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Autore: yoyo_whitehole    30/07/2015    2 recensioni
«Ha tradito. Ha ucciso. Ha torturato» Kevin diede le spalle al Pacificatore ammanettato, posizionandosi tra lui e la folla. «Ma non ha tradito me. Non ha torturato me, e direi che non mi ha ancora ucciso. I suoi crimini non sono contro me.»
Kevin ruotò la pistola tra le dita, allungò il braccio. Rivolse l’impugnatura alla folla.
Si chinò quel che bastava per poggiare l’arma a terra, con delicatezza. Si spostò, di lato, un solo passo; tra la folla e il Pacificatore rimase solo la pistola.
(...)
Imhor raccolse l’arma e tolse la sicura. Fissò Kevin un’ultima volta, non con l’aria di chi cercasse una conferma, o un tacito invito: con una pistola carica nella mano e un’imperscrutabile serietà nel volto.
«Uccidilo» sibilò il Pacificatore, la voce strozzata «Non avete mai avuto speranza, Capitol City vi sterminerà dal primo all’ultimo se non finite questa follia adesso. Se lo uccidete vi perdonerà…» guardò Kevin con odio disperato «Dimenticherà… Dimenticheremo tutto…»
Il gigante spostò lo sguardo sul Pacificatore, che si azzittì. Il silenzio strisciò ancora per qualche attimo, qualche attimo ancora, poi Imhor puntò la pistola.
«Io non dimentico» disse, e premette il grilletto.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Caesar Flickerman, Presidente Snow, Sorpresa, Tributi di Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Fame

 
    

 
L'uomo è un mostro. Il peggiore che io abbia mai visto, dall'ultima volta che ho guardato nello specchio. La verità? Sto anch'io marcendo. Sono sotterrato vivo e già marcisco.
Se non fossi un tale codardo ucciderei me stesso, ma lo sono, quindi devo accontentarmi di uccidere gli altri nella speranza che un giorno, se solo riuscirò a sguazzare abbastanza a fondo nel sangue, ne uscirò fuori pulito. 
            -Joe Abercrombie, "The Heroes"      


 





«Presto, Rich!» Diamond deglutì, afferrando i polsi della sua bambina. Sun inarcò la schiena e fu allora che i suoi occhi si rovesciarono all'indietro, fissandola con il bianco della cornea. «È lei, è sempre lei», si ripeté, come ogni volta.
«Sunshine. Sun. Gehenna...» Le gambe della bambina scattarono convulsamente verso l'alto e poi persero ogni forza. Diamond sussurrò, implorante. «Resisti»
La depose a terra con delicatezza, ma Sun contorse il busto e un verso inarticolato sfuggì alla sua gola.
Il polso destro ruotò e si storse. La donna si costrinse a lasciare la presa per non farle del male. «Rich!» urlò.
«Sono qui»
Il petto di Sun si alzava a scatti feroci. Le dita della mano libera si inarcarono, artigliando il legno del pavimento. «Fra poco sarà finita. Fra poco sarà finita»
Rich si chinò su di Sun, afferrandole il viso con le mani e voltandolo verso di lui. Diamond le strinse le guance per spingerla ad aprire la bocca e aspettò che deglutisse il piccolo pezzo di carne cruda.
«Non dovremmo farlo» disse Rich. «Le farà male, dobbiamo ritentare con i farmaci. Ci deve essere un'altra soluzione»
Diamond accarezzò il dorso della mano della bambina. Un ultimo fremito la attraversò, poi Sun tornò al ritmo lieve del suo respiro. «Continueremo a cercare, ma non ce ne sono» disse. Un velo di lacrime di sollievo la costrinse a sbattere gli occhi.
Le palpebre di Gehenna furono scosse da un lieve tremito, poi, lentamente, si aprirono. Il verde dei suoi occhi non le era mai parso così bello, anche se offuscato, non del tutto cosciente.
«Passerà, mamma?»
La sua voce. Fine, limpida, appena udibile, ma dolce come un balsamo per Diamond. Alla fine di ogni attacco epilettico chiedeva rassicurazioni, inconsapevole che era sua madre ad avere bisogno di quella domanda, di quella voce, per rassicurare sé stessa. Le passò una mano sulla fronte, scostandole i capelli biondi, e sorrise. «Sì, Sun. Passerà»
E quella volta fu vero – fu l’ultima.
 
Il telecomando era poggiato sul suo palmo. Freddo. Diamond non aveva la forza di abbassare il volume, e non lo fece.
I suoi occhi attraversavano lo schermo senza vedere. Gehenna era lì, e stava guardando le forbici nella sua mano. Forbici pesate, ricurve e affilate; potevano uccidere.
«Rich, manda via i ragazzi» disse Diamond. Atona.
«Mamma» protestò Amethyst, sommessamente.
«Voi non vedrete questi Giochi» disse Diamond. Ma la sua voce aveva perso ogni severità, ogni fermezza.
Senza smettere di fissare lo schermo, vide Silver chinare il capo. «Non possiamo non farlo»
Sun si era scostata i capelli dal viso, passandosi le forbici nella mano destra. La lama luccicava.
Diamond rivide i suoi occhi, e luccicavano anch'essi, da dentro le occhiaie.
Sun aveva sempre amato i gioielli di suo padre che brillavano al sole.
 
«Sunshine!»
Diamond piombò sul corpo di sua figlia, chino sul pavimento, in mano un pezzo di carbone. Lo stesso carbone che ricopriva tutto, le punte dei suoi capelli, il legno dell'armadio, il muro bianco.
Gehenna non urlò - non l'aveva mai sentita urlare, neanche una volta, neanche da bambina - ma in uno scatto d'ira si liberò dalla presa.
Diamond gemette, sbattendo contro il piede del letto. «Sun!» gridò. Qualcosa continuava a sfregare contro il pavimento. Ricacciando indietro le lacrime, Diamond le afferrò la mano, gelida e sottile come quella di uno spettro, e le strappò via il carbone.
Gehenna non si fermò. Le sue unghie grattarono il legno, incessanti e feroci, incidendo e graffiando.
«Sun...» ripeté, in un sussurro. Gehenna si girò e nei suoi occhi verdi c'era il nulla. «È lei, è sempre lei» si disse Diamond, meccanicamente. E per la prima volta quel pensiero le trasmise un brivido di terrore.
Sopra di loro, un lepre con la gola squarciata era conficcata alle parete, trafitta da un paio di forbici. Come il libro bruciato, la bambola, il fiore secco, e il topo in decomposizione.
Diamond capì di avere paura. Paura di sua figlia.
«Mamma» disse Sun. Si guardò le unghie sporche di sangue. Tremava. «Vattene da qui»
E Diamond decise di farlo, di fuggire, di cedere. Codarda, si disse, ma non era vero. Era solo stanca, di una stanchezza abissale e disperata.
I suoi occhi si posarono sui segni incisi, sui trucioli scuri, sulla polvere di carbone.
E fu allora che capì. Non erano segni. Erano parole.
Quella stessa sera chiamò il manicomio.
 

Gehenna alzò le forbici davanti a sé e cominciò a ridere. Dapprima un gorgoglio strozzato, stridente, sabbioso, poi una risata sguaiata e affilata che trafiggeva l’aria, la infuocava come una pioggia di scintille ardenti. Diamond si rese conto di non averla mai scordata, in due anni.
Iskra significava scintilla.
Tornerà.
Non aveva mai dimenticato quelle scritte. Le uniche frasi che era riuscita a leggere, prima di scappare.
Diamond guardò i lineamenti di sua figlia, distorti in una risata atroce. Eco di migliaia di altre, di migliaia di incubi. Tornerà come il fuoco alla cenere.
Lo disse lentamente, avvinta in una calma fredda. «Sarà Gehenna a vincere gli Hunger Games»
«Perchè?» mormorò Amethyst.
«Perchè io lo so» Diamond batté le palpebre, senza espressione. «L'ho letto»
Tornerà, e sarà morte e sangue e stridore di denti.
 
Haymicht aveva preso il primo sorso, prima di allontanare la bottiglia dalle labbra. Una risata senza senso aveva riempito l'aria.
Si voltò verso lo schermo. Il tributo dell'uno aveva affondato nel suo braccio quelle che sembravano forbici, e strappava via sangue e brandelli di carne, senza smettere di ridere.
Haymicht fissò la lama che entrava e usciva dalla sua pelle. Poi l'aggeggio metallico caduto sull'erba, tra il sangue e la neve. Il localizzatore. «Ah» biascicò.
Ripose la bottiglia sul tavolo, continuando a fissare lo schermo. Dovrei smetterla di bere.
 
 
 
Non era stata Hazel a sceglierlo. Non davvero, alla fin fine.
Lei sapeva benissimo quanto fosse idiota tutto quello.
Ma la fame sorda che sentiva invadere il suo corpo e la sua mente pezzo dopo pezzo, strappandola alla ragione, non le permetteva neanche di staccare gli occhi dalla pila di zaini al centro della radura, figurarsi di scappare.
Eppure, la cosa ancora più idiota era che in tutto quello, prima ancora della voglia feroce di darsela a gambe, ad aver tentato di dissuaderla era stato quel senso di dubbio e repulsione per sé stessa. La correttezza morale di un furto? In Arena? Cosa sta succedendo nella mia testa?
Hazel avanzò. Non vedeva nessuna sentinella, e non sapeva se ciò avrebbe dovuto rassicurarla o inquietarla. Avanzò, passo dopo passo, l’erba che frusciava sotto i suoi scarponi, il respiro che le raspava in gola, il tumulto incessante nel suo petto, il frenetico bisogno di ritrovare lucidità. Calmati. Calmati o morirai.
Si bloccò e un ansito le sfuggì dalle labbra, appena udibile, ma che alle sue orecchie suonò imperdonabile. Cinque sagome scure, cinque coperte. Non c’è nessuna sentinella. Ritrovò il controllo di sé stessa, aggrappandosi a quell’unico pensiero sensato.
La pila di zaini era così vicina che, istintivamente, Hazel sollevò il braccio tremante.
Non mancava che qualche passo, quando un tonfo secco spezzò la quiete dietro di lei. Hazel voltò la testa di scatto, e i suoi occhi si scontrarono con quelli del tributo nello stesso momento in cui due braccia le cinsero il busto da dietro, immobilizzandola. Hazel urlò, a metà tra un gemito e un urlo, prima ancora di realizzare.
Era quasi ovvio, nascondere la sentinella su un albero. Chiunque l’avrebbe fatto e chiunque avrebbe potuto capirlo, se solo non stesse morendo di fame.
«Non sono armata» riuscì a dire, in un sussurro soffocato.
«Io sì» Era una voce maschile. «Quindi sta ferma»
Hazel non tentò neanche di divincolarsi. Stette ferma, respirando piano, guardando gli altri tributi alzarsi dalle coperte, sagome appena distinguibili al brillio della luna nascente.
«Ha cercato di rubarci le provviste» disse la sentinella. Hazel rabbrividì nel sentire il suo fiato sul collo.
Distolse gli occhi dai suoi assassini, mentre la sua mente correva senza sosta, alla ricerca di qualsiasi pensiero. Non sono qui. Non sono davvero qui, non sono io. Non posso essere morta… Stava cercando di ricordare. Ricordare a cosa avrebbe dovuto pensare prima di morire, una situazione qualsiasi, un paesaggio qualsiasi, un volto familiare del suo distretto. Ma un lento oblio si stava facendo strada nella sua mente, e nel buio, un’unica domanda coerente. Perché non mi ha ancora ucciso?
«Cosa, cosa dovremmo fare?» cantilenò un tributo che non conosceva. Hazel seguì i suoi occhi, e lo trovò; quasi tutte le alleanze avevano un capo. La sua vita era nelle mani di un ragazzo alto, biondo, con una lunga cicatrice che gli spaccava le labbra.
«Ronnie» Non poteva essere la sua voce. Non così calma. «Ronnie Dalton?»
Il ragazzo annuì, facendo un passo incerto verso di lei. «Hazel Tunner» rispose, e nel suo tono non c’era ostilità. Ma non serve odiare per uccidere. «Xen è con te?»
Scosse la testa, provando a immaginarsi la sensazione di una lama nel petto, il freddo, il sangue. Non ci riusciva. Non dovrei star piangendo?
«Potremmo lasciarla andare» Hazel spostò gli occhi sulla ragazza che aveva parlato.
«Ester?» quasi sussurrò. Ci aveva parlato un paio di volte, all’addestramento. Lei ricambiò lo sguardo sgomenta.
«E farla uccidere dai Favoriti o... Morire di fame?» Il tono tranquillo del ragazzo che aveva parlato per primo. «Sì, mi sembra sensato»
«Liam...» Ronnie e lui si scambiarono un’occhiata che Hazel non riuscì ad interpretare, poi il capo tornò a guardarla. Un lungo brivido le fece percepire di essere ancora viva. Il terrore tornò a pulsarle ai margini della mente, mentre realizzava la minaccia implicita in quelle parole.
«Deve unirsi»
A dirlo fu una voce decisa ma sottile, inconfondibilmente di bambina. «E’ vero, non ha senso lasciarla andare, e non possiamo darle le nostre provviste» continuò la dodicenne. Hazel sentì che la morsa della sentinella sulle sue braccia si era allentata.
Più tutta la situazione perdeva senso, più la speranza attonita e imperterrita che cercava di scacciare ne acquistava. Ma con essa accresceva la tensione, fredda e bruciante. Un attimo, e divenne insopportabile.
Vi prego, ti prego, basta. Uccidetemi. Ma Hazel non lo disse. Perché la speranza le bloccava la gola. Coerente con me stessa fino all’ultimo.
 
 
«Questa non è un’alleanza come le altre» mormorò Ronnie. Non dire che avete giurato di non ammazzare tributi indifesi. Non dirlo... «Se saremo noi a resistere fino al termine dei Giochi nessuno ucciderà nessuno. Tutta Panem sa cosa abbiamo intenzione di fare»
E non nominò neanche famiglie o rischi. Liam lo guardò con un certo stupore.
«E’ una specie di rivolta?» mormorò Hazel. Dall’espressione, non sembrava trovarla un’idea geniale. Doveva essere più intelligente di quello che sembrava. «Siete… Agitatori di masse?»
Situazione interessante. E a giudicare dal silenzio che seguì, anche Ronnie doveva rendersene conto.
Ormai glielo avevano chiesto, e se la ragazzina non avesse accettato il messaggio ne sarebbe uscito piuttosto ammaccato. Liam incrociò le gambe, appoggiando la schiena al tronco. «Una cosa del genere»
Hazel fissava alternativamente Ronnie ed Ester, ed era chiaro quello che stava pensando. C'era da vedere se aveva il fegato di dirlo ad alta voce.
«E se rifiutassi?» sussurrò.
Liam lo notò mentre Ronnie si passava le dita sul collo, forse cercando di pensare. La sua mano tremava impercettibilmente. E se rifiutassi? Metteresti davvero il tuo egoismo davanti al destino del mondo e a qualsiasi valore di fiducia, speranza e sacrificio? Certo, buon martirio. Ciao.
«C'è sempre...» Ronnie alzò appena le sopracciglia, con un lieve sorriso triste. «La prima possibilità»
Il silenzio si prolungò a lungo. Liam osservò con curiosità gli altri membri dell'alleanza. Momo aveva le sopracciglia aggrottate e un'espressione indecifrabile, Alex guardava Ronnie confuso, le mani ancora strette sulle braccia di Hazel. Neanche Ester sembrava sapere come interpretare quella frase.
Il ché significa che forse ha funzionato.
Mentre Hazel stava esaminando quella che per lei poteva benissimo essere una minaccia di morte, per il resto di Panem era solo una decisione tra l'unirsi o il seguire l'alternativa di Ester. Credessero tutti a quello cui vogliono credere.
A giudicare dal pallore terreo sul suo viso, Hazel non sembrava avere il coraggio di chiedere precisazioni.
«Va bene» la ragazza abbozzò un sorriso «Va bene. Sono con voi»
Alex lasciò la presa, e Liam lasciò che la sua mente abbandonasse quella scena. Abbassò lo sguardo, chiedendosi cosa fosse inquietudine confusa che l’aveva invaso. Ripercosse quello che era successo, e cominciò a capire. Scosse la testa, scacciando quella sensazione estranea di smarrimento, eppure non  poté impedirsi di guardare Ronnie. In quel momento stava ridendo a una qualche battuta, mentre lanciava ad Hazel uno zaino. Pensavo esistessero due sole categorie di idealista.
Ronnie incrociò i suoi occhi e si avvicinò. Liam pensò che volesse offrirgli qualcosa da mangiare, invece si sedette accanto a lui.
«Non si fiderà mai, non dopo oggi» sussurrò, il tono abbastanza basso da sfuggire alle telecamere, soffocato dal vociare di Ester.
«Beh, non che ci fosse un’alternativa migliore» rispose Liam. Ronnie si limitò a un lieve sospiro.
«Stavi cercando di farlo anche tu?»
 Liam scrollò le spalle. «Doveva sentirsi o molto affamata o molto minacciata per unirsi. Tanto avrà l’opportunità più avanti per scegliere davvero»
Ronnie tacque. Liam inclinò la testa, gettandogli un’occhiata a metà tra curiosità e perplessità. «Non dirmi che ti stai sentendo in colpa»
Dopo un istante, lui scosse la testa. «No, non proprio, solo… Fino a ieri non mi credevo capace di una cosa simile»
«Neanche dopo aver ucciso un Favorito?»
Ronnie ebbe un lieve sussulto. «Già» Nella sua voce c’era un fremito impercettibile. «Magari è difficile cambiare opinione su di sé dopo sedici anni»
Liam si voltò verso di lui e per un attimo i ricordi lo investirono, togliendogli il fiato. «Non farlo» disse lentamente. «Non smettere di fidarti di te stesso, perché è il primo passo verso il fondo» indicò Hazel con un cenno. «Le hai allungato la vita. Magari ti puoi perdonare per aver accorciato quella di un altro»
«Tu l’hai fatto?»
Liam non immaginava neanche che Ronnie avesse potuto vedere chi era stato a dare il colpo di grazia. «Se lo sognassi di notte» mormorò prima di rendersene conto «Sarebbe un miglioramento rispetto alla media dei miei incubi»
Ronnie tacque un momento. «Sogni l'Arena?»
«Mio fratello» Trattenne un mezzo sospiro, sentendosi di colpo mortalmente stanco.
«Come si chiamava?» mormorò Ronnie, ma sembrò pentirsene quando il silenzio si prolungò. «Scusami, al tuo posto neanch'io vorrei parlar-»
«Si chiamava Geremy ed era un egoista, un bastardo e un idiota» lo interruppe Liam, pacatamente. «Ha speso tutti i soldi di famiglia in alcol e gioco, mentre io spendevo le mie notti a riguadagnarli e a trascinarlo fuori dalle bettole perché i nostri genitori non lo scoprissero. Io lo detestavo e lui detestava me, eppure restavamo fratelli, o almeno… Almeno così volevo sperare»
Lasciò che un sorriso triste gli affiorasse sul volto. Perché mi piace così tanto parlare senza motivo?
«Io speravo il contrario» Ronnie lo sussurrò. «Con mio padre»
Non si aspettava una replica. Liam lo guardò, e c’era un turbamento più profondo del dolore nel viso di Ronnie. «Vi odiavate?»
«E’ stato lui a sponsorizzarci. Non poteva essere nessun altro, e lui è ricco, molto ricco. Mi ha salvato la vita e io l’ho praticamente assassinato il giorno successivo»
Si alzò di scatto, forse per non dargli il tempo di assorbire quelle parole, forse perché neanche lui voleva farlo. «Avranno tolto le telecamere di mezzo. Bisogna parlare con Hazel»
«Ronnie» lo fermò Liam «Sei la persona più incredibile che abbia mai conosciuto»
 Quando non pensava, quando non voleva controllarsi, ogni cosa che diceva era fine a sé stessa. Liam si accorse che riusciva ad essere sincero su sé stesso solo quando nessuno avrebbe mai potuto capire. Chi sono diventato, ormai?
«Prima o poi riuscirò ad avere una conversazione normale con te» mormorò Ronnie. Gli porse una fetta di pane e Liam la afferrò. Casualmente, e per un attimo solo, le loro dita si toccarono.
 
Sollevò la mano davanti a sé, con lentezza. Il suo respiro tremava, le sue dita tremavano, un fremito freddo che si irradiava dalle braccia a tutto sé stesso, stordendolo, raggelandolo, lacerandolo.
Liam chiuse gli occhi. Chiuse gli occhi, ma restò il calore sul suo palmo, viscido, malsano.
Chiuse gli occhi, ma restò vivido e feroce dietro le palpebre il colore del sangue.
 
Percepì una scossa attraversargli l’avambraccio, una stilettata di panico confondere la realtà. Riaprì gli occhi e si accorse di aver ritirato la mano di scatto. La guardò un istante ancora, cercando di regolarizzare il ritmo del respiro, poi incrociò lo sguardo di Ronnie. «Ma…»
Liam raccolse il pane e scosse la testa. «Scusa, alcune volte mi capita»
Non alcune volte. Con alcune persone. Ronnie esitò. «Liam, va tutto bene?»
«No, affatto» replicò all’istante. «Vai, non sprecare tempo. Nessuno sa quanto ce ne rimane»
Vattene. Mentre Ronnie si allontanava, appoggiò la testa al tronco e lasciò che il dolore si tramutasse in amarezza e poi svanisse, come sempre. Eppure lo sentì, per un attimo soltanto, il desiderio di trattenerlo. Abbandonarcisi, e provare a tornare sé stesso almeno un’ultima volta.
 
 
Ronnie non aveva mai sperimentato la sensazione di non sostenere lo sguardo di qualcuno, e avrebbe preferito non farlo mai. Ogni volta che incrociava gli occhi di Hazel un gelo viscido gli scivolava lungo il collo unendosi al mal di testa.
Per l'ennesima volta, distolse i suoi. «Ester?» chiamò. Doveva solo pregare che nessuno schermo li stesse riprendendo, in quel momento, mentre la portava in disparte – tanto gli strateghi non avevano interesse a render pubblica quella conversazione.
«Parla con Hazel, per favore, e spiegale il resto del piano. Se non sbaglio aveva una famiglia»
Ester aggrottò appena le sopracciglia, pensierosa. «Dovresti farlo tu»
«Dovrei. Ma di tutti noi sei tu quella di cui si fida di più.» e io quello di cui si fida di meno.
«Ronnie» disse Ester. «Che cosa hai fatto?»
Non c'era tono d'accusa, nella sua voce. Ma la stessa paura irrazionale di prima lo fece esitare.
«Non lo so. Ho agito d'istinto e il risultato è stato un'idiozia, probabilmente, ma ha funzionato»
La sua mano destra si posò sulla tempia, mentre realizzava cosa aveva appena detto. Il mio istinto non sarebbe mai stato minacciare di morte, prima di entrare qui dentro.
Ester lo fissò, senza biasimo. Solo incredulità. «Non penso che ci tradirà» mormorò alla fine.
«Starà pensando di scappare uno di questi giorni. Per questo deve sapere subito che c'è una possibilità – e che non l’avremmo uccisa in nessun caso»
«Sì, glielo dirò» accennò un sorriso. «Una volta saputo tutto vorrà accettare»
«Oh, nel caso non volesse» aggiunse Ronnie «Avvisala che ho intenzione di dormire durante il mio turno di guardia»
Il sorriso di Ester si ampliò, divenne una mezza risata. «E non ti senti in colpa?»
Il ricordo della conversazione precedente tornò, impedendogli di rispondere a tono. «Mi porto dietro Liam e vado a caccia» decise in quel momento «O il prossimo tributo che cercherà di derubarci non troverà niente»
«Sarebbe scortese» concordò Ester, ma il sorriso le scivolò via dal volto quando lui si chinò per prendere l’arco.
«C'è un'altra questione di cui ti volevo parlare. Hai presente quella cosa chiamata coesione di gruppo? Fiducia, amicizia, equilibrio, rispetto e cose così.» Ronnie sorrise, gettandosi la faretra sulle spalle. «Essenziale, no? Devo lavorarci ancora un po'. Per esempio, cosa dovrei fare se un membro è convinto di avermi piantato una freccia nel fianco e ogni volta che mi fa male mi guarda... Come mi stai guardando tu adesso?»
Ester schiuse la bocca, sorpresa, ma riuscì solo a fare un passo indietro. E Ronnie coprì di nuovo quella distanza, spietatamente. «Non lo sopporterò ancora a lungo, Ester. Facciamo un patto? Se tu non…»
«Eri morto!» sibilò lei, nello sforzo di non alzare la voce. «Capisci cosa vuol dire? Ho messo in pericolo tutta l'alleanza perché mi sono comportata da stupida, e ho discusso una tua decisione. E poi quello… E poi quello che ho detto non aveva senso, risparmiarlo sarebbe stato come rimandare la sua morte o come uccidere qualcun altro al posto, se avesse vin...»
Ronnie la fermò con un gesto della mano. «Non è colpa tua se sei migliore di tutti noi»
«Era l'unica cosa sensata da fare» mormorò Ester, con un filo di voce.
«Certo che era l'unica cosa sensata da fare» Ronnie sbuffò amaramente, senza smettere di sorridere. «Ma nessuna persona decente sarebbe riuscita a farla. Non sarebbe riuscita a non esitare. Non sarebbe riuscita a capirlo»
«Io...» Ester sbatté le palpebre, gli occhi lucidi, e non continuò.
Così lo disse. Piano, per attenuare il dolore. «Tu sei sprecata per questo mondo»*
Senza aggiungere altro, Ronnie si allontanò, le dita contratte intorno all'arco.
 
 
 
Cambiare zona di caccia. Quando Scarlett l'aveva proposto, non era ben chiaro se si riferisse alle provviste o ai tributi, ma a Samuel non interessava più di tanto. Qualche tributo in meno in arena avrebbe migliorato il suo umore quanto qualcosa in più nello stomaco.
«Per essere grossi, sono grossi» disse Stephen.
Samuel arcuò le sopracciglia, osservando uno degli ibridi che costeggiava il canale. «Quasi preferivo i camaleonti»
Era qualcosa di molto simile a un dinosauro, con zampe corte e massicce, il muso a scaglie allungato e due piccoli occhi scuri incastrati ai lati. Stava brucando l'erba rada a qualche metro dal canale, dove la coda corazzata di un altro, lunga ed elegante, solcava la lava. Non avevano un'aria chissà quanto pericolosa, ma erano ovunque, macchie nere che spiccavano nel verde e nel bianco. E più ci si avvicinava al canale, più se ne incontravano.
«È come se li avessero messi di guardia a qualcosa» disse Scarlett.
«A una distesa di terra bruciata, lava e desolazione» Stephen sospirò. «Ottima zona di caccia, Scarlett»
«Beh, io vedo prede ovunque» replicò lei, atona.
«C'è una buona possibilità che siano illusioni» rifletté Samuel. «Una ottima possibilità che non siano commestibili. E una discreta possibilità che ci uccidano tutti»
Alzò un angolo della bocca. «Scarlett, perché non gli tiri una freccia?»
Stephen si riscosse un'istante troppo tardi, staccando gli occhi dall'ibrido a lui. «Aspetta, cos'hai detto?»
La freccia saettò nell'aria, scendendo con un’elegante traiettoria a parabola, prima di abbattersi sul collo del mostro. Cadde a terra rimbalzando sulla corazza, e il Guardiano sollevò il muso da terra, voltandolo verso di loro.
«Niente» rispose Samuel, portando una mano sulla spalla. Sfoderò la falce.
«La morte più stupida in cinquantuno edizioni» mormorò Stephen.
«Quella è una possibilità»
«E l'altra?»
«La vittoria più gloriosa» rispose Scarlett.
«Speravo quasi che fosse fuggire» Stephen trasse un respiro profondo. «Okay, prima di tutto lasciamoci seguire più lontano. Qui ce ne sono troppi»
L'ibrido aveva cominciato a caricare verso di loro. Non era troppo veloce, forse meno di un Favorito in corsa, ma aveva un'aria ben più minacciosa di prima. Le sue zampe si abbattevano sul terreno come massi, sollevando ali di polvere.
Samuel cominciò a indietreggiare senza voltare le spalle al mostro, ma quest'ultimo frenò la carica nello stesso momento. Le scaglie sul suo corpo si rizzarono, disponendosi a corona intorno alla testa. Un ruggito penetrante e prolungato scosse l'aria.
Adesso, sì, sembrava minaccioso.
«Le placche della corazza sono abbassate sulla pelle se non è sotto attacco, quando nuota, per difenderlo dalla lava» rilevò Stephen, in fretta. «Magari negli interstizi tra le scaglie è vulnerabile»
«Non sembra voglia seguirci» disse Samuel.
L'ibrido si era fermato a una quarantina di metri di distanza da loro, continuando a fissarli, con le fauci aperte.
«È un guardiano, no?» mormorò Scarlett.
«E sia, ci toccherà combattere vicino al canale» Stephen continuava a non sembrare entusiasta dell'idea, ma ormai era troppo tardi. I Favoriti non potevano tirarsi indietro davanti agli sponsor.
«Bene» continuò Stephen «Qualcuno deve distrarlo, fare da esca. Mentre gli altri due lo attaccano dai lati dove vi ho detto»
«Ah-ha» disse Samuel. “Chi sarebbe l'esca?»
«Qualcuno che non abbia armi utili. Come un arco e...»
Scarlett sbuffò. «Gli artigli li tengo, non danno fastidio. Ma datemi quella spadina»
«Kopis» corresse Samuel «Si chiama Kopis»
Stephen guardò l'ibrido in lontananza con un lieve sospiro. «Se mi farò mangiare... Sentitevi in colpa»
 
 
Le onde sfioravano la sabbia con uno sciabordio lento, delicato, dolce e freddo.
Un torpore strano partiva dal dolore sordo alla bocca dello stomaco, irradiandosi vero la gola bruciante per l'arsura, raggiungendo il morso delle ustioni che gli divorava la gamba. Il dolore c'era, ma era lui ad essere altrove.
Non voleva aprire gli occhi. La nebbia che lo avvolgeva era tiepida. Percepì il calore della sabbia sotto di lui.
Non era un brutto posto dove morire.
Bastava aspettare, con solo l'inarrestabile canto del mare ad ancorarlo alla realtà.
Fino a quel momento era sopravvissuto per paura. Paura di morire.
Sdraiato su quella spiaggia, Xen non aveva paura.
Fino a quel momento, era sopravvissuto per dovere. Un ordine cui era troppo debole per sottrarsi.
Xen non aveva paura.
Le onde si susseguivano imperturbabili.
Aprì gli occhi e il dolore gli assalì la mente. Rabbrividì, sentendo la carezza gelida dell'acqua lambirgli la caviglia ustionata.
Davanti a lui, la sabbia era scura. Poteva vedere uno spicchio di cielo, dietro il telo di un paracadute argentato che si gonfiava nel vento.
Xen ricordò la sua casa, il suo distretto, il topo e il gatto a cui dava da mangiare. E si rese conto che adesso erano quelli i ricordi intrisi di irrealtà, non l'Arena, non il mare, non il rosso della lava.
Capì che se si fosse rialzato, non sarebbe stato più il bambino che aveva terrore dei fulmini. Se si fosse rialzato, non sarebbe stato per nascondersi.
Non avere paura significa poter scegliere.
Xen socchiuse gli occhi. Stava per chiuderli di nuovo, invece si limitò a sbattere le palpebre.
Se si fosse rialzato, non sarebbe stato per sopravvivere.
Stese il braccio, artigliando la sabbia ruvida, e non gemette quando le gambe gli mandarono una fitta di dolore.
Sarebbe stato per vincere.
Xen fece leva sui gomiti, si tirò su.
 
 
L'ibrido indietreggiava.
Con la bocca sempre aperta, le piastre quasi del tutto abbassate, nero contro il sole, l'ibrido indietreggiava.
Scarlett continuò ad avanzare, chiedendosi solo per un attimo cosa l'avesse spinta a lanciare quella freccia. Dopotutto, era per quello che si era offerta. Per vincere, certo, ma prima di tutto per combattere.
Ma quella logica sembrava avere molta poca importanza, mentre fissava l'ibrido che arretrava lentamente e il brutto presentimento che sentiva aumentava passo dopo passo.
«Sta scappando?» mormorò, stringendo inquieta la presa sul kopis.
«Nessun ibrido è programmato per scappare» sbuffò Stephen «Suppongo sia più intelligente di...» Si bloccò. «Non sentite qualcosa di strano?»
«Sentire cosa?» chiese Samuel.
Scarlett tossì e si scostò un ciuffo di capelli che il vento le aveva trascinato sul volto, poi sgranò gli occhi.
L'ibrido aveva smesso di indietreggiare. Chinò la testa, e il lunghissimo corno nero si abbassò contro di loro. Ruggì di nuovo, un verso più forte e basso del primo, e le scaglie si rizzarono intorno al suo collo in un'esplosione di acciaio nero.
Poi si chiusero di scatto, e cominciò a caricare.
«Okay» disse Stephen, senza arretrare «Sì. Samuel, vai a sinistra, io a destra. Scarlett, non... Farti ammazzare»
Scarlett fissò la punta del corno che si avvicinava istante dopo istante, fece un mezzo passo indietro e buttò fuori l'aria dai polmoni.
L'ibrido lanciò un secondo ruggito, sollevando appena le scaglie, e Scarlett poté guardarlo negli occhi. Scuri, opachi, inespressivi, terribilmente vicini.
«Ora!» fece Stephen. I due Favoriti scattarono ai suoi lati, e in un attimo Scarlett fu sola di fronte al mostro, la terra che vibrava per l'impeto della carica.
Scivolò di lato a un soffio dal farsi trafiggere. L'ibrido frenò con un ringhio gutturale, riabbassò le scaglie e Scarlett si preparò al secondo attacco.
Invece, l'enorme muso dell'ibrido si diresse verso Stephen. Un tridente era affondato nel suo fianco.
«Guardami in faccia, bastardo!» Scarlett gli sferrò un colpo secco con il kopis sul collo.
Rimbalzò inutilmente sulle piastre della corazza, e una stilettata di dolore le risalì il braccio; scattò all’indietro incespicando e le zanne del mostro si chiusero schioccando a una spanna da lei. Indietreggiò. Il corno si drizzò verso il suo viso, gli occhi neri si piantarono nei suoi.
Scarlett abbassò la spada, l'impugnatura viscida dal sudore, e continuò ad arretrare. Alza quelle piastre, alza quelle piastre... Le zampe del mostro avanzarono lente nella sua direzione, il muso si tese verso di lei, e Scarlett ne fu certa. Sarebbe stata la sua prima preda.
Nello stesso istante in cui le scaglie scattarono in alto, lo stesso in cui il corno si abbassò pronto alla carica, un soffio di vento le inondò le narici di un odore pungente, inconfondibile. “Non sentite qualcosa di strano?”
Il suo sguardo saettò sul canale di lava alla sua destra, un'ondata di spaventosa consapevolezza le mozzò il respiro.
-Via da qui!- gridò Stephen. Ma l'aria divampò, e le sue parole furono divorate dal boato del fuoco.
 

Xen bevve l’ultimo sorso dalla borraccia, poi se la gettò alle spalle. Non aveva più una cintura, e in ogni caso non poteva permettersi altro peso.
Sapeva che difficilmente il suo Distretto avrebbe mai sponsorizzato un dodicenne senza possibilità, perciò doveva essere stato un capitolino impietosito. Forse qualche giorno prima avrebbe ringraziato quello sponsor insperato, ma ora seppe di odiarlo più degli altri. Tutti loro l’avevano portato dov’era, e aiutarlo era solo un’orribile beffa, una macabra derisione.
Scavalcò un tronco spezzato, carbonizzato per metà. Non sapeva con quale forza riuscisse ad andare avanti, ma lo stava facendo, con la fame che gli squarciava la mente. Era diversa da quella cui era abituato, lieve, incostante e sopportabile: quella era una fame dura e atroce che gli attanagliava il ventre come pugnalate ininterrotte.
Se si fosse fermato, non sapeva se sarebbe riuscito a continuare la marcia. Se avesse continuato la marcia, le gambe avrebbero ceduto presto. Se le gambe avessero ceduto, sarebbe morto nello stesso punto dove sarebbe caduto.
Sollevò gli occhi all’orizzonte. Il bosco, oltre la curva scintillante del canale di lava, era ancora lontano. C’erano quattro ibridi a intervalli regolari, quegli ibridi mastodontici e tutto sommato miti, ma troppo vicini tra loro perché potesse passarci in mezzo senza essere caricato.
Doveva mangiare, e in fretta, ma per mangiare doveva attraversare. Xen lasciò vagare i suoi occhi e si sforzò di pensare.
Gli ibridi attaccavano se ci si avvicinava al canale, l’aveva imparato a sue spese, ma non si allontanavano mai molto da esso. Poteva spingere quello più a destra a caricare verso di lui e trascinarlo lungo la striscia di lava, lontano dagli altri, per poi correre di nuovo in quella foresta bruciata e attraversare. Il Guardiano non l’avrebbe inseguito per molta strada; doveva solo essere più veloce di lui nel primo tratto.
Alla fine, Xen si fermò. Non gli ci volle molto per capire che quella era l’unica alternativa sensata che gli rimaneva. Quella, o morire di fame.
Si fermò perché se davvero in lui c’erano abbastanza energie per due corse e un salto – da un lato
all’altro del canale – ne avrebbe avuto bisogno fino all’ultima stilla.
Si forzò a respirare lentamente, e chiuse gli occhi. Interrogò il proprio corpo, e si rese conto che la fatica si era dissolta, lasciando solo uno strano formicolio e una percezione calda e pulsante.
Sapeva il perché. Quando non ha alcuna speranza di sopravvivenza, il corpo annienta il dolore, smette di forzare la mente al risparmio, e concentra ogni forza per l’ultimo atto. Quello era l’ultimo atto.
Ho tutto me stesso per portarlo a termine.
Non sarebbe morto di fame.
 
 
Era un sibilare sordo, un ronzio continuo, che echeggiava e si disperdeva nell'aria inghiottendo qualsiasi altro suono, qualsiasi altra cosa.
Oltre il sibilo, oltre il drappo infuocato del bagliore che riempiva il mondo, bianco e oro, oro e bianco, nebbie di realtà oscillavano e si confondevano come la fiamma incerta di una candela.
Due mani, le dita affondate nell'erba e affilate, deboli lingue di fuoco che danzavano tra i fili verdi, a squarciare la cortina della luce con la luce.
Le sue mani. Samuel lo capì.
L'aria che gli entrò nei polmoni era fumo, gas e sibilo.
Quando si rialzò, il vortice dei colori si oscurò e poi tornò a cangiare, ma lentamente, una lentezza ipnotica, incessante danza tra cielo, erba, fuoco e pilastri di fumo che lambivano i contorni di ogni cosa. Il mondo che scorreva piano nel sibilo, uno scorrere fluido e incerto, come un respiro morente.
Accanto a Scarlett che si contorceva a terra in un bozzolo di fiamme, Samuel vide la falce e si chinò su di essa. Sentiva l'elsa bruciare come un cristallo di fuoco tra le sue dita, e allo stesso tempo non sentiva niente.
L'ibrido davanti a lui sfumò in una macchia nera, sbandò, tornò al suo posto.
Samuel alzò la falce e l'urlo echeggiò nell'aria senza spezzare il sibilo, mentre l'orizzonte oscillava, cielo e terra, cielo e terra.
Forse era il suo, di urlo. Forse no. Samuel non sapeva che importanza potesse avere.
La lama guizzò con lentezza irreale tra le piastre, facendo leva per incastrarsi più a fondo. Le scaglie si sollevarono del tutto e un ruggito scosse l'aria - ma quella volta, Samuel ne era certo, non era stato lui. Il sibilo fremette e si incrinò, poi riprese, meno forte, cominciando a scemare.
Divelse la falce. Le piastre ora erano completamente sollevate, e il sangue brillava, sbiadiva e poi brillava di nuovo.
Samuel piantò il piede su una scaglia, fece forza e si tirò su. L'orizzonte oscillò verso di lui, poi tornò piatto, quietamente, senza vertigini.
Sulla groppa del mostro, vide Stephen che cercava di rialzarsi - nessuna fiamma, lui, ombra avvolta dalle lame di luce che si sprigionavano da ogni cosa - e lo fissava con gli occhi sgranati.
Posizionò la punta della falce verso il basso, le dita di entrambe le sue mani si avvolsero attorno all'elsa incandescente. L'ibrido si mosse in avanti verso Stephen, lanciò un altro ruggito - l'ultimo. Avrebbe dovuto essere un ruggito feroce, agonizzante ma feroce, un boato da far tremare l'aria, che le imprimesse il marchio indelebile della morte. L'ultimo ruggito, che echeggiava nel silenzio, padrone di tutto, almeno per un istante.
Invece, Samuel urlò più forte.
Un attimo prima di affondare, si vide riflesso nella lama, un bagliore tenue, opaco. Sul suo petto, a lambirgli la tuta, guizzavano piccole luminescenti lingue di fuoco. Ne sentì lo sfrigolio contro la pelle - e sì, realizzò, faceva caldo.
Poi la falce calò, in un'esplosione di sangue bollente da sotto i suoi piedi, e calò ancora, più a fondo, sempre più a fondo.
Il mostro si accasciò al suolo.
Il sibilo si spense.
 
 
L’ibrido era morto. Morto non rendeva l’idea.
L’ibrido era stecchito, stramazzato a terra in mezzo a un terreno di ceneri ed erba carbonizzata. Xen aveva sentito l’esplosione mentre correva per allontanarne uno, e tornato lì ne aveva trovato un altro – quello più vicino, quello che ora aveva lasciato il passaggio libero – in un piccolo scenario infernale di fumo e sangue. Il gas era ancora nell’aria; venuto a contatto con la lava, doveva esser stato la causa di tutto.
Xen non riuscì comunque a non fissare l’ibrido allibito, con ancora il cuore che gli martellava le tempie a ritmo forsennato e la vita che gli fuggiva via ad ogni battito.
Qualunque possibile colpo di cannone sarebbe stato coperto dal boato. Il tributo che l’ibrido aveva preso d’assalto – sempre che non fosse stato un qualche incidente - era probabilmente morto. Non può che essere morto.
Nell’aria c’era odore di carne bruciata. Arrivava persino a lui, trasportato nel vento, trasportando nel vento ricordi di una vita prima. Un arrosto di vitello, un’unica sera, dopo la vittoria del Distretto 6 e gli aumenti degli stipendi. L’illusione che, forse, qualcosa da sperare sarebbe sempre rimasto. Qualcosa per essere felici.
Insopportabile. Invincibile.
Xen corse verso l’animale, poi smise di correre e cominciò ad arrancare. L’odore cominciò a portarsi dietro calore, un calore che non era quello feroce delle ustioni che gli ardevano sulla gamba destra né quello spietato di una foresta in fiamme. Il tepore semplice e fermo di un fuoco nel camino, del braccio di sua madre che gli cingeva le spalle.
Di nuovo l’irrealtà seguì quei pensieri e confuse il suo mondo. Come se la sua vita fosse diventata prima un ricordo e poi un sogno, e come un sogno arsa in cenere.
Se non avesse bevuto l’acqua della borraccia, forse gli occhi non gli si sarebbero mai riempiti di lacrime di speranza, forse sarebbe sopravvissuto. Perché forse avrebbe potuto distinguere il movimento, vedere la testa del Favorito alzarsi da dietro la carcassa prima che il Favorito vedesse lui. Forse.
Il Favorito vide e sul suo volto passò lo stupore.
Anche Xen vide. Avrebbe potuto, avrebbe dovuto capirlo, che sarebbe stato meglio aspettare l’Hovercraft per avere la certezza che non ci fosse nessuno vivo.
Forse aveva capito; ma la certezza è duro acciaio. La fame era da sempre più forte  – persino la fame di una speranza bruciata, persino quella della sua memoria.
«Oh, ma dai» imprecò piano il Favorito. E sollevò il tridente.
Xen si asciugò le lacrime con la manica. Tutto divenne più chiaro.
Non sarebbe morto di fame. 




* "Tu sei sprecato per questo mondo", lo dice Honoré a Ronnie nel flashback nel capitolo L'unica verità. (Tratto dalla scheda della creatrice, tra l'altro)







N.d.A_________________________________________

Scaletta dei morti:
Xen Miranx, Distretto 6
 
Scaletta dei malati, feriti, bisognosi, morti di fame, senza tetto etc
Scarlett Jackson, Distretto 2
Samuel Narper, Distretto 2

Buonsalve, lettori, sono contenta che qualcuno di voi sia rimasto a leggere queste note. Ho parecchie cose da dire e cercherò di riassumere, per vedere se le mie capacità riassuntive in quest'annetto sono migliorate o no.

a) Sì, ho ripreso la storia, perché ormai mi ci sono affezionata e non me ne libererò molto facilmente - in più, non sono neanche in alto mare. Quanti capitoli possono mancare? Sparando un numero a caso, direi sette.
b) Mi dispiace per aver reso vana la sponsorizzazione di Xen, ma era così nei guai da aver bisogno di un altro lancio di monetina riuscito per farcela - dopotutto, visto che i Favoriti stavano scendendo un canale e lui ne stava risalendo uno, era probabile che si trattasse dello stesso. Ringrazio comunque Claireroxy che mi ha permesso di farlo morire in modo più bello e più triste. Mi mancherà il piccolo Xen.
Visto che non so se si capisce tutto, spiego: gli ibridi non sono soltanto sul "cerchio" di lava che deve oltrepassare per arrivare al bosco non bruciato e mangiare, ma anche intorno ai raggi di canali che vanno dal cratere al mare - è lì che ha già "imparato a sue spese" il loro comportamento durante la marcia. Oh, e gli ibridi emettono gas dalla bocca; appena la nube raggiunge il canale kaboom.
Infine, Xen non vede i Favoriti in tempo perché Stephen ha trascinato gli altri due praticamente inconscienti accanto all'ibrido, per nasconderli almeno in parte finché non si fossero ripresi. E Xen è capitato dal lato sbagliato.
c) Scarlett e Samuel sono andati a fuoco, ya, ma non sono morti, hanno solo un po' - un po' tante - ustioni gravi e un aspetto alquanto terrificante.
d) Mi rendo conto che il dialogo di Ronnie e Liam è pesante, ma non avevo scelta. Tutto quello che si dicono era essenziale e se non così avrei dovuto parlarne in parecchi pov. Oh, e se non avete capito un accidenti di cosa sta succedendo nella testa di Liam ne avete tutte le ragioni - non ho ancora scritto la sua visione del mondo, che è frutto di una riflessione lunga e complessa, e che Ronnie gli ha praticamente sfracellato con una sola frase.
e) Volevo inserire qualcosa del passato di Gehenna, perché tutti quei dettagli della scheda sono squisitamente inquietanti e non volevo buttarli via. E se si è tolta il localizzatore vuol dire che non la vedrete più sulla mappetta u.u che cosa malvagia.
f) Il prossimo capitolo sarà corto (stavolta davvero), a cinque pov non ci arrivo. Ma sarà abbastanza esaltante da scrivere, succederanno un paio di belle cose (beh, dipende dai punti di vista u.u)
Nel frattempo, ciaociao. *Fa ciaociao con la manina*



 
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