The truth
is hiding in your eyes
And
it’s hanging on your tongue
Just
boiling in my blood,
But you think that I can’t see
[Decode - Paramore]
Capitolo
1
“Nathan,
quella bevanda è alcolica,
sai?”,
borbottai, osservando il mio migliore amico tracannarsi con ingordigia
un enorme bicchiere di vodka. Da
quando
l’avevo visto la prima volta – appena arrivata
all’orfanotrofio Cuore Gentile,
dopo essermi equamente
divisa tra una sottospecie di casa famiglia ed una zia troppo
indaffarata – non
si era mai comportato in modo così strano.
L’avevo
visto giocare a calcetto, leggere libri, parlottare con i coetanei, ma
mai bere
così avidamente qualcosa. Anzi, non l’avevo mai
visto bere e basta.
Fece
un impercettibile cenno col capo, come per rassicurarmi, e si
voltò verso il
mio bicchiere. “Posso?”.
Domanda
superflua: con un sospiro, lo spinsi verso di lui. Il liquido color
caramello
si increspò appena, mentre Nathan, con aria assorta, lo
portava alle labbra.
Sembrava diverso. Più
carino,
insomma.
Scuotendo
il capo, mi imposi di sopprimere
ogni
possibile sentimento verso di lui. Dovevo impormelo. Era assolutamente
improduttivo fargli il filo. L’avevo capito un mese prima,
quando avevo visto
una ragazza due-anni-più-grande-di-lui scappare via in
lacrime dopo essersi
dichiarata.
“Nathan,
stai esagerando”. Osservai critica i cinque bicchieri che
ormai giacevano,
assolutamente puliti, sul tavolino.
Non
avrei dovuto chiedergli di accompagnarmi in discoteca –
dopotutto, il mio
diciottesimo compleanno non era poi un avvenimento così
importante. Avremmo
anche potuto trascorrerlo nell’affollata sala comune, insieme
a quei viscidi vermi che erano i
nostri
compagni.
“Alice,
sto benissimo. Posso berne ancora”.
Certo, pensai, ma evitai di dirlo ad
alta voce. Non mi piaceva sembrare quella matura,
tra i due.
Sentii
il dj dire qualcosa di assolutamente inutile, ma mi voltai ugualmente,
curiosa.
Ovviamente, il tipo cercava una ragazza con cui passare la notte
– mi strinsi
maggiormente nel mio logoro cappotto invernale. Iniziava a fare freddo.
“Nathan?”.
Non
rispose.
Le
luci nella stanza iniziarono ad abbassarsi, e, ben presto, ci
ritrovammo
completamente al buio.
Cercai
la sua mano, tentoni – avevo bisogno di essere rassicurata.
Dopotutto, all’età
di sette anni ero rimasta chiusa in uno scantinato per tre giorni. Non
era
colpa mia, l’essere insanamente terrorizzata dal buio, no?
“Ehi,
sei ancora tra noi?”.
Sentii
una roca risatina, e qualcosa mi spinse
contro il divanetto. Sbattendo le palpebre, mi resi conto che era lui. Ed era davvero, davvero forte.
Dannazione, le dita – le sue dita
lunghe ed affusolate – si erano serrate intorno alle mie
spalle, dolcemente, ed il suo volto
era molto – troppo
– vicino al mio.
Gemetti,
confusa.
Le
sue iridi smeraldo risplendevano nell’oscurità,
emanando continui bagliori ad
ogni suo impercettibile movimento.
Notai
le sue labbra ricurve in un’espressione compiaciuta, e una
tremenda puzza di
alcol mi spiazzò. Sì,
aveva bevuto
troppo. No, non era capace di
trattenersi, da ubriaco. Toccava a me rimetterlo sulla retta via, ovvio.
“Nathan,
dai, non fare il coglione. Lasciami andare”, balbettai,
tentando di essere una
normale adolescente. Magari, dire qualche parolaccia mi avrebbe aiutata
a
ritrovare la calma – scavai nei meandri della mia memoria,
tentando di
ricordare qualche termine particolarmente scurrile.
“No,
chérie”.
Sbattei
le palpebre, confusa. “Come mi hai chiamata?”.
“Chérie. Non ti piace questo
soprannome?”, biascicò. Sembrava confuso. E di
certo non in sé.
“No,
Nathan. Non mi piace. Quindi, che ne diresti di spostarti e di farmi
alzare?”.
Tutto sommato, quella storia poteva essere divertente. Avrei potuto
prenderlo
in giro per l’eternità, ricordandogli questo
spiacevole incidente
ogni-singolo-giorno.
Lo
sentii borbottare qualcosa, e alzai lo sguardo. Appena in tempo
– le labbra di
Nathan, voraci, si posarono sulle mie. Il mio stomaco fece una capriola
– e,
suppongo, anche qualche triplo salto mortale – prima di
riuscire a farmi anche
solo capire ciò che
stava avvenendo.
Indecisa,
lasciai ricadere le braccia mollemente lungo i fianchi, e, chiusi gli
occhi, mi
assoggettai totalmente al suo volere.
Era
strano.
Molto
strano.
Avevo
già baciato, in passato, ma mai così
– le sue labbra erano morbide, e sfioravano avidamente le
mie. Sembrava volermi
mangiare, e la cosa, stranamente, mi lusingò. Quel contatto
era incredibilmente
libidinoso, oltre che eccitante. Cazzo,
mi ritrovai a pensare, incapace di fare nulla.
Mi
scappò un gemito, mentre lui lasciava le mie labbra per
passare al collo. Era assurdo.
Nathan non era in sé, e io lo
lasciavo fare. Ero totalmente stupida – sospirai, quando mi
mordicchiò.
Era
quasi piacevole. Almeno
all’inizio.
A
un
tratto, mi sentii mancare, e strinsi con forza le dita intorno alle sue
braccia. Avrei voluto essere così
forte
da fargli capire che mi stava facendo del male, ma non ci riuscii, e mi
limitai
a mormorare lamentosamente il suo nome, in attesa.
Dopo
pochi attimi – o erano molti minuti? – Nathan mi
lasciò, guardandomi,
sconvolto.
Non
capii perfettamente ciò che diceva, ma smisi di chiamarlo, e
lascai ricadere
nuovamente le braccia sul divanetto. Non riuscivo a mantenerle
sollevate. Ero
troppo stanca.
“Alice?
Stai bene?”.
Perché
stava urlando?
Tentai
di sollevare il capo, ma mi doleva troppo, e mi limitai ad aprire la
bocca.
Dannazione, non sentivo la mia voce. Forse ero diventata sorda.
“Alice?”.
Avrei
voluto dirgli che stavo bene, ma la
bocca era come incollata – sembrava chiusa, sigillata,
inchiodata. Non potevo
fare nulla. Ma dovevo parlare.
Nathan
mi fissò a lungo – o per poco? – prima
di mordersi il labbro inferiore, e far
vagare lo sguardo per la sala.
“Alice,
chiudi gli occhi”.
Feci
cenno col capo, prima di riuscire ad articolare una frase di senso
compiuto.
“Perché devo chiudere gli occhi?”, la
mia domanda fu roca, dolente. Rabbrividii.
Non
sembrava la mia voce.
“Non
è il momento, Alice. Dopo ti spiegherò tutto,
ma ora fai silenzio, per favore. Nessuno deve notarci”.
Scrutai un’ultima volta
i suoi occhi verdi – sembrava preoccupato –, prima
di chiudere i miei, e di
sospirare. Il pungente odore d’alcol che circondava Nathan mi
colpì in pieno, e
fui costretta a trattenere il fiato per un po’. Era strano.
Non ero mai stata
particolarmente sensibile agli odori.
Storsi
il naso, e immersi debolmente il capo nel suo petto, inspirando la sua
camicia,
ancora pregna di un delicato profumo di dopobarba.
Avevo
sonno.
E
sete.
Molta sete.
Quando
uscimmo dalla sala, sentii qualcosa bagnarmi il volto. “Sta
piovendo?”, chiesi,
incerta.
“Sì.
Ma non preoccuparti, tra poco saremo all’asciutto”,
rispose lui. Notai una nota
di panico nella sua voce, ma tentai di non
pensarci. “Starai bene, Alice. Starai
benissimo”.
Tentai
di fare un cenno di assenso col capo, ma tutto
girava, e fui costretta a concentrarmi per non
vomitare. Non sarebbe stato piacevole. Non davanti a lui,
perlomeno.
Sentii
qualcosa cigolare, e portai automaticamente una mano sul naso, incapace
di respirare – odore di
vecchiume, di
mobili ormai deteriorati dal tempo, di legno consunto…
“Nathan,
dove mi hai portata?”, borbottai.
Rise
leggermente, prima di rispondere: “A casa”.
“Casa?”, ripetei, scettica
– l’odore
dell’orfanatrofio non era così sgradevole. Non che
io apprezzassi
particolarmente il fastidioso profumo
di sigarette mischiato a quello di caramelle stantie, ma era di certo
più umano
dell’odore di quella stanza.
La
bocca mi si fece stranamente arida, e sentii sulla lingua il sapore di vecchio – di tutta
l’anticaglia che mi
circondava, quasi avessi mangiato
un
mobile. Era nauseante.
“Nathan,
dove siamo?”.
“Te
l’ho detto, Alice”. Sembrava preoccupato, ed evitai
d’insistere, socchiudendo
gli occhi quel tanto che bastava per mettere a fuoco la stanza. Era polverosa. Molto polverosa.
Mobili
di legno, ormai deteriorati, troneggiavano nei vari angoli –
probabilmente,
questa casa doveva essere stata una dimora assai ricca e prestigiosa.
Notai uno
specchio, sulla parete opposta alla mia: benché scheggiato,
la sua cornice era
intarsiata minuziosamente, e sembrava un oggetto di valore.
Sospirai.
“Questo non è l’orfanatrofio”,
commentai, saccente. Non mi piacevano le bugie,
specie se provenienti da lui. “E non mi risulta tu abbia una casa”.
“Non
ti risulta”, borbottò. Poi accennò un
sorriso, tentando di mettermi a mio agio.
“Non è propriamente casa mia, Alice, ma possiamo
dire che mi appartiene”.
“Ah”.
“Beh,
possiamo anche dire che ora è anche casa tua”.
Alzai
lo sguardo, incontrando le sue iridi smeraldine, tentando di trovare un
barlume
di sincerità in quelle pozze imperscrutabili. “Non
scherzare”, grugnii. Avevo
capito di non poter aspirare ad una casa tempo prima, quando anche la mia quinta famiglia adottiva
era morta in un incidente d’auto. “Io sono orfana.
Diciottenne, ma orfana. Non ho una
casa”. Enfatizzai la parola orfana
con delle occhiate sempre più rabbiose, lasciandogli
intendere chiaramente che
non ero in vena di scherzi.
Rise,
stringendomi maggiormente contro di sé. “Sbagli.
Dopo quello che ho combinato
stasera, questa è casa
tua”.
Cosa
aveva combinato di così terribile?
Sbattei
le palpebre, curiosa, e aprii la bocca per chiederglielo –
un’improvvisa fitta
al collo mi colse, e gemetti di dolore, iniziando a tossire
convulsamente.
Faceva male, cazzo!, faceva tanto
male!
“Alice?”.
Nuovamente,
la sua voce mi giungeva distorta, quasi proveniente dal fondo di una
qualche
caverna. Avrei voluto intimargli di non urlare, ma non riuscivo ad
emettere
alcun suono. La bocca si apriva, l’aria usciva, ma non
c’era alcun rumore. Gli
occhi iniziarono a
pizzicarmi.
“A-Alice,
stai tranquilla”.
Ringhiai.
Non
so come. E non so perché.
Ma
un
ringhio cupo uscì dalle mie labbra, mentre la mia vista
diveniva sempre più strana
– tutto ciò che mi circondava
appariva rosso, come colorato da una lente. E desideravo uccidere
con tutta me stessa. Desideravo mordere il collo di
Nathan, squartarlo, bere il suo sangue il più avidamente
possibile… Desideravo
nutrirmi con il suo sangue. Questo mi inquietò non poco.
Ero
umana?
Alzai
lo sguardo, ringhiando nuovamente.
Un
umano avrebbe ringhiato ad un suo
amico?
Mi
mossi velocemente, scappando dalle sue braccia e portandomi innanzi a
lui.
Non
riuscivo a stare dritta, e mi incurvai, poggiando le nocche delle mani
sul
pavimento, come un uomo primitivo. Lui continuava ad osservarmi,
tranquillo.
Grugnii.
“Alice,
respira”, biascicò, avvicinandosi.
Istintivamente,
feci un passo indietro. “Stammi lontano”, riuscii a
mormorare a mia volta. Uno
strano rumore – dei campanelli, forse –
attirò la mia attenzione.
Era
un qualcosa di indefinibilmente lucente. Sussultai, mentre questi
– era un lui
o una lei? – si avvicinava.
“Benvenuta!”.
Capitolo
2
Era
bionda.
E
carina.
Era
una ragazzina dai capelli color del grano maturo e gli occhi vitrei. Mi
sorrideva, avvicinandosi lentamente, come se io non fossi una belva assetata di sangue ma una sua
vecchia amica d’infanzia.
Istintivamente
mi retrassi, lasciando che un nuovo ringhio fuoriuscisse dalle mie
labbra.
“Ehi,
Nathan, dove l’hai trovata?”, chiese la biondina,
indicandomi con un dito.
Sembrava divertita.
“Non
l’ho trovata”, borbottò lui, abbassando
il capo e passandosi una mano tra i
capelli scuri. Poi sospirò, sconfitto.
“L’ho creata
io”.
Bene.
Ora
era assodato: non ci capivo assolutamente niente.
Cosa
aveva creato? O, meglio, come mi aveva creata? Dopotutto, io ero umana, no?
Mi
aveva forse iniettato per errore qualche sostanza sperimentale
proveniente da
uno sconosciuto laboratorio estero in cui si studiava come ricreare il
desiderio di sangue?
Sbuffai,
assolutamente impotente. Non sapevo cosa dire. E avrei voluto
unicamente
dissanguare Nathan – solo lui. Quella mocciosa –
almeno credevo fosse una
mocciosa – non scatenava in me alcuno istinto. Era solo una
bambina nel posto
sbagliato al momento sbagliato.
“L’hai
creata?”. La voce della ragazza era diventata insolitamente
acuta, e mi
costrinse a coprirmi le orecchie con le mani, gemendo di dolore.
“Nathan, sei
un cretino. Come hai potuto crearla?”.
Ecco,
finalmente una domanda intelligente: come mi avevi creata, Nathan?
“Beh”,
esalò lui imbarazzato. “Temo di aver bevuto
un po’ troppo…”.
Sobbalzai,
mentre la biondina scoppiava in una divertita – e
insolitamente gutturale –
risata. “Oh, Nathan, sei un incompetente. Almeno la
conosci?”. Mi guardò
sorridendo gioviale, come desiderosa di placare la mia ira.
“O è una perfetta
sconosciuta che hai abbordato in discoteca?”,
insinuò, dandogli le spalle per
avvicinarsi a me.
“Alice”, si limitò a
sussurrare, come se
il mio nome fosse unico al mondo. O
come se lei fosse a conoscenza della mia identità.
La
vidi trasalire. “Hai trasformato la tua migliore
amica?”, chiese, incerta.
Sembrava sconvolta.
“Sì”.
Trasformato?
In
che senso mi aveva trasformata?
“Io
sono Charlotte, piacere”. Tentando di mantenere la calma
– la notai contrarre
le labbra, probabilmente aspettandosi una mia reazione violenta
– mi porse la
mano. “Quindi Alice sei tu! Sai, non vedevo l’ora
che quello stupido si
decidesse a presentarti!”.
In
modo meccanico ricambiai la stretta. Poi, dopo essermi schiarita la
voce, mi
decisi a parlare: “Cosa significa trasformare?”.
Sorrise.
“Vedi quello specchio laggiù?”.
Annuii.
“È uno specchio”,
commentai a bassa
voce. Ok, aveva detto specchio, ma
credevo fosse qualcosa di più
grande,
e non il minuscolo specchio da parete che avevo notato dopo essere
entrata in
quella casa. Sospirai. “Che me ne faccio di uno specchio
scheggiato?”,
domandai, facendo qualche passo disinvolto verso la parete.
“Oh,
beh…”. Lei rise. “Osservati. Osserva il
tuo riflesso, Alice, e dimmi che te ne pare”.
“Ok”.
Lentamente
carezzai la superficie riflettente, illuminata fiocamente da una
candela appena
accesa dalla biondina. Sentii Nathan dire qualcosa – non so
se rivolto a me o a
lei – ma non ci badai, stringendo le palpebre.
C’era
qualcosa di strano.
Di
assurdo.
Di
assurdamente inumano.
Toccai
leggermente la cornice, lasciando scorrere le dita tra le decorazioni,
distratta – confusa. No.
Era
inconcepibile. Doveva essere uno scherzo di pessimo gusto che Nathan
aveva
organizzato per il compleanno, per farmi ridere. Per farsi quattro
risate alle
mie spalle. Ma non era divertente.
E
non
era uno scherzo.
“Ehi,
c’è qualcosa che non…”,
deglutii. “Questo specchio è rotto, ragazzi. Non
mi
riflette!”.
La
risata della ragazza non si smorzò, ma, anzi, divenne
progressivamente più
forte. Avrei desiderato schiaffeggiarla, e chiederle perché
era così allegra.
“Non
è rotto”, biascicò tra una risata e
l’altra. “Funziona benissimo, Alice. È
uno
specchio molto antico, sai?”.
Era
irrilevante la sua età, giusto?
Probabilmente,
ero uno di quegli specchi che usano i clown. Di quelli che si trovano
tanto
spesso all’interno dei luna-park, e che tutti trovano
divertenti – tutti tranne
me da quel giorno.
“Sai,
Alice?”, continuò, sorridendomi e avvicinandosi.
“Questo specchio risale ai
temi dell’Inquisizione… Lo usavano i
Cristiani”.
Non
c’era alcun nesso con la mia situazione. Dovevo respirarmi.
Uno specchio vecchio
qualche secolo non poteva uccidermi, no?
“Le
streghe era piuttosto simpatiche. Ne ho conosciute parecchie, nei miei
novecento anni”, buttò lì, alzando poi
lo sguardo per controllare la mia
reazione. Mi resi conto solo in quel momento di stare trattenendo il
respiro, e
di sentirmi turbata. Io non ero una
strega. Ero umana. “Beh,
molte di
quelle che hanno bruciato non conoscevano neppure una parola magica.
Erano solo
delle mocciose irritanti che
passavano davanti al tribunale”. Rise, gutturale, per poi
sollevare nuovamente
gli occhi vitrei e sogghignare. “Invece, la nostra specie era
lasciata in pace. Ci temevano
troppo,
per ucciderci. Sai, preferivano tenerci lontani dai centri abitati, e
costringerci a vivere nelle foreste, nutrendoci di quei disgustosi
animarli”.
Mi
sentii mancare, e indietreggiai istintivamente, poggiando una mano
contro la
parete fredda – ero più gelida io. Ero
più fredda della parete, e di ogni
mobile circostante, e di tutto ciò che era
all’esterno. Non so come, ma, con
uno sguardo, riuscii a capire la temperatura corporea di ciò
che mi circondava,
e un suono strozzato fuoriuscì dalle mie labbra.
“Non
l’hai ancora capito, Alice?”, insistette.
Notai
Nathan muoversi nell’oscurità, e porsi nel ridotto
spazio tra me e lei – gli
fui istintivamente grata. “Grazie”, sussurrai. Lui
mi sorrise di rimando.
“Non
hai ancora capito quel che siamo?”. Rise nuovamente,
passandosi poi una mano
tra i capelli biondi e sistemandoli un po’. “Nathan
non ti ha mai parlato della
sua vera natura?”.
La
credevo una ragazza normale, invece ora sembrava ossessionata.
Tremai. “Non capisco. Non capisco e non mi interessa,
Charlotte. Noi siamo esseri umani”.
Mi
sorrise, prima di poggiare una mano sulla spalla di Nathan per
costringerlo a
voltarsi. “Ehi, tesoro,
credevo le
avessi detto qualcosa. Così è tutto
più difficile, ti rendi conto?”.
Lui
grugnì. “Alice, non badare a questa vecchia pazza.
Tu sei umana”.
“Certo”,
mormorai, più volta a convincere me stessa che lui.
“Io sono umana. Sono una
normalissima umana, no?”.
“Oh”.
Charlotte mi osservò comprensiva. “Piccola,
è solo… come dire… una sensazione
momentanea. Continuerai a crederti umana ancora per un bel
po’, se continui
così”.
Inarcai
un sopracciglio.
No.
Io
ero umana.
Umana.
Nulla
più, nulla di meno.
L’espressione
di Charlotte sembrava volermi convincere del contrario, Nathan sembrava
volermi
sostenere. Mi morsi le labbra, fissando prima l’una, e poi
l’altro.
La
biondina non distolse lo sguardo, limitandosi a ghignare – il
mio migliore
amico, invece, abbassò quasi subito gli occhi verso il
pavimento, osservando
con aria distratta una palla di polvere
che rotolava per la stanza, mossa da un leggero spiffero notturno.
Chinai
io stessa il capo.
Charlotte
non mentiva. Quel comportamento di Nathan, il suo nascondere lo
sguardo, il
tenue rossore sulle sue gote, gli occhi ancora dilatati…
Tutto mi suggeriva la
sua menzogna. Deglutii, voltandomi nuovamente verso di lei.
“Cosa sono?”.
Era
assurdo.
Io
ero umana.
E
allora perché mi sembrava di non esserlo, perché
avevo lasciato che quella
domanda fluisse dalle mie labbra come un torrente di montagna?
Perché ora
osservavo Charlotte mordendomi il labbro inferiore, nel tentativo di
farmi dire
la verità?
“Beh”.
Mi sorrise. “Sei un vampiro,
Alice”.
Risi.
Risi di gusto. Era così comico!
Un
vampiro? Io? Tutti noi? Vampiri?
No,
era ridicolo. Era una barzelletta ben congeniata.
“Io?”.
Presi fiato. “Un vampiro?”.
“Oh,
non sapevo di essere così divertente”,
sbuffò lei. “Credi sia una bugia, Alice?
Credi che i vampiri siano immagini di fantasia?”. Sorrise,
compiaciuta – avevo
smesso di ridere, e la osservavo confusa. “Questa sera
– da quando Nathan ti ha
morso – non hai avuto alcun desiderio di mordere?”.
Sbiancai
completamente.
Sì.
Certo che sì. Avevo desiderato il sangue di Nathan, e mi ero
resa conto da sola
di non essere normale. Ne avevo
ancora sete.
“Vedi?”.
Charlotte mi si avvicinò, per poi darmi un tenero
buffetto sulla guancia, e sorridermi. “Non è
così male, comunque. E puoi anche
nutrirti di cibo umano, se non puoi
bere sangue. Non ti sembra conveniente?”.
Inclinai
il capo di lato. “Eternità e sete di
sangue”, borbottai. “Beh, sì, uno
scambio davvero equo”.
Nathan
avanzò, desideroso di dire qualcosa, ma un rumore di vetro
che si rompeva
attirò la nostra attenzione.
Mi
misi in posizione di difesa, i canini luminosi
nell’oscurità e la fronte
corrugata – essere vampiri era una cosa istintiva.
Mi era bastato essere morsa, per capire cosa
fare. E la trasformazione non durava tre giorni di agonia
– osservai il
quadrante luminoso del mio orologio da polso e mi resi conto, con aria
scioccata, che non erano passate che poche ore, da quando eravamo
usciti per
festeggiare il mio compleanno.
“Cos’è?”, domandai, notando
con stupore che loro
sembravano assolutamente tranquilli.
“Oh,
è Maya”.
“Maya?”.
Chi era Maya?
“Sì”,
rispose Nathan. “Maya”.
Iniziavo
ad innervosirmi. “Maya chi?”,
insistetti.
“Ah,
già, tu non conosci Maya”, ridacchiò
Charlotte, guardando con apprensione
l’unica porta nella stanza – era bruciacchiata, e
odorava di pistacchio. Avevo sempre
odiato il
pistacchio.
“Maya
è una sirena”, spiegò lentamente
Nathan, mentre io mi domandavo in che razza di
universo alternativo ero mai finita. “Recentemente si
è distaccata per errore
dal suo branco. L’abbiamo ritrovata distesa sulla sabbia,
l’aria spaesata…”.
“E
nuda”, aggiunse la biondina con ilarità.
Mi
morsi il labbro inferiore. Probabilmente era la ragazza di quel
troglodita
idiota di Nathan. “Oh, beh, dopotutto è una
sirena”. Annuii soprappensiero,
immaginandomi una ragazza dai lunghissimi capelli rossi e gli occhi di
un
meraviglioso verde come la Sirenetta della Disney. “Ha la
coda o le gambe?”,
domandai poi, tentando di darmi un’aria interessata.
Dopotutto, quella
curiosità mi assediava sin dall’infanzia, e
– finalmente –
potevo appagarla.
Charlotte
rise. “Beh, non credo che la coda sia adatta a camminare,
sai?”. Si voltò
nuovamente verso l’ingresso. “Preferisce usare le
gambe sulla terra, e la coda
in acqua”.
Nuovamente
l’immagine di una bellissima Ariel con la voce incantatrice
si formò nella mia
mente – ero vampiro da poche ore, e già incontravo
una creatura mitologica. Una
stupenda creatura mitologica.
Forse
avrei dovuto essere più entusiasta.
“Posso
incontrarla?”, dissi, fingendo ansia.
“Dopotutto, non succede tutti i giorni di poter fare la
conoscenza di una
sirena, no?”.
Nathan
annuì. “Beh, immagino di no. Andiamo, te la
presento subito”.
Charlotte
gongolò, correndo verso la porta ed aprendo leggermente
l’anta. Un fiotto
luminoso rischiarò la stanza. “I vampiri non si
dissolvono con la luce solare,
vero?”, domandai, pur ricordando che Nathan aveva passeggiato
tante volte al
mio fianco, di mattina.
Sempre
meglio fugare ogni dubbio, comunque.
“No”.
Mi sorrise.
“Bene”.
“Già”.
Era
incredibilmente imbarazzante,
parlare
con lui. E la mia bocca era così arsa…
Sospirai
unicamente quando scorsi la sagoma di Charlotte ritornare. Dietro di
lei, una
sagoma enorme traballava, carica di
contenitori di tutte le specie. “Hola”,
ci salutò.
I
suoi capelli erano lunghi, di una delicata sfumatura del viola. Gli
occhi,
grandi ed espressivi, erano di un caldo rosa, e mi osservavano,
sorridenti.
Tutto in lei mi creava un senso di pace interiore, e mi ritrovai a
sorridere a
mia volta. Non era per nulla esile, né magra – ma
bellissima come l’avevo
immaginata. “Ciao”, dissi a mia volta,
accompagnando la parola con un cenno del
capo. “Tu devi essere Maya”.
Capitolo
3
Mi
sorrise, annuendo. “Tu, invece?”.
Proprio
come con Charlotte poco prima, Nathan mormorò appena il mio
nome, lasciandomi
chiaramente intendere che aveva ampiamente parlato di me, in passato, e
che
entrambe dovevano conoscermi. Non riuscivo a capire perché,
ma la cosa mi lusingava comunque.
“Oh,
desideravo conoscerti da secoli!”. Gioviale,
sistemò i contenitori sul braccio
sinistro, e, dopo aver strofinato la destra sul suo grembiule giallo
canarino,
me la allungò.
Quando
mi decisi a rispondere al suo saluto, mi resi conto che era caldissima, e che il contatto con la mia
nuova pelle – iniziavo a
trovarla
gradevole – l’aveva fatta rabbrividire.
Inarcò
un sopracciglio. “Non sapevo tu fossi un vampiro”.
“Beh,
perché…”, esordii, incapace poi di
continuare la frase. Sentii Nathan fremere,
dietro di me, ma non ci feci caso.
“Perché…”.
“Perché
l’ha trasformata Nathan stasera”,
sputò Charlotte come se fosse un insulto. “Sai, il
piccolo ha bevuto”.
“No”.
Maya spalancò gli occhi, terrorizzata. “Non posso
crederci!”.
“Credici”,
incalzò la biondina, sorridendo.
La
sirena scosse i capelli viola, sospirando, sconsolata.
“Povera piccola”,
proferì poi, osservandomi con aria triste.
“Dev’essere stato traumatico,
vero?”.
“Sì,
beh, non rientrava nei miei programmi
cambiare natura”. Risi.
“Ma fa nulla,
tanto non avevo nessun posto dove andare”.
“No?”,
chiese Nathan, sollevando un sopracciglio, scettico. Non mi piaceva
questa sua
nuova versione saccente. Era antipatico.
Sospirai,
come se l’ovvietà che stavo per pronunciare fosse
in qualche modo offensiva. “Se
alludi all’orfanotrofio, penso che mi avrebbero scacciata,
tra qualche giorno.
Ho compiuto diciotto anni, ricordi?”.
“Ah”.
Si passò una mano tra i capelli – un leggero odore
di menta mi solleticò le
narici – prima di alzare gli occhi al cielo.
“L’avevo dimenticato”.
Sorrisi,
prima di essere folgorata da una domanda tanto banale quanto curiosa.
“Ehi, mi
spieghi come ci sei finito in orfanotrofio, tu?”.
Charlotte
rise, incapace di contenersi, mentre Maya portava una mano alle labbra,
desiderosa di nascondere il suo sorriso ilare. Era così divertente, quella domanda?
E,
se
sì, perché?
“Oh,
beh, è una storia lunga…”,
esordì Nathan: voleva forse evitare
di darmi una risposta? “E non ti piacerebbe
sentirla”.
Ringhiai.
“Penso di essere capace di capire ciò che mi
interessa”.
Sbuffò,
scuotendo il capo. “Non ti interessa, credimi”,
grugnì, frustrato. Per un
attimo – un misero attimo – pensai di credergli.
Solo per un attimo, però.
“Mettimi
alla prova”.
Il
mio amico roteò gli
occhi, facendo
qualche passo in cerchio. “Una scommessa con Charlotte”.
Fulminò la biondina con un’occhiataccia, e
ridacchiai
dell’espressione offesa della ragazza. “Avrei
dovuto pranzare in un ristorante
senza ordinare una bistecca al
sangue. Beh… Ovvio è che non ce l’ho
fatta”.
Alzai
gli occhi al cielo. “E ti hanno spedito lì
per penitenza?”, domandai, scettica. “Nathan, ti
rendi conto che è una cosa
assurdamente stupida? Ed illogica?”.
Fece
cenno d’assenso col capo. “Non dirlo a me, Alice.
È stata la matta a
decidere, e solo perché aveva
appuntamento con un lupo mannaro. Voleva casa libera per un
po’”.
“Oddio”,
gemetti, incredula. Questa, poi! “Ma i vampiri ed i
licantropi non sono nemici
naturali?”.
“Se
i
lupastri sono carini come Michael,
no”, ridacchiò Charlotte. “Semmai, non
vanno d’accordo con le sirene: Maya lo
odia”, commentò, indicando con il pollice
l’amica, rossa di vergogna. Sembrava godere
dell’imbarazzo altrui.
“Oh,
beh, io non mi espongo: dopotutto, non lo conosco”, mormorai,
perplessa.
Charlotte sembrava infastidita
dalla
mia sincerità, e mi ritrovai a pregare di essere lasciata in
pace.
Sospirai.
Perché
non ero rimasta umana?
Uno
strano odore raggiunse improvvisamente le mie narici, e mi ritrovai a fiutare l’aria come un cane da
caccia. Riprovevole.
“Maya, stavi cucinando?”.
Lei
annuì, soprappensiero. “Sì. Io mi nutro
di alghe”, dichiarò, compiaciuta. Era vegetariana, quindi?
“Beh,
allora temo stiano bruciando, sai?”.
Il
tanfo che appestava l’aria, anche se ancora debole, non
lasciava spazio a
diverse interpretazioni…
Charlotte
rise senza ritegno, mentre io chinavo il capo, dispiaciuta. La sirena
ci mise
qualche attimo per metabolizzare la scoperta, prima di cambiare
letteralmente
colore. “Scusatemi un attimo”; mugolò,
correndo verso la cucina.
“Er…
È un po’ negata,
quando deve cucinare
solo per se stessa”, mi sussurrò Nathan,
improvvisamente tornato gioviale. I
suoi occhi saettarono su di me, tentando di valutare la mia espressione
–
assolutamente neutra.
“Ma, quando si
impegna, cucina dei veri manicaretti, te lo assicuro”.
Annuii,
osservandomi intorno. I mobili iniziavano ad apparirmi meno
confusi, e il loro odore era meno
disgustoso. Presto o tardi avrei imparato ad amarli, era
assodato. “Dov’è Charlotte?”,
domandai, perplessa, notando che i suoi capelli
platino erano spariti.
Dov’era
finita?
“Penso
sia uscita. Non resta mai molto in casa”. Nathan
alzò le spalle, prima di
passarsi nuovamente una mano tra i capelli, nel disperato tentativo di
sistemarli. Tentativo fallito per l’ennesima volta.
Era
la mia occasione d’oro. Non potevo farmela scappare
– Maya era in cucina.
Charlotte era sparita. Potevo farcela.
Dovevo farcela.
“Quindi
posso farti una domanda?”, mormorai, arrossendo. Dannata
emotività – i vampiri
non dovevano essere delle maschere di ghiaccio prive di qualsiasi
espressione?
Lui
annuì. “Ovvio. Spara”.
“Hai
detto di avermi trasformato perché ubriaco. È
vero?”.
“Beh,
sì. Avevo bevuto troppo”, dichiarò,
ridacchiando. Trovava così divertente
l’essersi scolato circa
cinque
bottiglie?
“Ma
noi non dovremmo ubriacarci,
vero?”,
ringhiai, avvicinandomi, minacciosa.
Nathan
deglutì, indietreggiando fin quasi a sfiorare con la schiena
lo specchio.
“Er…”, esordì. Lo spaventavo?
Eppure
era solo l’inizio…
Mi
diede le spalle, osservando un suo riflesso immaginario
nello specchio. Le sue iridi smeraldine – così
innegabilmente magnetiche
– mi osservarono imbarazzate,
e fui tentata dal far cadere il discorso. Era colpevole
della mia trasformazione. Non se lo sarebbe mai
perdonato.
“I
vampiri non dovrebbero ubriacarsi, no?”, domandai ancora una
volta, afferrando
la manica della giacca di Nathan per costringerlo a voltarsi. Volevo
mostrargli
che no, non ero arrabbiata.
Preoccupata, questo sì, ma non arrabbiata.
Ero
umana nel cuore, e questo mi bastava.
Lui
sospirò, passandosi la manca tra i capelli neri.
“Beh, in realtà sì,
l’alcol su di noi ha effetto. I
nostri sensi sono molto più sviluppati di quelli umani, e
anche una caramella
al liquore potrebbe metterci K.O.: ci ubriachiamo per un nonnulla,
sai?”.
Ridacchiò, quasi sconvolto dalla sua stessa affermazione.
Ok,
ora c’era qualcosa di strano: se lui sapeva
ciò che sarebbe potuto succedere, perché
aveva bevuto quella stramaledettissima birra? Perché
non si era limitato ad un innocuo
succo di frutta?
Perché aveva bevuto?
Per
farmi contenta? Per festeggiare con me?
Andiamo,
Nathan non poteva aver fatto tutto
quello solo per farmi felice, era
assolutamente inconcepibile!
“Ah,
Alice”, sbottò a un tratto, alzando il capo con
due dita e sorridendomi. “Non
ho avuto modo di darti il mio regalo. O forse l’ho fatto, ma
non te l’ho detto”.
Inclinai
il capo, in attesa – ancora una volta, riuscì a
sorprendermi.
Le
sue labbra si posarono sulle mie, sfiorandole piano. Il nostro bacio
non fu
nulla di più di uno sfioramento, ma rabbrividii di piacere.
Avevo
ancora sete del suo sangue – di quel sangue che lui non
possedeva più da chissà
quanto tempo –, e quella vicinanza era assurdamente
piacevole – il suo collo, pallido e indifeso,
bramava di essere morso da me. Sapevo perfettamente di non potergli
fare alcun
male, e di non poter trarre giovamento da quel morso, ma lo desideravo.
Gemetti,
confusa.
Quel
dannato riusciva sempre a mandarmi
in
tilt.
“Auguri”,
mormorò, spostandosi leggermente, gli occhi socchiusi e
un’aria dannatamente eccitante.
“Stupido”,
esclamai, allontanandomi di scatto. “Ti diverti,
vero?”.
Alzò
un sopracciglio. “Beh…”. Parve pensarci
qualche attimo, poi iniziò a ridere,
divertito. “Sì, la tua espressione sconvolta
è bellissima, Alice”.
Risi
a mia volta, prima di voltarmi. “Sai, Nathan? Ho deciso di
non dichiararti
guerra, oggi”.
“Perché?”,
ridacchiò, seguendomi. Probabilmente, aveva già
immaginato la mia furia. E la nostra
casa distrutta. Era da me, fare
certe cose.
Sorrisi, conciliante. “Perché ho tutta l’eternità per fartela pagare…”.
*\* Allora. Da cosa posso iniziare?Questa storia - non so né come né perché - si è classificata prima al contest [The bite of a vampire] indetto da Ghen sul forum. ù.ù
Sinceramente, sono felicissima. Davvero, davvero, davvero felice.
Non me lo aspettavo, e ho fissato lo schermo per... XD Non so. Ho fissato lo schermo, chiedendomi se quello era davvero il mio nick, o se stavo avendo un'allucinazione - cosa possibile. XD
Poi. Ovviamente, spero vi sia piaciuta, perché è la prima originale da me scritta. ù.ù E questo era il secondo concorso in assoluto a cui ho partecipato.
Ringrazio ancora i giudici, e mi complimento sentitamente con le altre partecipanti. ^^
Grazie! */*