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Autore: _Joanna_    30/07/2015    1 recensioni
{“Mio dolce re” gli parve di udire la sua voce, sottile e morbida come seta. Scosse la testa, cercando di scacciare quei ricordi che continuavano ad affiorare, tormentandolo, rendendogli impossibile riposare. Ogni volta che chiudeva gli occhi lei era lì, bella come l’ultima volta che l’aveva avuta tra le braccia.}
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{A Sansa aveva riservato tutte le sue attenzioni: le lasciava pegni del suo amore incisi nella carne.}
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Joffrey Baratheon
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Non si era mai sentito tanto debole in vita sua. Beh non proprio.

     Il ricordo della sommossa del pane era ancora vivido nella sua memoria. Un attimo prima stava cavalcando, alto e imponente tra la folla che gli faceva ala. Sembrava che tutti gli abitanti della città si fossero riversati in strada per augurare il buon viaggio alla principessa Myrcella. Si ricordava ancora come quella bimbetta piagnucolosa si era incamminata sulla passerella della nave, tutta singhiozzi e gemiti. Come suo fratello del resto. Erano principi dei Sette Regni, ma nonostante questo non ci provavano nemmeno a darsi un contegno. Myrcella era una fanciulla e si poteva capire: donne, deboli per natura. Ma Tommen? Figlio di Robert, idiota quanto forte, nipote di ser Jaime, imbattibile con la spada;  Joffrey somigliava a loro, glielo dicevano tutti, mentre suo fratello somigliava… beh a Tyrion, supponeva.

     Ad un certo punto ne aveva avuto abbastanza di quei piagnistei lamentosi, così aveva voltato il cavallo e ordinato a ser Meryn di aprirgli la strada. Al loro passaggio gli era sembrato di udire migliaia di bocche inneggiare a lui e a sua madre, ma con la coda dell’occhio aveva visto le guardie agitarsi, tormentando le impugnature delle picche. Quando si era guardato attorno non aveva visto altro che occhi torvi e sguardi truci; un mare di personaggi grigi e macilenti che grondavano miseria e disprezzo. E dal nulla era arrivato. Un fetente e fumante pugno di sterco gli era piombato dritto in faccia. Fremeva ancora di rabbia al ricordo. Aveva reclamato la testa di quell’uomo su una picca, ma il muro di gente era compatto e premeva per ghermirlo. No, non un solo uomo doveva essere punito, tutti loro erano colpevoli, tutti dovevano morire! Aveva gridato pieno di furore il proprio ordine alle cappe dorate, ma quegli imbecilli non erano nemmeno in grado di mantenere la posizione. E rapido come un fulmine il Mastino gli era arrivato addosso, l’aveva cinto con un braccio d’acciaio e si era fatto largo tra la folla in tumulto a colpi di spada. Era accaduto tutto così in fretta. I cavalieri bianchi l’avevano circondato, gli avevano fatto scudo mentre veniva sollevato da terra come se fosse senza peso, come se fosse lui quel bimbetto frignone, e in un attimo era apparsa la piccola pusterla scavata nelle massicce mura della Fortezza Rossa. Dietro di lui aveva udito una cacofonia indistinta: grida, gemiti, come lamenti di bestie in agonia.

     “Dovevo reagire” pensò amaramente per l’ennesima volta “Spada in pugno. Avrei afferrato il primo idiota e gli avrei staccato la testa”. Così tutti avrebbero capito. “Chi osa oltraggiare il re perde la testa”. Secondo il Folletto era stato proprio il suo ordine a scatenare la follia, ma che ne poteva sapere quel mezzo-uomo? L’avevano ricoperto di sterco, l’avevano umiliato, sfidato, come poteva pretendere che lui, il re, non rispondesse a quell’insulto? “Tradimento”. Se un miserabile reietto credeva di potergli lanciare addosso la merda del proprio cane senza subire conseguenze, come avrebbero potuto temerlo gli usurpatori? Robb Stark, suo zio Stannis e prima ancora l’altro zio, Renly, tutti contro di lui, avidi di potere. E ora Stannis stava arrivando. Le porte della città erano state chiuse, le mura pullulavano di uomini armati e le casse d’altofuoco erano state preparate a migliaia, ordinatamente disposte e pronte a scatenare un inferno di fuoco verde sulla terra e sull’acqua. Non dovevano fare altro che aspettare.

     «Maestà?» Joffrey distolse lo sguardo e si girò verso la ragazza che aveva parlato. I lunghi capelli castani le drappeggiavano le spalle nude. Sul suo capo, leggermente in obliquo, la corona reale con le corna di cervo; era l’unica cosa che indossava. Per un istante Joffrey si chiese che cosa ci facesse lì, quando ricordò: l’aveva fatta chiamare lui stesso e quando era entrata le aveva ordinato di togliersi i vestiti. Dopo tanto tempo aveva deciso di concedersi una distrazione, non sapeva quando ne avrebbe riavuta la possibilità. Ditocorto, quel lecchino fin troppo malfidente, si era proclamato entusiasta di alleviare le fatiche del giovane sovrano e aveva spergiurato che non ne sarebbe rimasto affatto deluso. E solo gli dei sapevano se non aveva avuto dannatamente ragione.

     Quel pensiero aveva turbato il suo animo già inquieto. Senza nemmeno guardarla mormorò «Vattene».     
La ragazza esitò, poi fece un passo avanti «Vostra graz…».
«Va via!» le ringhiò. La puttana arretrò, la corona cadde rumorosamente sul pavimento di pietra mentre lei impacciata cercava di raccoglierla «Fuori ho detto! Fuori! Sei sorda oltre che stupida?!».
«No Maestà io… » Joffrey si alzò dal sedile della finestra e si parò davanti a lei strappando la corona dalle sue piccole mani. Era giovane, doveva avere solo un paio d’anni più di lui, minuta, ma graziosa. Le afferrò i folti, lunghi capelli e la strattonò. La puttana cominciò a singhiozzare spaventata. Aprì la porta e la scaraventò fuori, nuda e tremante; ser Mandon montava la guardia all’esterno dei suoi appartamenti. Rivolse i suoi occhi pallidi prima al re, poi alla ragazza, e mentre Joffrey richiudeva la porta lo sentì ordinare a una delle guardie di scortare la fanciulla fuori dalla Fortezza. Era stato brusco se ne rendeva conto, ma era giusto che fosse così. Sua madre gli aveva sempre detto che lui era destinato a governare, a comandare; ogni suo gesto, ogni sua parola non potevano essere contestati; doveva essere temuto dai nemici così come dagli amici. Lui era il re.

     “Mio dolce re” gli parve di udire la sua voce, sottile e morbida come seta. Scosse la testa, cercando di scacciare quei ricordi che continuavano ad affiorare, tormentandolo, rendendogli impossibile riposare. Ogni volta che chiudeva gli occhi lei era lì, bella come l’ultima volta che l’aveva avuta tra le braccia.

     Era da poco diventato re. La testa del traditore Stark marciva in cima alle mura del castello, e la sua stupida figlia, quella cosina inutile che sua madre continuava a insistere perché sposasse, si aggirava come un fantasma per i corridoi e i cortili della Fortezza Rossa. Una visione noiosa e quanto mai irritante. Fu proprio guardandola ciondolare che ricordò. Un’associazione assurda, contrapposta in realtà. Ricordò la ragazzina dai capelli color miele che allegra aveva percorso i medesimi corridoi, passeggiato sorridente per gli stessi cortili. Joffrey non aveva ancora compiuto dodici anni e non seppe mai esprimere ciò che aveva provato nell’osservarla.   

     E poi semplicemente scomparve. Non era venuta al Nord con il resto della corte, e quando avevano fatto ritorno seppe che suo padre, un certo ser Erec, era tornato al castello del suo lord, portandosi dietro tutto il proprio seguito, figlia compresa. Non aveva mai dato voce ai propri desideri, se non era già ardito chiamarli desideri.

     Inebriato dal quel dolce, seppur triste, ricordo, aveva deciso che non si sarebbe accontentato della sua melanconica sposa; sua madre gliel’aveva promesso: “Tu sei il re” aveva detto “Potrai avere tutto quello che vuoi”. Suo padre l’aveva fatto, poteva farlo anche lui. Era un uomo, ormai. Era il re. E gli appetiti di un re sono sempre maggiori di quelli di un uomo normale, lo dicevano tutti. Così aveva mandato il Mastino da Ditocorto con la richiesta, no, con l’ordine, di procurargli una ragazza: “Deve essere vergine” aveva precisato “Non toccherà altro uomo che me”.

     E così era stato. Due giorni dopo, rientrato nelle sue stanze dopo aver ordinato al Folletto di tenere corte per lui, una noia mortale che felicemente infliggeva al suo Primo mezzo-cavaliere, l’aveva trovata ad aspettarlo. Era seduta sul letto, il capo chino, le mani giunte in grembo; forse era a disagio, oppure aveva paura. Quando era entrato lei aveva sollevato lo sguardo. Era come la ricordava: una cascata di miele fuso incorniciava due grandi occhi castani, le guance spruzzate da una manciata di lievi lentiggini, quasi invisibili se non sapevi che c’erano; indossava un leggero abito di satin rosso, come l’ultima volta che l’aveva vista. Nell’istante in cui lo vide tutti i timori che poteva aver provato erano svaniti e al loro posto era affiorato un timido, dolcissimo, sorriso.

     Lo stesso che l’aveva accolto prima della loro ultima notte insieme. Erano a letto, abbracciati e riprendevano fiato; era l’ora prima dell’alba e la passione li aveva già travolti tre volte quella notte. Eppure anche quelle tenebre che erano sembrate senza fine stavano cedendo il passo alle luci del giorno. Non era giusto, ricordava di aver pensato, non era giusto che proprio a lui, al re, non fosse consentito di amare chi voleva amare. L’aveva stretta tra le braccia, come se solo quel gesto potesse legarla a sé per sempre. E proprio in quel momento la porta era stata aperta di colpo. Due bestie irsute avevano fatto irruzione strappandoli dall’abbraccio. Lei aveva urlato, scalciato mentre la trascinavano via, lontano da lui per sempre. Joffrey aveva provato ad opporsi, ma un terzo uomo spuntato da chissà dove l’aveva afferrato per le braccia, immobilizzandolo. Quando le urla di lei si erano perse negli ultimi stralci di tenebra era arrivato lui, il Folletto. Aveva cominciato a blaterare qualcosa a proposito di ciò che era sconveniente, del dovere e poi quella parola: puttana. Aveva continuato a rimbalzargli nella testa.

     E lo faceva ancora. Lui, il Folletto. Era stato lui a portargliela via. Gli aveva detto che l’unica fanciulla di cui avrebbe dovuto interessarsi era la sua promessa sposa; e così aveva fatto. A Sansa aveva riservato tutte le sue attenzioni: le lasciava pegni del suo amore incisi nella carne e le aveva giurato che i suoi familiari sarebbero stati presenti il giorno delle loro nozze, avrebbero assistito dalle loro picche d’onore.

     Ma ora era giunto il momento di vendicarsi. Aveva ragione sua madre: Tyrion Lannister era una bestiola maligna, invidiosa, che godeva nel distruggere la felicità altrui; l’aveva fatto dal momento stesso in cui era venuto al mondo. Ora avrebbe restituito il favore. Chiamò ser Mandon e gli diede un preciso ordine: «Durante la battaglia, uccidi il Folletto».
  
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