Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Ipernovae    29/07/2015    1 recensioni
Quando si viene al mondo, si è tutti uguali. Indifferentemente dalla religione, dal colore della pelle o dal paese in cui si nasce. Il punto cruciale nella vita di una persona è il crescere e nessuno smette di farlo. Crescere aiuta a svilupparsi, a vivere. Ma crescere è imparare ciò che è giusto e ciò che è errato. Nel mondo non di nasce predestinati al bene o al male. Siamo noi a decidere se prendere la via della giustizia o percorrere il sentiero dell'Antieroe.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Eren, Jaeger, Jean, Kirshtein, Marco, Bodt
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Antieroi.




Sulle mura il tempo sembrava non passare. Scorreva lento, inesorabile e mangiava ogni secondo, minuto ed ora, scandendo gli istanti che lo separavano dall'ora "x". Se si fosse specchiato nelle gocce di pioggia, che cadevano ormai incessantemente da ore sul Wall Maria, probabilmente avrebbe visto il riflesso di quello che, un tempo, si sarebbe potuto definire un soldato tutto d'un pezzo. Fortunatamente per lui, le gocce di quell'acqua fresca erano troppo piccole per rimandare la sua immagine sciupata e stanca, di un soldato che non aveva più emozioni da esternare. Jean Kirschtein non era più se stesso da molto e, questo, il tempo e le gocce di pioggia, lo sapevano meglio di chiunque altro. Forse, meglio di quanto Jean stesso fosse a conoscenza.
I capelli dell'ormai capitano della legione esplorativa, ricadevano sulla sua fronte in piccoli fili marroncini, resi più scuri e appesantiti da tutta l'acqua a cui li stava esponendo. In quel momento, non gli importava del possibile raffreddore che avrebbe potuto prendere, l'acqua era l'unico modo che aveva per liberarsi di ciò che la sua memoria gli faceva ricordare.
Avrebbe potuto tirar su il cappuccio della cappa della legione, ma nulla riusciva e spegnere i suoi pensieri cupi come l'incessante battere della pioggia sulla testa e sul suo intero corpo.
Un plic plic dopo l'altro, Jean tornava a prendere coscienza di se stesso, di chi e dove fosse, ma soprattutto riprendeva a ripetere a se stesso quelle frasi che non gli facevano perdere la poca sanità mentale che gli era rimasta.

-Sono Jean Kirschtein. Capitano della legione esplorativa. Il mio compito è salvaguardare la razza umana, proteggendola dalla minaccia dei giganti. Il mio secondo è Eren Jeager, un gigante che ci ha salvati. Il mio superiore è Levi Ackerman, generale della legione esplorativa. Ho visto morire persone ed amici. Ho ucciso Marco Bodt.-

Nel monologo che si costringeva a recitare ogni qual volta che il suo cervello decideva di scollegarsi dalla realtà, la parte più complicata da ammettere era l'ultima. Ho ucciso Marco Bodt. Ho ucciso Marco. Ho ucciso la persona che...
Ricordava, Jean, tutte le notti che aveva passato imprigionato negli incubi del suo crimine. Le sue urla erano così forti che i primi tempi pensarono di doverlo uccidere per dargli la pace che a squarcia gola reclamava nel sonno.
Erano stati Eren e l'ormai generale Rivalle a prendersi cura di lui. Non che i due ne fossero stati felici, all'inizio, ma uno era amico e l'altro il suo capitano, entrambi complici ed artefici del destino di Marco. Entrambi dovevano qualcosa a Jean.
E quel qualcosa si manifestò in quei mesi in cui le grida e le crisi di panico di Jean erano all'ordine della notte e del giorno, nei momenti più disparati e meno opportuni. Che fosse in esplorazione fuori dalle mura o che fosse fermo in casa, ad osservare fuori dalla finestra, poco importava. Le immagini lo assalivano senza nessun preavviso e si ritrovava a gridare.
Jean era una bombola di gas esposta al fuoco di un camino carico di legna: pronto ad esplodere e portare via con sé ogni cosa o persona che gli era troppo vicina.
E per questo motivo, Eren e Levi si erano fatti carico di Jean e di quella che era la sua fragile stabilità emotiva e psichica.
Non furono giorni facili, né mesi, né anni. Perché l'odore del sangue, l'odore della morte di Marco, Jean se lo ricordava persino in quel momento. Gli bastava chiudere gli occhi e dimenticarsi dove e chi fosse, ignorando le gocce di pioggia che picchiettavano sul metallo della manovra tridimensionale.
Gli bastava così poco per tornare a quel giorno...

Il cuore gli batteva nel petto seguendo un nuovo ritmo, del tutto nuovo da quelli che era stato costretto ad imparare a regolarizzare. Chiunque avesse guardato nella sua direzione, probabilmente non avrebbe mai e poi mai pensato che dentro di lui si stava combattendo la più grande delle battaglie.
Il respiro accelerato creava nuvolette di fumo bianco che si dissolvevano dopo breve tempo, lasciando così a Jean la possibilità di vedere meglio ciò che davanti ai suoi occhi si stava svolgendo senza che lui riuscisse a compiere un passo.
L'ordine era sempre lo stesso: uccidere a vista qualsiasi gigante si fosse avvicinato alle mura. Ma non quel giorno. Quel giorno si combatteva per la ripresa del distretto di Shiganshina. Si combatteva per riprendersi la libertà nel Wall Maria.
Nella sua forma di titano, Eren sbaragliava quanti più giganti possibili, rendendo alla legione campo libero per completare la missione. Ogni suo compagno, combatteva contro un gigante, persino il piccolo genio di strategia di Armin.
Tutti, erano impegnati. Tutti tranne lui. Jean osservava la scena con passività, come se fosse stato un'entità superiore che si limitava a giudicare e decidere chi sopravviveva e chi moriva. Ma chi pensava a quest'immagine, non vedeva realmente ciò che stava accadendo.
Lì, che correva verso di lui, c'era un gigante di almeno quindici metri. Correva e non si arrestava. Correva e Jean lo guardava in viso. Il suo viso. Il viso di un gigante era quello di Marco. Del suo, Marco.
Jean era paralizzato, immobile sul cavallo che ormai si era imbizzarrito e minacciava di disarcionarlo, pronto a fuggire. Fermo e tra le dita le lame della manovra, strette e le nocche sbiancate tanto la presa era ferrea. Non riusciva a sentire niente, non le urla di Mikasa o del capitano Levi che gli ordinava di muovere il culo, di allontanarsi. Jean vedeva solo Marco. Il gigante di Marco che correva. Il gigante che veniva fermato in rincorsa da Eren, sbattuto a terra con un paio di pugni.
Jean riusciva solo a pensare al giorno in cui lo aveva trovato mangiato per metà da un gigante e si era chiesto come fosse stato possibile che se ne fosse andato via così. Ma Jean non sapeva come, o perché, ma in qualche modo sperava di poter rivedere Marco.
E nel momento in cui lo aveva davanti, questi non era più lui, prigioniero di un involucro che lo rendeva vittima di un incubo eterno. Un incubo dal quale Levi Ackerman si prestò a liberarlo, togliendogli la vita.


Jean non ricordava bene cosa era accaduto dopo. Molti gli raccontarono che gridò per minuti, ore intere il nome di Marco mentre si lanciava sul cadavere del suo gigante, impregnando gli indumenti e le mani del suo sangue. Gli raccontarono che Connie e Sasha dovettero ritirarsi per portarlo via di forza. Non fu per niente semplice staccarlo dal cadavere che si stava dissolvendo del gigante.
Ricordava i giorni nell'infermeria, dove il tempo non scorreva e preferiva mangiare con estrema lentezza anche il più insignificante millesimo di secondo, costringendolo a rivivere quelle scene attimo dopo attimo in una tortura che non aveva fine.
Jean ricordava la straziante agonia che lo prendeva nel momento in cui chiudeva gli occhi e rivedeva frammentata ogni scena della sua morte. Dovettero mandarlo a casa dall'infermeria, proprio perché le sue grida erano così forti e strazianti da svegliare tutto l'edificio.
E, come due cani pentiti di aver mangiato una gallina del pollaio per ingordigia, Eren e Levi si erano fatti carico di Jean, andandolo a recuperare con orecchie basse e coda tra le gambe. Se per pulirsi la coscienza o per pietà, Jean non lo avrebbe saputo dirlo. L'unica cosa di cui era a conoscenza era la voglia di vendetta che covava nel cuore. E trovava un senso di rivalsa ogni volta che le sue grida nel cuore della notte destavano i due amanti dal sonno o dal sesso.
Perché Jean aveva compreso da tempo ciò che tra i due correva, conosceva ciò che accadeva tra loro, era ciò che aveva legato lui e Marco i primi tempi che si erano conosciuti.
Ma Jean era solo e, come un bambino egoista aveva deciso di fare in modo di far sentire soli anche loro. Anche mentre stavano insieme, richiamando l'attenzione di uno o dell'altro per le cose più impensabili.
Ma il suo "piano" non era andato a buon fine. Non stava andando a buon fine. Eren e Levi avevano da tempo capito ciò che Jean cercava di fare e non si erano lasciati piegare, anche se spesso avrebbero voluto abbandonarlo a se stesso, riconoscevano di dovergli quel qualcosa di cui lo avevano privato.
Ma ora si ritrovava lì, con addosso il grado che Levi aveva quando uccise Marco, sul Wall Maria a scrutare l'orizzonte coperto di pesanti nubi grigie che da ormai qualche minuto avevano smesso di far cadere la pioggia che tanto amava.
Dopo quei temporali, un'irreale quiete si appropriava del paesaggio e quel momento Jean lo detestava. Perché era il momento in cui gli eroi venivano a salvarlo per riportarlo a casa con loro. Jean aveva da molto tempo, ormai, deciso che tutto ciò che possedeva non gli interessava: la quotidianità con Eren e Levi, il suo grado di capitano, i suoi soldati... Jean non voleva più niente. Sarebbe stato così facile fare un passo e lasciarsi cadere nel vuoto. Così dannatamente facile. Ma loro accorrevano sempre in tempo. O, forse, Jean si rendeva conto di non avere abbastanza coraggio per farlo. Nemmeno per Marco.

Il rumore di alcuni passi lo fece ridestare dal pensiero del suo sorriso, del suo profumo quando, nelle notti dopo gli allenamenti con il centoquattresimo, si chiudevano nel dormitorio e consumavano il loro amore, mentre tutti erano intenti, invece, a consumare la cena.

-Capitano Kirschtein, è ora.-

Una voce ovattata raggiunse le sue orecchie e quasi come un automa si voltò per incrociare gli occhi di Eren. Gli occhi fieri di chi aveva combattuto la sua causa, di chi odiava e amava se stesso e di rimorso per quello che aveva compiuto nei confronti dell'amico che gli stava di fronte.
-Il generale ha chiesto di te.-

La mano di Eren si allungò verso Jean, così come quella di un eroe si tende ad un indifeso, pronto per aiutarlo. La verità bruciante che Jean non avrebbe mai ammesso, era che lui aveva bisogno di essere salvato. E, quel passo in più per liberarsi da ogni cosa che gli andava stretta, non era abbastanza coraggioso per farlo. Passavano interi minuti prima che, con rassegnazione, Jean andasse a stringere quella mano che si sarebbe sempre tesa verso di lui.
E si sentiva spezzato, Jean. Da tutti, era considerato un eroe, elogiato e premiato per le sue svariate vittorie conseguite negli anni. Ma lui non lo era. Lui era qualcuno che avrebbe sacrificato la vita dei suoi amici per lui, per Marco. Vigliacco, egoista e superficiale. Molte volte Levi ed Eren lo avevano appellato così quando aveva dato voce a questi suoi pensieri durante le cene, quando la pioggia fuori cadeva incessante.
Ma Jean non era tutto questo. Jean non era coraggioso, non era un soldato degno di essere chiamato eroe. Lui era l'opposto. Lui era l'antieroe e, un giorno, avrebbe avuto il coraggio di dimostrarlo al mondo, compiendo quel passo.

   
 
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