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Autore: Fracare98    31/07/2015    0 recensioni
-Forse dovrei aspettare ancora; finché tu non sarai in grado di parlare, io non scriverò nulla.-
-No!- fu una voce misteriosa e improvvisa, che proveniva dal letto del malato. La donna si voltò di scatto per capire chi lo avesse detto, ma non c’era nessuno, solo ombra e malattia. In quella stanza nuda e polverosa una persona avrebbe potuto parlare eccetto lei: Arthur stesso.
-Sei tu che parli, mio Arthur?-non si accorse di star parlando con un uomo debilitato.
Più fuggi dalla realtà, più quella ti insegue.
Genere: Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Alla signora di casa non piaceva che i suoi ospiti la attendessero a lungo, ma ammetteva spesso che nella vita serve classe e anche l’attesa era elemento della sua classe sopra elevata. La sua adorabile dimora di campagna era diventata una casa di alto livello e spesso organizzava banchetti con spettabili ospiti, che a volte la aspettava impazienti, sopratutto nel corso di cerimonie e cene speciali. Il volto della padrona era scolpito nel marmo: una severa espressione monarchica dagli occhi verdi smeraldi e la pelle candida era circondata da una cornice di capelli bianchi raccolti con una spilla di ceramica a punta lunga d’orata. Indossava sempre vesti ondulate che le ricoprivano tutto il corpo fino alle caviglie, dove c’erano deliziose scarpette col tacco spesso non molto alto, rinfoderato in cuoio. Sotto questo regale modo di vestirsi appariva una signora dal nome impreciso e dal carattere misterioso che amava se stessa molto, ma ancora di più la morale immaginaria che la circondava; si chiamava Lady Evandra Clare Willstone II, o più semplicemente Lady Evandra. Non credo la sua storia sia una delle più particolari che si possano leggere, ma a suo modo anche lei era un fuggiasco ed è sempre difficile fuggire, se non si ha modo e metodi di farlo. 

Evandra ebbe una vita agiata ai limiti dell’avventura però, una volta che ebbe figli, dovette rinunciare a quella agiatezza che prima la caratterizzava e iniziò a dedicarsi alla famiglia, mantenendo lussuosi studi e maestose condotte di vita. Passarono gli anni ed ebbe molte soddisfazioni: il suo primogenito Carl ebbe una notevole carriera come medico e primario in  un noto ospedale londinese; la sua adorata Carol divenne amministratrice di una banca molto importante nei pressi del centro di Londra; Anastasia, la terza figlia, sposò un pilota di aerei e viaggiava moltissimo, anzi sempre. Il suo quarto figlio era Mortimer, che fu scrittore di romanzi fantasy e polizieschi. Ebbe anche diversi nipotini dai primi tre, ma non dal quarto. Detta così la sua vita pare essere la migliore che si possa desiderare, ma purtroppo un problema si presentò alle porte, all’alba dei suoi sessantacinque anni, quando decise di fare testamento. Suo marito, Lord Arthur, era in pessime condizioni fisiche e prossimo alla morte e nessuno dei due aveva pensato a decidere come distribuire il denaro e i possedimenti, ma c’era una clausola da rispettare. Era un cavillo che passava di generazione in generazione nella famiglia Willstone, secondo il quale c’erano delle condizioni da mantenere in atto per il bene della famiglia. Questa era una legge spirituale emanata dal capostipite dei Willstone e stabiliva che ogni Willstone dovesse concepire almeno tre figli, di cui almeno due dovevano essere maschi e la femmina in grado di concepire entro i trent’anni bambini. All’alba del testamento ogni Willstone doveva decidere insieme alla moglie, se ancora viva, a chi donare i proprio soldi, ma a delle condizioni: nessuna femmina poteva ereditare la casa; nessun uomo poteva ricevere tutta la somma di denaro, ma solo parte di essa; ciascuno dei figli avrebbe ricevuto in dote anche un dono speciale e insieme ad esso un segreto, ovvero uno dei dieci segreti della famiglia: infatti la famiglia Willstone possedeva dieci clamorosi segreti la cui segretezza era essenziale e nessuno li aveva rivelati, solo i Willstone in carica li conoscevano e dovevano decidere di rivelarne uno a ciascuno dei loro figli e rivelare i restanti segreti a colui che avrebbe ricevuto la maggior parte del patrimonio. Nessuno di coloro che avevano ricevuto il segreto avrebbe potuto rivelarlo a qualcuno, tranne al momento del testamento successivo. Evandra conosceva i segreti e doveva decidere cosa fare, provando a sostenere anche il marito nella malattia.

-Dobbiamo fare delle scelte, non solo di denaro, ma di parola- ripeteva ad Arthur, sdraiato nel letto con la febbre. 

-Cosa ha detto il dottore?- chiese Martin, il nipote, figlio di Carl.

-Hai sedici anni, caro ragazzo, non preoccuparti troppo per chi muore. Tuo nonno avrà vita migliore in Paradiso. E’ venuto il Dott. Stevenson e ha definito questa malattia come una peste moderna incurabile; non capisco. Non sembra peste, sembra influenza.-

-Papà è più bravo del Dott. Stevenson.- obiettò Martin.

-Tuo padre è via per lavoro, ma arriverà con tuo zio Mortimer oggi pomeriggio. Accontentiamoci di questa visita speciale del dottore e aspettiamo.-

Si fece avanti l’infermiera che veniva giornalmente a somministrare le medicine, una donna giovane dai lunghi capelli castano e un velo bianco che li copriva.

  • Vuole che somministri del sedativo?- chiese acidamente.

-No, non è un cavallo imbizzarrito.- contestò Evandra -E’ un uomo ed è mio marito!-

-Ma non vogliamo farlo soffrire.- insistette lei.

-Non vogliamo nemmeno che diventi stupido! Chiusa la questione.- si voltò verso Martin -Ora scendi e gioca con tuo cugino; io arriverò dopo. Devi dire a zia Carol di non disturbarmi per qualche ora, mentre mi riposo.-

Martin obbedì da bravo ragazzo e uscì dalla stanza, seguito subito dall’infermiera. 

Evandra non voleva più essere disturbata da qualche anima inquieta che provava ad aiutare o consolare, voleva stare sola e pensare. Serviva tempo per decidere, ma doveva ragionare per conto proprio. Dare la casa a uno fra Carl e Mortimer non era facile, ma voleva che comunque l’intera abitazione rimanesse curata e sotto attenti occhi vigili e costanti. Non era difficile spartire il patrimonio, ma di più quali segreti confidare e a chi. Chi scegliere come erede principale? Era una decisione da prendere quanto prima possibile.

Arthur ansimò e si destò. Forse avrebbe dovuto davvero dargli un altro sedativo. 

-Ora deciderò, caro; anzi, decideremo noi due cosa fare della nostra progenie.-

L’uomo avrebbe voluto parlare, ma il dolore glielo impediva. Era bloccato a letto senza via d’uscita. Evandra era sempre triste, quando lo vedeva in simili condizioni, ma non poteva sicuramente lasciarsi abbattere, un Willstone non lo avrebbe permesso. 

-Forse dovrei aspettare ancora; finché tu non sarai in grado di parlare, io non scriverò nulla.-

-No!- fu una voce misteriosa e improvvisa, che proveniva dal letto del malato. La donna si voltò di scatto per capire chi lo avesse detto, ma non c’era nessuno, solo ombra e malattia. In quella stanza nuda e polverosa una persona avrebbe potuto parlare eccetto lei: Arthur stesso. 

-Sei tu che parli, mio Arthur?-non si accorse di star parlando con un uomo debilitato.

-Non può essere lui.- la voce proveniva dalla porta della camera da letto. Evandra si voltò.

-Sei tu, Anastasia?-

-Non mi riconosci?- chiese infastidita lei.

-Si, scusa.- disse l’anziana signora -Vorrei tanto trovare un senso a tutto questo.- si sedette.

La figlia era una donna dal tetro carattere, con lunghi capelli neri e un contrastante rossetto intenso. Appoggiò il cappotto e si avvicinò alla madre, osservandola attentamente.

-Come sta papà?-

-Non sta, semplicemente per il fatto che fra poco non sarà più tra di noi.-

-Non diciamolo!- gridò lei.

-Abbassa la voce! Potresti svegliarlo!-

-Se per te è morto, è impossibile che io riesca a svegliarlo- ribatté Anastasia.

Evandra ignorò quell’affermazione -Cosa vuoi da me?-

-Sono venuta a salutarti, sei mia mamma dopo tutto.- rispose l’altra.

-Sei sola? C’è qualcun altro?-

-Gli altri arriveranno presto, io sono stata la prima dopo Martin.-

-Meno male che sei venuta, almeno qualcuno che si preoccupa per Arthur.-

-Papà era un brav’uomo. Merita di essere rispettato per ciò che ha fatto a te e a noi.-

-Esatto, ora dovrò decidere e tu sai cosa.- si mise le mani nei capelli.

-Non posso scegliere io per te, perché sarei tentata di pensare al mio rendiconto, però ti chiedo solo di agire con saggezza, madre, nient’altro.-

-Cercherò di rispettare le vostre esigenze, ma quella clausola segreta mi stringe il cuore.-

-E’ la maledizione della famiglia Willstone, evidentemente.-

-Siamo una famiglia maledetta, hai ragione tu.- prese un pezzo di carta e gettò giù qualche riga. Anastasia rimase a fissarla, fino a quando sua madre non le rivolse uno sguardo fulminante.

-Ora puoi andare a giocare con tuo nipote.-

-Certo, madre, ci vediamo più tardi.- Anastasia dovette andarsene. 

-Non vi farò attendere, anche se adoro essere desiderata.-

 

Anastasia scese le scale ed arrivò nel lussuoso salone della casa. Sentiva che quella villa emanava un odore maligno di museo polveroso; avrebbe tanto voluto rimediare a quel tanfo tanto terribile. Il tappeto che ricopriva le scale era come un ammasso scombinato di stracci. Non accettava un simile disordine e chiamò il maggiordomo.

-Signor Stevens, venga qui.- 

L’uomo si avvicinò elegantemente -Cosa desiderate mia signora?-

-Pulite questa casa. Non vedete quanto è lurida?-

-Lady Willstone non vuole che in periodo di lutto l’abitazione possa sembra allegra.-

-Quindi è stata lei a dirvi di non pulire?-

-Sissignore, non prenderei mai simili decisione in modo volontario.-

-Bene, ora torna ai tuoi doveri.-

Stevens fece un inchino e cambiò stanza, rientrando in cucina dove probabilmente lustrava i bicchieri del servizio di classe, quello buono. Anastasia invece non sapeva dove andare: giocare con i bambini era l’ultima idea plausibile, quindi andò nell’area dedicata al tè e ci restò. Sfogliava qualche rivista, ma si accorse che la coppia del giornale era di una settimana prima. Il lutto aveva portato sua madre a bloccare persino la circolazioni di merci all’interno della dimora. Lo richiuse e lo sbatté sul tavolino, attendendo l’arrivo dei suoi fratelli.

 

                               

Carol era partita con un automobile a dir poco lussuosa. La direzione era l’amabile villa di famiglia. Accendeva la radio, con la speranza che la musica poco gradevole potesse distoglierla dalla monotonia del mondo circostante. Non poteva sopportare di passare settimane nelle casa paterna per una stupida regola di famiglia, che assurdità!

“Devo imboccare il sentiero del bosco o del borgo antico?” si domandava.

Prese la via che meglio ricordava: ovvero la seconda. Se fosse stata quella giusta, avrebbe visto la nobile dimora in lontananza, altrimenti, avrebbe potuto fermarsi al pub e bere qualcosa. Non era una sana filosofia di vita, ma non si lamentava di se stessa.

Il telefono squillò.

“Chi è?” chiese lei. Rispose una voce seria e profonda.

-Sorellina, dove diavolo sei?- rispose all’altro capo. Era suo fratello Carl.

“Sto attraversando il vecchio borgo, non ricordo mai come si chiama!”

-Lo so io meno di te, cara. A che ora arriverai?-

“Non so, spero tardi. Spero sia allagata la strada”

-Non sono il solo a desiderare la morte immediata di nostra madre e padre.-

“Brutto scemo! Non desidero la morte di nessuno, tantomeno di mamma, ma non ha senso ciò che accadrà e lo sai tu meglio di me!” Carol ingranò la marcia dell’auto.

Aveva senso mentire così spudoratamente, un piano ben congegnato non poteva essere ancora intatto, se il suo artefice rivelava il misfatto. 

  
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