Storie originali > Soprannaturale > Vampiri
Ricorda la storia  |      
Autore: roro    23/01/2009    12 recensioni
C’era qualcosa di strano.
Di assurdo.
Di assurdamente
inumano.
Toccai leggermente la cornice, lasciando scorrere le dita tra le decorazioni, distratta –
confusa. No. Era inconcepibile. Doveva essere uno scherzo di pessimo gusto che Nathan aveva organizzato per il compleanno, per farmi ridere. Per farsi quattro risate alle mie spalle. Ma non era divertente.
E non era uno scherzo.
“Ehi, c’è qualcosa che non…”, deglutii. “Questo specchio è rotto, ragazzi. Non mi riflette!”.

Prima classificata al Contest [The bite of a vampire] indetto da Ghen sul forum
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Human Being
  Human Being

 

A Susi. Perché, se il giorno dei risultati non sono morta, lo devo a lei.

A Elisa. Perché Elisa è Elisa, e merita tutto ciò che posso darle.

A Hime. Perché Hime mi tira sempre su di morale.

E a quelli che, su msn, mi sopportano costantemente.

Image and
video hosting by TinyPic

The truth is hiding in your eyes

And it’s hanging on your tongue

Just boiling in my blood,
But you think that I can’t see

[Decode - Paramore]

 

 

 

Capitolo 1

“Nathan, quella bevanda è alcolica, sai?”, borbottai, osservando il mio migliore amico tracannarsi con ingordigia un enorme bicchiere di vodka. Da quando l’avevo visto la prima volta – appena arrivata all’orfanotrofio Cuore Gentile, dopo essermi equamente divisa tra una sottospecie di casa famiglia ed una zia troppo indaffarata – non si era mai comportato in modo così strano.

L’avevo visto giocare a calcetto, leggere libri, parlottare con i coetanei, ma mai bere così avidamente qualcosa. Anzi, non l’avevo mai visto bere e basta.

Fece un impercettibile cenno col capo, come per rassicurarmi, e si voltò verso il mio bicchiere. “Posso?”.

Domanda superflua: con un sospiro, lo spinsi verso di lui. Il liquido color caramello si increspò appena, mentre Nathan, con aria assorta, lo portava alle labbra. Sembrava diverso. Più carino, insomma.

Scuotendo il capo, mi imposi di sopprimere ogni possibile sentimento verso di lui. Dovevo impormelo. Era assolutamente improduttivo fargli il filo. L’avevo capito un mese prima, quando avevo visto una ragazza due-anni-più-grande-di-lui scappare via in lacrime dopo essersi dichiarata.

“Nathan, stai esagerando”. Osservai critica i cinque bicchieri che ormai giacevano, assolutamente puliti, sul tavolino.

Non avrei dovuto chiedergli di accompagnarmi in discoteca – dopotutto, il mio diciottesimo compleanno non era poi un avvenimento così importante. Avremmo anche potuto trascorrerlo nell’affollata sala comune, insieme a quei viscidi vermi che erano i nostri compagni.

“Alice, sto benissimo. Posso berne ancora”.

Certo, pensai, ma evitai di dirlo ad alta voce. Non mi piaceva sembrare quella matura, tra i due.

Sentii il dj dire qualcosa di assolutamente inutile, ma mi voltai ugualmente, curiosa. Ovviamente, il tipo cercava una ragazza con cui passare la notte – mi strinsi maggiormente nel mio logoro cappotto invernale. Iniziava a fare freddo.

“Nathan?”.

Non rispose.

Le luci nella stanza iniziarono ad abbassarsi, e, ben presto, ci ritrovammo completamente al buio.

Cercai la sua mano, tentoni – avevo bisogno di essere rassicurata. Dopotutto, all’età di sette anni ero rimasta chiusa in uno scantinato per tre giorni. Non era colpa mia, l’essere insanamente terrorizzata dal buio, no?

“Ehi, sei ancora tra noi?”.

Sentii una roca risatina, e qualcosa mi spinse contro il divanetto. Sbattendo le palpebre, mi resi conto che era lui. Ed era davvero, davvero forte. Dannazione, le dita – le sue dita lunghe ed affusolate – si erano serrate intorno alle mie spalle, dolcemente, ed il suo volto era molto – troppo – vicino al mio.

Gemetti, confusa.

Le sue iridi smeraldo risplendevano nell’oscurità, emanando continui bagliori ad ogni suo impercettibile movimento.

Notai le sue labbra ricurve in un’espressione compiaciuta, e una tremenda puzza di alcol mi spiazzò. , aveva bevuto troppo. No, non era capace di trattenersi, da ubriaco. Toccava a me rimetterlo sulla retta via, ovvio.

“Nathan, dai, non fare il coglione. Lasciami andare”, balbettai, tentando di essere una normale adolescente. Magari, dire qualche parolaccia mi avrebbe aiutata a ritrovare la calma – scavai nei meandri della mia memoria, tentando di ricordare qualche termine particolarmente scurrile.

“No, chérie”.

Sbattei le palpebre, confusa. “Come mi hai chiamata?”.

Chérie. Non ti piace questo soprannome?”, biascicò. Sembrava confuso. E di certo non in sé.

“No, Nathan. Non mi piace. Quindi, che ne diresti di spostarti e di farmi alzare?”. Tutto sommato, quella storia poteva essere divertente. Avrei potuto prenderlo in giro per l’eternità, ricordandogli questo spiacevole incidente ogni-singolo-giorno.

Lo sentii borbottare qualcosa, e alzai lo sguardo. Appena in tempo – le labbra di Nathan, voraci, si posarono sulle mie. Il mio stomaco fece una capriola – e, suppongo, anche qualche triplo salto mortale – prima di riuscire a farmi anche solo capire ciò che stava avvenendo.

Indecisa, lasciai ricadere le braccia mollemente lungo i fianchi, e, chiusi gli occhi, mi assoggettai totalmente al suo volere.

Era strano.

Molto strano.

Avevo già baciato, in passato, ma mai così – le sue labbra erano morbide, e sfioravano avidamente le mie. Sembrava volermi mangiare, e la cosa, stranamente, mi lusingò. Quel contatto era incredibilmente libidinoso, oltre che eccitante. Cazzo, mi ritrovai a pensare, incapace di fare nulla.

Mi scappò un gemito, mentre lui lasciava le mie labbra per passare al collo. Era assurdo. Nathan non era in sé, e io lo lasciavo fare. Ero totalmente stupida – sospirai, quando mi mordicchiò.

Era quasi piacevole. Almeno all’inizio.

A un tratto, mi sentii mancare, e strinsi con forza le dita intorno alle sue braccia. Avrei voluto essere così forte da fargli capire che mi stava facendo del male, ma non ci riuscii, e mi limitai a mormorare lamentosamente il suo nome, in attesa.

Dopo pochi attimi – o erano molti minuti? – Nathan mi lasciò, guardandomi, sconvolto.

Non capii perfettamente ciò che diceva, ma smisi di chiamarlo, e lascai ricadere nuovamente le braccia sul divanetto. Non riuscivo a mantenerle sollevate. Ero troppo stanca.

“Alice? Stai bene?”.

Perché stava urlando?

Tentai di sollevare il capo, ma mi doleva troppo, e mi limitai ad aprire la bocca. Dannazione, non sentivo la mia voce. Forse ero diventata sorda.

“Alice?”.

Avrei voluto dirgli che stavo bene, ma la bocca era come incollata – sembrava chiusa, sigillata, inchiodata. Non potevo fare nulla. Ma dovevo parlare.

Nathan mi fissò a lungo – o per poco? – prima di mordersi il labbro inferiore, e far vagare lo sguardo per la sala.

“Alice, chiudi gli occhi”.

Feci cenno col capo, prima di riuscire ad articolare una frase di senso compiuto. “Perché devo chiudere gli occhi?”, la mia domanda fu roca, dolente. Rabbrividii.

Non sembrava la mia voce.

“Non è il momento, Alice. Dopo ti spiegherò tutto, ma ora fai silenzio, per favore. Nessuno deve notarci”. Scrutai un’ultima volta i suoi occhi verdi – sembrava preoccupato –, prima di chiudere i miei, e di sospirare. Il pungente odore d’alcol che circondava Nathan mi colpì in pieno, e fui costretta a trattenere il fiato per un po’. Era strano. Non ero mai stata particolarmente sensibile agli odori.

Storsi il naso, e immersi debolmente il capo nel suo petto, inspirando la sua camicia, ancora pregna di un delicato profumo di dopobarba.

Avevo sonno.

E sete.

Molta sete.

Quando uscimmo dalla sala, sentii qualcosa bagnarmi il volto. “Sta piovendo?”, chiesi, incerta.

“Sì. Ma non preoccuparti, tra poco saremo all’asciutto”, rispose lui. Notai una nota di panico nella sua voce, ma tentai di non pensarci. “Starai bene, Alice. Starai benissimo”.

Tentai di fare un cenno di assenso col capo, ma tutto girava, e fui costretta a concentrarmi per non vomitare. Non sarebbe stato piacevole. Non davanti a lui, perlomeno.

Sentii qualcosa cigolare, e portai automaticamente una mano sul naso, incapace di respirare – odore di vecchiume, di mobili ormai deteriorati dal tempo, di legno consunto…

“Nathan, dove mi hai portata?”, borbottai.

Rise leggermente, prima di rispondere: “A casa”.

Casa?”, ripetei, scettica – l’odore dell’orfanatrofio non era così sgradevole. Non che io apprezzassi particolarmente il fastidioso profumo di sigarette mischiato a quello di caramelle stantie, ma era di certo più umano dell’odore di quella stanza.

La bocca mi si fece stranamente arida, e sentii sulla lingua il sapore di vecchio – di tutta l’anticaglia che mi circondava, quasi avessi mangiato un mobile. Era nauseante.

“Nathan, dove siamo?”.

“Te l’ho detto, Alice”. Sembrava preoccupato, ed evitai d’insistere, socchiudendo gli occhi quel tanto che bastava per mettere a fuoco la stanza. Era polverosa. Molto polverosa.

Mobili di legno, ormai deteriorati, troneggiavano nei vari angoli – probabilmente, questa casa doveva essere stata una dimora assai ricca e prestigiosa. Notai uno specchio, sulla parete opposta alla mia: benché scheggiato, la sua cornice era intarsiata minuziosamente, e sembrava un oggetto di valore.

Sospirai. “Questo non è l’orfanatrofio”, commentai, saccente. Non mi piacevano le bugie, specie se provenienti da lui. “E non mi risulta tu abbia una casa”.

“Non ti risulta”, borbottò. Poi accennò un sorriso, tentando di mettermi a mio agio. “Non è propriamente casa mia, Alice, ma possiamo dire che mi appartiene”.

“Ah”.

“Beh, possiamo anche dire che ora è anche casa tua”.

Alzai lo sguardo, incontrando le sue iridi smeraldine, tentando di trovare un barlume di sincerità in quelle pozze imperscrutabili. “Non scherzare”, grugnii. Avevo capito di non poter aspirare ad una casa tempo prima, quando anche la mia quinta famiglia adottiva era morta in un incidente d’auto. “Io sono orfana. Diciottenne, ma orfana. Non ho una casa”. Enfatizzai la parola orfana con delle occhiate sempre più rabbiose, lasciandogli intendere chiaramente che non ero in vena di scherzi.

Rise, stringendomi maggiormente contro di sé. “Sbagli. Dopo quello che ho combinato stasera, questa è casa tua”.

Cosa aveva combinato di così terribile?

Sbattei le palpebre, curiosa, e aprii la bocca per chiederglielo – un’improvvisa fitta al collo mi colse, e gemetti di dolore, iniziando a tossire convulsamente. Faceva male, cazzo!, faceva tanto male!

“Alice?”.

Nuovamente, la sua voce mi giungeva distorta, quasi proveniente dal fondo di una qualche caverna. Avrei voluto intimargli di non urlare, ma non riuscivo ad emettere alcun suono. La bocca si apriva, l’aria usciva, ma non c’era alcun rumore. Gli occhi iniziarono a pizzicarmi.

“A-Alice, stai tranquilla”.

Ringhiai.

Non so come. E non so perché.

Ma un ringhio cupo uscì dalle mie labbra, mentre la mia vista diveniva sempre più strana – tutto ciò che mi circondava appariva rosso, come colorato da una lente. E desideravo uccidere con tutta me stessa. Desideravo mordere il collo di Nathan, squartarlo, bere il suo sangue il più avidamente possibile… Desideravo nutrirmi con il suo sangue. Questo mi inquietò non poco.

Ero umana?

Alzai lo sguardo, ringhiando nuovamente.

Un umano avrebbe ringhiato ad un suo amico?

Mi mossi velocemente, scappando dalle sue braccia e portandomi innanzi a lui.

Non riuscivo a stare dritta, e mi incurvai, poggiando le nocche delle mani sul pavimento, come un uomo primitivo. Lui continuava ad osservarmi, tranquillo.

Grugnii.

“Alice, respira”, biascicò, avvicinandosi.

Istintivamente, feci un passo indietro. “Stammi lontano”, riuscii a mormorare a mia volta. Uno strano rumore – dei campanelli, forse – attirò la mia attenzione.

Era un qualcosa di indefinibilmente lucente. Sussultai, mentre questi – era un lui o una lei? – si avvicinava.

“Benvenuta!”.

Capitolo 2

Era bionda.

E carina.

Era una ragazzina dai capelli color del grano maturo e gli occhi vitrei. Mi sorrideva, avvicinandosi lentamente, come se io non fossi una belva assetata di sangue ma una sua vecchia amica d’infanzia.

Istintivamente mi retrassi, lasciando che un nuovo ringhio fuoriuscisse dalle mie labbra.

“Ehi, Nathan, dove l’hai trovata?”, chiese la biondina, indicandomi con un dito. Sembrava divertita.

“Non l’ho trovata”, borbottò lui, abbassando il capo e passandosi una mano tra i capelli scuri. Poi sospirò, sconfitto. “L’ho creata io”.

Bene.

Ora era assodato: non ci capivo assolutamente niente.

Cosa aveva creato? O, meglio, come mi aveva creata? Dopotutto, io ero umana, no?

Mi aveva forse iniettato per errore qualche sostanza sperimentale proveniente da uno sconosciuto laboratorio estero in cui si studiava come ricreare il desiderio di sangue?

Sbuffai, assolutamente impotente. Non sapevo cosa dire. E avrei voluto unicamente dissanguare Nathan – solo lui. Quella mocciosa – almeno credevo fosse una mocciosa – non scatenava in me alcuno istinto. Era solo una bambina nel posto sbagliato al momento sbagliato.

“L’hai creata?”. La voce della ragazza era diventata insolitamente acuta, e mi costrinse a coprirmi le orecchie con le mani, gemendo di dolore. “Nathan, sei un cretino. Come hai potuto crearla?”.

Ecco, finalmente una domanda intelligente: come mi avevi creata, Nathan?

“Beh”, esalò lui imbarazzato. “Temo di aver bevuto un po’ troppo…”.

Sobbalzai, mentre la biondina scoppiava in una divertita – e insolitamente gutturale – risata. “Oh, Nathan, sei un incompetente. Almeno la conosci?”. Mi guardò sorridendo gioviale, come desiderosa di placare la mia ira. “O è una perfetta sconosciuta che hai abbordato in discoteca?”, insinuò, dandogli le spalle per avvicinarsi a me.

Alice”, si limitò a sussurrare, come se il mio nome fosse unico al mondo. O come se lei fosse a conoscenza della mia identità.

La vidi trasalire. “Hai trasformato la tua migliore amica?”, chiese, incerta. Sembrava sconvolta.

“Sì”.

Trasformato?

In che senso mi aveva trasformata?

“Io sono Charlotte, piacere”. Tentando di mantenere la calma – la notai contrarre le labbra, probabilmente aspettandosi una mia reazione violenta – mi porse la mano. “Quindi Alice sei tu! Sai, non vedevo l’ora che quello stupido si decidesse a presentarti!”.

In modo meccanico ricambiai la stretta. Poi, dopo essermi schiarita la voce, mi decisi a parlare: “Cosa significa trasformare?”.

Sorrise. “Vedi quello specchio laggiù?”.

Annuii. “È uno specchio”, commentai a bassa voce. Ok, aveva detto specchio, ma credevo fosse qualcosa di più grande, e non il minuscolo specchio da parete che avevo notato dopo essere entrata in quella casa. Sospirai. “Che me ne faccio di uno specchio scheggiato?”, domandai, facendo qualche passo disinvolto verso la parete.

“Oh, beh…”. Lei rise. “Osservati. Osserva il tuo riflesso, Alice, e dimmi che te ne pare”.

“Ok”.

Lentamente carezzai la superficie riflettente, illuminata fiocamente da una candela appena accesa dalla biondina. Sentii Nathan dire qualcosa – non so se rivolto a me o a lei – ma non ci badai, stringendo le palpebre.

C’era qualcosa di strano.

Di assurdo.

Di assurdamente inumano.

Toccai leggermente la cornice, lasciando scorrere le dita tra le decorazioni, distratta – confusa. No. Era inconcepibile. Doveva essere uno scherzo di pessimo gusto che Nathan aveva organizzato per il compleanno, per farmi ridere. Per farsi quattro risate alle mie spalle. Ma non era divertente.

E non era uno scherzo.

“Ehi, c’è qualcosa che non…”, deglutii. “Questo specchio è rotto, ragazzi. Non mi riflette!”.

La risata della ragazza non si smorzò, ma, anzi, divenne progressivamente più forte. Avrei desiderato schiaffeggiarla, e chiederle perché era così allegra.

“Non è rotto”, biascicò tra una risata e l’altra. “Funziona benissimo, Alice. È uno specchio molto antico, sai?”.

Era irrilevante la sua età, giusto?

Probabilmente, ero uno di quegli specchi che usano i clown. Di quelli che si trovano tanto spesso all’interno dei luna-park, e che tutti trovano divertenti – tutti tranne me da quel giorno.

“Sai, Alice?”, continuò, sorridendomi e avvicinandosi. “Questo specchio risale ai temi dell’Inquisizione… Lo usavano i Cristiani”.

Non c’era alcun nesso con la mia situazione. Dovevo respirarmi. Uno specchio vecchio qualche secolo non poteva uccidermi, no?

“Le streghe era piuttosto simpatiche. Ne ho conosciute parecchie, nei miei novecento anni”, buttò lì, alzando poi lo sguardo per controllare la mia reazione. Mi resi conto solo in quel momento di stare trattenendo il respiro, e di sentirmi turbata. Io non ero una strega. Ero umana. “Beh, molte di quelle che hanno bruciato non conoscevano neppure una parola magica. Erano solo delle mocciose irritanti che passavano davanti al tribunale”. Rise, gutturale, per poi sollevare nuovamente gli occhi vitrei e sogghignare. “Invece, la nostra specie era lasciata in pace. Ci temevano troppo, per ucciderci. Sai, preferivano tenerci lontani dai centri abitati, e costringerci a vivere nelle foreste, nutrendoci di quei disgustosi animarli”.

Mi sentii mancare, e indietreggiai istintivamente, poggiando una mano contro la parete fredda – ero più gelida io. Ero più fredda della parete, e di ogni mobile circostante, e di tutto ciò che era all’esterno. Non so come, ma, con uno sguardo, riuscii a capire la temperatura corporea di ciò che mi circondava, e un suono strozzato fuoriuscì dalle mie labbra.

“Non l’hai ancora capito, Alice?”, insistette.

Notai Nathan muoversi nell’oscurità, e porsi nel ridotto spazio tra me e lei – gli fui istintivamente grata. “Grazie”, sussurrai. Lui mi sorrise di rimando.

“Non hai ancora capito quel che siamo?”. Rise nuovamente, passandosi poi una mano tra i capelli biondi e sistemandoli un po’. “Nathan non ti ha mai parlato della sua vera natura?”.

La credevo una ragazza normale, invece ora sembrava ossessionata. Tremai. “Non capisco. Non capisco e non mi interessa, Charlotte. Noi siamo esseri umani”.

Mi sorrise, prima di poggiare una mano sulla spalla di Nathan per costringerlo a voltarsi. “Ehi, tesoro, credevo le avessi detto qualcosa. Così è tutto più difficile, ti rendi conto?”.

Lui grugnì. “Alice, non badare a questa vecchia pazza. Tu sei umana”.

“Certo”, mormorai, più volta a convincere me stessa che lui. “Io sono umana. Sono una normalissima umana, no?”.

“Oh”. Charlotte mi osservò comprensiva. “Piccola, è solo… come dire… una sensazione momentanea. Continuerai a crederti umana ancora per un bel po’, se continui così”.

Inarcai un sopracciglio.

No.

Io ero umana.

Umana.

Nulla più, nulla di meno.

L’espressione di Charlotte sembrava volermi convincere del contrario, Nathan sembrava volermi sostenere. Mi morsi le labbra, fissando prima l’una, e poi l’altro.

La biondina non distolse lo sguardo, limitandosi a ghignare – il mio migliore amico, invece, abbassò quasi subito gli occhi verso il pavimento, osservando con aria distratta una palla di polvere che rotolava per la stanza, mossa da un leggero spiffero notturno.

Chinai io stessa il capo.

Charlotte non mentiva. Quel comportamento di Nathan, il suo nascondere lo sguardo, il tenue rossore sulle sue gote, gli occhi ancora dilatati… Tutto mi suggeriva la sua menzogna. Deglutii, voltandomi nuovamente verso di lei. “Cosa sono?”.

Era assurdo.

Io ero umana.

E allora perché mi sembrava di non esserlo, perché avevo lasciato che quella domanda fluisse dalle mie labbra come un torrente di montagna? Perché ora osservavo Charlotte mordendomi il labbro inferiore, nel tentativo di farmi dire la verità?

“Beh”. Mi sorrise. “Sei un vampiro, Alice”.

Risi. Risi di gusto. Era così comico!

Un vampiro? Io? Tutti noi? Vampiri?

No, era ridicolo. Era una barzelletta ben congeniata.

“Io?”. Presi fiato. “Un vampiro?”.

“Oh, non sapevo di essere così divertente”, sbuffò lei. “Credi sia una bugia, Alice? Credi che i vampiri siano immagini di fantasia?”. Sorrise, compiaciuta – avevo smesso di ridere, e la osservavo confusa. “Questa sera – da quando Nathan ti ha morso – non hai avuto alcun desiderio di mordere?”.

Sbiancai completamente.

Sì. Certo che sì. Avevo desiderato il sangue di Nathan, e mi ero resa conto da sola di non essere normale. Ne avevo ancora sete.

“Vedi?”. Charlotte mi si avvicinò, per poi darmi un tenero buffetto sulla guancia, e sorridermi. “Non è così male, comunque. E puoi anche nutrirti di cibo umano, se non puoi bere sangue. Non ti sembra conveniente?”.

Inclinai il capo di lato. “Eternità e sete di sangue”, borbottai. “Beh, sì, uno scambio davvero equo”.

Nathan avanzò, desideroso di dire qualcosa, ma un rumore di vetro che si rompeva attirò la nostra attenzione.

Mi misi in posizione di difesa, i canini luminosi nell’oscurità e la fronte corrugata – essere vampiri era una cosa istintiva. Mi era bastato essere morsa, per capire cosa fare. E la trasformazione non durava tre giorni di agonia – osservai il quadrante luminoso del mio orologio da polso e mi resi conto, con aria scioccata, che non erano passate che poche ore, da quando eravamo usciti per festeggiare il mio compleanno. “Cos’è?”, domandai, notando con stupore che loro sembravano assolutamente tranquilli.

“Oh, è Maya”.

“Maya?”. Chi era Maya?

“Sì”, rispose Nathan. “Maya”.

Iniziavo ad innervosirmi. “Maya chi?”, insistetti.

“Ah, già, tu non conosci Maya”, ridacchiò Charlotte, guardando con apprensione l’unica porta nella stanza – era bruciacchiata, e odorava di pistacchio. Avevo sempre odiato il pistacchio.

“Maya è una sirena”, spiegò lentamente Nathan, mentre io mi domandavo in che razza di universo alternativo ero mai finita. “Recentemente si è distaccata per errore dal suo branco. L’abbiamo ritrovata distesa sulla sabbia, l’aria spaesata…”.

“E nuda”, aggiunse la biondina con ilarità.

Mi morsi il labbro inferiore. Probabilmente era la ragazza di quel troglodita idiota di Nathan. “Oh, beh, dopotutto è una sirena”. Annuii soprappensiero, immaginandomi una ragazza dai lunghissimi capelli rossi e gli occhi di un meraviglioso verde come la Sirenetta della Disney. “Ha la coda o le gambe?”, domandai poi, tentando di darmi un’aria interessata. Dopotutto, quella curiosità mi assediava sin dall’infanzia, e – finalmente – potevo appagarla.

Charlotte rise. “Beh, non credo che la coda sia adatta a camminare, sai?”. Si voltò nuovamente verso l’ingresso. “Preferisce usare le gambe sulla terra, e la coda in acqua”.

Nuovamente l’immagine di una bellissima Ariel con la voce incantatrice si formò nella mia mente – ero vampiro da poche ore, e già incontravo una creatura mitologica. Una stupenda creatura mitologica.

Forse avrei dovuto essere più entusiasta.

“Posso incontrarla?”, dissi, fingendo ansia. “Dopotutto, non succede tutti i giorni di poter fare la conoscenza di una sirena, no?”.

Nathan annuì. “Beh, immagino di no. Andiamo, te la presento subito”.

Charlotte gongolò, correndo verso la porta ed aprendo leggermente l’anta. Un fiotto luminoso rischiarò la stanza. “I vampiri non si dissolvono con la luce solare, vero?”, domandai, pur ricordando che Nathan aveva passeggiato tante volte al mio fianco, di mattina.

Sempre meglio fugare ogni dubbio, comunque.

“No”. Mi sorrise.

“Bene”.

“Già”.

Era incredibilmente imbarazzante, parlare con lui. E la mia bocca era così arsa

Sospirai unicamente quando scorsi la sagoma di Charlotte ritornare. Dietro di lei, una sagoma enorme traballava, carica di contenitori di tutte le specie. “Hola”, ci salutò.

I suoi capelli erano lunghi, di una delicata sfumatura del viola. Gli occhi, grandi ed espressivi, erano di un caldo rosa, e mi osservavano, sorridenti. Tutto in lei mi creava un senso di pace interiore, e mi ritrovai a sorridere a mia volta. Non era per nulla esile, né magra – ma bellissima come l’avevo immaginata. “Ciao”, dissi a mia volta, accompagnando la parola con un cenno del capo. “Tu devi essere Maya”.

Capitolo 3

Mi sorrise, annuendo. “Tu, invece?”.

Proprio come con Charlotte poco prima, Nathan mormorò appena il mio nome, lasciandomi chiaramente intendere che aveva ampiamente parlato di me, in passato, e che entrambe dovevano conoscermi. Non riuscivo a capire perché, ma la cosa mi lusingava comunque.

“Oh, desideravo conoscerti da secoli!”. Gioviale, sistemò i contenitori sul braccio sinistro, e, dopo aver strofinato la destra sul suo grembiule giallo canarino, me la allungò.

Quando mi decisi a rispondere al suo saluto, mi resi conto che era caldissima, e che il contatto con la mia nuova pelle – iniziavo a trovarla gradevole – l’aveva fatta rabbrividire.

Inarcò un sopracciglio. “Non sapevo tu fossi un vampiro”.

“Beh, perché…”, esordii, incapace poi di continuare la frase. Sentii Nathan fremere, dietro di me, ma non ci feci caso. “Perché…”.

“Perché l’ha trasformata Nathan stasera”, sputò Charlotte come se fosse un insulto. “Sai, il piccolo ha bevuto”.

“No”. Maya spalancò gli occhi, terrorizzata. “Non posso crederci!”.

“Credici”, incalzò la biondina, sorridendo.

La sirena scosse i capelli viola, sospirando, sconsolata. “Povera piccola”, proferì poi, osservandomi con aria triste. “Dev’essere stato traumatico, vero?”.

 “Sì, beh, non rientrava nei miei programmi cambiare natura”. Risi. “Ma fa nulla, tanto non avevo nessun posto dove andare”.

“No?”, chiese Nathan, sollevando un sopracciglio, scettico. Non mi piaceva questa sua nuova versione saccente. Era antipatico.

Sospirai, come se l’ovvietà che stavo per pronunciare fosse in qualche modo offensiva. “Se alludi all’orfanotrofio, penso che mi avrebbero scacciata, tra qualche giorno. Ho compiuto diciotto anni, ricordi?”.

“Ah”. Si passò una mano tra i capelli – un leggero odore di menta mi solleticò le narici – prima di alzare gli occhi al cielo. “L’avevo dimenticato”.

Sorrisi, prima di essere folgorata da una domanda tanto banale quanto curiosa. “Ehi, mi spieghi come ci sei finito in orfanotrofio, tu?”.

Charlotte rise, incapace di contenersi, mentre Maya portava una mano alle labbra, desiderosa di nascondere il suo sorriso ilare. Era così divertente, quella domanda?

E, se sì, perché?

“Oh, beh, è una storia lunga…”, esordì Nathan: voleva forse evitare di darmi una risposta? “E non ti piacerebbe sentirla”.

Ringhiai. “Penso di essere capace di capire ciò che mi interessa”.

Sbuffò, scuotendo il capo. “Non ti interessa, credimi”, grugnì, frustrato. Per un attimo – un misero attimo – pensai di credergli. Solo per un attimo, però.

“Mettimi alla prova”.

Il mio amico roteò gli occhi, facendo qualche passo in cerchio. “Una scommessa con Charlotte”. Fulminò la biondina con un’occhiataccia, e ridacchiai dell’espressione offesa della ragazza. “Avrei dovuto pranzare in un ristorante senza ordinare una bistecca al sangue. Beh… Ovvio è che non ce l’ho fatta”.

Alzai gli occhi al cielo. “E ti hanno spedito per penitenza?”, domandai, scettica. “Nathan, ti rendi conto che è una cosa assurdamente stupida? Ed illogica?”.

Fece cenno d’assenso col capo. “Non dirlo a me, Alice. È stata la matta a decidere, e solo perché aveva appuntamento con un lupo mannaro. Voleva casa libera per un po’”.

“Oddio”, gemetti, incredula. Questa, poi! “Ma i vampiri ed i licantropi non sono nemici naturali?”.

“Se i lupastri sono carini come Michael, no”, ridacchiò Charlotte. “Semmai, non vanno d’accordo con le sirene: Maya lo odia”, commentò, indicando con il pollice l’amica, rossa di vergogna. Sembrava godere dell’imbarazzo altrui.

“Oh, beh, io non mi espongo: dopotutto, non lo conosco”, mormorai, perplessa. Charlotte sembrava infastidita dalla mia sincerità, e mi ritrovai a pregare di essere lasciata in pace.

Sospirai.

Perché non ero rimasta umana?

Uno strano odore raggiunse improvvisamente le mie narici, e mi ritrovai a fiutare l’aria come un cane da caccia. Riprovevole. “Maya, stavi cucinando?”.

Lei annuì, soprappensiero. “Sì. Io mi nutro di alghe”, dichiarò, compiaciuta. Era vegetariana, quindi?

“Beh, allora temo stiano bruciando, sai?”.

Il tanfo che appestava l’aria, anche se ancora debole, non lasciava spazio a diverse interpretazioni…

Charlotte rise senza ritegno, mentre io chinavo il capo, dispiaciuta. La sirena ci mise qualche attimo per metabolizzare la scoperta, prima di cambiare letteralmente colore. “Scusatemi un attimo”; mugolò, correndo verso la cucina.

“Er… È un po’ negata, quando deve cucinare solo per se stessa”, mi sussurrò Nathan, improvvisamente tornato gioviale. I suoi occhi saettarono su di me, tentando di valutare la mia espressione – assolutamente neutra. “Ma, quando si impegna, cucina dei veri manicaretti, te lo assicuro”.

Annuii, osservandomi intorno. I mobili iniziavano ad apparirmi meno confusi, e il loro odore era meno disgustoso. Presto o tardi avrei imparato ad amarli, era assodato. “Dov’è Charlotte?”, domandai, perplessa, notando che i suoi capelli platino erano spariti.

Dov’era finita?

“Penso sia uscita. Non resta mai molto in casa”. Nathan alzò le spalle, prima di passarsi nuovamente una mano tra i capelli, nel disperato tentativo di sistemarli. Tentativo fallito per l’ennesima volta.

Era la mia occasione d’oro. Non potevo farmela scappare – Maya era in cucina. Charlotte era sparita. Potevo farcela.

Dovevo farcela.

“Quindi posso farti una domanda?”, mormorai, arrossendo. Dannata emotività – i vampiri non dovevano essere delle maschere di ghiaccio prive di qualsiasi espressione?

Lui annuì. “Ovvio. Spara”.

“Hai detto di avermi trasformato perché ubriaco. È vero?”.

“Beh, sì. Avevo bevuto troppo”, dichiarò, ridacchiando. Trovava così divertente l’essersi scolato circa cinque bottiglie?

“Ma noi non dovremmo ubriacarci, vero?”, ringhiai, avvicinandomi, minacciosa.

Nathan deglutì, indietreggiando fin quasi a sfiorare con la schiena lo specchio. “Er…”, esordì. Lo spaventavo?

Eppure era solo l’inizio…

Mi diede le spalle, osservando un suo riflesso immaginario nello specchio. Le sue iridi smeraldine – così innegabilmente magnetiche – mi osservarono imbarazzate, e fui tentata dal far cadere il discorso. Era colpevole della mia trasformazione. Non se lo sarebbe mai perdonato.

“I vampiri non dovrebbero ubriacarsi, no?”, domandai ancora una volta, afferrando la manica della giacca di Nathan per costringerlo a voltarsi. Volevo mostrargli che no, non ero arrabbiata. Preoccupata, questo sì, ma non arrabbiata.

Ero umana nel cuore, e questo mi bastava.

Lui sospirò, passandosi la manca tra i capelli neri. “Beh, in realtà , l’alcol su di noi ha effetto. I nostri sensi sono molto più sviluppati di quelli umani, e anche una caramella al liquore potrebbe metterci K.O.: ci ubriachiamo per un nonnulla, sai?”. Ridacchiò, quasi sconvolto dalla sua stessa affermazione.

Ok, ora c’era qualcosa di strano: se lui sapeva ciò che sarebbe potuto succedere, perché aveva bevuto quella stramaledettissima birra? Perché non si era limitato ad un innocuo succo di frutta?

Perché aveva bevuto?

Per farmi contenta? Per festeggiare con me?

Andiamo, Nathan non poteva aver fatto tutto quello solo per farmi felice, era assolutamente inconcepibile!

“Ah, Alice”, sbottò a un tratto, alzando il capo con due dita e sorridendomi. “Non ho avuto modo di darti il mio regalo. O forse l’ho fatto, ma non te l’ho detto”.

Inclinai il capo, in attesa – ancora una volta, riuscì a sorprendermi.

Le sue labbra si posarono sulle mie, sfiorandole piano. Il nostro bacio non fu nulla di più di uno sfioramento, ma rabbrividii di piacere.

Avevo ancora sete del suo sangue – di quel sangue che lui non possedeva più da chissà quanto tempo –, e quella vicinanza era assurdamente piacevole – il suo collo, pallido e indifeso, bramava di essere morso da me. Sapevo perfettamente di non potergli fare alcun male, e di non poter trarre giovamento da quel morso, ma lo desideravo.

Gemetti, confusa.

Quel dannato riusciva sempre a mandarmi in tilt.

“Auguri”, mormorò, spostandosi leggermente, gli occhi socchiusi e un’aria dannatamente eccitante.

“Stupido”, esclamai, allontanandomi di scatto. “Ti diverti, vero?”.

Alzò un sopracciglio. “Beh…”. Parve pensarci qualche attimo, poi iniziò a ridere, divertito. “Sì, la tua espressione sconvolta è bellissima, Alice”.

Risi a mia volta, prima di voltarmi. “Sai, Nathan? Ho deciso di non dichiararti guerra, oggi”.

“Perché?”, ridacchiò, seguendomi. Probabilmente, aveva già immaginato la mia furia. E la nostra casa distrutta. Era da me, fare certe cose.

Sorrisi, conciliante. “Perché ho tutta l’eternità per fartela pagare…”.

*\* Allora. Da cosa posso iniziare?
Questa storia - non so né come né perché - si è classificata prima al contest [The bite of a vampire] indetto da Ghen sul forum. ù.ù
Sinceramente, sono felicissima. Davvero, davvero, davvero felice.
Non me lo aspettavo, e ho fissato lo schermo per... XD Non so. Ho fissato lo schermo, chiedendomi se quello era davvero il mio nick, o se stavo avendo un'allucinazione - cosa possibile. XD
Poi. Ovviamente, spero vi sia piaciuta, perché  è la prima originale da me scritta. ù.ù E questo era il secondo concorso in assoluto a cui ho partecipato.
Ringrazio ancora i giudici, e mi complimento sentitamente con le  altre partecipanti. ^^
Grazie! */*
   
 
Leggi le 12 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Vampiri / Vai alla pagina dell'autore: roro