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Autore: A lexie s    02/08/2015    7 recensioni
[CaptainSwan Au]
Dal primo capitolo: Gli sguardi di tutti puntati su di lei, sorrisi dipinti sui volti dei presenti ed occhi pieni di commozione. Non sapeva che espressione avesse, la sua sicurezza non tradiva alcun tipo di agitazione nonostante agitata lo fosse parecchio.
Un paio di occhi azzurri si distinsero in quella massa di persone che la fissavano. Due occhi azzurri come il mare, un mare caldo, un mare d’estate quando il sole riscalda la pelle e le onde s’infrangono piano sulla battigia.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Swan, Killian Jones/Capitan Uncino
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Never gonna be alone

Capitolo 3

Era piacevole stare semplicemente lì senza far nulla.
Sentire la consistenza dell’erba sotto al proprio corpo ed i raggi del sole posarsi sulla sua pelle. Un momento di quiete, non ne aveva avuti molti nella sua vita sempre impegnata a fare qualcosa per andare avanti senza accorgersi che il tempo passa inesorabilmente.
Aveva trovato quella piccola radura quasi per caso durante una delle sue passeggiate. Non aveva avuto molto possibilità di fare escursioni da piccola, per lo più stava chiusa in quella piccola struttura in ferro o nel piccolo spiazzale adiacente che era tutto fuorché un parco. Con l’età non vi aveva più prestato attenzione e di conseguenza importanza, si era lasciata prendere dalla frenetica vita cittadina ed aveva dimenticato quanto desiderasse un’avventura nei boschi o semplicemente mangiare seduta su una piccola tovaglia a scacchi e con un cesto di vimini lì accanto.
Continuava a rigirarsi tra le mani un piccolo filo d’erba, mentre la natura attorno a lei si svegliava. Tutto brulicava di vita, il cinguettio degli uccelli, il frusciare timido delle foglie sugli alberi ed altri suoni che non riusciva ad identificare e che rendevano quel posto quasi incantato.
Ci fu un altro suono che la distolse dai suoi pensieri, ed era un suono facilmente identificabile visto che non aveva nulla a che vedere con la natura.

Time, is going by, so much faster than I,
And I'm starting to regret not spending all of it with you.

 
Il suo cuore cominciò a battere freneticamente mentre assumeva una posizione scomposta per cercare quell’aggeggio dentro la borsa. Non aveva nemmeno bisogno di leggere il nome sullo schermo, quella suoneria già svelava tutto ciò che voleva sapere, era stato lui ad impostargliela per ricordarle che non sarebbe mai stata sola.
 
Now I'm, wondering why, I've kept this bottled inside,
So I'm starting to regret not telling all of this to you.
 
Rigirò il cellulare tra le mani mentre osservava la foto lampeggiare sullo schermo. Ricordava l’esatto momento in cui l’avevano scattata, carnevale di qualche anno prima. Non si erano mai travestiti ma quell’anno avevano deciso di farlo, di abbandonare i propri panni e rivestire quelli di qualcun altro per una sera. Doveva essere bello dimenticare i propri problemi per un attimo e semplicemente vivere come qualcun altro. Lui indossava un panciotto scuro con dei ricami in oro ed un lungo cappotto, ma per caratterizzare il suo look da pirata non poteva non servirsi di un vecchio uncino in metallo che Emma aveva trovato per lui nel piccolo rigattiere in cui lavorava in quel periodo. In quella foto, con quell’uncino e con la sua mano formava un asimmetrico cuore destinato a lei. Non era mai riuscita a toglierla, le ricordava quella serata spensierata e buffa.
Trascinò il dito sulla cornetta verde e si decise a rispondere alla chiamata, indugiò un attimo prima di portare l’apparecchio all’orecchio e quando lo fece la prima cosa che udì fu un piccolo sospiro seguito dal suo nome.
“Ciao Killian” prese nuovamente un piccolo filo d’erba e cominciò a torturarlo con le dita, stavolta, staccandone piccole parti e lasciando che si ricongiungessero al prato.
“Swan, come stai?” Il suono caldo della sua voce riuscì a rilassarla, il sole cominciava a darle fastidio quindi si alzò lentamente, cercando di non far cadere il telefono che aveva adagiato tra il collo e l’orecchio piegando la testa, si pulì la terra che le era rimasta attaccata al retro dei pantaloni ed andò ad appoggiarsi all’ombra di una grande quercia.
L’uomo, dall’altro capo del telefono, aspettava pazientemente. La sua mano ricadeva piano sulla coperta in lino blu che rivestiva il suo letto a due piazze, guardandosi intorno e interrogandosi sulla sua inutilità dal momento che non aveva qualcuno, lei, con cui condividerlo.
“Tutto bene..” Mormorò piano, non aggiungendo altro, cosa che non gli sfuggì. Aveva composto il suo numero un po’ come un impulso meccanico, qualcosa di simile ad un’abitudine che ormai non aveva nemmeno più visto che era passato quasi un mese dall’ultima volta che si erano sentiti.
Lei lo aveva chiamato solo per avvisarlo del suo arrivo, solo per non farlo preoccupare si era rassicurata mentalmente. Nei giorni a seguire aveva trovato altre scuse per chiamarlo, l’amore riscoperto per il formaggio grigliato, una piccola barchetta a vela che aveva visto al porto, la radura che aveva trovato, tutte cose che voleva condividere con lui. A tutte quelle scuse non erano seguite chiamate, non aveva avuto la forza per paura che forse avrebbe preferito non sentirla, un taglio netto no? Si dice così.
Quindi aveva sempre desistito alla fine, anche se aveva osservato il suo nome sullo schermo un centinaio di volte.
“Sei imbarazzata?” Se c’era una cosa che aveva sempre adorato in lui era il suo essere diretto. Killian era spontaneo, spesso non si preoccupava di dire cose che altri avrebbero evitato ma sapeva usare le parole, era molto bravo in questo al contrario suo.
Sorrise e scosse brevemente la testa in segno di diniego come se lui avesse potuto vederla, dimenticando per un secondo che non fosse così.
“Non devi esserlo, sai, non è come se non potessimo più sentirci, giusto?” Aveva dimenticato di non avergli realmente risposto.
“Non lo sono. Pensavo che forse non avresti avuto molta voglia di sentirmi.” Chiarì poco dopo, per lei pronunciare determinate parole ad alta voce era quasi uno sforzo immane. Cosa poteva dirgli? Che non era giusto che lei lo tenesse ancorato a sé anche solo chiamandolo, che aveva il diritto di andare avanti se ne avesse avuto l’occasione?
“Che sciocchezza” constatò lui, era leggibile anche qualche forma di rabbia nella sua voce come se lo infastidisse terribilmente che lei avesse potuto pensare una cosa del genere.
Ancora silenzio, un silenzio imbarazzante sul serio stavolta, non come quelli che erano abituati a condividere solitamente. Il loro rapporto, seppur ricco di tante parole, era stato sempre imperniato dalla presenza di molti silenzi, quei silenzi giusti in cui non vi è bisogno di dire nulla, quelli che significano semplicemente esserci e condividere qualcosa senza bisogno di parole.
Invece quel silenzio sapeva di “non so che discorso toccare per non farti soffrire, non so che parole usare per tenere alla larga ciò che ti fa male”. E sebbene Killian fosse più bravo di lei con le parole, questa volta nemmeno lui sapeva da dove cominciare, così decise di chiedere la cosa più banale che si può chiedere ad una persona che si è appena trasferita in una nuova città.
“Come ti stai trovando?” A quella domanda all’apparenza semplice Emma non seppe subito dare risposta. Non era realmente semplice dal momento che rispondendo “bene” lui avrebbe potuto intendere che non nutrisse una certa tristezza dovuta alla sua mancanza, mentre rispondendo “male” avrebbe potuto soltanto sollecitarla a tornare e lei, forse, avrebbe ceduto quella volta.
“Storybrooke è davvero carina” tre ore a pensare e quella era la cosa più sensata che era riuscita a dire. Grandi progressi Emma.
“Non senti la mia mancanza?” Era persino dolce il modo in cui le aveva posto quella domanda ed Emma inaspettatamente rise, non per prenderlo in giro quanto per l’incredulità che potesse credere il contrario. “Ti faccio ridere, eh?” Riusciva quasi a vedere il finto broncio che aveva messo su, poi lo immaginò mentre si grattava l’orecchio, oddio persino quello le mancava.
“Uhm.. Un pochino” disse infine rispondendo alla seconda domanda, mentre per la prima le ginocchia si piegarono automaticamente mentre con il braccio le stringeva al petto quasi per chiudere una voragine che minacciava di aprirsi.
“Solo?”
“Da morire.” Era chiaro ad entrambi che quella fosse la risposta alla prima domanda.
 
Avevano trascorso al telefono una buona mezz’ora durante la quale aveva toccato argomenti decisamente più leggeri. Avevano parlato del lavoro, del cibo, perfino del tempo.
 
“Mi chiamerai?” Sussurrò lui ad un certo punto, quasi volesse una rassicurazione, quella di non dover aspettare altri ventisei fottutissimi giorni per risentirla.
“E tu? Tu mi chiamerai?” Killian era a conoscenza di quel suo vizio, vizio che la portava a rispondere alle domande con altre domande, quindi la sua “risposta” non lo sorprese più del dovuto.
“Mi sembra chiaro che non possa essere altrimenti.”
Le sue labbra si piegarono in un sorriso mentre ascoltava quella risposta, lui sapeva sempre come rassicurarla, come placare i suoi timori, ma allora perché era così difficile stare insieme?
Loro si appartenevano, sarebbe dovuto essere semplice. Nella sua mente tornando a qualche anno fa, lei sarebbe stata egoista, gli avrebbe chiesto di rimanere con lei e di non seguire la sua passione, lui non sarebbe partito ed il tempo non sarebbe trascorso, lei non avrebbe perso il loro bambino in quell’incidente. Un bambino che non sapeva nemmeno di portare in grembo, lui non sarebbe partito altrimenti, si sarebbe assunto le sue responsabilità e li avrebbe amati. Sarebbero stati l’unica famiglia di cui avevano bisogno.
Ed adesso faceva troppo male, nonostante il tempo, stare con lui portando quel segreto dentro.
Aveva perso il loro bambino. E lui nemmeno lo sapeva.
“Lo farò se lo vuoi.” Era troppo stanca, quei pensieri costituivano uno sforzo troppo grande, troppo dolore, troppo senso di colpa nei suoi confronti. Riuscì soltanto a dirgli questo, lo avrebbe chiamato se lui avesse voluto ma adesso aveva bisogno di mettere fine a quella conversazione.
“E’ ovvio che ti voglio, Emma.” Lui aveva voluto dirle altro con quelle parole, la voleva, voleva più di una telefonata ma lei non era ancora pronta a dargli ciò di cui aveva bisogno.
 
Avevano riattaccato poco dopo, lei aveva scattato una foto alla radura e gliel’aveva inviata mentre lui rispose con una tazza di cioccolata con panna, e sicuramente cannella anche se non poteva vederla.
Quella foto le scaldò il cuore, le fece dimenticare i pensieri precedenti per qualche minuto. Era senza dubbio per tenerla più vicina e, magari, anche lui in quel momento ricordava la prima volta che l’avevano bevuta insieme, ripercorrendo il viale dei ricordi come aveva fatto lei qualche settimana prima.
 
***
 
Sentiva qualcosa colarle lungo il viso ed un dolore lancinante ma non riusciva a capire da dove venisse, sembrava coinvolgere tutto il suo corpo. Cercò di aprire gli occhi per capire cosa fosse successo ma non vi riuscì immediatamente, poi sentì delle voci spaventate intorno a lei, persone blateravano su chissà cosa ma lei non riusciva a capire, la sua testa era così pesante.
Qualcuno cercava di rassicurarla ma non sapeva chi fosse, sentiva una mano che le spostava i capelli dal viso e perlustrava la sua testa, ma perché diavolo non si decidevano a tirarla fuori da lì?
Aveva troppo sonno.
C’era puzza di disinfettante, un odore così forte da provocarle la nausea. Tossì e sputò qualcosa, un color cremisi così intenso che altro non poteva essere se non sangue. La sua testa continuava a pulsare, sentiva quasi di impazzire.
“Non ti muovere” le intimò una voce dolce, una donna con dei capelli a fungo si abbasso su di lei e le strinse piano la mano, poi chiamò qualcuno dietro di lei ed una flotta di dottori cominciano a girarle intorno.
Si sentì spostare e poi fu accecata da una luce, pensò di essere morta ma sentiva ancora troppo male. Possibile che la morte fosse così dolorosa?
Senti qualcosa poggiarsi sul suo naso e sulle sue labbra e poi il vuoto.
“Come sta?” Una voce raggiunse i suoi sensi ancora intorpiditi, aveva soltanto dei brevi flash delle ore precedenti. Il camion spuntare all’improvviso e colpire il suo maggiolino giallo, doveva essersi ridotto proprio male pensò tristemente, ne avrebbe comprato uno uguale un giorno si ripromise.
Non riusciva a riconoscere la voce, sperava fosse di Killian ma nonostante non fosse completamente lucida sapeva che non poteva essere così. Lui non c’era.
“Si dovrebbe risvegliare a breve, non possiamo dirle altro, lei non è un familiare.” Aprì lentamente gli occhi, era più difficile di quanto immaginasse. Come poteva un movimento quasi meccanico risultare così pesante, provò nuovamente fino a quando riuscì a mettere a fuoco una piccola stanza bianca e asettica. Qualcosa le pungeva il braccio, si voltò piano e vide delle flebo con un enorme ago conficcato nella sua pelle.
Sentiva ancora di avere qualcosa sulla faccia, alzò il braccio libero e provò a togliere la mascherina quando qualcuno la raggiunse.
“Vedo che ti sei svegliata, cara.” Una signora sulla cinquantina le si avvicinò bonaria e le tolse la mascherina, “questa possiamo toglierla visto che riesci a respirare da sola”.
Le sollevò piano la testa e la ragazza gemette di dolore, ma c’era anche un altro dolore che coinvolgeva il suo addome, il suo viso si contrasse e lei cercò di respirare lentamente.
“Ti aumento un po’ le dosi della morfina così non sentirai altro dolore” la donna che suppose fosse un’infermiera si avvicinò alla flebo e regolò le dosi della morfina mentre spiegava il tutto ad Emma per evitare che si agitasse, anche se quella non riusciva davvero a capire nulla, quasi nemmeno la sentiva. Ciò che comprese fu quando le venne detto che il dottore sarebbe arrivato in breve per assicurarsi delle sue condizioni.  
 
***
 
Emma si alzò di colpo ansimante. In un primo momento non comprese dove si trovasse, poi si ricordò del matrimonio mancato, di Killian, del suo viaggio. Storybrooke. Era nella sua stanza a Storybrooke e tutto quello che aveva sognato non stava accadendo adesso, era successo due anni prima.
<< E’ passato >> si convinse mentalmente, lo ripeté ad alta voce per tranquillizzarsi mentre portava una mano al petto e cercava di regolare il respiro per provare a rallentare i battiti cardiaci.
Aveva i capelli attaccati alla fronte, ed aveva la pelle imperlata di sudore. Scostò il lenzuolo leggero e con i piedi lo spinse affinché si raggomitolasse e le permettesse di alzarsi. Cercò a tentoni la luce dell’abatjour e l’accese.
Decise di fare una doccia, nonostante fosse notte, aveva bisogno di lavare via i brutti pensieri, il sangue e la puzza di disinfettante che aveva rivissuto in quell’incubo. Si tolse il pigiama ed entrò nella doccia sperando che lo scorrere dell’acqua potesse aiutarla a rilassarsi e magari conciliarle il sonno. Mise un po’ di bagnoschiuma sulla spugna e sfrego forte le braccia e le gambe come a voler lavar via residui di sangue che ormai non vi erano più da tempo. Non faceva incubi da più di un anno ormai, ma quella telefonata pomeridiana aveva risvegliato in lei vecchi ricordi, in realtà, nonostante gli incubi si fossero diradati nel tempo, ogni volta che sfiorava Killian o lo fissava negli occhi non poteva fare a meno di chiedersi se il loro bambino avrebbe avuto gli occhi azzurri e brillanti come i suoi, oppure quella piccola fossetta che gli compariva sulla guancia destra ad ogni sorriso riservato a lei. Forse per questo le faceva così male stare con lui, vedeva in lui ciò che aveva inesorabilmente perso, ed era ovvio che non fosse colpa sua però la faceva soffrire comunque.
Un piccolo Killian, un bimbo vivace con gli occhietti blu ed i riccioli neri, la mani e le guanciotte paffutelle. In realtà, era troppo presto anche solo per conoscerne il sesso quindi avrebbe potuto essere anche una bambina, ma lei la immaginava sempre uguale a lui.
Non era mai riuscita a dirglielo, certi giorni ci era andata vicino quando faceva troppo male anche solo guardarlo, ma era già passato un anno dall’accaduto prima che lui tornasse e per un periodo, anche grazie a Neal, sembrava stare meglio.
Quando era tornato, l’aveva trovata con un altro uomo, gli si era spezzato il cuore ma poi aveva preferito avere una parte di lei anziché niente, non sapendo che aveva ancora tutto di lei. Poi avevano ricominciato ad amarsi, non avevano mai smesso.
Sciacquò via tutti i residui di bagnoschiuma, non sapeva esattamente quanto tempo fosse trascorso mentre si perdeva in quei pensieri ma aveva le mani abbastanza raggrinzite quindi suppose abbastanza.
Frizionò bene la pelle ed indossò un pigiama pulito prima di tornare a letto. Aveva paura che riaddormentandosi avrebbe continuato quel brutto sogno da dove si era interrotto, questo comprendeva la parte peggiore e la notizia più dolorosa che non voleva rivivere ancora una volta, troppe volte per troppe notti e giorni l’aveva tormentata. Qualsiasi cosa facesse era lì come un tarlo che la torturava da dentro scavando un buco profondo nella sua anima.
Cercava di chiudere la sua mente, si impegnava a ripetere filastrocche o canzoni, persino a fare i conti piuttosto che lasciarla libera di vagare. Forse aveva rifiutato di abbandonarsi a quel dolore, forse se lo avesse coinvolto, se avesse rivelato tutto a Killian avrebbero potuto superarlo insieme però adesso era passato troppo tempo, perché avrebbe dovuto infliggergli altra sofferenza?
Bastava la sua, se lo avesse tenuto lontano non avrebbe mai avuto possibilità di dirglielo e lui, un giorno, l’avrebbe dimenticata e sarebbe andato avanti.
“Mi chiamerai?” La sua promessa continuava a martellarle la testa, gli aveva detto che lo avrebbe fatto ma a cosa avrebbe portato? Solo altra sofferenza per lui, ed il doppio della sofferenza per se stessa unita al senso di colpa.
Spense la luce e si convinse a stendersi nuovamente, si mise su un fianco, poi a pancia in giù, poi sull’altro fianco ma non riusciva a trovare una posizione comoda.
Non poteva controllare il suo inconscio, poteva però controllare la parte conscia e se magari si fosse permessa di rivivere quei terribili momenti, forse sarebbe riuscita a controllarsi meglio e non si sarebbe svegliata nuovamente senza respiro e col cuore scalpitante.
 
Il dottore era arrivato qualche minuto dopo, le aveva controllato il polso e poi le aveva poggiato lo stetoscopio al petto e le aveva chiesto di fare respiri profondi, e lei ci aveva provato nonostante avesse poco fiato.
I ricordi di tutto quello che c’era intorno erano un po’ sbiaditi, non riusciva a ricordare cosa disse esattamente o di chi fossero le voci che sentiva, sicuramente c’era la televisione accesa visto che era un mormorio continuo.
Ricordava però il preciso istante in cui le aveva dato la notizia della sua gravidanza e ricordò le emozioni provate. Prima paura perché non era pronta ad un bambino, poi la voglia di avere Killian vicino, poi la gioia e l’amore verso qualcuno che non c’era ancora, poi nuovamente la paura perché non sapeva se stesse bene o meno.
Si era portata le mani al ventre, nonostante riuscisse a muoversi a mala pena, lo aveva accarezzato piano e si era stretta con le braccia quasi a volersi proteggere, voleva proteggerlo dopo tutto ciò che gli aveva fatto passare in quelle ore.
Poi, aveva visto lo sguardo del dottore farsi triste in un lampo, prima che la perfetta maschera di compostezza coprisse tutte le sue emozioni, ricordò di essersi spaventata molto.
“Io non lo sapevo” doveva aver sussurrato qualcosa del genere, la sua voce era sicuramente uscita in maniera discontinua ma era comunque riuscita ad essere comprensibile, “sta bene, vero?”
“Mi dispiace” aveva mormorato quello. Solo due parole che avevano mandato in pezzi tutto il suo mondo. La mano del dottore si era adagiata piano su sulla sua ancora tremante e poi era entrata  l’infermiera che l’aveva aiutata prima, le si era avvicinata, le aveva accarezzato lentamente i capelli stando attenta a non farle male,  ma lei inghiottiva dei fiotti d’aria e non riusciva più a respirare mentre gli occhi le si appannavano.
“Su tesoro, fai dei respiri profondi” aveva cercato di tranquillizzarla la donna, passandole ancora la mano sulle braccia, solo dopo quella crisi lei si era lasciata andare completamente ad un pianto disperato.
 
Non aveva mai pensato ad avere figli, anzi l’idea l’aveva sempre spaventata perché lei era cresciuta in un orfanotrofio e non sapeva come fare la mamma, come affrontare una gravidanza, come consolare un bambino e comprendere i suoi più profondi bisogni, nessuno aveva mai compreso i suoi da piccola.
Dal momento, però, che aveva saputo di lui aveva sentito di amarlo, in un istante si era vista con un frugoletto tra le mani e Killian dietro ad accarezzare entrambi, era stato un amore forte ed incontrollabile, un calore nato dal cuore e propagato a tutto il resto del corpo ma già lui non c’era più, il suo bambino non c’era più prima che lei avesse saputo della sua esistenza. Non c’era e lei non aveva nessuno da amare.
 
Le lacrime rischiavano quasi di soffocarla, avrebbe voluto gridare ma era notte fonda ed avrebbe svegliato tutti, per di più, l’avrebbero presa per una folle, probabilmente licenziata e cacciata e non avrebbe avuto dove andare, sarebbe finita sotto ad un ponte – ammesso che a Storybrooke ci fossero, non aveva ancora verificato – senza soldi e senza nulla. Forse l’aveva fatta troppo drastica, ma comunque era meglio evitare di urlare.
Nascose il viso nel cuscino cercando di soffocare i singhiozzi, fino a quando si addormentò stremata e con gli occhi appiccicosi di lacrime.
La mattina successiva fu un totale disastro, non riusciva a combinare nulla di buono. Pensieri della notte precedente affollavano la sua mente, la rendevano stanca ed instabile, irritata persino.
Cercò in ogni modo di superare quella giornata, ogni dieci minuti guardava l’orologio alla parete sperando che il tempo scorresse in maniera più veloce, provò a concentrarsi sul lavoro, ordinazioni, pulire i tavoli, accogliere i clienti, servire i piatti. Doveva essere attenta e meticolosa al lavoro, si era ripromessa che non avrebbe permesso ai cattivi pensieri di intralciare il suo lavoro ma quel giorno fu particolarmente difficile.
Alla fine del suo turno era stremata, ovviamente non aveva telefonato a Killian ed aveva trovato un suo messaggio in cui le chiedeva come andasse, non aveva risposto. Aveva persino spento il telefono sapendo che se lui avesse chiamato non sarebbe riuscita ad ignorarlo e non riusciva a parlare con lui in quel momento, non riusciva a parlare con nessuno veramente.
Ruby le chiese se le andasse una serata tra donne, lei e Mary Margaret dovevano andare in un nuovo locale il “The Rabbit Hole” che aveva aperto da poco. Un paio di cocktail, qualche Margarita ed una buona dose di Tequila forse l’avrebbero aiutata ma non le andava di uscire. Declinò l’invito, ma non si poteva semplicemente rifiutare un invito di Ruby, non funzionava così. Le ragazze irruppero nella sua stanza, le intimarono di vestirsi e la trascinarono fuori.
Il locale era piccolo ed affollato, la musica era decisamente troppo alta per i suoi gusti e l’odore d’alcool era quasi inebriante, unica nota positiva.
C’erano diversi individui dall’aria discutibile che non facevano altro che bere e giocare a biliardo, mentre altri semplicemente ingurgitavano noccioline in quantità con in mano un bicchiere di Scotch.
Sembravano tutti rilassati o forse cercavano solo di affogare i pensieri nel liquido ambrato e, forse, avrebbe fatto meglio a fare lo stesso.
Ci diede giù pesante: Tequila, Vodka, persino il Rhum. Ed era stata una cattiva scelta, quel liquido le ricordava Killian, dannazione, sapeva essere il suo preferito.
“Emma, forse è il caso che andiamo. Hai bevuto parecchio.” Ruby rise, anche lei un po’ brilla, mentre Mary Margaret rimbeccava Emma. Lei era la sobria del gruppo e non solo perché doveva guidare.
Trascinò le due amiche fuori, l’aria fresca fu un utile per entrambe. Emma si sentì subito più lucida, e non era un bene dal momento che avrebbe volto farsi dodici ore di sonno senza pensieri e senza incubi.
“Puoi portarci a casa?” Biascicò, poi rise rumorosamente. Casa si fa per dire, avrebbe dovuto dire puoi portarmi nella mia piccola stanza alla locanda, completamente sola e senza più nulla? Ci pensò su ridendo, sarebbe stato meglio non riformulare. Decisamente.
“Dai, Emma, è appena mezzanotte.” Ruby aveva ancora voglia di divertirsi, mentre l’altra concordava esattamente con Emma.
“Ho sonno, vi ho accontentate ma adesso voglio andare” si avviò verso l’auto, “per favore” supplicò voltandosi nuovamente verso le amiche.
Quella notte riuscì a dormire, il mattino seguente non seppe se fu più facile o più doloroso.
 
 
 
 
 
  
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