo lui aveva: una moderna versione di Ken.
“Non vi è mai interessato nulla in quattro anni dei nuovi arrivi, come mai questa gelosia improvvisa?” chiese, poggiandosi al muro vicino la fontanella.
“Gelosia? Ci ha trattate come bestie!” sbottò Elizabeth, lanciandogli lo zaino contro.
Lo schivò con gran classe e le sorrise malizioso. “Perché, non lo siete?”. Ma quando la vide alzare il pugno in aria con fare minaccioso, ci tenne a continuare: “Credo che la cosa fosse importante, altrimenti non vi avrebbe liquidate così facilmente. Non rinuncia mai alle sue lezioni”.
Annuii e lasciai andare la cartella contro una delle porte del laboratorio di biologia.
“Sapete chi sono?”.
“Figli dei dispersi in Georgia; a quanto pare li spostano”.
Lui aggrottò le sopracciglia ma non chiese altro.
Aspettammo lì una decina di minuti ancora circa, io seduta a terra, Liz massaggiando con il suo luccicoso - letteralmente, era tutto addobbato con brillantini Iphone, e Kyle appoggiato al muro con una mano tra i capelli.
Neanche alzai lo sguardo quando sentii dei passi avvicinarsi calmi e decisi, sicura che fossero dei gemelli; me ne accertai quando, una volta allontanatisi, scrutai il loro abbigliamento insolitamente uguale: maglia verde, jeans chiari, converse nere. Quali gemelli, a quell’età, si vestono ancora allo stesso modo? Quelli che non vogliono farsi riconoscere, poco ma sicuro.
Una volta andati via, fu questione di pochi attimi; la professoressa venne fuori dall’aula come un treno impazzito e minacciò di metterci una nota se non fossimo rientrati immediatamente in classe. Ma, poverina, il preside ci diede il permesso di tornare a casa neanche cinque minuti dopo.
Salutai i miei compagni, che avrei rivisto nel pomeriggio al centro commerciale come ogni giovedì, e ripercorsi la strada per tornare a casa al contrario.
Entrai con le chiavi dopo essermi fermata a prendere un gelato fragola e nocciola, pronta a sentire mia madre urlare che avessi saltato scuola.
Ma quella giornata si stava rivelando ricca di sorprese.
Mia madre mi guardò, ferma come uno dei tanti quadri appesi all’ingresso, e alzò un sopracciglio. “Esci alle nove e mezza e rientri neanche un’ora dopo. Figlia mia, tu hai qualcosa che non va!”.
E non aveva poi tutti i torti.
Le sorrisi e salii in camera mia, chiudendo la porta e sdraiandomi subito dopo a stella sul letto ad una piazza e mezza gentilmente donatomi per il mio sedicesimo compleanno.
Non sapevo che fare, e avevo ancora tutta la giornata davanti. A saperlo, di sicuro mi sarei svegliata con calma ed avrei evitato quello spiacevole incontro, ma almeno così avevo evitato di fare un’assenza inutile.
Forse avrei portato Micia a fare un giro, più tardi. Avrei potuto accendere il computer e girare su facebook, o cercare qualche nuovo social su cui perdere tempo.
Ma il campanello bussò, ed un leone –per modo di dire, che tra l’altro neanche sapevo fosse in camera- sbucò da sotto al letto e cominciò ad abbaiare.
Mi schiacciai il cuscino sulla faccia, “Perché tutte a me oggi?”.
E neanche a dirlo, mia madre aprì la porta di camera con un sorriso degno della Enel.
“Tesoro! Di sotto c’è Adam, dice che oggi non è venuto a scuola e vuole sapere che avete fatto di bello”.
“E tu che gli hai detto?” chiesi mettendomi a sedere.
“Che ovviamente adesso scendi!”.
Guardai la sua aria da ebete felice e mi chiesi quale fosse il suo problema; “Mamma,” cominciai, una mano schiacciata sulla faccia. “siamo stati a scuola sì e no un’ora. Che avremmo dovuto fare?”.
Ma lei non perse il sorriso e si preparò ad uscire, “Non lo so, diglielo tu!”.
A volte davvero credevo fosse ritardata. Quale madre non avrebbe capito che la mia voglia di vederlo era inferiore alla stima che avevo per Hitler? Argomento da me più volte discusso, oltretutto.
Neanche persi tempo ad aggiustarmi capelli o quant’altro, mi limitai a mettere le ciabatte da casa –rosa con una zampetta marrone sopra- e a scendere dall’ospite tanto atteso.
Attraversai il corridoio sempre buio e pieno di foto, scesi le scale, e “Sempre in splendida forma, vero?”.
Non lo guardai, girai verso lo studio inutilizzato di mia madre –al tempo era un’ottima pittrice- e gli feci segno di seguirmi.
Lui sorrise, lo seppi per certo, e lanciò uno sguardo rapido a mia madre che mi guardava disperata; anche questo sapevo.
Lo studio era più o meno posizionato sotto le scale, stile camera di Harry Potter, ma discretamente più grande. Ci entravano comodamente otto tele, una scrivania arrangiata, uno di quei cosi su cui si poggiano le tele da pitturare, ed una miriade di oggetti vari come lampade, sedie, attrezzi da lavoro diventati colorati ed una poltrona; la più comoda della casa, sulla quale mi andai a sedere pronta ad ascoltare cosa aveva da dirmi.
“Senti,” e già si cominciava male. “ho un colpo da proporti”.
Gli occhi verdi scintillarono a quelle parole e le labbra si schiusero in un’espressione tra l’ansioso ed il nervoso. “E’ importante”.
“Ti ho già detto che con queste cose non voglio averci più niente a che fare, Adam. Davvero, basta, non voglio mettermi nei guai”.
“Ma lo hai fatto talmente tante volte!” quasi urlò sbuffando. “Non puoi tirarti indietro senza neanche sapere di che si tratta”.
Aveva le mani spinte in avanti ed era leggermente piegato su di me, i capelli rossi a coprirgli gli occhi totalmente in contrasto. Dalla maglia larga, bianca come solo lui sapeva portarla, si intravedeva il petto liscio e straordinariamente privo di peluria.
“Sentiamo, che vuoi?”.
La cosa che venisse da me a proporre certe proposte mi faceva ridere; aveva davvero tanta gente con cui operare, ma si ostinava a ricorrere a me ogni volta. Forse perché sapeva che non chiedevo parte del profitto.
“Ha aperto un nuovo negozio sulla dodicesima.” cominciò, ed alzai gli occhi al cielo. “No eddai, ascolta!”.
“Un negozio? Adam ma hai idea di quante precauzioni usi un negozio di gioielleria?”.
“Ed è questo il bello! Nessuna, per il momento; hanno aperto solo ieri e la struttura è discretamente vecchia. A sentire mia madre, vengono dalla Georgia, sono stati spostati qui dopo la serie di colpi che rischiavano di subire dove stavano prima. Non hanno avuto il tempo neanche di aprire tutti gli scatoloni! Rompiamo il lucchetto, entriamo, ne prendiamo uno o due e filiamo via, che ne dici?”.
Lo guardai, la sua faccia sorridente e fiduciosa, e mi venne da ridere.
Era il mio migliore amico da sempre, da quando eravamo all’asilo, forse da prima ancora di nascere. Ci capivamo, ci completavamo, era la parte di me che sentivo mancare costantemente in sua assenza. Ma era cambiato, e non di certo in meglio.
“Ci penserò” risposi, indicandogli la porta.
Lui sorrise di nuovo, si avvicinò per lasciarmi un leggero bacio sulla fronte, ed uscì.
Quando lo sentii salutare mia madre, poco prima che la porta principale sbattesse, tirai un lungo sospiro.
Mi mancavano i giorni in cui veniva a trovarmi solo per passare un po’ di tempo insieme. Mi mancavano anche i suoi capelli biondi, a dire il vero, quelli che gli davano l’aspetto da bravo ragazzo che lui diceva non sopportare. Li aveva lasciati crescere, abbastanza lunghi da legarli in un mini codino, ed ora erano sempre scompigliati e sempre più rossi.
Ma restava Adam, e a lui la porta in faccia non l’avrei mai chiusa.
“Allora? Tutto bene?” chiese mia madre, mettendosi a riordinare le sue cose.
Non mi ero accorta fosse entrata; “Sì, lui… vuole vedermi in settimana, magari usciamo”.
“Come ai vecchi tempi?” chiese lei euforica, voltandosi a guardarmi.
“Come ai vecchi tempi” mentii.
 
Nel pomeriggio, dopo aver pranzato con un pezzo secco di carne del giorno prima, presi le chiavi di casa ed uscii di nuovo per raggiungere gli altri al Diamond.
Non era un vero e proprio negozio… ma neanche un bar. Era dentro al centro commerciale, questo sì, ma meglio dire al di sotto; per arrivarci, come in un parcheggio, bisognava premere il -1 dell’ascensore. La cosa strana era che, sebbene sotterraneo, non mancasse di illuminazione; per questo era bello, era vivo, aveva l’aria di un posto accogliente. E potevamo fare di tutto. C’erano tavoli per mangiare, un bancone per il bar, un piccolo palco su cui esibirsi, e due sale separate da quella principale: la prima con un biliardo e le freccette, la seconda per i fumatori. Tutto era arredato con moquette rossa e pareti verde scuro con fili azzurri: un posto che sembrava vecchio stile con in sottofondo sempre musica di radio HW3.
Entrata nel centro, dopo neanche dieci minuti a piedi, mi diressi direttamente all’ascensore. Per fortuna, perché di solito non era così, di gente ce n’era davvero poca.
Riconobbi l’odore tipico di cialde appena sfornate e la mia pancia brontolò.
Vidi Liz seduta al solito tavolo, quello di un gradino più in alto rispetto agl’altri e circondato da una ringhiera in legno, che rideva con Sam, Kyle e Angelica.
C’era anche un’altra figura, una ragazza, che però non conoscevo ancora.
Salutai Carl, il proprietario che ormai ci sopportava da quattro costanti anni, e li raggiunsi.
Una volta avvicinatami, notata grazie ad una luce gialla la ragazza seduta tra Sam e Liz, per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva.
“Alek, tutto bene?”.
“Temevo non le sarebbe andata a genio la cosa” bofonchiò Angy.
“Mi chiamo Rose. Rose, e basta” ringhiai a Liz, ignorando i suoi colpetti dietro la schiena.
Si erano tutti alzati per venirmi incontro, quasi stessi morendo.
“Lei è Mia, credo tu l’abbia riconosciuta per…”.
“…la somiglianza a quei due trogloditi che oggi si sono presentati in classe e che per poco non mi facevano beccare una nota dalla rincoglionita di turno? Perspicace, Angelica”.
Kyle ridacchiò e la ragazza abbassò la testa.
Angy prese un lungo sospiro e mi afferrò una mano per tirarmi al tavolo con loro, seguita da Liz dall’altra parte.
“Nulla da togliere a te, ovviamente, ma i tuoi fratellini non mi stanno molto a genio” dissi sedendomi.
“Si era capito” commentò Sam, bevendo un sorso di non seppi bene cosa.
Mi raddrizzai sul posto, tra Angelica e Kyle, ed allungai una mano. “Ad ogni modo, io sono Rose. Alekia Margaret Rose, per intero, ma solo Rose”.
Lei allungò la mano e la strinse alla mia sorridendo debolmente; qualcosa non andava.
C’era una strana ombra negl’occhi ambrati che la rendeva incerta ai miei occhi. I capelli, davvero identici a quelli dei gemelli, erano però lunghi e raccolti in una coda laterale; una bella ragazza, ma le occhiaie violacee e le fosse sulle guance lasciavano intuire che non stesse tanto bene.
“E’ solo stress.” rispose, accortasi probabilmente dei miei dubbi. “Il trasferimento, la casa, i miei genitori… è tutto molto confuso per me”.
Tra noi calò il silenzio. “Non credo che i tuoi fratelli ne risentano allo stesso modo”.
Lei scosse la testa e puntò lo sguardo nel mio. “Fanno solo quello che mia madre aveva chiesto loro di fare: proteggere me”.
E stavolta fui io ad abbassare la testa. Quadrava, insomma… due fratelli che si fingono forti per il bene della loro sorellina.
Sorellina poi… “Quanti anni hai?”.
“Sedici, sono una classe dietro voi”.
Un anno di differenza, ma sembrava davvero più piccola.
“Ian e Dennis dovrebbero essere nel vostro corso, se non sbaglio”.
Ian e Dennis. “No, non sbagli”.
Lei sorrise e guardò Angelica, quella che sembrava esserle più vicina. “Che si mangia qui?”.
Da dietro il bancone, Carl urlò un “Quello che vuoi”, facendoci ridere.
Ordinammo tutti waffles, bene o male. Chi con la cioccolata, chi con lo sciroppo di fragole, chi con il gelato, chi con la panna; ma sempre waffles. Tranne Kyle, che prese un toast al formaggio.
“Ma non hai mangiato a casa?” gli chiesi, lui mi fece una linguaccia giallastra.
Tra una parola ed un’altra, tra cibo ingoiato senza un domani, variammo tantissimi argomenti. Passammo dal corso di biologia a come tagliare una mela nel modo giusto senza rendermene conto e senza trovare dopo il nesso logico tra i vari punti. Parlammo anche del tempo, dei ragazzi più carini del quinto anno, e Kyle diede il suo parere riguardo ad un tipo che neanche conoscevo. Parlammo anche di Adam, di quanto fosse cambiato, e di quanto alle ragazze mancasse la sua compagnia.
“A me non manca per niente” disse Kyle, bevendo un sorso di coca.
“E’ venuto a trovarmi, stamattina”.
Angelica lasciò cadere la forchetta nel piatto e tossì; la ignorarono quasi del tutto.
“Che voleva? Non vi sentivate da un po’”.
“Infatti… mi ha chiesto di uscire una di queste sere, per passare un po’ di tempo insieme”.
Liz e Sam storsero il naso in sincronia, una perché non amava particolarmente il nostro rapporto, l’altra per gelosia.
“Non vorrà mica uscire come più di un amico?”.
“No, Bottle, vuole solo parlare. Credo”.
Angelica sbuffò e si alzò all’improvviso. “Porto queste cose al banco e vado via”.
La sua reazione non mi stupì, non molto almeno. Sapeva che quando Adam si presentava alla mia porta era solo per un qualche torna conto personale, negl’ultimi tempi, ed era l’unica a conoscenza delle cose che mi chiedeva di fare.
Dopo gli avvenimenti, finiti i lavoretti che mi proponeva, avevo bisogno di qualcuno da cui andare; Liz mi spaventava a volte, aveva reazioni esagerate, e sapevo sia che mi avrebbe imposto di non parlargli più, sia che avrebbe cercato di mandarlo in prigione. Angelica era perfetta, manteneva i segreti come fossero preziosi anche per lei.
“Vengo con te” disse Mia, seguendola a ruota.
Sam guardò me e poi loro, “Oggi non è proprio aria, a quanto pare”.
Ci alzammo tutti ed andammo a saldare il conto di sei dollari a testa per poi andare verso l’ascensore. Essendo uno solo, ed entrandoci non più di quattro persone per volta, io ed Angelica aspettammo di sotto.
“Dimmi solo dove” sussurrò, lo sguardo fermo sulla porta d’acciaio e le mani strette a pugno.
Mi ascoltava, ma non approvava quello che facevamo. Neanche un po’.
“Gioielleria sulla dodicesima”.
E non parlammo più fino all’uscita dal centro commerciale, quando ci salutammo per tornare ognuno nelle rispettive strade.
A casa mi attendevano i compiti, una camera da sistemare ed un cane da pulire.
Ma appena svoltato l’angolo, a pochi metri da casa mia, due figure contro un lampione appena acceso attirarono la mia attenzione.
La luce fioca del tramonto mi impediva di vedere chiaramente chi fossero.
Uno dei due, quello più grosso, sembrava sul punto di staccargli la faccia a morsi.
Parlavano, si ringhiavano contro parole che non riuscivo a decifrare, poi accadde.
Quello più grande gli sferrò un pugno dritto nello stomaco.
L’altro, che di robusto aveva ben poco, gli rivolse uno sguardo carico di odio per poi arrampicarsi sul muretto dietro di lui e sparire tra gli alberi della montagna che circondava il paese ad ovest.
Il ragazzo si voltò, un’espressione soddisfatta stampata in viso, e ci mise poco ad accorgersi della mia presenza.
Si avvicinò quasi correndo e temetti l’impossibile.
D’istinto mi portai le braccia a coprire il volto, temendo l’impatto che però non arrivò.
Sentii un corpo rotolare a terra ed un vero e proprio ringhio, simile a quello di un cane ma più profondo.
Aprii gli occhi e la figura di uno dei gemelli mi fu subito chiara.
Gli era sopra, stava parlando a denti stretti dicendo qualcosa a proposito del non dimenticare il suo posto; questione di pochi istanti, poi lo lasciò andare.
Il ragazzo, che di fisico era leggermente più forte del gemello all’apparenza, mi superò senza neanche degnarmi di uno sguardo.
“Ma che cazzo è appena successo?!” urlai come impazzita.
Lui si avvicinò e sorrise, “Non raccontare a nessuno quello che hai appena visto, o mio fratello ti verrà a cercare”. E anche lui, come quello di prima, mi superò e sparì nella penombra.
Era davvero una minaccia quella che avevo appena sentito?
Quella sera non cenai e rimasi sveglia a pensare quasi tutta la notte.
Che motivo aveva di prendersela con me così tanto?
Sapevo che quei tre sconosciuti dalla Georgia non avrebbero portato nulla di buono.
  
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