A
radioactive,
perché
senza di lei non sarei qui.
«È
più bello ascoltare, sai?».
—
The Reader, a voce alta.
Quando Tyki si era alzato dal letto senza dire una parola, Lavi
aveva pensato che stesse per andarsene, e invece era tornato con uno dei vecchi
libri che aveva trovato nella sua borsa.
«Leggi» disse quasi
fosse un ordine, continuando a fumare mentre se ne stava steso sul fianco,
fissandolo con quell’aria distante che ogni tanto si obbligava a interporre fra
di loro, come quando gli aveva fatto intendere che preferiva che dormissero
dandosi le spalle. Lavi non aveva capito che cosa implicasse il guardarsi fino
a quando, una notte, non si era svegliato con il volto rivolto verso quel
profilo apparentemente perfetto, desiderando con tutto se stesso di potergli
sfiorare quel riccio scomposto che gli ricadeva sul naso.
Lì aveva imparato che
guardarsi negli occhi era un disastro, esattamente come lo era dormire assieme.
«Devo leggerlo?»
domandò Lavi confuso, osservando la copertina rovinata e poi quegli occhi di
ambra che sembravano risplendere nella penombra. Non trovava un motivo logico
davanti a quella richiesta pressoché assurda, ma Tyki
annuì soffiando una nuvoletta di fumo bianco dalle labbra.
«Devi leggerlo» ribadì
allungando una mano, aprendogli il libro alla prima pagina.
«Perché?» chiese di
nuovo lui, e il Noah si limitò a scrollare le spalle
con una certa indifferenza, come se non ci fosse una spiegazione specifica a
quella richiesta che sembrava un più un vero e proprio obbligo.
«Tu leggi e basta».
E Lavi non se lo fece
ripetere ancora, allungò la mano per aumentare l’intensità della lampada a olio
sul comodino, e poi incominciò, «Arma virumque cano, Troiae qui primus ab―»
lesse, ma un colpo sulla spalla lo costrinse a bloccarsi.
«In inglese» la voce di
Tyki era seria mentre stringeva la sigaretta fra le
labbra, i capelli spettinati gli ricadevano sul viso come viticci arsi dal sole
e inceneriti.
«Tu hai detto “leggi”,
non traduci» puntualizzò, ma il fatto che seppur sfogliandolo non avesse capito
di che lingua si trattasse gli suggerì che, probabilmente, Tyki
non sapeva leggere, ed era per quello che aveva chiesto a lui di farlo.
Lavi sorrise
sistemandosi meglio sul letto, poggiando la schiena al cuscino, «Canto as armas e o varão».
«Hai una pronuncia
orrenda» commentò Tyki interrompendolo di nuovo,
spegnendo la sigaretta contro il muro prima di poggiare la testa sul cuscino,
ascoltando il resto del racconto in silenzio.
Il respiro di Tyki sul suo collo lo fece vibrare piano mentre le sue dita
stringevano ancora quei ricci scuri. Riusciva a sentire ogni suo impercettibile
ansito, gli sfiorava la pelle madida in una carezza e scendeva come un brivido
lungo la colonna vertebrale.
Era successo come tutte
le volte: lo aveva casualmente
incontrato in quel paesino della Danimarca, lui aveva tentato di ucciderlo, gli
aveva rubato l’innocence e lo aveva ricattato, e in
meno di dieci minuti erano finiti fra le lenzuola di una stanza, in una vecchia
locanda gestita da un’anziana signora.
Il soffio caldo sul suo
collo diventò freddo e si allontanò fino a sparire, mentre Tyki
si spostava dal suo corpo e scivolava lentamente accanto a lui, sul materasso.
Non aveva bisogno di guardarlo per sapere quello che avrebbe fatto, e il rumore
del fiammifero che sfregò contro il bordo della scatola gliene diede la
conferma, seguito soltanto da quell’odore acre di tabacco che incominciava a
invadere la stanza.
«Non passavi di qui per
caso, vero?» gli chiese per lo più retorico. Non reggeva più la scusa del “Mi
trovavo da queste parti”, era praticamente impossibile che lo incontrasse così
spesso, che ci fosse qualcosa che ogni volta li faceva incontrare, soprattutto
quando Lavi era in missione da solo.
Tyki
lo guardò, impassibile mentre si allungava verso di lui, passandogli le dita
fra i capelli, «Può darsi» si limitò a dire, e poi si alzò attraversando la
piccola stanza, aprendo la valigia che Lavi aveva lanciato sul pavimento mentre
lui lo trascinava dentro la camera, premendo il bacino contro il suo.
Lo osservò mentre
faceva scattare l’apertura, sicuro che avrebbe trovato quello che stava
cercando, e poi ne estrasse un libro vecchio con le pagine ingiallite dal
tempo. Lo sfogliò in fretta mentre il fruscio della carta riempiva il silenzio,
e poi tornò sul letto, posando il tomo sul materasso.
Lavi sorrise senza dire
nulla, sapeva esattamente che cosa voleva che facesse, quindi si mise seduto e
aprì Medea all’ultima
pagina che ricordava di avergli letto, riprendendo da dove avevano lasciato la
volta precedente.
La mano di Tyki gli chiuse il libro con uno scatto, facendolo
sussultare.
«Basta» borbottò
strappandoglielo letteralmente dalle mani, allungandosi a carponi sopra di lui
per poggiarlo sul comodino.
Di tutti i libri che
gli aveva letto erano decisamente pochi quelli che gli erano piaciuti, primo
fra tutti il Satyricon,
e Lavi non faticava a comprenderne il motivo. Avrebbe preferito insegnargli a
leggere, così da non essere costretto tutte le volte a tradurgli intere pagine
nella sua lingua natia, così da rendere comprensibile ogni cosa, ma Tyki non aveva intenzione di imparare, non con lui almeno.
«Non ti piace neanche
questo?» gli chiese mentre la mano del Noah gli
sfiorava il petto, passandovi attraverso.
Lo sentì sfiorargli le
costole, una a una con la punta dell’indice, esattamente come si fanno scorrere
le dita sulle corde di una chitarra. Era una sensazione strana che lo
pietrificava ogni volta, quella sua macabra e insana passione nel toccargli le
ossa e i tendini senza però fargli del male.
Tyki
si chinò su di lui, le labbra a qualche millimetro dalle sue avevano
quell’odore di tabacco a cui aveva fatto lentamente l’abitudine, «Mi annoiava»
mormorò sfilando lentamente la mano dal suo torace, prendendogli il polso e
bloccandoglielo sul letto, «Muoiono tutti in modo stupido».
«Si chiama Tragedia per questo» provò a
rispondergli la Lavi, tentando di convincersi di non voler baciare quella bocca
con ogni briciola del suo essere.
Il cuore gli batteva
nel petto a un ritmo allarmante, ogni volta che le dita di Tyki
lo toccavano, che la sua voce lo chiamava, ogni parte del suo corpo sembrava
fare cortocircuito, capitanata da un cuore che strappava le redini al cervello,
incominciando a fare quello che non avrebbe dovuto.
Tyki
lo sapeva e se ne compiaceva, lo leggeva nei suoi sorrisi, in quello sguardo
soddisfatto che lo spogliava e ammazzava con gli occhi allo stesso tempo. C’era
in lui quella consapevolezza di aver fatto pulsare un cuore morto, di aver
macchiato di peccato un Apostolo di Dio.
«Beh, non mi piace»
disse sicuro, scostandogli i capelli dalla fronte, «Tem coisas que me
diverti mais1» soffiò su quel sorriso che gli sembrava un fiore
malato, sbocciato nel luogo più arido e inospitale della terra. Gli piaceva
sentirlo leggere, la sua voce aveva un che di melodioso e ipnotico, ma gli
piaceva di più fargli del male. «Come sentirti gridare…» e la sua mano premette
sopra uno dei lividi scuri che macchiavano quella pelle pallida, la stessa che
avrebbe voluto dipingere di rosso, come il colore di quelle ciocche sparse
sulla federa del cuscino.
Sembravano piccole
fiamme di fuoco, schizzi di sangue sulla neve.
Lo sentì mugolare
mentre lo baciava e il gemito di dolore soffocava sulle sue labbra, nella sua
bocca. Reprimere il desiderio di farlo a pezzi era difficile, non capiva che
cosa volesse farne di lui, se dopo avergli strappato il cuore dal petto non gli
sarebbe mancata la sua voce e il suo corpo, il modo in cui tentava di fuggire
da lui come un coniglio in trappola che alla fine si arrendeva e si lasciava
divorare dal lupo.
Lavi gli strinse le
spalle, le sue unghie nella schiena furono una scossa che gli percorse il corpo
mentre abbandonava quelle labbra che qualche ora prima aveva morso. Premette un
po’ di più sull’ematoma e lo vide sorridere mentre stringeva i denti e lo
guardava, senza dargli la soddisfazione di sentirlo implorare perché smettesse
di fargli del male.
«Sentirmi gridare di
dolore?» sibilò mentre la sua mano gli afferrava il polso, cercando di
spostarlo dal fianco che faceva male, perché ogni fitta di dolore era una
scossa che gli attraversava il corpo facendolo sussultare.
«Ouvir você gritar meu nome…2» e le dita scivolarono lontane da
quella botta che si era procurato il giorno prima, lungo il fianco e poi sul
petto e il collo. Lo baciò di nuovo, un bacio che non aveva niente di quello
precedente, cancellava tutto e si porta via ogni cosa. Anche Lavi.
Non sapeva più chi
fosse quando si infilava in quel letto, non sa più che cosa volesse fra quelle
braccia, e pensarlo non faceva altro se non spaventarlo.
Non avrebbe dovuto
guardarlo negli occhi. Non avrebbe dovuto leggergli nessun libro.
Il sesso era solo
sesso, era quello che veniva dopo che faceva paura.
Si staccò da quella bocca
con un sospiro, mentre la carnagione di Tyki
diventava rosea e quelle stigmate sparivano dalla sua fronte.
«Come faceva quella
frase che hai letto prima?» domandò passandogli le dita fra i capelli,
scendendo nuovamente sull’addome, fino all’ombelico.
Lavi tirò indentro la
pancia in un gesto involontario, «Quale?» gli occhi castani dell’uomo che aveva
davanti erano belli quanto quelli dorati che lo avevano guardato fino a ora,
esaminando ogni centimetro del suo corpo.
Non riusciva a trovare
grosse differenze fra il barbone che Allen aveva battuto a poker e il Conte
imbellettato nella sua giacca e cravatta. Non c’era nulla di regale in Tyki Mikk, forse elegante nei
movimenti e nei lineamenti del viso, ma non nell’uomo che passava le notti con
lui per poi sparire con la prima luce dell’alba.
«Quella cosa sugli
amori» cercò di spiegarsi prima di posare le labbra accanto al suo ombelico,
godendo della reazione involontaria del suo ventre che si abbassava.
Lavi ci pensò su un
secondo, «L’amore infelice rende crudeli?»
e Tyki annuì baciandogli il fianco e poi la coscia,
poggiando il capo sulla sua pancia.
C’era qualcosa in quei
momenti che gli faceva il cuore a brandelli, lo sentiva ticchettare come un
vecchio orologio che perdeva frammenti di ingranaggi; sepolto sotto strati di
polvere, misurava il tempo in modo sfasato, con secoli di ritardo, ma
continuava a funzionare.
«Você me ama?3» la voce di Tyki fu
la chiave che ricaricò il meccanismo del suo cuore. Incominciò a pulsare più in
fretta, lo sentiva perfino nelle orecchie e sul ventre, sotto le mani che gli
stringevano i fianchi.
Non sapeva cosa
rispondere. Non sapeva cosa dire.
Non era questo il
tacito patto che avevano fatto.
Quando Lavi si svegliò
il sole che entrava dalla finestra gli illuminava il viso e il petto,
scaldandogli la pelle.
Pensò al treno che
doveva prendere quella mattina mentre strisciava fuori dal letto, reduce da una
dormita di due, massimo tre ore. Ma mentre recuperava i pantaloni dell’uniforme
si accorse di non essere solo, come invece si aspettava.
«Bom dia» lo salutò Tyki, seduto sulla
poltrona con una sigaretta fra le labbra. Sul tavolino davanti a lui c’era l’Enrico IV che gli aveva letto solo
qualche ora prima.
«Pensavo te ne fossi
andato» ammise rivestendosi, infilandosi i pantaloni e la maglietta, notando
che la sua innocence non era nella giarrettiera.
Sapeva che Tyki non l’avrebbe distrutta, nei patti
che avevano fatto era quasi un obbligo lasciare il lavoro fuori da quelle
locande e stanze di alberghi, ma questo non toglieva il fatto che se la fosse
presa.
«Ho pensato di
rimanere, se non ti infastidisce» gli rispose lui con un sorriso, e Lavi si
infilò la casacca della divisa, sistemandosi poi anche la fascia per i capelli.
Sarebbe stato pronto ad andare, se solo avesse avuto il martello.
Si avvicinò a lui
poggiando una mano sullo schienale della poltrona, «Dammelo» gli disse senza
troppi giri di parole, e il sorriso sulle labbra di Tyki
si allargò appena. Sollevò la testa per specchiarsi in quell’unico occhio
smeraldo, e poi si alzò, infilandosi le mani in tasca.
«Cosa?» il tono
malizioso nella sua voce fece rimpiangere a Lavi la sua affermazione.
«Lo sai cosa, perderò
il treno se non mi sbrigo, e ho già due giorni di ritardo» quando sarebbe
tornato il Vecchio lo avrebbe come minimo ucciso. Riusciva già a immaginarlo
nella sua modalità di combattimento mentre lo accusava di aver perso tempo
dietro a belle ragazze e a dormire.
Se solo avesse potuto
sapere che cosa aveva fatto realmente, la morte non sarebbe stata una punizione
sufficiente.
Tyki
si sedette sul letto, la sigaretta fra le labbra mentre lo guardava con quel
fare divertito che gli faceva venire voglia di prenderlo a martellate in testa,
«Non sono certo di riuscire a farlo così in fretta da non farti prendere il
treno, mi dispiace» disse sbuffando un po’ di fumo dalla bocca e dalle narici.
Lavi sospirò sedendosi
accanto a lui, se si era messo in testa di non farlo partire ce l’avrebbe di
sicuro fatta. Il novanta per cento delle volte era lui ad avercela vinta, non
importava quanto si impuntasse.
«Che cosa devo fare
perché ti decida a farmi andare via?» gli chiese mentre Tyki
si allungava a baciargli il collo, sfilandogli la sciarpa.
«Finire il libro» gli
soffiò sulla pelle, conscio del fatto che mancassero più di cento pagine.
La luce della lampada a
olio gli feriva l’occhio stanco, gli sfocava la vista già appannata da alcune
lacrime che gli restavano intrappolate fra le ciglia. Il parassita dentro il
suo corpo gli causava un dolore tremendo, ma non continuo. Erano come piccoli
spasmi involontari dei suoi muscoli, mentre nel suo corpo veniva rilasciata
quella piccola quantità di dark matter che lo
avvelenava lentamente.
Era già morto.
Non gli era chiaro come
fosse passato da quella poltrona accanto al Vecchio a quella stanza cupa e
spaziosa, alle coperte grigie sul quale stava steso, ma non gli importava
molto, voleva solo che tutto finisse in fretta.
«Bom dia, coelho», quella lingua e
quell’accento lo fecero vibrare appena, non riusciva a metterlo a fuoco, ma
intravedeva la sua figura seduta sul letto, davanti a lui. Lavi non disse
niente, si sentiva solo il nuovo giocattolo nelle mani di un gruppo di bambini,
avrebbe dovuto immagine che Tyki avrebbe voluto la
sua parte di divertimento, se non altro in memoria di quel qualcosa che avevano avuto in passato.
Le sue dita fra i
capelli furono la prima cosa piacevole dopo un’infinità di sofferenza, erano la
calma prima dell’uragano che lo avrebbe distrutto e sbrindellato, mascherata
sotto forma di una coccola materna e rassicurante.
Non voleva che lo
toccasse così.
Riusciva a intravedere
la sua figura, appannata dalle lacrime che gli impreziosivano le ciglia,
l’odore della sua colonia che profumava di ambra e di agrumi incominciava a
solleticargli le narici, ricordandogli ogni notte, ogni amplesso e bugia
taciuta.
La mano di Tyki si spostava, la sentiva sulla guancia e poi sul naso,
gli sfiorava l’occhio intrappolando quelle piccole perle che scivolavano
involontariamente lungo il suo zigomo, aiutandolo a vedere.
Aveva i capelli lunghi,
adesso. Lo stesso odore di sigaretta e arancia sulla pelle e su quei ricci che
sapeva morbidi sul palmo e i polpastrelli, ma gli occhi erano diversi da come
li ricordava, indifferenti.
Non volevano più che
gli leggesse nessun libro, non volevano trattenerlo per spogliarlo e baciarlo.
Non volevano lui.
Tossì e gli sembrò che
i polmoni si riducessero in polvere mentre trovava la forza di parlare, di dire
qualcosa di logico e sensato.
«Perché sono qui?»
riuscì a mormorare, e ogni parola gli graffiò la gola come un coltello piantato
nella trachea.
«Shh…»,
la bocca di Tyki si posò sulla sua mentre lui gli
spostava i capelli dalla fronte, esattamente come faceva qualche mese prima,
quando aveva avuto la soddisfazione di far battere un cuore che non esisteva,
di impiantargliene uno nuovo e fragile, di cartapesta.
Lo baciò e la sua
lingua aveva il sapore del tabacco, il sapore di ogni bacio che gli aveva
rubato in quelle stanze scure e malmesse. Era una cosa che non avrebbe mai
dimenticato, esattamente come la consistenza di quei capelli, del respiro di Tyki sulla sua pelle, fra le sue gambe. Non gli era
concesso cancellare niente, la sua testa si ostinava a immagazzinare ogni cosa
e a farla sua, perché era fatto così, perché era quello che gli avevano
insegnato, e adesso che ne aveva bisogno, adesso che voleva dimenticare, non
riusciva più a farlo.
Le mani di Tyki gli sfiorarono il fianco, erano fredde, le sentì
sfiorargli le ossa del bacino, disegnare quella piccola curva e arrivare alla
testa del femore. Ogni nervo, ogni tendine teso urlava una pietà che non gli
sarebbe stata data.
«Non ti mancano i
nostri incontri?» gli sussurrò sulle labbra, gli occhi d’ambra fissi nei suoi
gli ricordarono dove aveva sbagliato, dove forse avevano fallito entrambi.
«Dovrebbero mancare a
te» gli rispose, la voce roca che gli uscì non gli parve nemmeno la sua,
«Dovrebbero mancarti le nostre letture» aggiunse con un sorriso che pareva una
smorfia di dolore, il fiore malato sul punto di appassire.
Tyki
rise facendogli improvvisamente venire un vuoto allo stomaco, «Leggo comunque»
ammise, come se volesse sottolineare che non era quello di cui sentiva la
mancanza, «Ma è più bello ascoltare».
La mano sul suo petto
attraversò i vestiti e i muscoli in un secondo, la sentì stringergli il cuore
in una morsa mentre le labbra di Tyki gli sfioravano
la guancia e poi la benda. Il profumo d’agrumi era più intenso, sapeva di loro,
gli evocava attimi che non voleva rivivere. Non più.
«L’amore infelice rende
crudeli, Lavi» citò, ricordandogli il periodo in cui gli lesse Medea.
Il cuore gli batteva
all’impazzata in quella prigione di carne, aveva il terrore che potesse
strapparglielo in una frazione di secondo, prima che lui se ne potesse
accorgere, ma non si decideva a farlo. Restava lì, immobile, ad ascoltare ogni
singola pulsazione, ogni lento e guasto ticchettio, come a volergli ricordare
di avere quel pezzo mancante, di aver aggiustato un orologio rotto.
«Você me amou, Lavi?4» gli chiese,
e quella domanda era un brivido che gli scuoteva le interiora, che aumentava il
ritmo del suo cuore.
Lo aveva amato?
Se lo aveva amato lo
aveva fatto per sbaglio, per il modo in cui pronunciava il suo nome, per quelle
sensazioni contrastanti che gli riempivano il petto. E per il cuore. Il cuore
che non aveva e adesso batteva in fra le sue dita.
«No…» mentì in un
soffio, l’ennesima bugia.
Lo aveva amato, se
quello era l’amore, se desiderare toccarlo e averlo ogni secondo, pensando che
la luna ricordava i suoi occhi, che fumare gli lasciava il sapore della sua
bocca sulla lingua.
Se quello era l’amore,
se pregare di non essere se stesso era l’amore, allora lui l’aveva amato
davvero.
Amato come si ama la
propria terra natale o un paesaggio.
Amato come si ama un
ricordo.
Non era importante se
lui avesse ricambiato, se lo avesse preso in giro, se era stato tutto un gioco,
una sfida. Lo sfizio di provare ad amare un esorcista, ad amare un bookman, un uomo che per definizione non ama.
Non gli interessava, ma
avrebbe voluto saperlo. Sapere se fosse vero, se anche lui avesse amato i suoi
capelli, il suo sorriso, il colore del suo occhio e l’odore della sua pelle.
La sua voce, il modo in
cui senza chiedergli il motivo e pur sapendolo gli aveva letto tutti quei
libri, raccontato tutte quelle storie, detto il nome delle costellazioni e
insegnato a leggere.
Avrebbe voluto saperlo,
sapere se lo avrebbe dimenticato, se quel dolore era la giusta punizione per
avergli fatto provare qualcosa che non avrebbe voluto provare.
La pena da scontare per
averlo fatto innamorare.
«E tu, mi hai amato?»
chiese, e Tyki sorrise, baciandogli la tempia.
«L’ho dimenticato».
1
– Ci sono cose che mi divertono di più.
2
– Sentirti gridare il mio nome.
3
– Mi ami?
4
– Mi hai amato?
NdA; In the Tyki Tyki room. ~
Buongiorgio(…)
a tutte le povere anime che sono
arrivate fino a qui.
Devo spiegare un po’ di
cose, sperando di non dimenticare nulla di importante – le note sono sempre la
parte più difficile, finisce che dico un terzo delle cose che avrei voluto.
Allora, incominciamo
dal fatto che io amo che Tyki sia analfabeta, perché
chiaramente lo è. Non so se non sa leggere, ma mi piace l’idea che non sappia
farlo, soprattutto all’interno della Lucky. Quindi ho semplicemente preso
ispirazione da un film che si chiama The Reader – A
voce alta – ve l’ho linkato, nel caso qualcuno fosse interessato alla
trama.
L’idea di questa storia
era di raccogliere piccoli momenti della loro lettura, accompagnati
dall’evolversi della loro relazione fino al punto di rottura, quando Lavi è
prigioniero dei Noah con il Vecchio (cioè ora, dato
che la Hoshino non ci ha fatto ancora sapere nulla di
quei due, ma facciamo finta di niente). Insomma, spero che sia tutto chiaro, io
mi faccio prendere dal pov di Lavi ogni volta e il
tutto finisce sempre in un delirio introspettivo tremendo, quindi vi chiedo
umilmente scusa. Spero che sia anche intuibile che Tyki
abbia imparato a leggere, alla fine, e che entrambi si siano chiaramente amati
a modo loro.
Mi piace sempre
guardare al lato angst di questa relazione, forse ho
una visione un po’ distorta di questa coppia, ma adoro che Tyki
si innamori di Lavi e senta comunque il bisogno di farlo a pezzi, perché è la
sua natura, e per quanto reprimerla è difficile.
Le frasi in portoghese
sono state tradotte da radioactive che è bilingue e
che non smetterò mai di ringraziare, perché Tyki
nella sua lingua rende di più. Per quanto riguarda il fatto che parli
portoghese e che Lavi lo capisca, io penso che per fare il Bookman
(al di là del manga in cui tutto il modo parla la stessa lingua) devi conoscere
molte lingue, quindi per me Lavi sa
moltissime lingue. Non ho messo la traduzione italiana di Buongiorno (Bom
dia) e di Coniglio (Coelho), spero
sia stato comunque chiaro.
Il banner appartiene a radioactive,
che non smetterò mai di ringraziare per avermi incitato a scrivere su questa
mia coppia storica. È tutta tua. ♡
Ora posso volare via. ~
yingsu