Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: Alaska__    30/07/2015    0 recensioni
( • Long • OCs • District 6 • 56th Hunger Games • )
Cinquantadue anni dopo i Giorni Bui l'idea di rivolta sembra quasi un'utopia. Il popolo di Panem è straziato, piegato sotto i macigno del regime di Snow, costretto, ogni anno, ad assistere a ventiquattro ragazzini che si ammazzano l'un l'altro in un'Arena.
Eppure, nel Distretto 6, uno dei più dimenticati della nazione, qualcosa sta nascendo, grazie a quattro ragazzini stanchi di vedere il loro popolo costretto a tanto dolore e desiderosi di vendetta.
Questa è la loro storia.
È la storia di Franziska e Igor, i due gemelli che vogliono assicurare un futuro migliore al loro fratellino; di Aaron, i cui genitori sono stati giustiziati pochi giorni dopo la loro misteriosa fuga dal Distretto 6; di Jimmy, il figlio del sindaco, stanco del regime oppressivo di Capitol City e desideroso di poter avere un vero rapporto con suo padre.
Sono quattro ragazzini che si sentono invincibili, che sanno di poter cambiare le sorti di Panem. Ma il male c'è sempre, ed è dietro l'angolo e loro dovranno affrontare mille ostacoli.
Nel frattempo, le Mietiture si susseguono, una dopo l'altra... e le loro vite potrebbero cambiare. Per sempre.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate, Vincitori Edizioni Passate
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Sparks. '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A





CAPITOLO IX
 
Informations
 
 
Anna: «Olaf, you’re melting!»
Olaf: «Some people are worth melting for».
-Da “Frozen”; 2013

 
L’aria era più fredda che mai in quel pomeriggio di metà dicembre.
Quelle due settimane erano passate in fretta, tra lavoro, scuola, neve e ancora neve. Franziska non aveva avuto tempo per concentrarsi su altro, se non su ciò che l’attendeva in officina e sui compiti che sembravano farsi sempre più intensi in quel periodo di fine quadrimestre.
Non che al Distretto 6 – come nel resto di Panem – tenessero particolarmente all’istruzione, ma la quattordicenne aveva premura di far tutto per bene, per non avere problemi oltre ai turni di lavoro.
All’officina le cose andavano come sempre. Capitava, di tanto in tanto, che chiacchierasse con altri operai, ma alla fine l’unico con cui parlava sempre era Aaron.
Ancora non sapeva se considerarlo amico o semplice conoscente. L’unica cosa di cui era certa era che non le spiaceva chiacchierare con lui – perlomeno le faceva passare i pomeriggi lavorativi. Inoltre, era contenta di avere anche qualcun altro con cui scambiare due parole all’uscita di scuola, oltre a Igor e Deryck.
Quel giorno – una domenica, l’unico giorno libero dal lavoro – Franziska si era diretta, come ogni sedici dicembre, al cimitero.
Non era una data qualsiasi, quella, ma il compleanno di Nikole.
Era un avvenimento che – Franziska ne era certa – sarebbe diventato quasi un rito, nella sua vita. Anche l’anno prima si era diretta sulla tomba della migliore amica, con un bouquet di fiori stretto tra le mani.
I suoi risparmi le erano serviti – il giorno prima – per comprare una pianta di crisantemo, i fiori dei morti.
Sebbene fossero così macabri, Franziska li trovava in qualche modo bellissimi e affascinanti, forse per tutta la tristezza che trasmettevano quei petali colorati, che stonavano così tanto in un luogo deprimente come il cimitero del Distretto 6.
Appoggiato il vaso di fiori sulla tomba dell’amica, si alzò da terra, spazzolandosi la neve via dai pantaloni con una mano guantata – malgrado la lana non la scaldasse affatto. I guanti che indossava, infatti, erano rotti all’altezza delle unghie, lasciando scoperta la parte superiore delle dita. Non erano il massimo, ma non poteva permettersi di meglio, considerato che al Mercato Nero aveva trovato solo quelli.
Il Campo Santo era sepolto sotto una coltre bianca e soffice, e poche erano le orme che si notavano su di essa. Le più si dirigevano verso tombe nuove, quelle poste solo qualche mese prima nella parte di cimitero dedicata ai Tributi che non ce l’avevano fatta.
A Franziska si strinse il cuore nel vedere alcune orme più piccole che si fermavano dinnanzi alla lapide recante il nome del ragazzo che era morto durante la cinquantaduesima edizione. Nessuno dei Tributi del Sei ce l’aveva fatta, ma la cosa che più faceva arrabbiare il popolo era l’età di entrambi: dodici anni il maschio, tredici la ragazza.
Giovanissimi, anche troppo.
La quattordicenne si voltò, tirandosi in testa il cappuccio della felpa per proteggersi dalla neve che aveva ricominciato a cadere.
Si accorse solo in quel momento di non essere sola. Poco più in là, in piedi davanti ad una tomba, c’era una figura che in quei giorni era diventata anche fin troppo familiare.
Le sue labbra si incurvarono in un mezzo sorriso, mentre arrancava nello strato candido di neve per raggiungere il suo collega di lavoro.
Sentiti i passi della giovane, il quattordicenne si girò, aprendo appena la bocca, stupito. Poi, anche lui sorrise.
«Buon pomeriggio, Kidman. Qual buon vento ti porta al cimitero di domenica pomeriggio?» domandò Franziska, una volta che lo ebbe raggiunto.
«Lo stesso che porta te, a quanto vedo» ribatté il ragazzo, avvicinandosi alla bionda. Il suo volto era coperto da una spessa sciarpa di lana nera, stesso materiale della cuffia che copriva i suoi capelli castani, lasciando fuori appena qualche ciuffo sulla fronte. «Non dovresti essere a casa a studiare?»
«E tu?» Franziska tirò ancora più su la zip della felpa pesante che indossava a mo’ di giacca. «Ho già studiato un po’ prima, stasera terminerò. Volevo venire al cimitero, prima».
«Io non ho proprio aperto libro. Anche io volevo venire a farmi un giretto qua».
Con la coda dell’occhio, Franziska notò una lapide poco lontana, quella dinnanzi alla quale Aaron si era fermato poco prima.
Sulla nuda pietra vi era solo una scritta: Mathias Kidman. Morto durante i trentunesimi Hunger Games.
«Oh… sì, con questo tempo vien solo voglia di dormire» disse la giovane, distogliendo lo sguardo dalla lapide; il silenzio tra di loro si era protratto per troppo tempo e temeva che lui la scambiasse per un’impicciona.
Aaron, però, pareva essersi accorto che la ragazza aveva posato lo sguardo sulla tomba di quel parente – di cui Franziska non aveva ancora scoperto l’identità. Poteva forse essere suo padre? Fece un rapido calcolo mentale, capendo infine che non poteva essere lui. Aaron era nato nel trentottesimo anno dopo i Giorni Bui e l’inizio degli Hunger Games, proprio come lei.
Il quattordicenne si girò verso la tomba, quasi impercettibilmente, per tornare a guardare la ragazza subito dopo.
«Sì. Hai ragione. Ma anche venire al cimitero non è il massimo, comunque. Vedo che hai… visto la tomba». Indicò con il capo il luogo dove qualche suo parente giaceva.
Franziska affondò il volto nella sciarpa, vergognandosi da morire per quella figuraccia. «Sì» ammise. «Non volevo impicciarmi, scusa».
Aaron fece spallucce. «Non fa niente. Anche io sarei curioso. Era mio zio, comunque» spiegò, indicando lo stesso posto di poco prima con un dito. «Il fratello di mio padre. Aveva quindici anni, quando è morto».
«Mi dispiace tanto» mormorò la ragazza, posando una mano sul braccio del coetaneo, in un maldestro tentativo di consolarlo. «È brutto perdere della gente a cui si tiene. Lo capisco bene. E quando accade agli Hunger Games è ancora peggio. Fa rabbia, vero?»
Si morse il labbro inferiore martoriato dall’aria congelata, facendo ricadere il braccio lungo il fianco.
Aaron annuì. «Credo sia così. Almeno, io mio zio Mathias non l’ho mai conosciuto, ma mio padre aveva una certa avversione nei confronti dei Giochi per questo motivo». La guardò di sottecchi, come a volerle chiedere il permesso di continuare a parlare. «Hai… perso qualcuno per questo stesso motivo?»
«Sì». Non riusciva a parlare, Franziska. Sentiva un nodo in gola che diventava sempre più grosso, bloccandole quasi la respirazione e le corde vocali. Sentì gli occhi – già lucidi per l’aria fredda – riempirsi ancora di più di lacrime, e fu costretta ad abbassare lo sguardo sulla neve fresca.
I suoi occhi saettarono per un istante verso la tomba di Nikole.
Aaron la guardava ancora, in attesa, e decise che, per una volta tanto, parlare a qualcuno che non fosse Igor dei suoi problemi le avrebbe fatto più che bene.
Fece un cenno ad Aaron con la mano, indicandogli dove si trovava il luogo dell’eterno riposo della sua migliore amica.
«Era lei» sussurrò, quando si avvicinarono alla tomba.
Aaron flesse le gambe, allungandosi per leggere il nome inciso sulla pietra, che in quel momento era seminascosto dalla neve che continuava a cadere.
«Si chiamava Nikole. È morta a dodici anni, durante la cinquantesima edizione. Al Bagno di Sangue».
Franziska disse quelle informazioni con voce meccanica, come se ciò che usciva dalla sua bocca non fossero parole sue, ma di qualcun altro.
Era una macchina sulla quale le frasi venivano digitate. Apriva la bocca. Parlava. Raccontava con voce atona colei che un tempo era stata la sua migliore amica, l’appiglio a cui aggrapparsi nei momenti di sconforto.
Diceva tutto ciò come una spettatrice.
Ma lei non era una semplice persona che osservava. Lei aveva vissuto quel dolore in prima persona, soffrendo, buttandosi a terra e urlando.
«Mi dispiace».
Aaron le passò un braccio intorno alle spalle, goffo, e a Franziska venne istintivo sorridere.
«Quella era stata la nostra prima Mietitura» le uscì di bocca, quasi come una giustificazione.
«Lo so. Non è stato molto piacevole iniziare ad andare in piazza proprio l’anno della Seconda Edizione della Memoria». Aaron aveva ancora il braccio intorno alle sue spalle. Lo guardò, come una persona guarda qualcosa di particolarmente strano e si affrettò a spostarlo, un’espressione imbarazzata in volto.
«Allora… da quanto tempo vi conoscevate tu e Nikole?» domandò il ragazzo, togliendosi la cuffia e passandosi una mano tra gli arruffati capelli castani. Si rimise subito il copricapo, tirandolo talmente giù che per poco non si sarebbe coperto gli occhi. «Ovviamente non devi rispondere se ti fa male. Scusa se sono stato inopportuno» aggiunse, parlando in maniera così veloce che Franziska temette per un possibile arrotolarsi della sua lingua.
«Non è un problema». Scosse la testa, facendogli cenno di seguirla. Iniziava a sentire i piedi come due cubetti di ghiaccio attaccati alle caviglie e non era piacevole. Per non parlare delle mani, le cui dita stavano lentamente diventando rigide come dei rami.
I due si incamminarono verso il grande arco che consentiva l’accesso alla parte del cimitero riservata alle vittime degli Hunger Games.
«Io e Nikole ci siamo conosciute da bambine. Abitavamo vicine e giocando insieme siamo diventate amiche. Lei viveva con suo fratello maggiore perché i suoi genitori erano morti in un incendio».
«Forse lo ricordo. È morta anche un’amica di mia madre, lì» la interruppe Aaron, tirando un calcio a una bottiglia di birra vuota; rimasuglio, forse, di qualche ubriaco che era andato lì una sera in preda alla disperazione per piangere sulla tomba di un parente. Non era rara la gente così, al Distretto 6.
«C’è anche da dire che di incidenti del genere ne capitano praticamente tutti i giorni, in questo posto di merda». Franziska avrebbe tanto voluto avere anche lei quella bottiglia tra i piedi, per sfogare la sua rabbia contro di essa. «Comunque, sì, io e Nikole ci siamo conosciute giocando. Lei era in gamba. Davvero in gamba». La voce le si era abbassata di qualche ottava e sentiva il nodo alla gola che tornava più stretto di prima, facendole quasi male. «Quando avevo otto anni ed è morta mia madre, lei mi ha aiutata spesso. Mi aiutava a rubare qualcosina al mercato, a barattare al Mercato Nero, oppure semplicemente mi cedeva qualche avanzo di cibo. Una volta per poco si è quasi fatta prendere dai Pacificatori, mentre rubavamo…» Un sorrisetto malinconico affiorò sulle sue labbra, mentre ripensava a quel giorno che pareva lontano anni luce. «Io l’ho dovuto distrarre, dopodiché ce la siamo squagliata, io, lei e Igor».
«Rubavi?» Aaron la guardava con aria ironica. «Tu, che l’altro giorno mi hai detto di stare attento a non stare fuori durante il coprifuoco?»
Franziska sbuffò, ma senza rabbia. In effetti, lei non era il massimo esempio di galateo e virtù. Se lo ripeteva spesso, quando insegnava a Deryck delle regole che lei, poi, non rispettava.
«Fa niente, quello è un capitolo della mia vita chiuso e passato».
Ironico pensare a come tutto ciò accadeva circa un mese prima. Il tempo era volato in modo anche fin troppo veloce, in quel periodo. Eppure, erano cambiate tantissime cose: suo padre era morto, lei viveva dalla nonna, Deryck sorrideva di più, lei e Igor lavoravano e si era trovata addirittura un nuovo amico.
«E comunque, dovevo farlo» borbottò come scusa, calciando un sassolino. Stavano ormai uscendo dal cimitero, lasciandosi dietro il fetore di morte che pareva alleggiare nell’aria.
La strada dinnanzi a loro era bianca di neve, e in giro non c’era nessuno; solo le orme lasciate da qualche viandante poco prima erano mute prove che qualcuno si era diretto in quel luogo.
«Dovevi? Non stavate da vostra nonna prima, quindi?» chiese Aaron, grattandosi il naso con una mano guantata.
«No, te l’ho detto: siamo lì da poco. Prima vivevo con mio padre» rispose la ragazza, e impercettibilmente si voltò verso l’ingresso del cimitero. La tomba di sua madre l’aveva visitata poco prima di quella di Nikole; alla lapide recante il nome Warwick Madison  non si era nemmeno avvicinata.
Era meschino e lo sapeva. Fin da piccola le avevano insegnato ad avere rispetto dei morti, ma l’unica cosa a cui pensava quando ricordava il padre erano i lividi che aveva sua madre sul corpo, la sua voce rotta mentre minacciava Deryck e il modo con cui aveva chiaramente rivelato ai gemelli di odiare loro e il fratellino.
«È… morto?» Aaron indugiò su quell’ultima parola, quasi avesse paura di ferirla. Franziska lo fulminò con lo sguardo. Non voleva che la trattassero così. Lei non era una ragazzina che piangeva per la morte del padre. Anzi, nei momenti di rabbia più profonda, pensava che, in fondo, il fatto che Warwick fosse deceduto era stato una liberazione.
«Sì. Qualche settimana fa».
«Oh… mi dispiace. Adesso che ci penso, me lo avevano detto, solo che non mi sono ricordato» mormorò il quattordicenne.
«Non dispiacerti. A me non è dispiaciuto». Franziska osservò  i suoi piedi che si muovevano su quella coltre immacolata, mentre rifletteva su quanto dovessero sembrare crudeli quelle parole alle orecchie di chi non conosceva lei, suo padre, o la storia della sua vita.
«Problemi in famiglia?» Un lampo di compassione passò negli occhi marroni del giovane.
«Sì. Mio padre non era un tipo molto raccomandabile».
Era combattuta. Parlargli o non parlargli di quella storia? Se ne vergognava, in un certo senso. Sapere di avere avuto una famiglia così disastrata la faceva sentire fuori posto.
Una parte di lei, però, insisteva sul fatto che parlarne con qualcuno le avrebbe fatto più che bene. In fondo – si diceva – non c’era nulla di male. Warwick era morto e lei e i suoi fratelli erano già prima gli zimbelli del Distretto.
«Il mio lo era… credo». La bocca di Aaron si strinse in un’espressione di disappunto e ancora, Franziska desiderò saperne di più sulla sua vita. La curiosità provata qualche giorno prima, quando lui aveva fatto accenno al fatto che fosse orfano, era tornata prepotente come non mai.
«Il mio no. Warwick era un idiota o, per dirla con le parole di mia nonna, un’ameba. Probabilmente era malato». La quattordicenne si picchiettò la tempia sinistra con un dito a mo’ di spiegazione del concetto.
Che Warwick Madison avesse una malattia psichica non era da escludere. Franziska ricordava ancora lucidamente quella sera in cui aveva tentato di uccidere Deryck, il modo in cui si era accasciato e aveva iniziato a piangere e strillare, come un bambino, come una persona malata.
Le era già capitato di vedere gente del genere. A scuola c’era stato, anni prima, un ragazzino che era completamente fuori di testa. Vederlo nei corridoi le faceva talmente paura che si spiaccicava sempre contro il muro, come se quello nascondesse una porta per farla uscire e non farsi vedere. Fortunatamente quel tipo non l’aveva mai notata e qualche anno dopo era stato ucciso da alcuni Pacificatori per aver urlato qualcosa di controverso in piazza.
«Che mi dici del tuo, allora? Era normale, credi?» domandò la ragazza, cercando di abbattere la barriera di mistero che avvolgeva il suo interlocutore.
«Papà era un uomo molto buono. Solo che…» lasciò in sospeso la frase, proprio nel momento in cui un gruppetto di bambini urlanti passava accanto a loro, brandendo delle palle di neve. Erano ormai tornati in città, in uno dei tanti vicoli bui e sporchi.
«Guarda che non sei costretto a dirmelo».
«No!» Aaron quasi lo urlò e tornò a guardarsi le scarpe. «No, tranquilla… credo che parlarne potrebbe farmi più che bene».
«Allora parliamone. Sei un bel mistero, lo sai?»
Il ragazzo sorrise sbarazzino, lanciandole una breve e timida occhiata. «Non parlo molto spesso di me. Come te, da quel che ho notato. Comunque, mio padre è morto, così come mia madre. Giustiziati, entrambi».
Franziska sgranò gli occhi, sentendosi orribile per aver riportato a galla ricordi che avrebbero dovuto rimanere sul fondale.
Le era chiaro, ora, come mai la nonna avesse reagito in modo strano quando aveva nominato il cognome di Aaron. Non ne sapeva niente, lei, o almeno, non aveva mai fatto caso a cosa fosse successo. Di morti per la giustizia ve ne erano parecchi, lì, e ogni anno almeno un centinaio di persone venivano impiccate, frustate o fatte morire di stenti in prigione – oltre, ovviamente, alle vittime dei Giochi.  
«Dev’essere tremendo… Warwick si è suicidato, invece. Mamma è morta di parto». Sospirò, sistemandosi il cappuccio. Quella non era certo una gran discussione da condurre la domenica pomeriggio, per di più in compagnia di un ragazzo.
«Questo discorso è l’ideale per una domenica pomeriggio». Aaron sembrò leggerle nei pensieri e scoppiò in una risata di falsa allegria.
«Hai ragione». Franziska scosse la testa. «Solo che ogni tanto parlare di certe cose fa bene, credo. Non mi sono mai sfogata con nessuno riguardo ai miei problemi familiari e non ne ho mai parlato. Con nessuno».
«Con me sì, però».
Franziska non ebbe bisogno di girarsi per vedere il rossore sulle guance dell’amico. Ormai era una costante, quell’arrossire di Aaron, come se si vergognasse di ogni parola uscita dalla sua bocca.
«Mi sei simpatico. Ritieniti fortunato». Ficcò le mani nelle tasche della felpa, affondando con il mento nello sciarpone che indossava.
«Bene. Sfoghiamoci, allora». Aaron le rivolse un piccolo sorriso, mentre una folata di vento mandava loro i fiocchi di neve in faccia. Oltre ai bambini incontrati poco prima, in giro non c’era nessuno, a parte qualche sporadico viandante.
«Sfoghiamoci». Franziska accettò la proposta. «Vuoi partire tu?»
«D’accordo. Senti, ti va se ci dirigiamo da questa parte?» Il quattordicenne indicò un vicolo con un cenno del capo. Dinnanzi a loro c’era una biforcazione. «Lo so che casa tua – e anche casa mia – sono dall’altra parte, però se vogliamo parlare un po’ tranquilli…» deglutì nervosamente, come se si vergognasse di proporle di andare a fare un giro, «… ci sarebbe un posto, al riparo dalla neve senza che nessuno ci stia intorno».
«Mi va bene» replicò Franziska. «Che posto sarebbe?»
Per un attimo, il suo istinto di sopravvivenza tornò a galla, facendola sentire irrequieta più che mai. Non le era mai capitato di trovarsi sola con un ragazzo, o comunque con qualcuno che non fosse parte della sua famiglia o di quella di Carine e Edmure. L’idea di trovarsi nello stesso luogo con un ragazzo estraneo – più o meno – la metteva in agitazione.
Si disse che una chance avrebbe anche potuto dargliela, ma in caso qualcosa fosse andato storto, avrebbe tirato fuori la sua migliore arte del combattimento, acquisita, negli anni, grazie a tante risse scolastiche, spesso anche con gente più grande.
«Un’officina». Aaron si immise nel vicolo, camminando svelto. Franziska lo seguì, sempre guardinga. «Un’officina abbandonata» proseguì il giovane. «Sono anni che è lì, ma nessuno ha più voluto comprarla e dentro è praticamente vuota, a parte per una cosa che ti farò vedere poi. Probabilmente è stata lasciata a marcire durante i Giorni Bui, non saprei. La cosa straordinaria è che dentro è tutto normale, tutto aggiustato».
Camminando, la curiosità veniva sempre più a galla, il tutto alimentato dal fatto che Aaron aveva aumentato l’andatura.
Non si fidava molto, Franziska, ma era sempre più interessata a quella storia. Di officine abbandonate ve ne erano alcune, ma la maggior parte erano in pessimo stato; alcune avevano il tetto sfondato a causa dei bombardamenti aerei della Capitale ai danni del Distretto 6 durante i Giorni Bui, altre erano semplicemente vittime dell’incessante passare del tempo.
Ci misero circa venti minuti ad arrivare, e in quel tempo non parlarono molto se non di scuola, lavoro e altre cose. Sembrava che Aaron volesse parlare solo una volta giunti in officina e Franziska lo comprendeva. Nemmeno lei avrebbe rivelato dettagli tanto scottanti della sua vita fuori, all’aperto, con gente che poteva passare e sentirli.
L’officina era un casermone, anche se rispetto a quelle ancora attive era molto piccola. Probabilmente era stata un’attività a conduzione familiare – sapeva, Franziska, che un tempo erano molto attive, prima che il potere di Capitol City diventasse tanto grande da opprimere chiunque e far entrare in crisi diverse officine.
Quando entrarono, si accorse della sorpresa di cui le aveva parlato Aaron. Non era nulla di che, ma di certo vedere lì una cosa del genere avrebbe stupito chiunque.
All’interno, infatti, vi era un letto, alcuni mobili dall’aria decadente e un fornello a gas, con attaccata ancora una bombola. Era tutto esattamente come una minuscola casa.
«Sembra che qualcuno ci abbia fatto il nido» commentò, avvicinandosi al letto e sfiorando il lenzuolo lercio che ricopriva il materasso.
«Io l’ho scoperta un po’ di tempo fa, durante un giretto. Io e Jimmy pensavamo di farci una specie di rifugio, o qualcosa del genere. Non è malaccio come posto». Aaron si guardò intorno e allargò le braccia, quasi a voler presentare quel piccolo angolo di mondo alla sua amica.
Franziska si tolse il cappuccio, sentendo che l’ansia provata fino a qualche minuto prima veniva meno. Sembrava che Aaron non volesse tenderle alcuna trappola, per ora.
«Dicono che ci vivesse una ragazza, una volta. O almeno, mi hanno raccontato così, a casa. Una ragazza che poi dev’essere andata agli Hunger Games, o qualcosa del genere». Il ragazzo piombò sul materasso, non prima di aver scostato quel ricettacolo di pulci che era il lenzuolo e averlo gettato lontano.
«A parte gli spifferi non sembra brutto» bofonchiò la bionda, sedendosi accanto all’amico e spostandosi fino ad appoggiare la schiena alla parete.
Aaron la imitò, e Franziska si sentì infinitamente piccola, con la testa che sfiorava la spalla del ragazzo, così più alto di lei.
«Devo sfogarmi io per primo, giusto?» Aaron si puntò un dito al petto, sorridendo timidamente. Franziska annuì, convinta.
«Non puoi più tirarti indietro, Aaron Kidman. Sfogati. Raccontami un po’ cosa nascondono questi occhi di cioccolato».
Il ragazzo abbassò la testa, ridendo e con le guance ancora arrossate. «Partiamo dalle cose semplici?»
«Cose semplici del tipo?»
Aaron alzò le spalle. «Tipo il nome dei miei genitori?» Sospirò, portando una mano alla testa per togliersi la cuffia e riavviarsi i capelli arruffati.
«Mi sembra un ottimo inizio». Franziska aveva l’impressione di essere una specialista dei problemi degli altri. Aveva letto, da qualche parte, che esistevano dei medici che si occupavano proprio di ciò: aiutare gli altri. Forse a Capitol City esistevano ancora, ma lei di loro conosceva solo il nome: psicologi.
«Si chiamavano Jonathan e Keira».
«Bei nomi» lo interruppe la ragazza, portando le ginocchia al petto e circondandole con le braccia.
«Lo so». Aaron fece un verso a metà tra una risata e uno sbuffo. «Comunque, avevano due figli, come già ben sai. Il sottoscritto e Brenton, di quattro anni più piccolo di me. Abbiamo vissuto tutti insieme fino al mio settimo anno di età. Poi, una sera, di rientro da una passeggiata, trovammo la casa che era un caos tremendo. Papà e mamma erano davvero spaventati e, dopo che lui corse in camera e uscì con dei fogli in mano, ci portarono via. Dai nostri zii, per la precisione. Martyn e Katy, si chiamano. Lei è la sorella di mamma». Aaron fece una pausa, incrociando le gambe e grattandosi una guancia. Dopo aver compiuto questi semplici gesti, la sua mano corse al polso e sollevò le maniche della giacca e della felpa, rivelando un orologio nero che circondava il suo polso magro.
Franziska non lo aveva mai notato prima – o almeno, aveva visto l’orologio, ma ciò che non aveva mai guardato con attenzione era il quadrante. Segnava le tre, e le lancette erano ferme.
Aspettò che Aaron proseguisse, prima di chiedere come mai fosse così strano.
«Mi diede questo». Il quattordicenne diede un colpetto al quadrante con un dito. «Era il suo orologio. Poi, se ne andarono, lui e mamma. Non li rividi più per poco tempo finché un giorno, tornando da scuola, io e i miei cugini più grandi, Keegan e Jarod, non vedemmo una grande folla dirigersi verso la piazza. Andammo anche noi – beh, io e Jarod di nascosto; Keegan non voleva che vedessimo se i Pacificatori stavano frustrando qualcuno o peggio. Ha sempre avuto il complesso del fratello maggiore, sai». Sospirò ancora, passandosi per l’ennesima volta una mano tra i corti capelli castani, come se solo quel gesto potesse aiutarlo a star meglio e a sistemare l’ordine dei suoi ricordi. «Io e Jarod, appunto, lo seguimmo. E quando giungemmo al limitare della folla…» deglutì nervosamente, mordendosi il labbro inferiore, «… vidi i miei genitori. Impiccati».
Franziska rimase zitta.
Non sapeva cosa rispondere; le parole le si erano impigliate in gola, come se ci fosse stata una rete dalle maglie troppo piccole. Le frasi che voleva dire erano troppo grandi per uscire, troppo false. Una frase fatta buttata lì per caso non sarebbe mai servita a nulla; di certo non avrebbe fatto dimenticare ad Aaron i volti dei suoi genitori morti.
Quella storia era così terribile – così ingiusta – che le venne voglia di alzarsi e spaccare qualcosa, tanta era la rabbia che stava montando ad una velocità insuperabile anche dal treno più veloce della Capitale.
Anziché parlare, fece una cosa che risultò inaspettata persino per lei.
Intrecciò le dita di Aaron alle sue, appoggiando la guancia contro la sua spalla, in un vano – almeno a suo parere – tentativo di confortarlo. Era sicura che non sarebbe servito a molto, ma forse valeva la pena farlo, per vederlo star bene.
Era divisa tra il timore che covava nei confronti di quel ragazzo e una strana voce nella testa che le suggeriva di fidarsi, di provare – ancora per una volta nella sua vita – a voler bene a qualcuno di estraneo.
Ormai Aaron non era del tutto sconosciuto, ma le ci voleva tempo per fidarsi di qualcuno, di solito. Con lui, però, sentiva qualcosa di diverso, come se lui potesse comprendere tutto ciò che lei provava; come se la tristezza in quegli occhi marroni fosse la stessa degli occhi verdi di lei.
Aveva voglia di voler bene a qualcuno.
Dopo due anni in cui era rimasta sola, senza più la sua migliore amica, sentiva la necessità di legarsi a qualcuno, di poter dire: «Finalmente ho un amico anche io».
Perché lo sapeva che non era colpa degli altri, se lei era sempre sola. In parte, forse, concorrevano anche loro alla sua solitudine, ma sapeva che per circa il novanta per cento era anche colpa sua, del suo orgoglio, del suo carattere così orribile, del suo far fatica a legarsi agli altri perché in ogni persona vedeva solo i difetti.
Sentì le dita di Aaron che si irrigidivano sotto il suo tocco, e il suo corpo sussultare leggermente per quel contatto. Avvertì il suo capo che si girava per guardarla, mentre poggiava la testa contro la sua spalla.
Pian piano, poi, le dita del ragazzo strinsero le sue e appoggiò anche lui la guancia contro i suoi capelli, piano, timidamente, quasi avesse paura di farle del male.
«Nemmeno mille parole servirebbero per consolarti» sussurrò Franziska, lo sguardo fisso sul pavimento impolverato dell’officina, sul quale emergevano, nitide, le loro orme. «Spero che almeno questo serva a farti sentire un po’ più confortato».
«È la prima volta che qualcuno lo fa con me» ammise lui, rafforzando la presa delle sue dita attorno a quelle della bionda.
«È la prima volta che io mi comporto così con qualcuno» mormorò Franziska.
Si vergognava, e allo stesso tempo era contenta di essersi messa in quella posizione; fare del bene la faceva sentire più leggera e contenta.
«Ribadisco: ritieniti fortunato, Aaron».
Il ragazzo fece una risatina. «Ora tocca a te raccontarmi qualche scottante dettaglio della tua vita, però».
Franziska rise a sua volta, alzandosi e sciogliendo l’intreccio delle loro dita. «Cosa posso dirti?»
Non sapeva bene da dove cominciare. La sua vita era solo piena di brutti eventi e pochi momenti felici. «Sono nata il diciotto gennaio…»
«Davvero?» la interruppe Aaron, guardandola sorpreso. «Anche io a gennaio. Il nove, però!» esclamò quasi contento.
«Possiamo festeggiarlo insieme, allora». Franziska gli fece l’occhiolino, sedendosi poi in una posizione più comoda. «Comunque, ti dicevo. Ho vissuto con mia madre, Warwick-»
«Non lo chiami mai papà?»
Franziska alzò gli occhi al cielo, infastidita da tutto quell’interrompere. Mai si sarebbe immaginata che un ragazzo così timido e impacciato potesse tirar fuori tutta quella voglia di chiacchierare.
«No. Lui è Warwick. Solo Warwick. Impara anche tu, perché nessuno deve definirlo “il papà di Franziska”» lo mise in guardia, puntandogli un dito contro il petto con finta aria minacciosa. «Ah, e non interrompermi!» lo rimbeccò.
Il ragazzo fece finta di cucirsi le labbra con ago e filo, e la bionda, suo malgrado, sorrise.
«Bravo. Così si fa. Comunque, Warwick era un po’ pazzo, come già ti dissi. In pratica, lui voleva bene solo a nostra madre. Non ricordo un momento in cui mi abbia abbracciata, mi abbia dato un bacio sulla guancia o mi abbia carezzato i capelli. Era molto freddo, sia con me che con Igor. E il bene che voleva a mia madre… era più un’ossessione». Si mordicchiò il labbro inferiore, indecisa se aggiungere lo scottante dettaglio della violenza che subiva sua madre.
«Un’ossessione?»
«Sì, non saprei come altro definirla. Ogni tanto…» deglutì, portandosi, tremante, una mano al volto, «… li sentivo urlare. Cioè, lui urlava degli improperi e lei rispondeva, ma poi Warwick la picchiava. Non ho mai avuto il coraggio di andare a guardare, però».
Ancora, ad anni di distanza, si sentiva in colpa per quel fatto. Spaventata com’era, non si era mai avvicinata alla stanza dei suoi genitori per vedere cosa accadeva, temendo che Warwick avrebbe alzato le mani anche su di lei, o peggio.
«E poi mamma – si chiamava Grace, comunque – è rimasta incinta di Deryck. Warwick era nervosissimo, in quei giorni. Non voleva quel bambino e si vedeva. Dopodiché, mamma ha partorito ed è morta per alcune complicazioni. E lì è iniziato l’inferno. Warwick ha addirittura tentato di uccidere il mio fratellino una sera. Io e Igor abbiamo preso dei coltelli e lo abbiamo minacciato, come non avevamo mai fatto quando quello stronzo picchiava nostra madre. E poi la mia vita è stata un susseguirsi di furti, di cibo datomi da Nikole e da Carine, la migliore amica di mia madre. Non potevano fare niente, nessuna delle due. E noi non volevamo andare all’istituto. Alla fin fine, in casa Warwick non faceva granché. Non ci picchiava, semplicemente ci ignorava».
Si era rimessa ancora nella stessa identica posizione di prima, quella di una bambina spaventata, quella che lei assumeva quando si sentiva troppo spaventata e spaesata.
«E arriviamo a noi… Warwick si è suicidato qualche tempo fa. Ho trovato io il corpo». Sentì le narici invase dall’odore acro del sangue, mentre davanti agli occhi balenavano flashback di quell’orribile sera, della scritta sul muro. «Sulla parete ha scritto anche il nome di mia madre. Con il sangue. Si era tagliato le vene».
Aaron emise un gemito strozzato e sbarrò gli occhi, rivolgendoli alla sua interlocutrice. Dal canto suo, Franziska stette immobile, il mento appoggiato sulle ginocchia e il petto che si abbassava piano, al ritmo del suo respiro.
«È… tremendo» fu il primo commento del ragazzo. «Non… dev’essere brutto. Cioè, è brutto. Ti capisco bene». Poi, inaspettatamente, il suo braccio circondò le spalle della ragazza con un gesto goffo, timido e dolce allo stesso tempo.
«Non è niente, te l’ho detto. Lo odiavo». La ragazza strinse le mani a pugno, cercando di non lasciar trasparire quanto piacere le facesse sentire il braccio di Aaron attorno alle sue spalle. Per la prima volta, si era sentita… a posto. Come se il mondo avesse un luogo anche per lei – e chissà che non potesse essere proprio l’Officina Abbandonata.
«Sai… a volte anche io odio i miei genitori. No, cioè, non li odio proprio, ma sono arrabbiato da morire con loro». Aaron si avvicinò ancora di più a lei. «Se solo non avessero fatto qualche atto di ribellione forse sarebbero ancora qui. E poi, avrei voluto che me ne parlassero. Chissenefrega se avevo appena sette anni, ero loro figlio».
«I genitori fanno cose strane per proteggerci» mormorò Franziska, lasciandosi andare e appoggiando la testa contro la spalla di Aaron, come a volergli trasmettere un po’ di conforto. «Quindi, i tuoi erano ribelli?» Sperò solo che quella domanda non lo facesse arrabbiare e che non la scambiasse per una pettegola – quella storia la incuriosiva anche troppo.
«Credo di sì. Insomma, li hanno uccisi i Pacificatori». Il ragazzo fece un cenno verso la porta del capannone, quasi un drappello di soldati fosse là fuori. «Non so cosa abbiano fatto di preciso. Sono scappati via, una sera. Credo se ne siano andati dal Distretto 6. È vietato andare negli altri Distretti, per noi poveracci».
«E tu non sei mai stato curioso? Mi spiego: non hai mai voluto sapere cosa stavano combinando?»
Aaron annuì. «Come è ovvio che sia. Solo che non l’ho mai chiesto a nessuno. Mia zia è restia a parlare di mamma, le manca tanto e so che anche lei soffre quando viene nominata. Dei loro progetti so solo… niente, a dire il vero, se non che, di tanto in tanto, si incontravano con degli amici, come se stessero facendo delle riunioni».
«E tu non li conosci, questi amici?» Franziska si alzò dal letto, improvvisamente eccitata. Quella storia le metteva una certa agitazione addosso. Sapere che i genitori del ragazzo che aveva accanto erano stati dei ribelli la faceva sentire strana, sia felice che spaventata, anche se la prima emozione prevaleva. Una ribellione era ciò che tutti sognavano da anni e anni.
«Sì. Uno era il padre del mio amico Jimmy, il sindaco. E poi c’erano altre persone, ma di alcuni non conosco il nome. Erano un gruppetto di circa dieci persone. Un paio di loro addirittura non li ho mai più visti». Il quattordicenne si sedette nella stessa identica posizione assunta poco prima dall’amica, e Franziska non poté fare a meno di pensare che sembrasse davvero un cucciolo spaventato.
«E non ti è mai venuta voglia di scoprire cosa combinavano?» La ragazza allargò le braccia con espressione quasi esasperata. Era ciò che avrebbe fatto lei: informarsi, indagare, scavare a fondo per scoprire cosa volevano fare i suoi genitori e poi portare a termine i loro propositi di ribellione. Era un pensiero folle, ma poteva scommettere sulla sua testa che chiunque, lì al 6, ambiva ad una ribellione per liberarsi dall’oppressione della Capitale.
«Certo. Solo che… non so, non ho mai voluto metterci il becco, anche se l’idea mi ha toccato svariate volte».
«Se vuoi farlo, io ti appoggio!» esclamò la ragazza, alzando il braccio destro con la mano chiusa a pugno. Aveva sentito dire in giro che era un gesto di ribellione e le sembrava il più appropriato per esprimere i suoi sentimenti in quel momento.
Aaron ridacchiò, alzandosi a sua volta dal letto. «Tu sei pazza» commentò, scuotendo la testa.
«Non sono pazza! Davvero, Aaron, non sei curioso di scoprire l’oscuro passato dei coniugi Kidman? Ormai hai quattordici anni, non sei un bambino». La ragazza colpì il petto del giovane con un dito, sorridendo. «Pensaci. Io ti aiuterei in queste ricerche. E credo che anche il tuo amico-che-non-sta-mai-zitto. Forse anche mio fratello» aggiunse, con una scrollata di spalle.
Aaron aggrottò la fronte. «Tuo fratello… mi… odia» balbettò, strisciando un piede per terra e sollevando un po’ di polvere.
«No, non ti odia. È semplicemente stupido e geloso perché non gli piace vedermi in giro con un ragazzo».
Se fino a quel momento la pelle olivastra di Aaron era riuscita a nascondere il rossore che spesso si notava a malapena sulle sue gote, in quel momento, esse erano porpora.
«È g-geloso quando vai in giro con un ragazzo?»
«Sì. Anche se è solo un amico. Ma lui si fa mille seghe mentali e crede che quello automaticamente sia il mio fidanzato». Franziska fece una smorfia.
«Spero che non mi voglia prendere a pugni, allora».
La giovane scosse la testa. «No, perché se ci prova lo piglio a schiaffi. Senti un po’, con questa cosa abbiamo distolto l’attenzione dal problema principale». Si avvicinò lentamente al ragazzo, alzandosi poi in punta di piedi e piantando il suo volto a poca distanza da quello ancora rosso di lui. «Vuoi indagare sì o no?» sibilò.
Aaron annuì frettolosamente. «Certo. Mi hai convinto» ammise, stirando le labbra in un sorriso sbarazzino.
Franziska si allontanò, soddisfatta dopo aver compiuto quel semplice, ma importante gesto.
«Sarò il tuo braccio destro, in questa storia. Quando vuoi cominciare, dimmelo».
«Stavo pensando di farlo quando smetterà di nevicare. O comunque, potremmo iniziare quando saremo liberi dal lavoro, di domenica».
«La prossima? Se non nevica, possiamo farcela. Ormai si avvicina il periodo natalizio, le scuole saranno chiuse».
In realtà, il Natale non si festeggiava quasi più – almeno al Distretto 6. Franziska aveva sentito dire che, una volta, nel periodo che andava dal venticinque dicembre al sei gennaio era sempre festa. I ragazzi stavano a casa da scuola, si addobbavano le città e ci si scambiavano dei doni. Era un momento di gioia per chiunque, specialmente per i più piccini.
A Panem, ormai, anche quell’usanza era decaduta. I ricchi, spesso e volentieri, festeggiavano il Natale scambiandosi dei regali, il che accadeva raramente nei Distretti, e con maggior frequenza nella Capitale. Franziska ricordava di aver visto in televisione le immagini di un grosso abete addobbato con festoni e palline colorate, che troneggiava nel giardino del Palazzo Presidenziale.
«Perfetto». Aaron annuì, passandosi una mano sulla guancia. «Allora… domenica prossima ti aspetto. Ti devo anche presentare Jimmy, così saprai chi sarà uno dei tuoi collaboratori». Nel dire l’ultima parola fece il segno delle virgolette.
«Spero per te che sia simpatico». Franziska si voltò verso i finestroni del capannone, appurando così che il buio stava ormai calando. «Meglio muoverci» avvertì, dirigendosi verso l’uscita.
Non parlarono poi molto, al ritorno. Il freddo era così intenso che non riuscivano nemmeno a scambiarsi due parole, e la neve si schiaffava sui loro volti, congelandoli ancora di più.
Il Distretto 6 ormai era bianco e non un’anima c’era in giro, se non qualche persona che rientrava frettolosa nella propria casa e i Pacificatori che si appostavano per la ronda notturna, le armi in pugno e i volti al solito ricoperti dai caschi.
Franziska fece una smorfia, passando accanto a questi, desiderando che, per una volta, fossero loro a stramazzare al suolo e non le povere persone che si divertivano tanto ad uccidere per ordine del presidente Snow.
Lì nel Distretto dei trasporti, poi, l’oppressione dei Pacificatori era delle più violente. Spesso, Franziska aveva desiderato sapere se fosse lo stesso anche nelle altre fazioni di Panem. Non sapeva molto su di esse, se non lo stretto necessario che aveva appurato a scuola e durante le edizioni degli Hunger Games – manifestazione durante la quale i tributi, soprattutto coloro che trionfano, ne approfittavano per parlare di casa loro, con quel tono malinconico e gli occhi lucidi che tanto facevano impazzire il pubblico capitolino, ma che a gente come Franziska faceva solo un’immensa tenerezza. In quelle occasioni, era venuta ad appurare che il Distretto 2 era un posto pieno di montagne – malgrado lei non abbia mai desiderato vederlo, considerato che Nikole era stata proprio uccisa da un tributo di quel luogo – il Distretto 4 era, invece, sempre soleggiato e non faceva mai freddo, d’inverno; il Distretto 7 era pieno di alberi e si respirava aria buona; il Nove presentava un’enorme distesa di campi di grano.
Spesso, desiderava vedere tutti quei posti, viaggiare per le strade di ogni fazione. Le era capitato di desiderare di essere invisibile, per salire sul primo treno merci e andarsene, correre via da tutto quel grigio e da quello schifo con cui conviveva giornalmente.
«Ti saluto, allora».
Presa com’era dai suoi pensieri, non si era nemmeno resa conto di essere giunta dinnanzi a casa sua.
Alzò lo sguardo, spaesata, verso Aaron, che si era rimesso in testa la cuffia e si era alzato così tanto la sciarpa che gli si vedevano solo gli occhi.
«Uh… sì, ciao! Ci vediamo a scuola, allora».
«A domani».
Poi, inaspettatamente, il ragazzo si abbassò la sciarpa e si abbassò verso di lei, posandole un bacio sulla guancia.
Mentre se ne andava, Franziska rimase a guardarlo, con una mano premuta laddove le labbra di Aaron avevano incontrato la sua pelle. Stupita ed incredula, si chiese come fosse possibile che un ragazzo avesse deciso di dare un bacio sulla guancia proprio a lei.
Si accorse anche di avere una strana sensazione all’altezza dello stomaco e preferì rientrare in casa, per non pensarci più.



 


Alaska's corner 

Eccomi :D
Dunque, come vi ho già anticipato, questo capitolo non è molto denso d’azione, ma mi piaceva l’idea di inserire una chiacchierata tra Aaron e Franziska per vedere come evolve il loro rapporto e per far prendere loro questa pazza decisione di indagare sulla morte dei genitori di Aaron.
In questo capitolo vengono svelate alcune cose su di lui, perlopiù sulla sua famiglia: suo zio Mathias, il fratello di Jonathan, è morto agli Hunger Games; i genitori di Aaron e Brenton, invece, sono morti come ribelli. Verrà spiegato tutto meglio nei prossimi capitoli, ma, in ogni caso, verranno scritti anche alcuni spin-off. Uno ce l’ho già pronto, ma non posso pubblicarlo perché contiene ben due spoiler grossi come due palazzi presidenziali del Presidente Snow.
La citazione iniziale sarebbe stata meglio nel capitolo precedente, I know that, ma mi sembrava più carino inserirla qui. Ovviamente si riferisce ad Aaron e Franziska e il loro “sciogliersi”, il rivelare cose della loro vita passata di cui non sapeva nessuno, ma che ora sono pronti a rivelare l’uno all’altra perché – pur conoscendosi relativamente da poco – cominciano a fidarsi. E poi Frozen è l’amore e io amo Olaf; la citazione l’ho messa in lingua originale perché mi piaceva di più ♥
Un’altra cosa che vi chiedo, è di ricordarvi dell’Officina Abbandonata. Nei capitoli a venire sarà importante; ma soprattutto, ricordatevi anche della storia citata da Aaron sulla ragazza che vi abitava, perché sarà ripresa verso la fine di questa storia, nella terza parte.
Dal prossimo capitolo, i due cominceranno a sistemare i pezzi, per indagare con alcuni formidabili alleati – immagino sappiate già chi sono. xD
Ci si risente domenica!
Alaska. ~ 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Alaska__