Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: reiko85    28/07/2015    9 recensioni
Una piccola ErenxLevi senza pretese..
Dal testo:
“Rivederlo dopo tutti quegli anni fu strano.
Strano, e allo stesso tempo assolutamente ordinario. Come se il tempo non fosse mai trascorso. Almeno per lui.”
Tag: AU Comunità per minori – kid!Eren – teacher!Levi
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren, Jaeger
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti!

Questa è solo una piccola oneshot sulla mia otp preferita dell’Attacco dei Giganti!xD

L’ho buttata giù velocemente, quindi non mi sono impegnata molto coi dettagli ed il resto..e.e;
 
Ci vediamo alla fine per le note conclusive..^^
 
-Reiko-
 







 
~ Little Wings ~
 
 
 









Rivederlo dopo tutti quegli anni fu strano.

Strano, e allo stesso tempo assolutamente ordinario. Come se il tempo non fosse mai trascorso. Almeno per lui, dato che il suo aspetto era esattamente come lo ricordavo.

Era piegato per terra su un ginocchio, mentre aiutava un bambino a chiudere i bottoni del suo cappotto colorato. Indossava il grembiule azzurro dei dipendenti, con una targhetta in più sul petto che non gli avevo mai visto prima, sopra la sua solita camicia bianca con quel foulard annodato al collo e un paio di pantaloni grigi.

Il suo viso delicato e concentrato, i suoi capelli neri e lisci, le sue mani forti, mi riportarono alla mente una serie di ricordi della mia infanzia che passarono davanti ai miei occhi come in un film a scorrimento veloce.

«Eren!! Dio mio, quante volte te l’avrò detto che non si deve uscire dal recinto per alcuna ragione?! E’ pericoloso, potresti perderti!»
La signorina Petra mi sollevò di peso dall’angolo in cui mi ero inginocchiato cercando di forzare la rete che circondava il giardino della Casa Famiglia “ Little Wings ”, in cui risiedevo da quando avevo perso entrambi i miei genitori, all'età di tre anni.

«M-ma io... volevo s-solo...» Tirai su con il naso, cercando di trattenere i lacrimoni che stavano affollando i miei occhi.

L’educatrice sospirò, massaggiandomi la schiena con una mano, mentre mi riposava per terra, rimproverandomi affabilmente.

«Stavi di nuovo cercando di cogliere l’aquilegia blu per Levi, vero?» pronunciò con un sorriso gentile, i capelli ramati che le ricadevano morbidamente sulle spalle «Eren, hai già sradicato tutta quella del nostro giardino, non vorrai che si estingua per sempre, no?»

Strabuzzai gli occhi, preso dal panico.

«NO!» esclamai con tutto me stesso, mentre le lacrime iniziavano a rigare le mie gote. Non volevo che sparisse. Ogni volta che gliene regalavo uno stelo, il caporale mi scompigliava gentilmente i capelli. Mi piaceva molto quando lo faceva. Mi sentivo felice.

«Allora cosa ne dici se invece di portargli il vero fiore gliene disegnassimo uno che possa tenere sempre con sé?» disse calorosamente Petra, prendendomi per mano.

Annuii con forza, strofinandomi gli occhi con le nocche per non far vedere agli altri che avevo pianto, e seguii la signorina, rincuorato. Era un’idea grandiosa. Gli avrei fatto il più bel disegno che si fosse mai visto di quel fiore blu sfumato di viola, e mi sarei assicurato di donarglielo.

Nel frattempo, il caporale in questione si era rialzato, risistemandosi in piedi vicino ai bambini che giocavano rumorosamente attorno ai tavoli, con lo sguardo attento e le braccia incrociate, per controllare che nessuno si facesse del male. Era sempre stato duro, e qualsiasi cosa che dicesse non veniva mai messa in discussione. Da piccolo, ricordavo come a volte bastasse il suo solo sguardo a fermare un litigio sul nascere. Gli altri bambini lo temevano. Io no. O meglio, era sicuramente spaventoso quando qualcuno infrangeva le regole senza ragione, ma, dopo aver avuto a che fare direttamente con lui, mi ero reso conto di quanto davvero godessi nello stargli attorno.

Quella volta in cui caddi mentre correvo, sbucciandomi entrambe le ginocchia, mi aveva sottoposto ad una ramanzina coi fiocchi. Stavo per mettermi a piangere quando, alla fine, mi aveva preso in braccio delicatamente, facendo attenzione a non farmi male, e mi aveva portato in infermeria per medicarmi. Mi ero sentito così bene, mentre mi teneva tra le braccia. Così al sicuro, sapendo che era lui che si stava prendendo cura di me. Così felice, quando mi aveva dato un colpetto lieve col dito sulla fronte, dicendomi di non farlo più preoccupare in quel modo.

Da quel giorno non avevo fatto altro che gironzolargli attorno, inventando mille modi diversi per attirare la sua attenzione.

Il giorno che ci portarono tutti insieme al mare, mi divertii da matti ad assalirlo sotto ogni prospettiva, attaccandomi alle sue braccia robuste o al suo ventre ben definito, o gettandogli le braccia al collo con la scusa di non saper nuotare, per avere la possibilità di essere tenuto stretto da lui per tutto il tempo che passammo in acqua. Ancora adesso, ricordavo quella giornata come la più bella che avessi mai trascorso in vita mia.

Continuai a guardarlo assorto mentre lavorava, rimanendo in piedi accanto alla porta a vetri dell’ingresso.

Mi chiedevo se ricordasse ancora la promessa che lo avevo costretto a farmi il giorno in cui fui adottato dalla mia attuale famiglia.

Essere portato via da quella che ormai consideravo la mia casa, e soprattutto, da lui, fu dannatamente traumatico. Ricordo le lacrime ed i pianti che mi feci nei tre giorni immediatamente precedenti la mia partenza. Petra e Auruo fecero del loro meglio per cercare di tranquillizzarmi e farmi capire perché sarei stato meglio con una nuova mamma ed un nuovo papà a badare a me, ma io non volevo ascoltarli. Per niente al mondo sarei andato via da lì senza lottare.

Il caporale, come lo chiamavo fin dal primo giorno in cui l'avevo visto nella casa famiglia a causa della sua aura apparentemente fredda e autoritaria, mi prese in disparte qualche ora prima che i miei genitori adottivi venissero a prendermi.

Avevo gli occhi gonfi e rossi, e in quei giorni le lacrime scendevano con una facilità impressionante a bagnarmi il viso. Misi il broncio, convinto che anche lui volesse liberarsi di me, e mi coprii gli occhi con le braccia, cercando di soffocare i singhiozzi che mi scuotevano violentemente il petto.

Non ho mai dimenticato quel momento.

Si inginocchiò davanti a me, portandosi alla mia altezza, prendendomi delicatamente le mani tra le sue e allontanandole dal mio volto, dichiarando piano che i miei occhi erano troppo belli per permettere alle lacrime di rovinarli. Lo avevo guardato, troppo sorpreso dal complimento inaspettato per reagire, e quando mi tirò lievemente in un abbraccio, il primo e l’unico che avessi mai ricevuto da lui, le emozioni che inondarono il mio petto furono troppe da gestire, e finii con lo scoppiare in un pianto a dirotto disperato, aggrappandomi al suo collo e al retro della sua camicia con tutte le mie forze e ripetendogli più e più volte che volevo stare con lui per sempre, che non volevo lasciarlo.

La frase che pronunciò in quell’occasione si impresse a fuoco nel mio cuore, e se trovai la forza di accettare la mia nuova condizione, fu solo perché affidai ad essa tutte le mie speranze.

«Se fra dieci anni esatti ti presenterai qui ed esprimerai ancora questo tuo desiderio davanti a me, giuro che lo prenderò in considerazione. Non azzardarti a tornare fino a quando non sarai un adulto come me, Eren.»

Fu proprio così, verso la fine dell’inverno, coi miei quasi ventun anni in tasca, esattamente nello stesso giorno alla stessa ora del pomeriggio, che mi ritrovai davanti alla mia vecchia comunità alloggio, come attratto da una invisibile forza gravitazionale.

Quella promessa era stata la mia ancora di salvezza per così tanto tempo durante il resto della mia infanzia e della mia adolescenza, che la curiosità di rispettare il mio proposito del tempo mi spinse a tornare sui miei passi e testare i cambiamenti avvenuti nella mia persona.

Immaginavo di trovarmi di fronte ad un vecchio, dato che l’età di Levi non avevo mai avuto modo di conoscerla, e che vedendolo finalmente sarei riuscito a liberarmi da quel pensiero fisso che sostava in pianta stabile nel retro della mia mente. Mi aveva così colpito quando ero solo un bambino che mi era difficile spiegarmi col senno di poi cosa di lui mi avesse attratto così tanto.

Lo ricordavo basso rispetto agli altri educatori, scorbutico, e sempre accigliato. Eppure, avevo sviluppato quei sentimenti affettuosi e profondi nei suoi confronti che non ero riuscito a rivivere con nessuno dopo di lui.

Le storie che avevo avuto negli anni, con diversi ragazzi e ragazze della mia età, non mi avevano mai preso al punto da cancellare dalla mia testa quegli occhi grigi e intensi che ogni tanto rivedevo in alcuni sogni sul mio passato.

Vidi il suo sguardo sollevarsi ad incontrare il mio e, istintivamente, trattenni il fiato.

Lanciò un’occhiata veloce ai bambini, che in quel momento si erano sdraiati sui grandi cuscini sparsi nella sala per il riposino pomeridiano, e, assicuratosi che tutti fossero al loro posto, iniziò ad incamminarsi con passo sicuro verso di me.

Si fermò a poco più di mezzo metro di distanza, per non dover parlare con un tono di voce che potesse disturbare il sonno dei bambini, e incrociò le braccia al petto, spostando il peso del suo corpo sulla gamba sinistra.

Avevo gli occhi bassi, puntati sulle sue scarpe da tennis blu notte, e feci risalire piano lo sguardo verso l’alto, percorrendo le sue gambe snelle ricoperte dai pantaloni fino ai suoi fianchi, fasciati dal grembiule che accentuava con grazia la curva morbida del suo corpo. Infine, lentamente, sollevai i miei occhi per portarli al suo viso.

Fu come un fulmine a ciel sereno.

La pelle pallida del suo collo si congiungeva deliziosamente alla linea dura della sua mascella, le labbra incurvate leggermente verso il basso, il naso piccolo e diritto, le sopracciglia corrucciate, i capelli lucenti e neri come il petrolio, divisi lateralmente sulla fronte. Quegli occhi, grigi e tempestosi, profondi, circondati da perenni occhiaie. Quegli stessi occhi che un tempo mi affascinavano così tanto ora mi stavano inchiodando sospettosamente sul posto, fissi e terribilmente penetranti.

Il respiro mi si bloccò nella gola.

I miei ricordi di lui impallidivano davanti all’originale. Era di una bellezza mozzafiato. Oscura e allo stesso tempo incantevole. Com’era possibile che non fosse invecchiato minimamente in tutto quel tempo? La sua pelle era candida e perfetta, le ciglia nere e lunghe cadevano pesanti sui suoi begli occhi, oscurandoli, e il suo corpo, sebbene basso più di dieci centimetri rispetto a me, era elegantemente flessuoso e provocante.

Fui quasi tentato di darmi mentalmente il cinque per aver preso la decisione di presentarmi lì, nonostante il buon senso mi dicesse che sarebbe stato un viaggio del tutto inutile, quando la sua voce, bassa e melodiosa, deliziò le mie orecchie.

«Hai bisogno di qualcosa?» disse, rudemente, guardandomi fisso negli occhi senza il minimo segno di avermi riconosciuto.

Ne rimasi vagamente deluso. Anche se sapevo perfettamente che non avrebbe mai potuto ricordarsi con tanta facilità di un ragazzino di soli dieci anni che avevano ospitato poco più di un decennio prima, dentro di me speravo che mi avrebbe riconosciuto non appena mi avesse posato il suo sguardo addosso.

Certo, ero ovviamente cresciuto. Mi ero assicurato di mantenere il mio fisico sempre in forma, ricordando il modo piacevole in cui gli addominali del caporale spiccavano definiti sul suo ventre costruito, e, assieme alle mie spalle larghe e ai lineamenti quasi infantili del mio viso, potevo affermare con sicurezza che l’unica cosa rimasta invariata in me erano i miei occhi, di un colore fuori dal comune. Verdi all’esterno e sfumati di turchese attorno alla pupilla scura.

Mi riscossi dai miei pensieri e cercai di articolare una frase di senso compiuto.

Non mi aspettavo certo di arrivare al punto di parlare con lui! Ero così pronto a guardarlo da lontano, constatando il mio disinteresse e valutando distrattamente quanto fosse invecchiato, da non essermi minimamente preparato nulla di effettivo da dirgli.

«S-scusa per il disturbo» dissi infine, interiormente nervoso, tendendogli una mano per presentarmi «Sono Eren Jaeger. A che ora finirai il tuo turno?» le parole mi uscirono di bocca così velocemente che temetti di doverle pronunciare daccapo, mettendomi in ridicolo ancor più.

Prese la mia mano, stringendola fermamente. Era fredda, e piccola nella mia. Sentii la pelle d’oca propagarsi dal mio braccio destro su tutto il corpo.

«Levi Ackerman. Perché ti interessa saperlo, Eren Jaeger?» disse, una leggera vena di sarcasmo nei suoi occhi, che ora brillavano di una luce interessata.

«H-ho solo bisogno di parlarti un attimo. Non ti ruberò molto tempo» esclamai, cercando di darmi un tono. Mi aveva riconosciuto? Le nostre mani erano ancora unite e questo non mi stava permettendo di agire con la sicurezza che mi aveva sempre caratterizzato. Era l’aria nostalgica a indebolirmi? Non mi capitava da anni di sentirmi così vulnerabile.

Cercai di tenere il mio sguardo nel suo, mentre lo vedevo riflettere brevemente sulle mie parole.

«Mh» mormorò, infine «Fatti trovare qui fuori alle 20 in punto. Ti porterò a cena» aggiunse, guardandomi divertito prima di separare le nostre mani e darmi le spalle per tornare nella sala interna.

Rimasi inebetito per un attimo.

Cena? Chi aveva parlato di una cena? E come mi sarei organizzato per la notte, poi? Non avevo assolutamente previsto di restare e non avevo idea della disponibilità di Bed and Breakfast nella zona.

Poi però, i miei occhi si posarono sul suo didietro che sbucava da sotto l’azzurro del grembiule, sovrastato dal fiocco, e la mia ragione lasciò spazio al puro istinto.

Sarei sicuramente rimasto. Ma lui avrebbe dovuto certamente assumersi le sue responsabilità.
 
 
 
 
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Passai le due ore in attesa della fine del suo turno a gironzolare nel quartiere. Era quasi sconosciuto per me, e adocchiai un paio di bar e un pub inglese che avrebbero potuto tornare utili sul più tardi.

Non riuscivo a trattenermi dal fantasticare su come sarebbe stato Levi da ubriaco. Avrebbe perso anche solo in parte la sua compostezza? Si sarebbe lasciato andare facilmente, come accadeva a volte ai ragazzi quando bevevano troppo? Avremmo fatto sesso?

Quell’ultimo pensiero mi fece congelare sul posto. Sentii le mie guance andare a fuoco e le schiaffeggiai brevemente con entrambi i palmi delle mie mani, come a cancellare l’idea dalla mia testa.

Fare sesso con Levi?

Cazzo se non era il pensiero più eccitante che avessi mai avuto negli ultimi anni. Ovviamente, non ci avevo mai pensato. Avevo sempre catalogato la mia piccola cotta per lui come qualcosa di puramente innocente, che non si sarebbe mai concretizzato a causa della nostra differenza di età. Ma rivedere Levi, il mio caporale, adesso, stava plasmando nella mia testa diversi scenari non proprio casti su quello che avrei potuto fare al suo bel corpo. Era attraente oltre ogni mia possibile immaginazione, mentre usciva chiudendosi il cancello alle spalle, guardandosi attorno per vedere se lo avessi aspettato davvero.

Aveva sostituito la camicia con un maglioncino blu scuro, sotto braccio teneva una giacca di pelle grigio fumo ripiegata ordinatamente e nella mano sinistra stringeva i lacci di un casco nero tirato a lucido.

Mi adocchiò ad aspettarlo con la schiena poggiata al muro della recinzione e le mani nelle tasche, e venne verso di me, infilandosi la giacca nel breve tragitto prima di raggiungermi.

«Credevo che stessi scherzando quando mi hai detto di volermi parlare» disse, un lampo di incertezza che attraversava le sue iridi chiare.

«Ero fottutamente serio, invece» risposi io, guardandolo fisso negli occhi e staccandomi dalla parete per chiudere la distanza tra di noi.

Si strinse nelle spalle e mi raggirò, camminando verso il parcheggio accanto alla struttura.

Si girò a guardarmi da sopra la sua spalla destra prima di sollevare un sopracciglio in modo interrogativo.

«Che fai, vieni?» chiese, tirando fuori dalla tasca un piccolo mazzo di chiavi e facendolo tintinnare.

Annuii e lo seguii verso una moto nera di grossa cilindrata parcheggiata accanto ad una Station Wagon blu familiare.

Aprì il sedile per prendere qualcosa prima di richiuderlo sistemandocisi sopra a cavalcioni e lanciandomi un secondo casco bianco integrale. Lo afferrai al volo. Levi guidava una moto? Non c’era niente di simile nei miei ricordi, ma alla fine erano passati parecchi anni e molte cose potevano essere cambiate.

«Andiamo, moccioso» mi incalzò «C’è un posto decente in questo paese di merda in cui si riesce sorprendentemente a mangiare senza morire intossicati» aggiunse, infilandosi il casco e assicurandolo sotto al mento, prima di girarsi nuovamente a guardarmi.

Rimasi un attimo di sasso nel sentirlo parlare in quei termini. Ricordavo che fosse diretto e ogni tanto un po’ sboccato, ma non l’avevo mai visto comportarsi con tanta scioltezza davanti a me, prima d’ora. Probabilmente, in mezzo ai bambini si tratteneva.

Sorrisi. L’avrei certamente scoperto.

Volevo tirare fuori ogni lato nascosto del suo carattere che non avevo potuto vedere negli anni che avevo passato con lui come mio educatore.

Mi affrettai a salire dietro di lui, posandogli le mani sui fianchi, indeciso sulla posizione da assumere su una moto di quel tipo. Forse, dovevo semplicemente tenermi alla parte posteriore della sella, come avevo sempre fatto con gli scooter normali. O chissà, magari non voleva neanche che lo toccassi con tanta disinvoltura.

La risposta alla mia domanda inespressa arrivò immediata.

«Ohi, se hai intenzione di morire fallo dietro a qualcun altro» sbottò stizzito, prendendomi una mano e tirandosela davanti, sullo stomaco. «Quando sei con me, vedi di tenerti come si deve. Le moto non sono dei giocattoli» continuò, accendendo il motore e facendolo tuonare.

Passai le braccia attorno alla sua vita e mi piegai verso di lui, aggrappandomi alla parte superiore del suo corpo, il cuore che martellava come un matto nel mio petto, forse perché era la mia prima volta su una moto.

Quando partì, quasi mi scappò un urlo. Quell’aggeggio si sparò in avanti senza preavviso e chiusi i miei pugni sulla sua giacca per assicurarmi di non lasciarlo andare. Aveva dannatamente ragione sul fatto di morire con nulla.

Si districò attraverso il traffico con facilità, guidando con destrezza sulle strade affollate del venerdì sera, il vento che rombava nelle mie orecchie dall’apertura inferiore del casco. Era come volare.

Mi appoggiai ancor più su di lui, facendo aderire il più possibile il mio petto alla sua schiena tesa in avanti e stringendo le cosce ai lati dei suoi fianchi.

Mi lasciai dondolare dalla sua guida spedita ma rassicurante, chiudendo gli occhi e percependo sotto le mie mani il suo stomaco che si sollevava e si abbassava dolcemente, ad un ritmo tranquillo nonostante la situazione ad alto rischio che comportava il guidare una moto nel traffico cittadino.

Si fermò davanti all’ingresso di un ristorante a prima vista ben tenuto. Spense il motore e inserì il cavalletto, intimandomi di scendere prima di lui.

L’interno non era molto affollato e l’atmosfera, accogliente, permetteva ai tavoli di avere una certa intimità, grazie ai separé di piante che correvano in file ordinate costeggiando il retro delle panche in legno di mogano.

Presi posto di fronte a lui e lo guardai chiedere al cameriere che ci aveva accompagnato al tavolo un bicchiere di vino rosso della casa. Mi guardò, per vedere se volessi qualcosa da bere anch’io prima di sfogliare il menù, e scelsi di adeguarmi al suo ordine. Il mio proposito era di scoprire qualcosa di più su di lui, no? Il vino mi sembrava un ottimo modo per iniziare a sondare le acque.

Mi agitai un po’ al mio posto sotto il suo sguardo attento quando il cameriere ci lasciò da soli e, tanto per fare qualcosa, aprii il menù e feci finta di scorrerlo con interesse.

Si schiarì la voce per attirare nuovamente la mia attenzione.

«Quindi, di cosa volevi parlarmi?» iniziò, poggiando la schiena indietro e abbracciando con il braccio sinistro il bordo superiore della sua panca. Scommisi con me stesso che stava per accavallare le gambe in quel modo che ricordavo così bene e, l’istante successivo, vidi la tovaglia muoversi leggermente davanti a lui. Evidentemente, avevo indovinato.

Mi piaceva avere la certezza di essere nel giusto quando si trattava di lui.

Trassi un po’ di sicurezza da quella mia piccola capacità di prevedere le sue mosse abituali.

«Volevo rivederti.»

Dissi semplicemente la verità, stringendomi nelle spalle.

Il cameriere tornò quasi subito con una bottiglia di vino, la stappò davanti a noi e riempì i nostri bicchieri, prima di allontanarsi in attesa che fossimo pronti per ordinare il nostro pasto.

Levi prese distrattamente tra le mani il suo, portandoselo alle labbra dopo averlo fatto oscillare lievemente, continuando a tenere gli occhi nei miei, prendendosi il suo tempo per rispondere alla mia affermazione.

«Capisco» dichiarò tranquillamente, facendo una breve pausa prima di continuare. «E ora che l’hai fatto quali sono le tue conclusioni?» incalzò, la serietà che brillava nei suoi occhi insieme ad un qualcosa che non riuscivo ad interpretare.

Fu il mio turno di temporeggiare un po’. Le mie conclusioni? Lui era splendido, ancora meglio di come lo ricordassi. Volevo stare con lui? Ovviamente non avevo ancora modo di saperlo, ma ero dannatamente certo che se mi avesse chiesto di restare per la notte non avrei rifiutato per tutto l’oro del mondo. Volevo lasciarlo? Beh, in un certo senso, no. Quella notte era ancora lunga e non avevo intenzione di andar via così presto.

Gli rivolsi la domanda più impertinente che avessi mai potuto fargli.

«Vuoi davvero conoscere le mie conclusioni?» sussurrai, occhieggiandolo da dietro il mio vino. «Vorrei passare la notte con te» finii, mandando giù un sorso e controllando attentamente la sua reazione alle mie parole.

Un lampo argentato attraversò velocemente i suoi occhi e lui lasciò scorrere lo sguardo sulla parte visibile del mio corpo, trasmettendomi un brivido di anticipazione lungo la schiena. Il mio cuore riprese a galoppare.

«Vedremo, ragazzino» disse infine, l’angolo delle labbra sollevato in un piccolo sorriso ironico. «A quanto pare, la tua impulsività è un marchio di fabbrica. Pensavo che dipendesse dal tuo essere un marmocchio col moccio, ma nonostante siano passati anni è rimasta intatta, direi.»

Il suo sguardo si addolcì impercettibilmente alla menzione di me da bambino, e un sentimento che non provavo da tempo strinse il mio stomaco dolorosamente.

Il desiderio di stargli vicino, di toccarlo ad ogni occasione, di seguire ogni suo movimento, si palesò con rinnovato vigore nel mio corpo da adulto man mano che ci aggiornavamo sulle nostre vite, adducendo dei piacevoli effetti fisici secondari che mi destabilizzarono.

Se qualcuno mi avesse detto che mi sarei innamorato due volte della stessa persona a distanza di dieci anni l’una dall’altra gli sarei scoppiato a ridere in faccia.

Ma come altro potevo giustificare quel sentimento di tenerezza e di affetto che si stava risvegliando nel mio petto semplicemente nell’averlo davanti, nel guardarlo muoversi e nell'ascoltarlo parlare con quella sua voce meravigliosa?

I miei tentativi di relegarlo in un angolino della mia mente mentre cercavo di distrarmi con altre persone si rivelarono la mera perdita di tempo che erano stati, perché nessuno, nessuno, era mai riuscito neanche lontanamente a farmi sentire così, vivo, e coinvolto, e adesso anche maledettamente eccitato, come quel giovane uomo sulla trentina che ora avevo finalmente davanti.

Quando uscimmo dal locale e arrivammo accanto alla sua moto, gli afferrai il polso per girarlo verso di me e posai delicatamente una mano sulla sua guancia leggermente arrossata dall’aria fredda dell’esterno.

I suoi occhi mi guardarono sorpresi e leggermente sfocati alla luce del lampione sopra di noi, ed io mi ritrovai a seguire per l’ennesima volta nella mia vita il mio istinto, avvicinando le mie labbra alle sue e posandole lievemente su quei rigonfiamenti invitanti e allo stesso tempo incredibilmente morbidi e caldi. Non si sottrasse al mio bacio, né lo approfondì. Godemmo semplicemente nel muovere le nostre labbra insieme, delicatamente, assaggiandoci, mentre le mie dita scivolavano tra i suoi capelli rasati dietro la nuca e le sue mani si poggiavano sofficemente sui miei fianchi.

«Vieni da me?» mi chiese impercettibilmente, prendendo un respiro tra i nostri baci, ora più bisognosi.

«Guidami» mormorai semplicemente, interrompendo controvoglia quel contatto delizioso e abbassando una mano per intrecciare le mie dita alle sue, un sorriso che sorgeva naturale sul mio volto davanti alla sua richiesta imbarazzata.

«Sempre.»
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Un piccolo quadro adornava le pareti bianche e incontaminate della camera da letto di Levi.

Un fiore, di un blu acceso e dai contorni disordinati, era abbozzato scompostamente su un foglio di quaderno leggermente stropicciato e successivamente stirato alla bell’e meglio da delle manine alquanto impazienti.

Una dedica, quasi più grande del disegno stesso, accompagnava i suoi contorni indefiniti.

Una scrittura, grande ed infantile, che recitava:
 
Per il Mio Caporale.
Tuo per sempre,
Eren.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Che dire, spero che non sia stata così male nella sua semplicità..

Un bacione a chi l’ha letta fino alla fine!!

XD
 
 
 
-Reiko-
  
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