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Autore: wincus    26/07/2015    0 recensioni
"Poi trovavamo un’aula, e dell’armonia complessiva strappavamo un brandello solo per noi, piccolo e caldo. Lei si toglieva il cappotto e iniziava a studiare meccanicamente i suoi pezzi con le mani nascoste fino al polso dalle maniche del maglione, e io mi sistemavo a sedere dietro, su un tavolino."
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’anno scorso era facile passeggiare in Conservatorio nonostante fosse vietato entrare a chi non ci studiava; bastava intrufolarcisi con qualcuno che lo frequentava e il gioco era fatto. Così io seguivo spesso lei quando ci andava per studiare pianoforte. Uscivamo da scuola, e lei nascondeva il viso fino al naso con i libri.
Era inverno; si immergeva sempre in un cappotto blu scuro con due file di bottoni e si legava meno spesso i capelli, e allora aveva quasi sempre un capello riccio lasciato libero sulla fronte, e la punta di esso andava inevitabilmente a toccare il bordo del libro davanti al suo naso.
Armonia.
L’immagine di lei era sì, naturale, non pensata per essere piacevole per come appariva, ma aveva un ordine ed un equilibrio propri soltanto della musica; e così era musica davvero, che agiva senza suono, siccome la musica non è solo suono, ed il suono da solo non è musica, perché si tratta semplicemente della componente che la porta alla luce, che ne segnala la presenza. L’unica parte su cui si lavora, in quanto la più concreta – concreta per modo di dire. Il suono è quanto della musica parla, non è niente di più che la sua voce. Come avrebbe parlato il suono, della musica che era lei in quel momento, abbracciata alla sua borsa mentre scendeva per via Crispi e con quel ricciolo che doveva proprio andare a finire sul bordo del libro? Era un motivetto muto, fatto di una nota alla volta, che sarebbe andato ad aggregarsi all’armonia ben più complessa del Conservatorio intero, fatta di mille linee melodiche come lei, viste solo dagli osservatori intrusi ed innamorati come me.

Poi trovavamo un’aula, e dell’armonia complessiva strappavamo un brandello solo per noi, piccolo e caldo. Lei si toglieva il cappotto e iniziava a studiare meccanicamente i suoi pezzi con le mani nascoste fino al polso dalle maniche del maglione, e io mi sistemavo a sedere dietro, su un tavolino.
La musica era giusta. La finestra era aperta dietro di me, c’era il cielo freddo, una via direi quasi pittoresca, vista dall’alto, che sembrava quasi una fotografia fatta con il filtro di luce fluorescente di una reflex, azzurrata. E l’esecuzione macchinosa di lei andava bene per quella musica, la svestiva a pezzi grossi, grossi come i mattoncini di porfido della strada di fuori - per non parlare della presenza paradisiaca del suo profumo, che si estendeva alla stanza intera e mi faceva pensare di stare al caldo. A momenti, avrei potuto spegnere la luce e credere di starci facendo dolcemente l’amore.




  
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