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Autore: Ghevurah    28/07/2015    8 recensioni
Si vede scostare la stoffa lentamente. Dita tremanti lungo una mappatura di sangue così come, un tempo, altre dita si erano levate a sfiorare il suo braccio martoriato, a riscrivere storie d’amore dove il ferro aveva inciso percorsi d’angoscia.
La Nirnaeth Arnoediad non è stata ancora battezzata così, quando Maedhros è costretto a confrontarsi con la morte di Fingon.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Maedhros
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta senza scopi di lucro. Personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne abbia acquisito o ne eserciti i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.


Nomi Quenya con loro corrispondenza in lingua Sindarin:
Findekáno (Astaldo) - Fingon
Makalaurë - Maglor
Moringotto - Morgoth


 
 



 


 


 
Airi Oronti
 
 





 
Guarda là, dove le nuvole si gonfiano, striando il cielo di pennellate livide. Balze violette che sfociano in un fiume di bigio cordoglio, mentre Vása sorge, a est, dorando gli scheletri degli alberi: preziosa e ironica bellezza radicata nella disperazione.
Guarda e attende, ignorando i richiami dei propri fratelli come ha ignorato la pioggia battente sulla pelle, il fango a lordare gli intarsi dell’armatura; il sangue degli Orchi così follemente simile a quello di compagni e alleati – coaguli di ferrosa agonia tra capelli del medesimo colore.
Guarda e attende. Da nord, però, giunge solo il lamento dei feriti e l’odore di zolfo.
Allora qualcuno lo chiama, di nuovo: cunn, Maedhros, muindor. Ma non è questa la voce che vorrebbe udire.
Il mugghio del vento risuona alle sue orecchie in una rimembranza del cantico funebre echeggiato sul campo di battaglia, versi ignoti intonati con un sentimento che travalica la conoscenza.
Una lama invisibile squarcia le nubi, mostrando la carne tersa del cielo. Le ferite palpitano, attendendo il lascito della putrefazione, quando un messaggero compare sulle rive del Gelion. Porta un vessillo ridotto a brandelli e ricordo ed è solo grazie a questo che è possibile riconoscere lo stemma ormai cinereo ricamato sulla lingua di tessuto. Lo stemma del Noldóran.
Così lui le intuisce ancora prima di udirle, quelle inevitabili parole di morte.
La realtà collassa, serrandolo in una morsa inesorabile. Ode un lamento sgusciargli dalle labbra, ma è il grido dell’anima a scuoterlo dentro.
Si sente perduto e forse lo è davvero mentre ordina al messaggero di condurlo a nord-ovest: una schiera abbandonata alle spalle, la piana del Thargelion straziata dall’Ombra.
Bruciano le cicatrici, il vento azzanna la pelle accanendosi su quella terra disgraziata. Porta con sé pugni di cenere che qualche ore prima erano vita – forse cavalieri delle avanguardie, forse Atani o Casári –, li cosparge come un velo luttuoso, tramutando l’aria in un sepolcro. E il respiro, dunque, è sacrilegio inevitabile.
Il pensiero scivola nel baratro a cui si affaccia la sua anima, un abisso di orrore liquido come gli occhi dell’Avversario.
I brandelli di un’esistenza che non sembra più appartenergli si disperdono assieme alla cenere, tratti dalla forza magnetica di quelle profondità. E la sua mente diviene un inferno di ricordi infranti contro il presente di morte.
C’è un bambino dallo sguardo gioioso, un giovane dall’indole avventata, curioso dell’ignoto che l’attende. C’è un epessë, Astaldo, che scivola sulla punta della lingua e sboccia in un sorriso. C’è un arciere dalle mani salvifiche in grado di abbracciare il perdono. C’è un principe sui bianchi bastioni di Barad Eithel, un re dallo sguardo colmo di speranza. E c’è Findekáno, semplicemente, nelle aspre notti dello Himring. Findekáno che è memoria e novità sulla pelle, tenerezza e passione nel cuore.
Ma i ricordi affluiscono in quell’abisso ingordo, anafora d’angoscia che divora la ragione.
Lui stringe le redini, udendo distrattamente l’avanzare di un altro cavaliere; poi sono mani fraterne quelle che si allungano per frenare la sua corsa. Un altro respiro s’incrina fra i suoi capelli, una voce tremante lo raggiunge: Non puoi andare. Non puoi. Servi qui, là non c’è più nulla che tu possa fare.
Il richiamo di Makalaurë è una goccia di razionalità nel torbidume dell'angoscia e lui ne segue il suono come un naufrago aggrappato al relitto della propria esistenza.
La sua disperazione diviene un ansito incastrato in fondo alla gola, un pianto arido che spezza il respiro e brucia le iridi.
Con la mano artigliata al braccio di Makalaurë e il capo puntellato contro la sua spalla, immagina di discendere il Dolmed e cavalcare verso nord-ovest, là dove le armate di Turukáno stanno ripiegando, insidiate dal fuoco di Moringotto.
Immagina quella processione claudicante, gli stendardi blu e argento ridotti a resti carbonizzati; il sacrificio degli Atani a gravare sul cuore.
Dai suoi ricordi fumosi emerge il volto di Turukáno, duro e segnato come quando, nel Mithrim, si era avventato su di lui e i suoi fratelli. Ma questo recente dolore non è ancora mutato in rabbia e trasuda da ogni lineamento, da ogni piega, traboccando dallo sguardo.
Si vede inginocchiato al nuovo Noldóran, lo spettro di un passato impietoso alle spalle e un futuro che è già polvere all’orizzonte.
E in ginocchio gli domanda, lo prega, di vederlo: Un'ultima volta, almeno. Un'ultima volta, lascia che io lo guardi.
Non riesce a immaginare l’espressione di Turukáno a quella richiesta. Scorge solo il fango sotto le ginocchia, sotto la mano. Il fango e la cenere, prima che qualcuno gli mostri i resti di un corpo avvolto in un mantello.
Si vede scostare la stoffa lentamente. Dita tremanti lungo una mappatura di sangue così come, un tempo, altre dita si erano levate a sfiorare il suo braccio martoriato, a riscrivere storie d’amore dove il ferro aveva inciso percorsi d’angoscia.
Poi l’ombra che dilaga nel mondo si fa sindone di quel corpo, di quella membra spezzate, squassate; di quel volto sfigurato.
Lui ne ricompone i tratti nella propria mente: il disegno sottile e ridente delle labbra, gli zigomi alti, la mascella affilata. Lo sguardo grigio e limpido che inseguiva il sogno di una vittoria impossibile. Il petto, forte, su cui più volte aveva posato il capo.
Pensa a tutto questo, mentre fra le sue braccia languisce un involucro di carne, coronato dalla crudele promessa di un’immortalità illusoria.
Si china per baciare ciò che resta di quel viso, e sulle labbra intrise di sangue germina l’urlo dell’anima.
Perché Findekáno, il suo Findekáno, il suo Aran è morto per lui, per la follia di un giuramento che non ha pronunciato, per la crudeltà di una maledizione da cui non avrebbe dovuto essere afflitto.
Tutto a causa sua.
Questa è l’ultima, l’unica, verità.
Il flusso della sua immaginazione si arresta, affogando nell’abisso che ormai si veste del suo corpo.
Solleva il capo dalla spalla di Makalaurë, mentre alle corone degli Ered Luin, affacciate alla rovina del mondo, consegna il proprio dolore.
Attraversiamo l’Ossiriand, ordina. Dirigiamoci verso sud.
E in lui non sembra albergare alcun’emozione, solo il gelo sorto dall’ombra.
 
 
 
 










 
Note finali:
Il titolo, Airi Oronti, significa “montagne sacre” ed è ispirato all’omonima canzone (Holy Mountains) dei SOAD.

I termini cunn e muindor sono Noldorin e significano rispettivamente “principe” e “fratello”. So che il Bando al Quenya, in questo momento storico, è ancora diffuso e che anche gli eserciti dei Fëanorioni dovrebbero comunicare in Sindarin, ma siccome fatico davvero a immaginarlo parlato fra le loro schiere ho deciso di “mitigare” il tutto impiegando il Noldorin (anche se, lo ammetto, la mia è una scelta alquanto discutibile).

Atani e Casári, invece, sono gli Uomini (Edain, per la precisione) e i Nani in lingua Quenya.

Quel "cantico funereo echeggiato sul campo di battaglia" è un riferimento al canto intonato dai Nani del Belegost alla morte di Azaghâl. So che Maedhros probabilmente non lo udì, ma dato il suo legame con il sopracitato personaggio ho voluto comunque inserire questo riferimento.



 
   
 
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