I
Respira, piano.
Respira, profondamente.
Respira, polvere e terra;
sangue e sudore.
Quando vieni colpito,
respira e basta.
Questo gli insegnavano,
ventitre anni prima, in accademia.
Respira.
Il vento caldo passa sul suo
corpo esanime, respira come gli insegnavano; aspetta cure che non arriveranno,
aspetta compagni che non esistono più.
Sdraiato al suolo cerca di
stringere nel pugno un po’ di terra, cerca la forza di rialzarsi ma la mano
guantata non serra solo polvere, piccole gocce rosse ricadono al suolo, le
gambe non si muovono più, l’aria fatica ad entrare ed il sole secco non
riscalda il suo corpo spezzato.
Prima di morire, dicono, la
mente ricrea in un istante le immagini di una vita; accelerate, senza che
seguano un filo logico eppure intensamente vive. Istanti così solidamente radicati
da essere vissuti due volte, immersi in un’ondata di emozioni: paura,
rimpianto, delusione, desiderio, amore, gioia, entusiasmo e commozione.
Eppure quegli occhi verdi
non vedono il loro primo amore seduto sul bordo di una fontana; non vedono i
loro genitori stretti in un abbraccio, orgogliosi di un giovane eroe, non
vedono la loro figlia stringerli il pollice con quella piccola mano. Non
ricordano le grandi battaglie che hanno vissuto; si spengono lentamente mentre
rivivono, invece, quelle poche ultime ore.
Le sirene, i briefing sui
mega-schermi; tutto diventa più nitido, voci che non aveva sentito, persone che
non aveva visto: <…Imbarco unità C-12…Imbarco unità A-21…Attacco
imminente…Imb…> la voce impersonale che dagli altoparlanti scandisce gli
ordini, volta il capo a destra e a sinistra, Stand tutti uguali ai quali sono
appese le armi, le armature, i ricordi di ogni soldato, di ogni ufficiale. Corruga
la fronte, sente le voci di due ragazzi:
“Hai visto? Era ora di
scendere in campo; le simulazioni erano diventate ripetitive”
“Tsk…lo dici solo perché ho
fatto un punteggio più alto del tuo, ma adesso vedremo. Una cena che ne faccio
fuori più io.”
“Presa!”
Ridono, si stringono la mano
al volo, indossano la tuta stringendola bene sui fianchi. Lui espira, li ha
allenati lui, lui è il loro comandante, in un certo senso lui gli ha insegnato
a comportarsi così; si chiede per un momento se anche sua figlia farà questa
fine, si domanda se la matricola dai capelli neri, pochi stand a destra del
suo, sia sua figlia tra qualche anno; capace di giocare con la sua vita per una
cena.
“Papà!”
Si volta di scatto; le
sirene tacciono, gli altoparlanti spariscono; nella sua casa, nella sua cucina con
una tazza di cioccolata in mano, alle sue spalle: sua moglie; non la guarda ma
sa benissimo com’è vestita: una canottiera rossa, un paio di poco femminili
pantaloni grigi, piedi scalzi appollaiati tra le gambe di una sedia, l’altra
tazza di cioccolata tra le dita sottili, gentili, i capelli mossi e gli occhi
stanchi che nonostante tutto la rendono ancora, bellissima.
Lui sa com’è, se la ricorda,
ma vorrebbe guardarla ancora, ancora una volta e invece ha occhi solo per la
bimba; la raggiunge in un paio di passi e piegandosi sulle ginocchia la guarda
dritta negli occhi blu di sua madre.
“Piccola; dovresti essere a
letto, è tardi.”
“Ho paura, ci sono i mostri”
Sorride, volta appena il
capo verso la donna che ricambia appoggiando il mento sul palmo della mano; ama
quelle labbra sottili.
“Su! Andiamo a vedere questi
mostri”
La bambina gli tende la
mano, lui le porge il dito e lei, stringe forte.
Entrano insieme nella stanza
ora illuminata, lei veloce si siede sul letto, lui fa un giro della stanza,
apre gli armadi, i cassetti.
Secondi che sembrano minuti
all’infruttuosa ricerca delle paure di una bambina. Si siede infine accanto a
lei mettendola a letto e carezzandole i capelli.
“Non devi avere paura dei
mostri. Visto che non ci sono?!”
“Ma io li ho visti, li ho
sentiti”
“Forse li abbiamo
spaventati”
“Si si, loro hanno paura di
te; stai qui?”
Vorrebbe dirle si; vorrebbe
sdraiarsi accanto a lei e proteggerla per sempre ma si limita a sorriderle.
“Ho un idea migliore”
Lentamente si leva la
catenella a cui è appeso il cristallo azzurro, incrinato, ruvido; lo mostra
alla bimba avvicinandolo a lei.
“Ti ricordi di lui, si?”
La bimba annuisce.
“Dormirà lui con te e ti
proteggerà tutta la notte; i mostri avranno così tanta paura di lui che non
torneranno mai più”
“Perchè?”
“Perché lui ti ama proprio
come me”
Una pacca sulla spalla, le
sirene riprendono a suonare, il caos; la matricola dai capelli neri non c’è
più. Uno dei suoi ragazzi gli sorride.
“Comandante ha visto? A
quanto pare Systemia ha bisogno di noi. E lei che voleva farci allenare
ancora.”
Lo osserva andare via mentre
stringe appena quel cristallo, un po’ più rovinato, con qualche crepa in più
con troppi pochi anni addosso.
Abbassa lo sguardo
fissandolo sul quel piccolo frammento di pietra semitrasparente, luminoso; lo
tiene stretto tra l’indice e il pollice sentendone il potere pulsante; un
potere antico dimenticato dai più.
Inspira ancora indossando il
ciondolo, lo stringe di nuovo per poi tornare alla sua vestizione.
Perché ricorda quegli
istanti, perché rivede quei gesti? Indossare una tuta da combattimento;
possibile che sia solo questa la sua vita? Possibile che il suo essere possa
essere riassunto in questo?
Stringe i rinforzi sui
fianchi; ricontrolla le fibbie degli stivali e dei guanti, scuote le spalle e
rigira il collo per essere sicuro che le placche rinforzate non gli impediscano
i movimenti.
Alza solo ora lo sguardo
posandolo su quelle foto, su quel disegno. Le mani nascoste dai guanti neri, le
dita si posano su un’istantanea sgualcita cercando di farsi delicate, carezzano
quei piccoli volti per cui combatte, per cui ha sempre combattuto anche quando
ancora esisteva un Regno, quando non era un contractor quando ancora c’era un
Re a cui giurare fedeltà.
Afferra distrattamente i
suoi regula; anelli in pietra poco più larghi di un centimetro sui quali sono
disegnati rune e simboli; un’arma antica, la cui origine si perde nel tempo; la
magia che risiede in tutti loro il cui vero potere è sconosciuto. Li infila
insieme al polso sinistro come fossero dei bracciali, rimangono sospesi in aria
iniziando a ruotare sfregando tra loro e producendo un leggero e continuo
stridore; le rune si illuminano aritmicamente per tempi diversi e in diversi
colori.
Piega lo sguardo sui suoi
soldati, armi sempre più tecnologiche, sempre più avanzate; gli altri ufficiali
lo deridono spesso per la sua ostinazione ad usare un’arma antica ma nessuno lo
ha ancora battuto in un combattimento vero.
I soldati e gli ufficiali si
affrettano, afferrano caricatori, armi, caschi e via, di corsa.
Lui si ferma, se lo è sempre
permesso; s’inginocchia un momento chiedendo scusa, ancora una volta, alla sua
famiglia; ricorda di averlo pensato, ricorda di averli salutati anche se solo
mentalmente, ricorda di aver afferrato il suo vecchio gunblade nero e di averlo
fissato al cinturone.
Ricorda di aver indugiato
sulla fede appoggiata ad uno scaffalino dello stand; quel piccolo anello d’oro
che prima o poi sarebbe stato consegnato a sua moglie insieme a una lettera ed
alle sue piastrine.
< Ultima
chiamata…imbarchi imminenti >