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Autore: Greta_Micaela_Violante    27/07/2015    0 recensioni
"Quello che non erano riusciti a fare guerre mondiali, l’inquinamento, l’atomica e genocidi vari era riuscito a farlo il cinguettio di un social. Il Tempo era salvo. Io ero salvo. Ma a chi servivo più, ormai? Così mi sono messo a fare il becchino."
Questa è la storia della strage di Dunbar (detta anche Strage della Sindrome da Social Network Riuniti) e di come un illustre becchino, il Tempo, proverà a rintracciare le ultime forme di vita rimaste sul pianeta. La sopravvivenza dell'entità U (che qualcuno un tempo aveva chiamato Umanità) dipenderà da un ricordo. O, forse, da un profilo social. "Cliccare. Commentare. Condividere. Cliccare. Commentare. Condividere".
Genere: Fantasy, Guerra, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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150+1, ovvero i Time Killers
 
 
Odessa, agosto 2044
 
Prologo.
In cui Time, il narratore, presenta se stesso e la strage di Dunbar (meglio nota come SSSNR).
 
Sapevo che sarebbe accaduto. Prima o poi. Era solo questione di tempo. E non lo dico soltanto perché mi chiamo Time e mi va di fare l’egocentrico. Non è rimasto più nessuno con cui potermi atteggiare un po’, quindi no. L’egocentrismo non c’entra. Era questione di tempo perché non ce n’era più molto, a disposizione. Diciamocelo, in estrema confidenza. L’Entità U, che qualcuno si ostinava ancora a chiamare Umanità, stava tentando letteralmente di farmi fuori e ci stava riuscendo. Mi ero talmente assottigliato che temevo di scomparire da un momento all’altro.

Com’è potuto accadere? Semplice. Un giorno (credo fosse il 4 luglio del 2030) un gruppo di scienziati, politici, militari, economisti eccetera, che costituivano il segretissimo Club Internazionale Oscuro per lo Studio del Tempo, della Materia e dello Spazio (abbreviato SCIO), ha deciso che era arrivato il momento di condurre nuovi esperimenti. Proprio sul Tempo. Cioè, su di me. Avete capito, che affronto? E non sto parlando di viaggi nel tempo. Nah, quella è roba vecchia.  Hanno redatto un rapporto, l’Atto di Guerra al Tempo (AGT) che diceva: «I nuovi mezzi di comunicazione e i mezzi di trasporto, sempre più veloci e sofisticati, hanno dimostrato che si può ridurre, financo eliminare, lo spazio e la distanza tra le persone. Ciò premesso, con questo Atto, lo SCIO intende dare il via libera a una nuovo ciclo di studi sul tempo che si concluderanno con l’Operazione di Guerra e Distruzione Definitiva del Tempo (OGDDT). Le persone potranno così avere infinito non-tempo a disposizione, non invecchieranno mai e, soprattutto, non esisteranno più tempi-limite. Le ricerche cominceranno entro i prossimi trenta giorni, presso il laboratorio Macici di Odessa. E adesso sbrigatevi a spostarvi nella sala con il buffet perché il generale dell’Ordine del Fucile, quest’anno in carica come Presidente dello SCIO, è lì già da mezz’ora e fonti anonime riportano che ha fatto fuori tutta la lasagna di melanzane».

Ora, non vi ho detto che l’Atto rappresentava anche il verbale della segretissima riunione che il segretissimo Club teneva ogni anno in una segretissima località. Ecco spiegata la parte sul buffet. Io, comunque, li spiavo da un bel po’, quindi per me non era segretissimo proprio un accidenti di nulla.
Ho capito che quell’atto era la mia (più o meno) dichiarata condanna a morte e mi sono trasferito qui, a Odessa, per monitorare gli esperimenti e cercare di capire quanto sarebbero stati effettivamente nocivi per la mia salute. Così, ho visto nascere nel laboratorio Macici il Sekeraser (abbreviazione di Seconds Eraser, letteralmente il cancellatore di secondi). Un social network terribile, il virus che mi avrebbe fatto la guerra ed eliminato per sempre. Il funzionamento era piuttosto semplice, l’iscrizione gratuita (tanto i profitti per lo SCIO sarebbero arrivati con la pubblicità). Ogni utente che s’iscriveva poteva, in pratica, caricare qualsiasi tipo di contenuto, condividerlo e commentarlo e, così facendo, guadagnare tempo nella vita reale. In pratica più l’iscritto passava il tempo al cellulare, al computer, al tablet o a quegli altri aggeggi infernali che circolavano come se fossero caramelle alla frutta, e più la rete gli avrebbe permesso di non ricevere richiami dal datore di lavoro, di trovare i negozi, i musei, i locali sempre aperti, di non avere problemi in casa (perché tanto tutti erano sempre su Sekeraser). Inoltre, chi avesse perduto il controllo del proprio mezzo di collegamento con Sekeraser avrebbe perso l’iscrizione per sempre. Nessuno poteva permettersi distrazioni.

Era un abominio. Assistevo impotente al mio dimagrimento, mentre orde di gente continuavano a cliccare, commentare, condividere. Cliccare, commentare, condividere. Cliccare, commentare, condividere. Sekeraser non solo stava distruggendo la mia linfa vitale. Stava eliminando qualsiasi forma d’intelligenza umana. Tutti gli esseri umani non facevano altro. Perciò, a che serviva non avere limiti temporali se il tempo che guadagnavi non lo spendevi guardando un film, leggendo un libro, bevendo un bicchiere di vino, conoscendo persone, studiando, arrampicandosi, dormendo, facendo l’amore o qualsiasi altra attività degna di questo nome? È vero, nessuno invecchiava più, niente rughe da eliminare al mattino con creme costose e teoricamente miracolose, ma qual era il prezzo da pagare? La completa, totale, estrema, alienazione. A nessuno sembrava importare, comunque.
Il 27 gennaio 2041, l’Entità U era ormai ridotta a un ammasso di idioti: in quel giorno, 9.999.999.980 persone su circa 10.000.000.000 risultavano iscritte a Sekeraser e sembrava che non esistesse più nessuno con il capo chino su uno schermo, piccolo o grande che fosse. A quel tempo ero quasi trasparente. Sapevo che sarei morto da un momento all’altro.
Poi l’idiozia ha superato se stessa. Ma è stata la mia salvezza. Il 22 ottobre di quello stesso anno il NOSN (acronimo di No ai Social Network), un gruppo rivoluzionario di hacker, ha dato il via ad una colossale offensiva che nelle intenzioni voleva distruggere tutti i social network. Nei fatti ha operato un suicidio di massa.
È bastato un tweet. Un tweet letale. Conteneva un’altra versione di Sekeraser creata dal NOSN. Cliccando sul link, si innestava nella mente delle persone un comando: elimina la tua social media, cioè la tua rete sociale virtuale.

Qualcosa, però, deve essere andato storto durante la programmazione del software. Perché la gente ha cominciato a eliminare se stessa. Letteralmente. E in ogni modo possibile. C’erano persone che si tagliavano le vene. Persone che si gettavano da un ponte. Persone che bevevano veleno. Persone che si sparavano in testa. Persone che si auto-soffocavano. Persone che si lanciavano dai grattacieli.
Non c’è stato modo di arginare il massacro perché le prime persone a essere colpite dalla Sindrome da Social Network Riuniti - come ho battezzato io il programma suicida visto che nessuno si prendeva la briga di farlo - sono state i membri dello SCIO e quelli di NOSN - che hanno cliccato per primi sul link dopo averlo inviato in rete -. Così non c’è stato nessuno in grado di fermare l’auto-strage. La strage di Dunbar – l’ha chiamata così un antropologo prima di cliccare; io la chiamo anche SSSNR, Strage della Sindrome da Social Network Riuniti - ha distrutto l’Entità U. Nessuno riusciva a resistere all’impulso di cliccare, commentare, condividere.
Cliccare. Commentare. Condividere.
Cliccare. Commentare. Condividere.
Forse perché ormai il cervello umano era diventato talmente stupido da non riuscire più a percepire nemmeno la nocività dell’atto di cliccare.

Il 10 aprile dell’anno successivo mi sono ritrovato a vagare per le strade di questo mondo, in completa solitudine. Ero notevolmente ingrassato, ma incontravo cadaveri in ogni casa, in ogni angolo, in ogni giardino. Era uno spettacolo tristissimo, che ve lo dico a fare. Per non parlare dei neonati e dei bambini che ancora non possedevano il loro personale strumento di social media (la legge obbligava tutti ad averlo, ma dai due anni in su). La loro morte è stata una lenta e terribile agonia. E io non ci potevo fare nulla, non ho il dono di mantenere in vita qualcosa che non si riesce a nutrire da sola.
Insomma, quello che non erano riusciti a fare guerre mondiali, l’inquinamento, l’atomica e genocidi vari era riuscito a farlo il cinguettio di un social. Il tempo era salvo. Io ero salvo. Ma a chi servivo più, ormai? Così mi sono messo a fare il becchino. Ho cominciato a seppellire le persone. Tanto per ingannare me stesso, per fare qualcosa di utile. Sono partito da Odessa e ho attraversato l’Europa, scavando e seppellendo. Sono finito in America e poi giù, fino al Sud e poi ancora a Ovest e poi di nuovo al Nord, e l’Asia, poi l’Africa, ho coperto tutti i continenti, insomma. Sempre scavando e seppellendo.

Ogni cadavere che incontravo teneva in mano un cellulare o un tablet. Quegli arnesi sono davvero orripilanti ma non volevo seppellirli perché in loro si era conservata la rete mondiale della socialità digitale. Per quanto la odiassi, rappresentava l’ultimo barlume di qualcosa che probabilmente non sarebbe esistita mai più. L’Entità U, appunto. Ho cominciato a collezionarli, a tenerli da parte. Li conservo tutti nel laboratorio di Odessa, dove trascorro ogni estate. Non mi è rimasto molto da fare a parte tenere il conto di me stesso, seppellire qualche cadavere che mi è sfuggito in giro e tornare a Odessa, nel laboratorio, per guardare i profili dei social network di tutte quelle persone che non ci sono più.
Lo so che non è bello spiare nelle vite degli altri ma a loro, ormai, non fa molta differenza. Non credo che qualcuno protesterà perché ho guardato le sue foto o ho spulciato la lista dei posti che ha visitato. È che mi annoio molto. Gli animali non sono interessanti da osservare, fanno sempre le stesse cose.
E guardare un bambino che sorride all’obiettivo, mentre indossa una maglietta blu e gialla, il viso e le mani sporchi di fango, le braccia tese in avanti mentre tenta di stringere chi sta facendo la foto o trovare l’immagine di una ragazza immortalata mentre lancia un bacio, con le guance e il naso piene di lentiggini, i capelli biondi intrecciati e colpiti da un raggio di sole… beh, mi scaldano i minuti. E mi aiutano. Mi aiutano a ricordare. A ricordare che non sono sempre stato solo. E che esisteva qualcosa che qualcuno aveva chiamato Umanità.
 
Parte Prima.
In cui si scopre che anche la strage di Dunbar può fare sopravvissuti.
 
Non capisco come possa essermi sfuggito. Eppure passo qui tre, quattro mesi ogni anno. Devo essermi completamento fuso le ore. È un piccolo dettaglio, certo, un particolare che può passare come irrilevante eppure… Eppure non lo è. Perché non ci ho mai fatto caso? Il contatore di Sekeraser. Là, sotto i fogli dei progetti originali del social, sul ripiano centrale del laboratorio di Odessa. Nascosto ma visibile. E i numeri, quei numeri. 9.999.999.991 su 10.000.000.000. Facendo questo meno quello… Nove. Nove. Non ci serve mica un genio per capirlo. Quelle sono nove. Nove persone non iscritte a Sekeraser o che hanno perso l’iscrizione. Nove persone che potrebbero esistere ancora, da qualche parte. Com’è che non le ho mai incontrate? Ero troppo concentrato sui cadaveri da non riuscire a captare il suono di un cuore che batte, il calore di un respiro o il profumo di una pelle viva? Sono eccitato, sento di poter essere di nuovo utile a qualcosa. O a qualcuno, dopotutto. Devo trovarli. Devo trovare i nove sopravvissuti. Ora che so, sarà facile. Devo solo concentrarmi, collegarmi con gli orologi di tutto il mondo e scovarli. Avverto già qualcosa.

Un orologio da polso, su un comodino. Funziona ancora ed è stato toccato di recente. È qui vicino. Non a Odessa. Ci sono. Lo vedo. La vedo. Porta un vestito rosso, senza maniche. Ha i capelli biondi, gli occhi chiari, la pelle ancora più chiara. È una ragazza. Avrà una ventina d’anni. Ha le guance secche, come se avesse pianto di recente e non si fosse curata di asciugare le lacrime. È rannicchiata su una sedia, dentro una casa che forse è la sua. Ci sono libri ovunque: trattati di medicina, saggi sul corpo umano, anche romanzi. Esco per un momento dalla stanza e guardo le strade per capire dove devo andare a prenderla. È a Tarakaniv, qui in Ucraina. Rientro per un attimo dalla porta principale. C’è un odore terribile e noto tre cadaveri. Una donna, un uomo e un bambino, di circa sei anni. Ah, questi mi sono sfuggiti. Quando verrò a prenderla dovrò seppellirli.
Torno al laboratorio. Questa sorta di sdoppiamento è faticosa, ma ce la posso fare. Devo sforzarmi di trovare gli altri. Mi sintonizzo di nuovo, alla ricerca di lancette che mi lancino segnali. E mi arriva un suono, una specie di “toc toc” al cervello. Lo seguo e mi ritrovo a Livonia, vicino Detroit, negli Stati Uniti. Sono davanti ad un bidone della spazzatura stracolmo di robaccia. Non mi sorprende. Tutti i posti che ho visitato sono abbandonati a loro stessi. Ma qui c’è qualcosa di diverso. C’è una coperta che spunta vicino a un bidone. Mi sposto e vedo due piedi nudi, dei calzoni strappati, una pancetta da bevitore e una barba bianca che circonda un nasone rosso. È un uomo, sembrerebbe un barbone. Respira. O meglio, russa. È un mistero perché dorma così, all’addiaccio, quando potrebbe occupare indisturbato qualsiasi appartamento. Accanto alla sua testa c’è una sveglia a forma di balena. È lui il mio secondo sopravvissuto.

Torno indietro, nuovo viaggio. Stavolta il segnale mi arriva da una clessidra. La sabbia continua a muoversi nei bulbi di vetro, come se non riuscisse a trovare pace. E guardo le sue mani. Sono mani vecchie ma curate, due mani che stringono la clessidra come se non avessero nient’altro cui aggrapparsi. Porta gli occhiali e il suo volto sembra contenere tutta la stanchezza di questo mondo. È una donna. È in piedi, vicino a una scrivania tappezzata di fogli bianchi. Mi affaccio alla finestra e vedo il mare. Sono a Ermioni, in Grecia. Non ho mai visto questa spiaggia, sembra privata. È da sola, qui, da chissà quanto tempo. Sul ripiano di un mobile c’è un libro con una sua fotografia. In passato deve essere stata molto bella. Si chiama Agape. È lei l’autrice del libro.

Il quarto segnale lo ricevo da un posto che è noto come Badalu. È in Afghanistan, vicino a Herat. Scopro che a richiamarmi è stato un vecchio orologio militare che funziona ancora. È al polso di un uomo dall’età indefinibile. Ha la barba e i baffi neri, il volto coperto di rughe e in testa il tipico cappello afgano, il pakol, di un rossiccio sbiadito. È chino su un cesto che contiene verdura di vario genere. Accanto a lui, c’è una tenda e poi il nulla. Ha un sorriso che sembra esprimere gratitudine e riesco solo a percepire che il suo nome ha in qualche modo a che fare con il cuore.

Adesso sta diventando più facile. Il quinto orologio a richiamarmi è uno di quelli a cucù. È di legno, pitturato con tutti i toni del viola che vi possono venire in mente.  Si trova su una parete e, da lì, spia alcune foto, appese a un filo. Anche le mollette che tengono le fotografie sono viola. C’è una donna, avrà poco più di trent’anni, intenta ad appendere altre fotografie. Non le sta appendendo per farle asciugare. Sbircio un po’ in giro e vedo che la stanza è piena di tantissimi fili così, con centinaia e centinaia di foto appese come se fossero panni appena lavati. Guardo oltre la porta e vedo una stanza simile, con altri fili, altre mollette, altre foto. Punto gli occhi di nuovo sulla donna e la osservo meglio. Al collo porta una macchina fotografica.
Non me ne intendo molto, ma ha un obiettivo bello grosso. Porta i capelli, ricci e castani, raccolti in una coda alta. Appende l’ultima foto e si appoggia con le mani al filo. Sospira e poi posa la testa su quella foto. Si gira di scatto e mi guarda. Cioè, so che non può vedermi, ma forse mi ha percepito. I suoi occhi si muovono frenetici, come se tentasse di scrutare qualcosa.
Riesco a rubare una foto e poi torno a Odessa. Mi scrollo di dosso la sensazione di essere stato individuato. Nessuno può farlo. Io sono Time. Sono inafferrabile. Eppure lei…com’è che si chiama? Sono quasi certo che il suo nome cominci con la S. Va bene, non posso fermarmi a pensarci proprio adesso.

Mi concentro ancora, e il sesto sopravvissuto mi richiama dall’aeroporto di Bogotà. È un uomo e porta una radiosveglia agganciata alla cintura di pelle. Non può più captare nessuna frequenza, ormai. Quell’arnese se lo porta appresso solo per segnare me, credo. È uno strano individuo, si muove tra le sale e i gate in maniera losca, in verità. Ha dei bei lineamenti, non c’è dubbio. La pelle, un po’ scura, dona un affascinante risalto a denti fastidiosamente bianchi; gocce di sudore gli circondano la fronte e porta una camicia un po’ sporca abbinata a un paio di pantaloni verde scuro. Ha un passaporto nella tasca della camicia. Leggo il suo nome: Rico Leon. Qualcosa – ma non saprei dire bene “cosa” - mi suggerisce che quello non è davvero il suo nome.

Il settimo suono che cattura la mia attenzione è un bastoncino di legno appuntito che colpisce un altro pezzo di legno. Mi sforzo e mi ritrovo a guardare un bambino che non può avere più di dieci anni intento a intagliare un blocco di legno molto grande. Ci sono tante lineette precise, una vicina all’altra, di dimensioni diverse. È così che segni il trascorrere delle ore, dei giorni, degli anni, Mabili? So che si chiama così perché ha, accanto a sé, un disegno rudimentale che raffigura una bambina che tiene per mano un bambino, e in basso una dedica traballante: “A Mabili, fratello preferito”. Quanto dovevi essere piccolo quando quel tweet ha sterminato tutti? Avevi cinque o sei anni? Mabili alza gli occhi, fissa la sua capanna, poi il fiume. Abita ad Afgoi, in Somalia. «Domani compirò otto anni. Tanti auguri a me». Butta a terra il bastoncino e prende in mano il disegno. Non ce la faccio a sopportare oltre. Sono un sentimentale, lo so. L’Entità U ne ha combinate di tutti i colori ma è stata sempre capace di commuovermi, di farmi affezionare.
Devo sbrigarmi a trovare gli altri, se non voglio che Mabili passi il terzo compleanno di seguito in questa situazione.

Il penultimo tic tac mi arriva forte e chiaro da un orologio da tasca. È un modello antico, raffinato, anche prezioso. È nella tasca della giacca di un uomo che apparentemente sembra non stia facendo nulla. È seduto su una poltrona; dall’aspetto sembra giovane e guarda fisso davanti a sé. Ha gli occhi verdi e arrabbiati. Prende l’orologio, controlla l’ora. Poi raccoglie un martello da terra e si accanisce su un computer che è già sfasciato. Bong, bong, bong. Non capisco perché lo faccia, è chiaro che il computer ha smesso di funzionare da un bel pezzo. Bong, bong, bong. Va avanti così, per dieci minuti buoni. Poi scoppia a piangere, lancia il martello dall’altra parte della stanza e si abbandona di nuovo sulla poltrona. Esco dall’appartamento mentre i suoi singhiozzi, le sue grida mi rincorrono. Guardo la targhetta del campanello. Non c’è scritto nessun nome però mi sporgo oltre il portone e riconosco Jenin. L’uomo-martello lo troverò in Palestina.

Ora devo fare un ultimo sforzo. Devo individuare il nono sopravvissuto, se è ancora vivo. Mando i miei secondi in esplorazione, spedisco la mia vista oltre le mura del laboratorio. Ci metto un po’ ma alla fine lo trovo. È un orologio da tavolo, sommerso da una valanga di fiori, di tutte le tonalità. Di tutti i profumi. Ecco perché non mi era stato facile individuarlo. Gli odori mi distraevano, mi confondevano. Ci sono riuscito lo stesso. Sono bravo, io. Non a caso mi chiamo - e mi chiamavano - Time. E poi trovo lei. È una donna minuta, gli occhi a mandorla, grandi e sottolineati da linee di trucco morbide. Sulla fronte ha un piccolo tilaka, di un bel rosa acceso. Anche i suoi vestiti sono pieni di colori decisi: giallo, verde, rosso, azzurro. Ai piedi indossa delle ciabatte piene di farfalle. Sta innaffiando vasi e vasi di fiori, in quella che sembra essere una serra. Mi pare un fiore grazioso tra tanti fiori. «Kanti vi vuole bene, vedete? Perciò fatemi compagnia, non lasciatemi mai». Kanti, ecco come si chiama. E spera che i fiori possano prendere il posto di quelli che non ci sono più. Li accarezza, li annusa, li coccola, questa Kanti. Kanti, che in sanscrito vuol dire “bellezza”.
Abbandono la serra e cammino un po’. Sono a Katmandu. Qui i colori sembrano davvero voler sfidare qualsiasi morte, qualsiasi senso di abbandono. Devo tornare a Odessa. Devo organizzarmi, studiare un piano.

Riapro gli occhi. Sono al laboratorio, di nuovo. So come fare per portarli tutti qui, dove tutto è cominciato. Chiudo gli occhi, un’ultima volta. Li tocco, uno per uno. Li faccio addormentare e me li carico sulle spalle. Riesco anche a seppellire quei tre che erano rimasti in casa con la ragazza. Chissà se, abbandonando i posti dove sono sopravvissuti finora, si lasceranno indietro anche i sentimenti che ho avvertito nel momento in cui li ho trovati.
Angoscia. Disperazione. Rimorso. Rimpianto. Tristezza. Dolore. Rabbia.
Mi piacerebbe che fosse così.
 
 Parte Seconda.
In cui un incontro può cambiare le sorti dell’Entità U.
 
Li deposito, quasi cullandoli, sul pavimento del Macici. È duro, freddo. Li aiuterà a svegliarsi. Ci vorrà un po’ ma io so essere paziente. Voglio vedere le loro facce quando capiranno che non sono più da soli. Passo tutta la notte a guardarli dormire. Qualcuno si agita. Vola qualche parola impastata di sonno. Il barbone russa. Il primo a riprendersi, verso l’alba, è Mabili. Si tocca gli occhi, tende le braccia, poi le gambe e si guarda intorno.
«Ma che…?». Sposta lo sguardo da un corpo all’altro, è spaventato. Si avvicina e poggia una mano sotto il naso della ragazza con il vestito rosso. «È viva». Dice soltanto questo: è viva. Si sposta per esplorare il respiro di ognuno.
Quando si rende conto che quelle otto persone non sono cadaveri, si riavvicina alla ragazza in rosso e sospira: «Questo sì che è un regalo di compleanno».
Comincia a scuoterla. La ragazza apre gli occhi e grida. Quando si rende conto di essere davanti a un bambino, si poggia le dita della mano destra sulla bocca, in un gesto che ha il sapore della sorpresa. Il suo grido sveglia tutti gli altri. Si sollevano, si scuotono, si guardano, si scrutano, si contano.

«Chi siete e come sono finita qua?». È Agape a fare la domanda e poi tutti e nove cominciano a strillare contemporaneamente, ognuno nella propria lingua. Scuoto la testa. Se continuano così, esploderanno a forza di parole e avrò fatto tutta quella fatica inutilmente.
A un certo punto, qualcuno si rende conto che bisogna trovare una lingua comune. Rico Leon si dirige verso la postazione di comando del laboratorio, accanto al ripiano dei progetti e trova il microfono per parlare attraverso gli altoparlanti dell’edificio. La sua voce esplode e rimbomba sulle pareti di tutto il palazzo. «Basta. State. Zitti. Dovete. Parlare. In. Inglese. Se. Non. Conoscete. Questa. Lingua. State. In. Silenzio. E. Ascoltate. Gli. Altri. Qualcuno. Poi. Proverà. A. Tradurvi. Quello. Che. È. Stato. Detto. Se. Avete. Capito. Fate. Un. Cenno». Sono ammutoliti. Ma alla parola “cenno” annuiscono, facendo su e giù con la testa.
Bene, sembra riusciranno a comunicare, dopotutto. Rico Leon molla il microfono e li raggiunge. Gli altri continuano a guardarlo, come se si aspettassero chissà quali altre indicazioni. Lui sbuffa. «Va bene, siamo vivi», dice. «Questo lo abbiamo capito. È come se fossimo saliti su quella cosa, la barca di Noè».
«Era un’arca», lo riprende Agape.
«È la stessa cosa. Come siamo arrivati qua? Non lo sappiamo. Però sappiamo chi siamo, da dove veniamo e perché non abbiamo fatto la fine di tutti gli altri. Potremmo cominciare con questo. Ci presentiamo, come normali persone educate arrivate a una festa. Vuoi cominciare tu?» E si rivolge alla persona alla sua sinistra. È l’uomo che ha il nome che ha a che fare con il cuore. Sorride. «Io? Ah, bè, non c’è molto da dire. Mi chiamo Zelgai e fino a ieri ero a Badalu, in Afghanistan. Ho quarantatré anni e faccio il contadino. Non ho mai posseduto un cellulare. Mia moglie sì. L’ho persa quel giorno. Da allora non mi sono mosso dalla mia terra».

Si sono seduti in cerchio sul pavimento. Non si sono preoccupati nemmeno di recuperare le sedie che si trovano nella sala riunioni e che sono visibili da questa stanza.
«Io mi chiamo Inna e ho diciannove anni. Sono ucraina. Avevo iniziato a studiare medicina. Mio fratello aveva fatto cadere il mio tablet dalla scrivania e si era spaccato. Non avevo avuto il tempo di farlo riparare perché stavo preparando un esame. Mi ha salvato la vita. Aveva solo sei anni». Inna si liscia la gonna del suo vestito rosso e una lacrima le rotola sul mento. «Tutta la mia famiglia è morta», conclude.
«Io sono Frosty, o quello che è. Non ricordo il mio nome, mi chiamava così uno che ogni tanto divideva il suo cibo con me. Non conosco la mia età, suppergiù avrò una cinquantina d’anni. Non so nemmeno quando ho perso la memoria. Sono quello che vedete: un barbone, senzatetto, clochard. Come vi pare, per me non fa differenza. Mi piace bere, non mi lavo da un secolo e non ho storie tragiche da raccontarvi, tutta la mia vita è tragica a sufficienza. Sono sempre stato solo. Non ho perso nessuno in quel maledettissimo giorno. E non so nemmeno cos’è un cellulare. Non avete trovato del vino, da qualche parte?». Si gratta la barba ma non si aspetta davvero una risposta.
È il turno di Kanti. Si sistema i capelli dietro un orecchio. «Io mi chiamo Kanti e vivevo a Katmandu. Ho ventotto anni e faccio la fioraia. Quel giorno avevo innaffiato il mio cellulare e il mio computer: erano finiti per sbaglio dentro un vaso di ortensie. Hanno smesso di funzionare subito. Abitavo con mia madre. Lei si è uccisa con gli insetticidi che usiamo nella serra». Tira le labbra, come se volesse sorridere, ma il risultato è una smorfia incomprensibile.
«Io mi chiamo Mabili e oggi compio otto anni. Ho sempre vissuto ad Afgoi, in Somalia, con i miei genitori, due fratelli e una sorella. Quando è arrivato l’uomo del governo a portare i cellulari io mi sono rifiutato di utilizzare il mio. I miei fratelli, invece, li usavano parecchio. E anche i miei genitori».

Il bambino piega le ginocchia e le circonda in un abbraccio. Agape, che gli siede vicino, gli accarezza la testa. «Buon compleanno», gli dice e poi prosegue, «io mi chiamo Agape, sono greca e facevo la scrittrice. I miei apparecchi li teneva tutti la mia assistente, li gestiva lei. L’ho guardata mentre si tuffava in mare. Credevo volesse fare una nuotata. Non aveva indossato il costume da bagno e questa, in effetti, mi era sembrata una cosa strana. Non è più riemersa. Ho settantaquattro anni e non ho mai imparato a nuotare. Non potevo salvarla. Mi sento in colpa lo stesso, il cellulare che l’ha uccisa era il mio».
Continua a spettinare Mabili, che si avvicina e la abbraccia. Lei trasalisce, ma è solo un attimo. Ricambia l’abbraccio, stringendo con quelle ossa fragili ricoperte di pelle macchiata il corpo magro del bambino premuto contro il suo.
«Io mi chiamo Salima», esordisce la donna con la macchina fotografica al collo. Ho deciso di lasciargliela, quella macchina, perché mi sembrava importante per lei. «Sono egiziana e faccio la fotografa. Vivo, vivevo, in un posto che si chiama Sintiris, vicino a Il Cairo. Ho trentaquattro anni. Avevo perso il cellulare proprio quel giorno, su un taxi. Il mio compagno si è sparato davanti a me poche ore dopo». Alza la macchina fotografica e scatta una foto a Mabili e Agape, stretti ancora in quell’abbraccio.
«Io sono Omar e ho trentanove anni. Abito a Jenin. Mia moglie e le mie figlie si sono gettate dalla finestra del nostro palazzo. Avevo previsto tutto. Avevo capito che il Sekeraser ci avrebbe distrutto, tutti quanti». Fa una pausa e comincia a colpirsi la fronte. Forse avrei dovuto portare quel martello e quel computer scassato. «Non tutti», dice Salima e gli blocca il polso, «noi siamo qui, ora. Destino? Miracolo? Casualità? Non è questo, quello che conta. Perché dici di aver previsto tutto?».
«Sono un ingegnere informatico. Se non ci avesse pensato l’attacco hacker a farci fuori, saremmo comunque collassati. Sapete perché l’hanno chiamata strage di Dunbar?».

Rimangono tutti in silenzio. Omar pare l’unico a saperlo: «Il numero di Dunbar è un limite cognitivo teorico che riguarda il numero di persone con cui un individuo può mantenere relazioni sociali stabili. Secondo questa teoria, gli esseri umani non sono in grado di mantenerne più di centocinquanta. Con Sekeraser, il fatto di essere continuamente connessi ad altre migliaia di persone, ci faceva superare abbondantemente quel numero e presto avrebbe provocato danni irreparabili alle sinapsi cerebrali. In pratica Sekeraser ci avrebbe mandato in pappa il cervello. Io l’avevo capito. È per questo motivo che mi hanno sbattuto fuori dal progetto, perché ero contrario. Ho provato a oppormi almeno a casa, con la mia famiglia. Mi hanno dato del pazzo e del retrogrado. Poi quelli del NOSN hanno anticipato i tempi».
Ah, che bello quando sono chiamato in causa nella mia forma plurale. Sono rimasti tutti in silenzio. Stanno riflettendo sulle parole di Omar, lo vedo. Poi la vocina di Mabili torna a farsi sentire. «Non ci hai detto chi sei tu», dice rivolgendosi a Rico Leon.
«Stavo per spiegarlo. Mi chiamo Rico Leon e…»
«Che razza di nome è Rico Leon?», chiede il barbone di Detroit.
«Perché, Frosty che nome è?», rilancia Rico. «Ridicolo. Il bue che dice cornuto all’asino. Dunque, stavo dicendo, mi chiamo Rico Leon, sono di Bogotà e ho trentasette anni. Avevo gettato il mio cellulare nel Fucha, il giorno prima, tutto qua».
«Tutto qua? Perché hai gettato il cellulare in un fiume? Avevi litigato con la fidanzatina?», lo prende in giro Frosty.
«No. Avevo paura di essere rintracciato».
«Eh?»
«Tranquilli, sono solo uno spacciatore».
«Solo uno spacciatore, dici?», interviene Agape. «Vergognati».
«Lo farei. Ma ormai non vendo più roba da un bel pezzo. Sai com’è, mancano i clienti».
Lo guardano tutti in cagnesco tranne Zelgai, che dice: «Non è il momento di litigare. Dobbiamo capire in quale posto ci troviamo e perché».
«Le indicazioni in questa stanza sono scritte in ucraino, quindi dobbiamo essere da qualche parte nel mio Paese». Inna si alza e si avvicina al ripiano con i documenti.
«Io lo so, dove siamo finiti», dice Omar. «Siamo arrivati all’inferno».
 
Parte Terza.
In cui i sopravvissuti scoprono l’importanza del ricordo.
 
«Questo è il laboratorio Macici. È il posto dove è nato e si è sviluppato Sekeraser. Siamo a Odessa, una città che qualcuno di voi ricorderà anche per altri fatti».
«Come ci siamo arrivati? Sei in grado di spiegarci anche questo?», chiede Kanti. Omar scuote la testa. «Questa è una cosa che devo capire anche io».
«Guardate qui», Salima è accanto al contatore.
«Questo è il contatore di Sekeraser», spiega l’ingegnere.
«Immagino che quei nove mancanti siamo noi», non è una domanda quella di Salima. «Non c’è nessun altro, questo è chiaro».
«Questo non ci dice come abbiamo fatto ad arrivare fin qui», Rico Leon sfiora la radiosveglia appesa alla sua cintura.
«È che mi era sembrato che ci fosse qualcuno, ieri, nel mio appartamento…».
«Non è divertente», Inna tira su con il naso.
«Hai ragione, scusa. Ho avuto la sensazione, per un attimo, che qualcuno stesse guardando le mie fotografie. Ne mancava una dalla fila che stavo preparando».
«Quale fila?». Salima scatta una fotografia a Inna che cerca di ritrarsi.
«Da quando è successo quello che è successo ho cominciato a riordinare tutte le fotografie che avevo scattato fino a quel momento e ad appenderle in tutte le stanze del mio appartamento».
«Perché lo facevi?» Mabili si avvicina e cerca di guardare dentro la lente dell’obiettivo.
«Per ricordare, credo», Salima lo dice con noncuranza, come se fosse cosa di poco conto. Invece no.

Loro sono qui perché io, Time, ce li ho portati. Perché voglio che sappiano cosa c’è qui dentro. Voglio che ricordino chi erano i loro amici, cosa facevano prima di Sekeraser. Voglio che rimettano insieme il loro passato. Voglio che non dimentichino quello che è stato per costruire il loro futuro. Devo dargli un aiutino. Mi avvicino alla porta che conduce ai sotterranei e la apro facendola cigolare.
Frosty è quello più vicino. Sporge la testa oltre l’apertura e pronuncia una bestemmia, che io non ripeterò. Certi termini non li uso. «Guardate che diavolo c’è qui», strilla eccitato. Gli altri si avvicinano e tutti riescono a posare gli occhi su quella distesa infinita di apparecchi elettronici che ho raccolto mentre facevo il becchino.
«E questi chi li ha portati qui?», domanda Agape.
«Ma sono…». Zelgai è incredulo.
«Penso proprio di sì», dice Kanti. E sbatte con forza uno dei suoi piedini sulla porta. Le verrà un brutto ematoma e nell’impatto una farfalla si è staccata da una delle ciabatte. Rico Leon tende la mano per afferrare uno smartphone. «Aspetta», Omar lo blocca, parandoglisi davanti. «Rifletti. Sekeraser è ancora funzionante, così come il virus lanciato dal NOSN. Se prendiamo in mano quei cellulari, rischiamo di morire».
«Che vuoi fare?».
«Voglio distruggere il software e il virus. Immediatamente». Si dirige al ripiano ingombro di scartoffie e comincia a leggere i documenti, a digitare numeri e lettere, a staccare cavi. Dopo circa mezz’ora, il contatore di Sekeraser si spegne.

Omar recupera un martello da una cassetta degli attrezzi depositata accanto al gabbiotto del microfono e comincia a dare martellate, un po’ a casaccio. È un uomo-martello fino in fondo. Passa un altro quarto d’ora e finalmente si ferma, sudato e sorridente.
«Il tuo cuore è più leggero, adesso», dice Zelgai.
«Potete toccare quegli arnesi, là sotto. È finita, sul serio».
Frosty ne prende uno, lo guarda e comincia digitare qualche tasto. Inna ne recupera un altro, seguita da Mabili. Piano piano, anche gli altri si fanno coraggio. Guardano quelle storie raccontate attraverso un profilo Facebook, leggono quei pensieri espressi con soltanto centoquaranta caratteri, studiano quei curriculum virtuali. Passano alcune ore in cui sono totalmente immersi nella ricerca di brandelli di vita, di passato, di memoria. Poi, a un certo punto, è Agape ad avere l’illuminazione. Non mi sorprende, d’altronde questa è la sua materia.
«Dobbiamo salvarli», dice con rispetto.
«Cosa?». Rico la guarda con curiosità. Salima le sorride. Lei ha già capito.
«Ho detto che dobbiamo salvarli».
«E come facciamo? È possibile? Possiamo fare una magia?». Mabili si gratta i capelli e sbadiglia.
«No, Mabili, i morti restano morti», dice Frosty. «E se non fossero morti, sarebbero zombie e dovremmo ammazzarli».
«Frosty!» Inna lo colpisce su una spalla.
«Che ho detto?».
«Io intendevo dire che dobbiamo salvarli ricordandoli. Scrivendo e raccontando le loro storie. In questa maniera potranno continuare a vivere nella nostra memoria e in quella di chi ci sarà dopo di noi. C’è tutto di loro in questi “cosi”».
«Come fa Salima con le sue fotografie?»
«Esattamente. Io credo che siamo qui per questo». Kanti la guarda, è dubbiosa. Anch’io al suo posto lo sarei. «Non so se siamo in grado. Insomma, ci hai visti? Una fioraia, un barbone, una studentessa, un bambino, un contadino, un ingegnere informatico, una scrittrice, uno spacciatore e una fotografa. Un gruppo di persone che più assurdo non si può, e non esattamente preparato a fare una cosa del genere. E dopo di noi chi ci sarà mai? E poi… hai visto quanti sono? Quanta roba c’è qui?».
«Sì, ho visto».
«Come pensi di fare? Come lo possiamo fare?». È Zelgai a chiederlo. I suoi occhi sono già quelli di chi è pronto a scalare sette montagne in un’ora soltanto. Mi piace Zelgai e ora so che non è solo perché il suo nome ha a che fare con il cuore.
«Un po’ alla volta. Un ricordo alla volta. Una vita alla volta. Una storia alla volta. Abbiamo tutto il tempo. Tutto il tempo del mondo».
Rido. E loro ridono con me mentre guardano la foto di un bambino con il viso e le mani imbrattate di fango, le braccia tese, come se volesse sporcarli, tutti e nove.
O stringerli in un abbraccio.
 
Epilogo.
In cui Time, il narratore, si congeda e presenta il giorno di Umanessa.
 
Agape ha ragione, hanno tutto il tempo del mondo questi nove piccoli eroi sopravvissuti alla strage più sanguinosa che abbia mai colpito l’Entità U. Hanno me. Dopo quella giornata passata a selezionare e a catalogare, si sono addormentati sfiniti in quel mare di cellulari. Frosty tiene tra le braccia Mabili che ha allungato le sue piccole gambe sulle ginocchia di Zelgai. Inna si è rannicchiata vicino ad Agape. Omar ha appoggiato una mano su quella di Salima, forse in maniera involontaria. Rico Leon, invece, si è stretto Kanti al petto. E non c’è stato niente d’involontario, nel suo gesto.
Qualcosa mi dice che Kanti si sbagliava. L’Entità U non finirà con loro.

Oggi si sono svegliati, stanchi, sì, ma con una nuova consapevolezza. Quella di poter riparare gli errori del passato ricostruendo.
«Buongiorno!». ha strillato Mabili e ha baciato ognuno di loro su una guancia. «Ho trovato un po’ di cose buone da mangiare così ho deciso di preparare la colazione, a casa lo facevo io per tutta la famiglia».
Esco per un attimo dal laboratorio per lasciarli mangiare senza la mia ingombrante presenza. Il sole è sorto da poco. Nella mano stringo la fotografia che ho rubato dall’appartamento di Salima. La guardo e sogghigno. Ritrae la scena di una festa, credo fosse il capodanno del 2031. C’è un mucchio di gente in una piazza, tutti con un cellulare a portata di mano, ovviamente. Hanno ancora l’aria allegra, mentre lanciano palloncini in aria, indossano cappellini assurdi e fanno cheese all’obiettivo. E lì, accanto a un lampione, sfocato, ma non ancora dimagrito, ci sono io. Sono venuto bene, molto bene. Brava Salima. Dovrò stare attento alla tua macchina fotografica. E con un ego come il mio sarà difficile.
Rientro. I miei nove compagni stanno ancora mangiando. Parlano per conoscersi, per fidarsi, per non dover essere più soli.
Ho deciso che chiamerò questa giornata, la giornata in cui l’Umanità (e non l’Entità U) è rinata, proprio qui, a Odessa, il “Giorno di Umanessa”.
Non me ne vogliate. Ho un debole per le crasi esagerate.
E per l’Entità U. Ma questo si era capito.
 
 
   
 
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