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Autore: Licoride    31/07/2015    1 recensioni
È una storia d’amore? Sì, lo ammetto e non mi aspetto certo che sia nuova, l’amore è lo stesso da mille secoli, non sarò io a cambiarlo, io posso solo raccontarlo. Ed è quello che proverò a fare, vi parlerò di Amore sullo sfondo di Venezia, fra le calli nebbiose e riflessi della laguna. Lei bella da far male, lui vittima del fuoco che ne ha cambiato per sempre il volto. Ma questo è il mondo reale, e non c’è nessun bacio della Bella che trasformi la Bestia in principe.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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 Riflessi
 
 
 
Eccola al solito punto. Erano giorni ormai che aveva modificato il percorso che faceva per correre, solo per arrivare in quell’angolo di Venezia che pareva rubato alla storia e nascosto li, tutto per lei.
Si sedette sullo scalino grigio del ponte, erano solo cinque gradini ma formavano un arco prefetto sulle acque scure della laguna. Sentiva ancora le goccioline di sudore scorrerle lungo le tempie e sulla schiena, ma il respiro era regolare. L’aria fredda d’inizio ottobre pizzicava in gola ma era meravigliosa. Era la prima mattina così fresca quella, ma il sole e il cielo limpido le permettevano ancora di correre in pantaloncini.
Odiava il freddo, ma doveva ammettere che quella città già magica diventava ancora più suggestiva quando la foschia lattiginosa scendeva nelle calli, nascondendo il mondo moderno con le sue antenne e cavi e ti permetteva di immaginare di essere il quell’epoca d’oro che aveva reso quella palude una leggenda.
Davanti a lei c’era un cancello di ferro nero, arrugginito sui cardini e abbracciato da un’edera ormai più arancione che verde. Un vecchio catenaccio lo teneva chiuso, ma da un pezzo aveva imparato che non era certo quello che rendere il paradiso all’interno invalicabile. Con uno scatto si rialzò in piedi, svoltando a sinistra per entrare in una calle strettissima che seguiva il muro rosa. C’era un punto in cui l’intonaco era così rovinato da lasciar a vista le pietre sottostanti, era lì che aveva imparato come entrare nel giardino di quella villa.
Si arrampicò fino in cima, stando ben attenta ai cocci di vetro che da sempre erano usati come antifurto e deterrente per quei dannati piccioni, e si ritrovò in un attimo dall’altra parte. Scese aiutandosi con l’albero di tamerice che si trovava proprio in quel punto ed eccolo lì, il giardino nascosto. Trovare un simile angolo a Venezia è un tesoro incalcolabile, continuava a chiedersi come si poteva abbandonare una meraviglia simile. Sì perché quello era il giardino di una villa che non aveva mai visto aperta. Le imposte verdi, sbiadite dal tempo, erano sempre chiuse e sembrava che fra quelle mura non passeggiasse nessuno da anni. Era un tale peccato, ma se fosse il contrario, lei non potrebbe essere li.
L’erba cresceva fra le pietre che lastricavano il piccolo sentiero che attraversava il giardino, c’erano i segni di quelle che un tempo dovevano essere state aiuole, ora occupate selvaggiamente da fiori di ogni tipo e gli alberi crescevano fuori controllo verso i raggi pallidi. C’era anche lo scheletro di un gazebo, era in ferro battuto, la copertura era scomparsa da un pezzo, sostituita da una trionfante pianta di glicine. I grappoli lilla non sarebbero comparsi fino ad aprile, ma le piccole foglie erano ancora verde brillante. C’era una panca in pietra sotto, in buona parte ricoperta di muschio e licheni, ma non era mai stata una principessa schizzinosa. Si sedette li, era diventato il suo posto preferito, anche perché si trovava proprio difronte a un altro cancello, che dava direttamente su uno dei mille canali della città. Chiuse gli occhi, inspirò l’aria umida e salmastra, sognando secoli passati.
Era così facile, li, in quel giardino, confondere il tempo e perdersi nelle sue nebbie.
Si era trasferita da un paio di settimane da una su amica che, studiando alla Ca’ Foscari e avendo dei genitori rasi di soldi, viveva in un piccolo appartamentino proprio a Venezia. Certo, così era più vicina anche al suo ex che viveva proprio in quella città, ma era abbastanza grande e affollata per entrambi e finora il fato non li aveva mai fatti incontrare.
All’inizio, quando il suo editore le aveva proposto un romanzo ambiento alla Serenissima ,Beatrice non era stata particolarmente entusiasta. Tuttavia il suo ultimo libro stava vendendo bene, le lettrici erano innamorate delle ambientazioni storiche che aveva usato, e cosa meglio della Venezia settecentesca di Casanova poteva assicurare le vendite del suo prossimo romanzo. Così aveva deciso di approfittare di quell’amicizia e di immergersi completamente nei luoghi in cui avrebbero passeggiato i suoi personaggi.
 Certo, quando aveva iniziato a scrivere immaginava tutto un altro genere per le sue opere, ma aveva scoperto che erano i romanzi rosa quelli che si vendono più facilmente, e che non le riuscivano neppure tanto male. Così eccola li, dentro di sé viveva un universo fantasy, ma sulla carta era una scrittrice di romanzi rosa. Sospirò pesantemente, era il lavoro dei suoi sogni, era una scrittrice, ma per nulla al mondo avrebbe rinunciato a quello che davvero desiderava.
Era nel primo cassetto della scrivania, in una cartella di pelle marrone, logora e scolorita ma perfetta per quello che definiva suo “figlio”, una trilogia fantasy che l’avrebbe resa famosa a livello mondiale, e immortale. Voleva scrivere qualcosa di epico, di memorabile, e lo stava facendo ormai da mesi. Era in continua evoluzione la sua creatura, un groviglio di appunti e di correzioni che un giorno avrebbe preso vita. Qui, pensò in quel momento, scriverò qui. Perché del resto era il suo posto preferito, in cui le idee nascevano spontanee come l’erba fra i ciottoli.
 
La prima volta erano stati i suoi capelli, quella cascata di onde castane dai riflessi dell’oro e del bronzo che lo avevano colpito come una luce abbagliante. Passava davanti a quella finestra a giorni alterni, sempre alla stessa ora, e lui aveva iniziato ad aspettarla come a un appuntamento cui non sapeva di essere invitata, ma desiderata quanto un’amante.
A volte passava semplicemente, con le cuffiette bianche nelle orecchie e i capelli raccolti, altre volte, quelle che preferiva, si fermava sul ponte proprio davanti alla finestra, e restava li, a guardare il mondo attorno a se quasi fosse un regalo fattole personalmente e solo per lei.
Teneva sempre le imposte chiuse, per tenere quel mondo per lei così bello fuori da quell’inferno che era diventata la sua vita, ma riusciva comunque a vedere attraverso le crepe e gli arabeschi centenari che le decoravano. Quando alla fine si alzava per andarsene, la seguiva con lo sguardo finché poteva, fino a quando svoltava sempre a destra e scompariva.
Si malediceva ogni giorno, era umiliante comportarsi così, come il più infimo degli stalker, eppure ogni volta si ritrovava a quella finestra ad aspettarla. Sfigato, vigliacco.
Due anni prima sarebbe uscito il primo giorno a parlarle e la notte l’avrebbe già trascinata nel suo letto. Era così facile da annoiarlo, bel contrappasso aveva avuto per la sua vanità e superficialità. Gli avevano ripetuto fino allo stremo di ringraziare dio di essere vivo, lui lo aveva maledetto fino a non crederci più. Quale Dio? Era uno scherzo malvagio quello che gli aveva fatto il destino, sempre che ce ne fosse uno.
Un rumore di passi lo riscosse dalle sue recriminazioni, il rumore dei suoi passi.
Indossava una felpa gialla quel giorno, gli shorts lasciavano scoperte le gambe ancora dorate, lunghe e muscolose. Si fermò, come sperava, e si sedette sempre sul solito gradino. Guardava verso il suo cancello, gli occhiali nascondevano i suoi occhi, in tutto quel tempo non era mai riuscito a capire di che colore fossero, era una cosa che lo irritava, ma al contempo lo affascinava non sapere niente di lei se non quello che la sua prigione lasciava intravvedere.
Era pensierosa, si toccava le labbra con due dita e aveva capito che lo faceva quando pensava a qualcosa, lo faceva spesso. Rimase poco quel giorno, si alzò quasi subito e s’infilò rapida nella calle che costeggiava il retro di casa sua e portava al campo.
Sarebbe bastato aspettarla in strada dopodomani, “Ciao, come stai? Passi spesso di qua?” e tutto il resto era già scritto. Certo idiota, si riprese, almeno che non sia cieca correrebbe via subito appena vedrebbe la tua faccia. Mise a fuoco il riflesso sul vetro, il riflesso del suo volto. Sentì il calore delle fiamme che divoravano la pelle come quella maledetta notte, lo stridio delle lamiere che si accartocciavano stritolandogli la gamba, il sapore ferroso del sangue. Si allontanò furioso dalla finestra, un pugno ricoperto da un guanto colpì il tavolo, afferrò il vaso polveroso che vi era sopra e lo scagliò urlando verso quel mostro che lo guardava dalla finestra. Una fitta alla gamba lo fece piegare in due, costringendolo a inginocchiarsi a terra. Le domande come perché a me e quando finirà ormai erano finite da un pezzo, lasciando posto solo ad una rabbia sorda.
 Tutto ciò che era stato, giovane, affascinate e promettente, ricco e con il mondo che lo aspettava per essere suo, se ne era andato per sempre. Ora era solo un abominio, allontanato persino da quel padre che tanto credeva in lui e che lo aveva premurosamente rinchiuso in quella vecchia casa, una riabilitazione che sapeva di ripudio. Come se il senso di colpa e il suo aspetto non fossero un fardello già sufficiente in quel purgatorio che era la sua esistenza.
Annalia stava finendo di pulire l’entrata quando sentì quel trambusto al piano di sopra. No, pensò, non ancora “Mi niño”.
Salì di corsa le scale, per quanto le sue gambette tozze e i suoi 60 potessero permetterglielo, e guardò in ogni stanza finché non lo trovò. Era a terra, le mani strette a pugno, i selvaggi capelli neri gli ricoprivano parte del volto. Si dondolava aventi e indietro, fissando i cocci di quello che doveva essere il vaso che aveva messo a centro del bel tavolino di mogano.
“Va tutto bene, Anna.” Mormorò con voce fredda e incolore.
Si portò le mani al cuore, vederlo così glielo spezzava ogni giorno di più. Era la cosa più vicina a un figlio che avesse mai avuto, non poteva sopportare tutto quel dolore, quella rabbia.
Mosse un passo verso di lui, ma alzò subito una mano come a bloccarla.
“Ho detto che sto bene.” Alzò la voce questa volta, il fuoco aveva bruciato la gola e ogni volta era come sentire ancora le fiamme in fondo alla gola bruciare come l’inferno.
“Il pranzo sarà pronto fra poco.” sussurrò Annalia prima di voltarsi. Scese le scale lentamente, con una mano stretta attorno alla croce che porta al collo. Era una brava donna, ma ogni giorno malediceva quella dannata auto, quella notte fatale, quel vigliacco del padre che lo aveva abbandonato.
 
Beatrice tornò nel pomeriggio, il cielo era limpido e il sole ancora caldo. La borsa a tracolla era un po’ ingombrante per scavalcare quel muro, ma niente d’impossibile. Si sedette sulla panca, estrasse il quaderno e la penna e le parole scorsero fluide come fossero sempre state su quei fogli. Era l’epoca dei computer, e infatti era li che scrivere le versioni definitive, ma niente è come il grattare della penna sulla carta. Quello è il rumore di un’anima che si riversa in un foglio, il suono dell’eternità della memoria scritta, di milioni di scrittori nei secoli.
Quando scriveva tutto attorno a se si fondeva in un universo parallelo in cui lei era un dio onnipresente, con il potere di creare, era la sua vita, il suo destino.
 
 
 
 
 
   
 
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