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Autore: Castiga Akirashi    31/07/2015    2 recensioni
- ATTENZIONE: questa storia è il seguito di Black Hole. Se non avete l'avete letta, la comprensione potrebbe risultare difficile. -
Due anime gemelle sono due metà che si compongono.
Una non può vivere senza l'altra.
Raphael ha perso la sua e, ora, la sua unica gioia è Lily.
Ma capirà presto che non è mai troppo tardi per essere felici...
Questa storia è un po' diversa dalle altre sui Pokémon... diciamo che ci sono lotte, ci sono Pokémon ma c'è anche altro. Ho cercato di inserire il più possibile inerente all'argomento.
Buona lettura!
Genere: Fantasy, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lance, N, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Salve, amici!
Benritrovati per il seguito di Black Hole. Alla fine di quest'ultimo vi ho fatto piangere (spero) e disperare ma spero che vogliate leggere comunque il sequel. Non vorrete abbandonare il povero Raphael al suo destino, vero? :)
Non mi dilungo ulteriormente e vi auguro buona lettura!
Solo un ultimo appunto... la storia è particolare. C'entra poco con quel che riguarda le palestre e quelle cose lì. Diciamo che è nella sezione Pokémon perché comunque i personaggi sono quelli, però non aspettatevi un'altra caccia alle palestre, ecco.
Spero che potrà piacere comunque... altrimenti, perdonatemi se vi ho deluso! ^^"


-

Raphael, Belle e Cheren si trasferirono a Kanto con la piccola Lilith, di soli sei mesi.
Il ragazzo era ancora distrutto dal dolore, dopo ciò che era successo, nonostante fosse passato del tempo. Non riusciva nemmeno a sorridere, se non per la smorfia che si costringeva a fare per la figlia.
Presero un appartamento a Zafferanopoli, ma Raphael evitava di incrociare i suoi genitori. Aveva scoperto di essere stato diseredato appena scappato con la sua ragazza dalla loro casa tempo prima; il colpo era stato tremendo, soprattutto perché aveva macchinato di andare a prendersi i suoi soldi e sopravvivere con la sua piccola bambina per almeno qualche mese. Grazie all'aiuto degli amici, riuscì comunque a trovare un tetto e un sostentamento per la figlia. Ma i sacrifici erano molti, per tutti e tre.
«Raphael, andiamo a fare un giro?» gli chiese Belle, tempo dopo: «Lily dovrebbe prendere un po’ d’aria.»
«Andiamo verso Plumbeopoli.» rispose lui, annuendo: «Devo andare da una persona.»
«Chi?»
«Si chiama Padre Lorenzo. Lo conosco e vorrei che fosse lui a battezzare… nostra figlia.»
I due amici assentirono e presero le giacche. Faceva fresco in quel periodo. Raphael cambiò la piccola e le mise la tutina pesante, per evitare che prendesse freddo. Cheren gli portò la carrozzina, rosa e bianca, e il ragazzo mise giù la figlia, coprendola con una copertina di lana. Belle gli passò la giacca e lui la mise sopra la felpa verde e i pantaloni da ginnastica. Athena aveva sempre adorato il verde, diceva che gli stava bene, che si intonava ai suoi occhi. E lui aveva sempre cercato di vestirsi di quel colore. Uscì di casa per ultimo e chiuse la porta a due mandate. Mise le chiavi in tasca e partirono. In volo con i loro Pokémon avrebbero fatto prima, ma il ragazzo non voleva che la figlia stesse male, prendesse freddo o chissà che altro. Così andarono a piedi verso Plumbeopoli, la città di pietra alle pendici del Monteluna, a nord di Kanto.
«Lasciatemi andare da solo, per favore.» chiese il ragazzo agli amici, una volta che furono entrati in città dal sentiero che attraversava il Monteluna e che congiungeva la città a Celestopoli: «Voglio dirglielo… in privato.»
«Tranquillo, Raph.» gli rispose Cheren, annuendo.
Lui li guardò un momento, prendendo il coraggio necessario, poi si voltò ed entrò nella chiesa con la carrozzina, passando dallo scivolo vicino alle scale e varcando l'enorme portone d'ingresso.
«Cheren… non si può andare avanti così.» mormorò Belle, posandosi all'amato: «Tra la prof e Raphael… anche noi stiamo male, ma quei due sono in una depressione dilagante.»
«Lo so, Belle. Ma le abbiamo tentate tutte. Dovranno trovare la forza dentro di loro.» rispose lui, stringendola a sé: «Come abbiamo fatto noi due.»
Raphael, nel frattempo, stava attraversando il corridoio tra le navate. La chiesa era bella grande per essere di un paesino non molto abitato come Plumbeopoli. Gli affreschi rivestivano tutte le pareti e l'abside in fondo alla navata centrale spiccava per le bellissime decorazioni.
Il ragazzo si mise in un angolo, nella navata laterale di destra, per poter avere la carrozzina vicino. Lily piangeva, contagiata dalla tristezza del padre. Lui mise una mano nella carrozzina, accarezzandola e sussurrando: «Ehi, ehi… piccola, non piangere. C’è qui il tuo papà…»
Lei gli prese il dito con le mani, ridendo con le lacrime agli occhi. Lui le sorrise e le fece il solletico facendole passare quella tristezza che non era sua.
«Giovanotto… ci rivediamo.» disse una voce.
Lui alzò lo sguardo e vide il sacerdote uscire da una porta che probabilmente conduceva alla sagrestia e venirgli incontro, ma il suo cammino era bloccato dall'ingombrante carrozzina.
«Oh, salve… si ricorda di me?» chiese lui.
«Ma certo. È successo qualcosa vero? Te lo si legge in faccia…» rispose padre Lorenzo, fermandosi davanti alla carrozzina e fissandolo preoccupato.
«Beh, sì… ecco io… insomma…» farfugliò lui. Non sapeva come dirlo. Nemmeno se sarebbe riuscito a dirlo. Da quando era successo, non aveva mai pronunciato quella parola. Quella frase. Nemmeno il suo nome.
Lily fece un urletto, irritata dal fatto che il padre avesse smesso di giocare con lei, e il sacerdote dedicò la sua attenzione alla piccola, anche per togliere la pressione sul ragazzo, palesemente a disagio. Chinandosi sulla carrozzina, fece suonare il sonaglio attaccato al tettuccio ed esclamò: «Ciao piccolina! Che bella bambina che sei. Uguale alla tua mamma!»
«È di questo che vorrei parlarle…» borbottò il giovane, rattristandosi ulteriormente, trovando la forza di spiccicare verbo.
L'uomo alzò lo sguardo, si guardò intorno, cominciando a capire, e chiese: «Ragazzo… perché sei qui da solo?»
Raphael cominciò a singhiozzare, trattenendo le lacrime a stento: «L-lei non c’è più… sono… siamo soli… non vedrò mai più il suo sorriso…»
Il ragazzo scoppiò in lacrime, liberando quel dolore che da mesi lo corrodeva. Odiava che gli amici lo vedessero piangere, così tendeva a nasconderlo. Ma con quell'uomo sapeva di potersi sfogare a ruota libera. Lei gliene aveva parlato troppo bene.
Padre Lorenzo fece il giro dei banchi, sedette al suo fianco, gli mise una mano sulla spalla, stringendo piano per confortarlo, e disse: «Calmati, figliolo, e raccontami tutto.»
Raphael restò lì alcune ore, prendendo la figlia in braccio, e raccontò tutta la storia all’uomo. Ogni cosa. La fatica che aveva fatto per stare simpatico alla pazza ragazza dei suoi sogni, il suo amore, il loro impegno per cancellare, o anche solo diminuire, la sua indole omicida... tutto. L’uomo ascoltò con pazienza e interesse, mentre il ragazzo parlava, cullando la sua bambina con dolcezza mentre le lacrime gli solcavano il viso.
«E poi… è tutto finito.» concluse il ragazzo, tremando sia nella voce che nel corpo a causa dei forti singhiozzi: «Lei è andata via per sempre, ma mi ha lasciato Lily. Anzi Lilith. E sa… il suo nome di copertura era Castiga e io l’ho messo come secondo nome… Lilith Castiga Grayhowl… Lei è l’unica ancora che mi tiene aggrappato a questa vita. So che... non ci si deve volere così male da suicidarsi ma non riesco a riprendermi. Senza di lei, i giorni sono vuoti, senza senso, senza significato. Mi manca troppo… troppo.»
«Devi farti forza… non la conoscevo bene, ma penso che Athena vorrebbe che tu fossi felice. Che voltassi pagina. Per vostra figlia.» mormorò il sacerdote con un tono rassicurante.
Lui scosse la testa, disperato e ribatté: «Ma non ce la faccio… io la amavo, la amavo davvero! Era la mia vita, la mia metà, la mia anima gemella! Potevo stare bene solo con lei e con nessun altra. Non riesco a non pensarci…»
«Ragazzo, ora hai una figlia.» disse deciso padre Lorenzo, fissandolo dritto negli occhi: «Come padre, devi pensare a lei e non più solo a te stesso. Amala come se fosse lei, amala come un frutto di questo amore che ha saputo cambiare un cuore arido e crudele. E ricordala, serbala nel cuore, ma non permettere al dolore di avere la meglio su di te. Devi badare alla piccola... ti sembreranno parole dure, ma capirai... tu devi andare in secondo piano. La precedenza ce l'ha questa piccola creatura che non ha colpe, ma solo meriti.»
Raphael lo guardò, mentre ancora piangeva, e annuì colpito da quelle parole; così disse, recuperando un po’ di onore: «Farò quello che posso… Lily avrà un padre forte. Un padre degno della sua straordinaria madre. Ma… mi permetterà di venire a trovarla?»
Lui sorrise e rispose: «Certo. Non so ancora il tuo nome però.»
«Raphael… Raphael Grayhowl…» si presentò lui.
«Passa quando vuoi. Sarà un onore battezzare questa piccolina.» sorrise il sacerdote, intuendo il motivo per il quale il ragazzo era andato lì; la sfogata era stata un effetto secondario dovuto allo stress.
«Ma io sono solo… e lei non era nemmeno battezzata…»
«Si può fare un’eccezione. Trovami una madrina e un padrino. Se sai fare la firma di Athena, siamo a posto.»
«Grazie padre.»
«Ciao, Raphael.»
Il ragazzo uscì dalla chiesa, stando decisamente meglio di quando era entrato; si era liberato di un peso sfogandosi a ruota libera. Guardandosi intorno non vide gli amici. Accese il cellulare e lesse un messaggio di Cheren:
“Siamo al bar a bere qualcosa mentre ti aspettiamo. Fai pure con comodo!”
Raphael raggiunse il posto, l'unico baretto di tutto il paese, superando per vicoli e viuzze, ma si fermò di botto quando li intravide: si stavano baciando dolcemente, seduti uno di fronte all'altra su un tavolino, con le mani giunte, gli occhi chiusi, e la felicità dipinta sul volto. Si amavano molto. Era evidente.
Il suo cuore si chiuse in una morsa d’acciaio, mentre il ricordo del suo amore perduto tornava prepotente a tormentarlo; quanto avrebbe voluto essere riuscito a salvarla... oppure, morire lui al suo posto.
«Athena…» mormorò, cominciando a piangere nuovamente, ricaduto nel pozzo di dolore che pareva attirarlo come un buco nero al suo interno. Le lacrime scendevano, sole e devastanti. Si diede dello sciocco, del debole, ma i suoi rimproveri mentali non potevano nulla contro il dolore del cuore.
Belle, che era girata verso di lui, aprì un occhio e lo vide: fermo, in piedi, a testa china, il volto bagnato, che cullava distrattamente la carrozzina, avanti e indietro, in un movimento automatico.
La bionda si staccò dal suo ragazzo all’istante e sbottò: «Raphael ci ha visti!»
«Cosa?!» rispose Cheren, voltandosi di scatto: «Oh no, maledizione!»
Il ragazzo pagò velocemente, mentre Belle raggiungeva l’amico di corsa, si piazzava davanti a lui estremamente dispiaciuta e cominciava a urlare: «Raphael! Scusa, scusa, scusa, scusa!»
«Non… non c’è problema Belle. Tranquilla. Davvero.» rispose lui, con la voce leggermente incrinata e asciugandosi quelle imbarazzanti lacrime dal viso: «Non fate caso a me… ci vediamo a casa. Anzi… fammi un piacere… portate Lily a casa e datele da mangiare. Io… ho bisogno di stare solo.»
«Lascia fare a noi.» mormorò lei, prendendo la maniglia della carrozzina.
«Grazie…» disse solo lui, allontanandosi con le mani in tasca.
Cheren raggiunse Belle e, preoccupato, chiese: «Dove sta andando?»
«Vuole stare solo… cerca di capirlo, non deve avergli fatto bene averci visti.» rispose lei, con un sospiro, davvero dispiaciuta: «Andiamo a dare da mangiare alla piccola Castì Junior. Lui arriverà quando si sarà calmato.»
Lei annuì e i due tornarono a Zafferanopoli di gran lena, sperando che l'amico non si buttasse da un ponte per la disperazione.
Raphael, invece, tornò la sera. Decisamente di umore migliore. I due amici lo salutarono quando entrò in casa, ma non sollevarono l’argomento. Lui però sorrise e disse: «Scusate se vi ho accollato Lily ragazzi.»
«L’abbiamo fatto volentieri, Raph. Tu come stai?» chiese Cheren di risposta.
«Meglio, grazie. Ora pensiamo alla mia piccolina che è troppo contagiata dalla tristezza paterna.» rispose lui, sorridendo e prendendo Lily in braccio. Ma il suo sorriso era sempre spento. Un sorriso più di formalità che di vera e sincera serenità.
Così andò avanti un altro giorno.
L'anno dopo, Raphael prese una decisione, finalmente convinto di ciò che voleva fare. Ci aveva riflettuto, molto, ma aveva deciso che era meglio così: «Non è giusto che vi trattenga così. Ragazzi, d’ora in avanti mi arrangio con Lily.»
«Ma Raphael… come madrina e padrino dovremmo aiutarti! Non è un disturbo!» cercò di protestare Belle.
Lui scosse la testa, sorridendo, e troncò ogni obiezione: «Basta sentirsi qualche volta. Davvero, vivete un po’ la vostra vita. È già passato un anno ormai… posso farcela.»
Cheren gli mise una mano sulla spalla e disse: «Se mai avessi bisogno di aiuto… qualunque cosa… chiamami senza problemi.»
«Lo farò. Grazie, Cheren. Anzi… Dottore.» rispose lui, facendogli l'occhiolino.
Così, Belle e Cheren tornarono a Isshu, volendo tornare nella regione natia, ma erano preoccupati per Raphael. Lasciarlo solo, senza nessun appoggio, con quel cuore ancora spezzato… non sembrava la soluzione giusta.
Lo chiamavano spesso, alternandosi. Belle divenne l’assistente della professoressa Aralia, trasferendosi a vivere da lei, nella stanza che era stata della sua migliore amica, cosa che le provocava crisi di pianto isterico quando i ricordi erano troppo forti. Combattere non era la sua vocazione, mentre invece si impegnava molto per aiutare la studiosa. Peccato che facesse più danni che altro.
Cheren invece continuò ad allenarsi, prendendo un appartamento a Quattroventi, la città sopra quella del laboratorio, per stare vicino alla fidanzata. Lui si era sempre sentito inferiore a Castiga e questo gli era sempre molto scocciato. Così continuava ad allenarsi, per migliorare e poter finalmente dire, rivolto al cielo: «Castì, sono diventato più forte di te.»
A volte, però, non poteva fare a meno di volgere lo sguardo in basso; la sua cara amica aveva fatto del male, dopotutto. Forse, il cielo non era la direzione giusta. Ma cercava di non pensarci: immaginarla incatenata tra le fiamme dell'inferno lo rendeva più triste di quanto non lo fosse già. Gli venne poi chiesto il posto come Leader nella Palestra di Alisopoli, una città dall'altra parte di Isshu: Aloé aveva deciso di dedicarsi solo al suo amato museo e aveva lasciato il posto della Medaglia Base. Sotto l'insistenza di Belle e Nardo, il ragazzo finì per accettare, sapendo che avrebbe potuto vedere comunque l'amata grazie al suo Unfezant.
Raphael, invece, non era messo molto bene. Non poteva lavorare per via di Lily, non aveva soldi e stava andando in bancarotta. Finché…
«Raphael? Cosa ci fai con una marmocchia?» chiese una voce, lievemente stupita, mentre lui e Lily passeggiavano nel parco di Zafferanopoli.
Lui si voltò e rispose, solo per educazione: «Ciao, Daisy. Sto facendo un giro con mia figlia.»
La bionda coetanea si avvicinò a lui, scrutandolo con occhio critico: era piuttosto trasandato, vestito molto sobrio con degli abiti logori dal troppo uso e piuttosto stanco. Il suo bel viso era tirato e adornato di due occhiaie preoccupanti. Lui ricambiò lo sguardo, vedendo che la ragazza non era cambiata di una virgola; come sempre, andava in giro come se dovesse andare ad una sfilata di moda ogni giorno.
Dopo aver finito il suo esame, finse un tono sconvolto, quasi eccessivamente teatrale, ed esclamò: «Tua … cosa?! Ma stai scherzando?!»
«No, per niente. Ora scusa, ma dobbiamo tornare a casa. Deve fare la merenda.» ribatté lui, mentre la figlia si nascondeva dietro le sue gambe fissando storto quella strana donna.
«Non può pensarci sua madre?» chiese invece Daisy, ancora incredula, immaginando che ci fosse una madre. Sapeva benissimo che i figli non nascono sugli alberi e non li portano i Pelipper.
Lui trattenne pianti e crisi varie, e ribatté: «No. Vedi… sono un padre single.»
Alla ragazza si illuminarono gli occhi, mentre un pensiero le attraversava il cervello; finalmente la sua rivale mai vista si era fatta da parte per lasciare il campo libero a chi ci sapeva fare veramente.
«E dimmi… sei pronto per rimetterti in pista?» chiese, con voce suadente avvicinandosi ancora a lui e ignorando completamente la figlia.
Raphael fece per rifiutare, con in mente una bella frase poco cortese, ma poi ci pensò su. Daisy era ricca sfondata. Unica erede dei Grandview, aveva a disposizione un patrimonio immenso. Poteva davvero dargli una mano. Non sentimentalmente, perché non avrebbe mai potuto amarla. Ma finanziariamente…
«Può anche darsi…» rispose quindi lui, tentando di fare uno sguardo seducente, con poco successo, ma Daisy non lo notò neppure. Sorrise, quasi vittoriosa, gli prese il volto con le mani, si avvicinò e sussurrò: «Se vuoi compagnia… chiamami.»
«Ci penserò su.» rispose lui, con un sorrisetto che voleva nascondere il disgusto per se stesso.
La ragazza gli infilò un biglietto tra le mani e se ne andò con un'ultima occhiata maliziosa. Una volta che fu sparita, Raphael sospirò: «Mi faccio schifo. Ma tanto schifo… tremendamente schifo. Come posso cedere a quella lì? Solo per … i soldi. Solo perché mi serve un sostentamento economico... maledetto me.»
«Papà, chi è quella?» chiese invece Lily, fissandolo perplessa, non avendo capito tutti i sottintesi di quello che per lei era un discorso strano.
Lui scosse le spalle, le sorrise e rispose: «Una vecchia conoscenza, piccola mia. Non è importante... Dai, andiamo a prenderci un gelato?»
«Sì!» esclamò lei, tutta contenta del regalo inaspettato.
Lui le sorrise e la prese in braccio, mettendola poi sulle sue spalle e si incamminarono verso la gelateria più grande di Zafferanopoli. Tornati a casa, cenarono, e verso sera cominciò la battaglia quotidiana.
«Lily, vai a dormire, è tardi.» disse Raphael verso le otto e mezza.
«No, dai papà non ho sonno!» rispose lei.
«Lily per piacere, non ricominciare. Dopo la mattina fai fatica ad alzarti.»
«Vengo a dormire con te!»
Discussero per un po’, finché lui non la ebbe vinta un’altra volta; o meglio, pattarono per le dieci di sera. Troppo tardi, secondo lui, ma la figlia era di una testardaggine incredibile.
Appena la bambina si fu addormentata, lui sbottò: «Uff… che testona. È sempre troppo tardi quando la spunto. Ora chiamiamo…»
Prese il cellulare con un’espressione rassegnata sul viso, compose il numero che lei gli aveva scritto su un bigliettino rosa vaporoso e accostò il ricevitore all'orecchio, sperando che quel “tu, tu” durasse in eterno.
Purtroppo, però, dopo solo due squilli, una voce rispose: «Sì?»
«Ciao, Daisy, sono Raphael.» borbottò lui.
Con un risolino, lei ricambiò il saluto: «Ciao, bel fustacchione. Sei già triste e sconsolato?»
Lui alzò gli occhi al cielo, trattenendosi dal sospirare, e rispose: «In fin dei conti ho solo vent'anni. Che pretendi?»
«Ben detto! Allora, te la fai una cenetta?»
«Dimmi quando…»
«Tra tre giorni, alle otto… Azzurropoli.»
«D’accordo. Ci si vede.»
«Ciao, bellissimo.»
Raphael mise giù e fissò il telefono. I suoi occhi color dello smeraldo erano tristi. Troppo tristi visto che sarebbe andato ad un appuntamento. Con un sospiro, fece un altro numero. L'attesa fu più lunga che con Daisy, ma dopo cinque squilli la voce di Cheren salutò: «Ciao, Raph! Come stai?»
«Ehi, doc! Bene dai… tu?»
«Anche! Come mai questa chiamata a sera inoltrata?»
«Metti in vivavoce… vorrei sentisse anche Belle. Siete insieme vero?»
Perplesso, Cheren rispose: «Sì, hai preso una delle poche sere.», poi chiamò la sua ragazza e mise in funzione l'altoparlante del telefono, per poi aggiungere: «Dicci pure.»
Raphael fece un sospiro e chiese: «Lei… vi ha mai raccontato di Daisy?»
Belle ridacchiò e rispose: «Vuoi la citazione?»
«Me la immagino… sentiamo.»
Belle si schiarì la voce e, simulando tono seccato, disse: «”Ma vi rendete conto? Quella specie di top model sbava dietro al mio Raphael! E sottolineo, mio. Ha un nome ridicolo, Daisy, e pensa di essere migliore di me solo perché … ma che cavolo ne so! Ma deve solo mettergli le mani addosso che gliele stacco!”»
«Accidenti!» commentò lui, con la voce velata da una risata immaginandosela arrabbiata: «Ma quando ve l’ha detto?»
«Non ricordo di preciso come era uscito il discorso... ma si è ben sfogata! Gliene ha tirate dietro un carretto!»
«Ci credo! Comunque, beh… la tipa in questione è una mia coetanea, mi sbava dietro e ha un bel conto in banca. Diciamo che … mi serve una mano con Lily.»
«Non vorrai mica …?» esclamò Belle, intendendo il piano dell'amico.
Raphael cercò di difendersi, spiegando le sue ragioni, anche se lui per primo sapeva fosse una mezza pazzia, ma era deciso: «Lo so, Belle. Mi faccio schifo da solo, credimi. Ma sono al limite. Devo pagare la scuola materna per Lily e poi volevo iniziare l’università. E mi servono soldi…»
«Raphael ti diamo una mano noi! Non devi…» ribatté Cheren, ma l’amico lo interruppe: «No, Dottore. Ormai ho deciso. Sarà dura, ma Daisy è la soluzione migliore, anche perché non farà storie se non sono come si suol dire… dolce. Volevo solo chiedervi se potete tenermi Lily tra tre giorni…»
«Esci con lei?»
«Sì. Devo giocarmi tutte le carte che ho, sperare che abbocchi… e vivere in qualche modo.»
«Ti stai condannando da solo. Lasciatelo dire.» commentò Cheren.
«Credi non lo sappia?» ribatté lui, un po' seccamente: «Però… per Lily questo ed altro.»
Tre giorni dopo, Raphael si mise un completo elegante, elemosinato da Cheren: pantaloni di seta, camicia, giacca e cravatta. Arrivato ad Azzurropoli, aspettò la ragazza, che si fece attendere. Molto. Sfiorò le due ore.
«Eccoti qui. Allora andiamo?» chiese lei, quando lo vide. Si era data da fare, vestendosi il più sensuale e provocante possibile. Il risultato c'era, visti i fischi di approvazione che riceveva al passaggio nelle strade, ma Raphael non era il tipo che badava a quelle cose. Athena gli era sempre sembrata bellissima anche in pigiama.
“E andiamo. Maledetto me.” pensò lui, scocciato per l'attesa, per poi porgerle il braccio.
Daisy lo strinse e i due andarono al ristorante. Passarono la serata piuttosto bene, anche se lei tendeva ad allungare troppo le mani o a infilare inutili doppi sensi nei discorsi. Alla fine, scappò il bacio. Raphael se lo aspettava da quando si erano visti, ma non si tirò indietro. La ragazza lo baciò con passione, aspettando quel momento da tempo. Lui rispose a fatica, freddo e distaccato, chiedendo mentalmente scusa ad Athena; benché lei ormai non potesse più arrabbiarsi, quello per lui era pur sempre tradimento. Tornò a casa a notte fonda, disgustato da sé stesso. L’aveva fatto davvero. E chissà quante altre volte avrebbe dovuto farlo.
«Com’è andata?» chiese Cheren, quando lo vide sciogliere la cravatta con uno sguardo da funerale.
Raphael sospirò e rispose: «Malissimo. Mi è praticamente caduta tra le braccia…»
«C’è gente che pagherebbe per essere al tuo posto.» commentò lui, ma l'amico saltò su, inviperito dalla mancanza di empatia, e ribatté: «Io pagherei per riavere la mia pazza, ma non funziona così... Tu ti faresti baciare da una donna che odi, al posto di Belle? Non credo proprio…»
Cheren gli diede una pacca sulla spalla, non sapendo come ribattere, e uscì, salutandolo. Era già abbastanza di malumore senza rischiare di litigare. Raphael, invece, andò dalla sua bambina. La guardò dormire, beata, e sussurrò: «Piccola Lily… mi dispiace. Ma è l’unica soluzione ai nostri problemi.»
Tempo due settimane e Raphael e Daisy si fidanzarono. Il ragazzo doveva dividersi tra lei e la figlia e anzi, doveva badare più a lei che alla figlia, totalmente ignorata dalla donna. Lily soffriva molto quella situazione, restando sempre in disparte e sempre ignorata. Chiedeva al padre perché quella dovesse farle da mamma, perché non erano rimasti loro due soli... e lui non sapeva cosa risponderle. Come poteva dirle che l'aveva accettata per i soldi? Si stava letteralmente svendendo e non ne andava fiero. Nel frattempo però, anche per occupare il tempo e stare lontano dalla sgradita compagna, si iscrisse all’università, facoltà di giurisprudenza. Voleva poter essere utile, al fianco della giustizia, e fare finalmente qualcosa di buono.
Il primo giorno era agitatissimo. Entrò nell’aula magna dove avrebbero spiegato tutto e sedette in disparte. Il posto al suo fianco rimase vuoto finché non arrivò un ragazzo alto e muscoloso. Sedette velocemente, ansimando. Probabilmente aveva corso. Distrattamente, lo vide, solo e spaesato, e con un sorriso, si presentò, dicendo: «Ce l’ho fatta. Piacere! Io sono Gabriel Grendel!»
«Oh, beh piacere mio… Raphael Grayhowl…» rispose lui, timidamente.
Lui sorrise amichevolmente e chiese: «Perso qualche anno anche tu?»
Raphael arrossì e rispose: «Oh no… sono riuscito ad iscrivermi solo ora.»
«Io sono fuori corso due anni.» brontolò Gabriel: «Ma i miei mi vogliono costringere a diventare avvocato, come mio fratello.»
«Lui ha finito?»
«No. Ha ventiquattro anni ed è all’ultimo anno. Un secchione seccante.»
I due cominciarono a chiacchierare animatamente. Veniva loro naturale, spontaneo. La loro amicizia si trasformò nei mesi seguenti. Giravano insieme e studiavano insieme, dato che Raphael era piuttosto bravo mentre l'altro molto svogliato. Lily ebbe modo di conoscerlo e lo trovò talmente simpatico che lo pretendeva a cena tutte le sere. Raphael però si limitava ad invitarlo quando Daisy non c'era. Non voleva che lei sapesse chi fossero i suoi amici.
Gli anni passarono… lui si laureò e divenne un buon avvocato. Molto competente e affidabile. Si fece un nome. Importante. Ma la sua vita era vuota… vuota e senza amore. Se non quello datogli dalla figlia.
Un’altra persona, come lui, non se la passava per niente bene.
Dopo quel terribile giorno, Aurea Aralia non fu più la stessa. Si era affezionata molto ad Athena, moltissimo. La considerava quasi una figlia, aveva avuto con lei una confidenza che non era da tutti. Un rapporto speciale con una ragazza speciale.
E ora lei non c’era più.
La donna passava le giornate piangendo, fissando il posto dove loro parlavano sempre, girando per la casa senza una meta, tra i ricordi che le salivano alla mente… Non lavorava più, non usciva di casa… era completamente soffocata dal dolore e si stava lentamente isolando. Dopo un paio di mesi però bussarono alla sua porta con insistenza.
«Aurea! Aurea! Aprimi!» esclamò la voce di Nardo, mentre i pugni forti squassavano il legno del portone d’ingresso.
Lei non si mosse dalla sedia su cui era seduta. Non voleva parlare con nessuno, voleva stare sola con i ricordi che la mente stava cominciando a materializzare. Si stava alimentando di illusioni, per non rendere la perdita reale come lo era; nella sua testa, Athena poteva essere ancora viva; e ancora accanto a lei.
«Aurea!» urlò ancora la voce dell’uomo: «Non costringermi a buttarla giù! Apri questa porta!»
La donna non diede ancora segni, sperando in cuor suo che capisse e se ne andasse, che la lasciasse in pace.
Nardo, di fuori, era furibondo. Non vedeva la studiosa da mesi, sapeva che non usciva di casa e che non riusciva a reagire. Sapeva che stava lentamente impazzendo dal dolore.
«Devo fare qualcosa. Non può andare avanti così. Bouffalant, usa Ricciolata!» esclamò, lanciando una ball presa dalla corda che teneva al collo.
Quello muggì di risposta, uscito dalla sfera in un raggio bianco, e si lanciò contro la porta alla carica a testa bassa. Sfondò la porta e irruppe nell’ingresso. Nardo entrò dietro di lui, guardandosi intorno. Vagò un po’, nella penombra dovuta alle tapparelle completamente giù, poi trovò la donna, seduta sulla sedia in stato di semi trance.
«Aurea.» mormorò, avvicinandosi a lei.
La studiosa non rispose, fissando il nulla con le lacrime che scendevano copiose, ricordando quanti discorsi avevano fatto insieme, quanto ridere, alcuni abbracci…
Nardo si chinò vicino a lei e le prese una mano, mormorando: «Aurea, cerca di riprenderti. Non è da te lasciarsi andare così.»
«Non è giusto Nardo…» borbottò lei, con voce quasi apatica: «Non è giusto…»
Lui prese una sedia e sedette accanto a lei, poi disse, continuando a tenerle la mano: «Lo so. Non è giusto. Chi meglio di me può dirlo? Quella ragazza era speciale. Nessuno l’ha mai capito tranne noi, che abbiamo potuto vedere il suo lato migliore. Ma lei non vorrebbe che tu ti lasciassi andare così. Ti direbbe di reagire, che la vita va avanti! Lei ha reagito al suo dolore, ora tu devi fare altrettanto.»
Aurea prese a singhiozzare, disperata e ribatté: «Non ci riesco. Non riesco ad andare avanti. Aveva appena cominciato a vivere… era finalmente un po’ felice… e ora questo. D’accordo, ha fatto del male, degli sbagli atroci… ma… era migliorata! Poteva fare del bene. Essere migliore! Riabilitare il suo nome! E invece ora non può più...»
Nardo strinse entrambe le mani e rispose: «Deve ringraziare solo te se ha potuto vivere quattro anni felici. Se non ti avesse incontrata, chissà che fine avrebbe fatto. Invece, grazie a te, è cambiata. Aurea non devi sentirti in colpa. Anzi, devi essere fiera di te.»
La donna strinse a sua volta le sue mani, cercando di trattenere i singhiozzi che la scuotevano, ma lui l’abbracciò e le permise di sfogarsi su di lui. Nardo restò lì con lei finché non si fu calmata, poi disse: «Come dissi tu a lei, io ora te lo ripeto. Conserva il suo ricordo e onoralo, riprendendoti da questa depressione.»
Aurea lo guardò, con ancora gli occhi umidi, e mormorò: «Grazie, Nardo.»
Lui le sorrise asciugandole le lacrime.
I giorni successivi l’uomo passò spesso a trovare la studiosa, per vedere come stesse. La donna aveva messo una foto di lei e Athena sulla vetrina, incredibilmente scattata dopo rifiuti su rifiuti, e aveva cercato di scacciare il dolore, con un discreto successo. Ben presto, ritornò in pista a pieno regime.
«Ciao, Nardo!» lo salutò allegramente un giorno, vedendolo varcare la soglia: «Potresti stare anche un po’ alla Lega ogni tanto.»
«Non ce n’è bisogno. Ho incaricato Marzio di fermare tutti gli sfidanti e il ragazzo sta facendo un ottimo lavoro.» rispose lui, sorridendo di risposta, e accomodandosi in salotto dopo un suo cenno: «Ti vedo molto meglio, Aurea. Sono proprio contento.»
Lei sorrise, sedendosi accanto a lui, e rispose, allegra: «Insomma, avevi ragione. Athena era forte e io devo esserlo altrettanto.»
I due parlarono animatamente: pettegolezzi, novità, e varie cose. La sera cenarono insieme. Quel giorno era il giorno in cui Giovanni aveva trovato Athena. Per la ragazza era una sorta di compleanno, visto che aveva cominciato a contare gli anni da lì. Brindarono in sua memoria. Una, due, tre… forse un po’ troppe volte. Nardo reggeva l’alcool piuttosto bene, ma Aurea no. Dopo un paio di bicchieri era completamente ubriaca. Faticava a reggersi in piedi e l’uomo dovette sorreggerla parecchie volte, per evitare che cadesse e si facesse male da sola.
«Aurea, non ti sembra di avere bevuto un po’ troppo?» chiese, in un mezzo rimprovero.
«Ma che dici? Sto benissimo!» rispose lei, barcollando leggermente, molto euforica, alzando il bicchiere sbilenco fortunatamente vuoto: «Bisogna festeggiare! Come se lei fosse qui!»
Lui inarcò un sopracciglio e rispose: «Ti direbbe la stessa cosa che sto dicendo io, fidati.»
«Te l’ha mai detto nessuno che sei proprio carino?» commentò la donna, ignorandolo e ridacchiando.
«No. Però grazie del complimento.» rispose lui, con un sorrisetto.
Aurea barcollò paurosamente, Nardo la sostenne e lei si posò a lui, aggrappandosi per stare in piedi. Avvicinandosi al suo volto, lo baciò, senza sapere quello che stava facendo. In condizioni normali, non avrebbe mai fatto un gesto così impudente; dopotutto era una donna educata, molto timida, e a modo. Ma sotto i fumi dell’alcool non ragionò e fece quello che sentiva di voler fare.
Nardo però si tirò un attimo indietro, confuso, staccandosi. Lei lo fissò con un misto di perplessità, delusione e desiderio. Poi lo lasciò, barcollando verso il divano, con una tristezza enorme nel cuore.
Dopo quella sera, i due si rividero di rado, spesso imbarazzati; non avevano il coraggio di parlarsi, di toccarsi, nemmeno di guardarsi. Intrappolati nella loro timidezza, lasciavano scorrere i giorni, sperando che qualcosa cambiasse. Che uno dei due facesse quel passo che chiedeva molto coraggio. Un coraggio che nessuno dei due credeva di avere.
Un giorno, Aurea si decise. Aveva bisogno di parlare con qualcuno, di sfogare la sua angoscia e la sua confusione. Athena non c’era però. E lei sarebbe stata la persona ideale.
Però c’era lui.
«Ciao, Raphael.» mormorò al telefono, quando lui rispose.
«Salve, prof. Come sta?» rispose la voce del ragazzo.
Ormai aveva ventun anni, la piccola Lily tre e lui si stava riprendendo dal dolore per la perdita della sua amata. O forse così voleva solo dare a vedere.
«Tu piuttosto?» chiese la donna, sentendo quella nota di tristezza perenne nella sua voce.
Lui sospirò, come se resistesse dal piangere, e rispose: «Ce la sto facendo. Lily è un toccasana. Però… sa com’è. Senza di lei, mi sento come se mi avessero strappato il cuore con un paio di pinze. Senza anestesia. Mi manca un sacco… e la mia bambina le assomiglia tantissimo, sempre di più. Le manderò una foto.»
Lei annuì e tentò di consolarlo, dicendo: «Forza e coraggio, ragazzo mio. Puoi farcela. Athena non si sarebbe mai innamorata di un debole, ne sono convinta. »
«Grazie della fiducia. Ma perché ha chiamato? È successo qualcosa?» chiese lui per distrarsi dal pensiero che lo faceva soffrire.
Lei arrossì e ribatté: «Volevo chiederti un parere… probabilmente sono insensibile e mi odierai, ma sei la persona più vicina ad Athena che mi viene in mente… in una situazione come questa, avrei parlato con lei, ma…»
«Mi dica pure.» sorrise il ragazzo, interrompendo il suo assurdo monologo: «Lei ha fatto tanto per… lei. Ora bisogna ricambiare.»
«Ti ringrazio. Ecco… temo di… essermi presa una cotta per Nardo!» esclamò tutto d’un fiato.
Raphael scoppiò a ridere sentendo l’imbarazzo della studiosa, e rispose: «E lui che dice?»
«Non dice… l’altra sera ci siamo ubriacati come due ragazzini, e … è scappato il bacio! Non ci vediamo da allora.»
«Vi schivate?»
Lei balbettò qualcosa poi scandì: «Sì, insomma… diciamo di sì.»
«Praticamente l’alcool vi ha tirato fuori il coraggio che serve, eh?» ridacchiò lui, con una punta di scherno.
Imbarazzata, Aurea strillò: «Dai, Raphael, non prendermi in giro! È imbarazzante!»
«E lei tiri fuori il coraggio che serve.» la zittì lui, fattosi serio: «Anche se non dovesse essere ricambiata, almeno chiaritevi. Non potete passare la vita a evitarvi, non crede?»
«Tu come l’hai trovato il coraggio?»
Lui ridacchiò, ricordandosi quanto era stato combattuto nel doversi dichiarare apertamente al Demone Rosso, il terrore di Kanto: «Ci ho messo un po’, lo ammetto. Ma avevo più paura di una coltellata che di un rifiuto. Però, poi mi sono detto… “o la va, o la spacca”. Insomma… la amavo, dovevo dirglielo.»
I due parlarono un po’, poi Aurea riattaccò. Andò alla Lega, entrò nell’ufficio di Nardo rossa in volto e, abbassando lo sguardo, mormorò: «Nardo… io credo di essermi innamorata di te.»
Rimase immobile, aspettando il rifiuto, ma una mano la prese per il mento, la costrinse ad alzare il viso, e lei vide gli occhi dell’uomo fissarla dolcemente.
«Aspettavo solo che me lo dicessi.» sussurrò lui, per poi avvicinarsi alle sue labbra.
Il cuore di Aurea sembrò fermarsi quando il suo viso divenne di un rosso intenso e le sue labbra incontrarono quelle dell’uomo. Si diede della stupida ragazzina, ma poi non perse più tempo a pensare. Era inutile, infondo.
I giorni passarono, e i due si legarono sempre di più, finché non si fidanzarono ufficialmente, stando quasi sempre in compagnia di Cheren, ormai Leader di Alisopoli, Belle, assistente a pieno titolo della donna e la grintosa Mei, nuova speranza che aveva appena scalato la Lega.
Aurea era molto felice, ma c’era sempre qualcosa che non andava. Quel qualcosa era la mancanza di quella voce sarcastica, di quel ghigno arrogante ma divertito…
Di quella ragazza che era stata come una figlia.
  
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