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Autore: LilyLunaWhite    03/08/2015    2 recensioni
Tratto dalla storia:
Non volevo perderla.
Non volevo perdere colei che teneva davvero tanto a me.
Non volevo perdere la persona che mi aveva salvato.
Non volevo perdere la bambina che aveva reso migliori le mie giornate con i suoi sorrisi, le sue stranezze e le sue follie.
Se l’avrei persa, io mi sarei perso con lei.
Ne ero certo.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Sana Kurata/Rossana Smith | Coppie: Sana/Akito
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Titolo: The true feelings
Autrice: Lily Luna White
Fandom: Kodomo no Omocha
Genere: One Shot, Romantico, Malinconico
Personaggi: Akito Hayama, Sana Kurata
Coppia: Akito/Sana
Rating: Verde
Avvertimento: Spoiler!
Beta: Lucia
Note: I dialoghi, evidenziati dal corsivo, sono tratti dal manga.
 

P.O.V. Akito Hayama
 
Avevamo affrontato un lungo viaggio per arrivare a DreamLand. Sebbene fossi preoccupato per la salute di Sana, decisi di credere alle parole di lei che mi avevano più volte rassicurato sulle sue condizioni fisiche.
Era la Sana-Chan di sempre, ma l’assenza di emozioni sul suo viso la rendevano al contempo irriconoscibile: senza le varie emozioni dipinte su quel suo viso, avevo l’impressione di rivedere l’apatia che invece caratterizzava me e questo non era ciò che volevo per lei. Tuttavia, volli dar retta ai medici e non forzarla troppo ma, al contrario, accontentare ogni sua folle idea.
Un’altra delle mie preoccupazioni era rappresentata dai suoi fan in quanto temevo che qualcuno, nonostante lei non riuscisse più a mostrare le proprie emozioni, potesse riconoscerla.
«La ragazza di prima non somigliava a Sana-Chan?», sussurrò una donna ad un’altra che era lì al suo fianco.
«Dici?», le rispose l’altra donna che teneva in braccio un piccolo bambino, «Sana-Chan è più carina! Forse sarebbe così chiassosa, ma…»
Mentre riflettevo su tutte queste cose, quelle voci mi distrassero: come avevo sospettato, nonostante la somiglianza, nessuno riusciva a capire che la mia Sana-Chan era la stessa Sana Kurata che conoscevano loro, solo che era malata.
Era affetta dalla “malattia della bambola”.
Smisi di pensare e raggiunsi Sana-Chan che aveva scelto già la prima attrazione. Non ricordavo altro momento in cui io mi ero lasciato andare a così tanti pensieri, eppure in quel momento pensare ad una soluzione contro il male di Sana era, per me, di vitale importanza.
Mi sentivo responsabile.
Era tutta colpa mia se lei ora stava male.
Era l’ennesima punizione che la vita mi infliggeva.
Avevo la netta sensazione che per me, in questo mondo, non c’era spazio per la felicità.
Verso metà mattinata, dopo diverse attrazioni, la sonnolenza improvvisa di Sana tornò a farci visita.
«Ah, è divertente ma mi è venuto un po’ di sonno…», sussurrò lei con lo sguardo stanco.
«Va bene, puoi dormire. Appoggiati a me».
«Uhm… Svegliami presto»
La osservai mentre, con dolcezza, si addormentava con la testa posata sulla mia spalla.
Forse ero stato realmente troppo ottimista quando in precedenza avevo sperato che Sana-Chan, nel svagarsi al DreamLand, avrebbe potuto guarire e riacquistare le sue espressioni. Forse in realtà nel portarla in giro in quel parco divertimento avrei solo fatto sì che ella si stancasse maggiormente.
Non sapevo più cosa fare, mi sentivo afflitto e avrei solo voluto sfogare la mia frustrazione, gesto che non potevo fare senza turbare ulteriormente Sana-Chan. Quando si era momentaneamente dimenticata di me, mi ero alterato non riuscendo più a reggere quella situazione e avevo ottenuto solo uno sguardo terrorizzato da parte di lei. Dovevo stare calmo e preoccuparmi solo di lei in quel momento: tra i due, lo sapevo bene, era lei al momento ad aver bisogno di me.
Ora dovevo ricambiare quello che lei aveva fatto per me in quei mesi. Nonostante fossi un bambino difficile, lei non mi aveva mai abbandonato e, anzi, mi era sempre stata accanto sostenendomi come poteva e in qualsiasi situazione.
 
«Acchan, la tua mamma si è impegnata con tutta se stessa per farti nascere… Perché lei ti ama Acchan. Quindi anche per la tua mamma, impegnati con tutto te stesso nel vivere».
 
Eravamo al parco quando lei se n’era uscita con quel gioco della mamma e del figlio, ed era stato in quel momento che lei mi aveva detto quelle parole che rappresentarono per me la mia ancora di salvezza. Credo che sia stato in quel momento, più che in altri, che ho avvertito la presenza di Sana-Chan in modo diverso. Credo che sia stato in quel momento che lei sia riuscita a risvegliare il mio cuore che per anni era rimasto duro come una pietra e fu quella sera, mentre in televisione trasmettevano lo sceneggiato in cui aveva partecipato Sana-Chan, che lei era riuscita a far sì che io mi odiassi un po’ di meno.
Ricordo che pensai che forse non ero davvero un demonio, che forse io ero un bambino come tanti altri.
Da allora ne abbiamo passate davvero tante fino ad arrivare a questo punto, dove tra un momento e l’altro tutto si potrebbe spezzare.
Per l’ennesima volta, il dubbio prese possesso della mia mente.
Cosa potevo fare per aiutare Sana-Chan?
Lei sicuramente avrebbe saputo cosa fare mentre io ero un completo fallimento e non riuscivo nemmeno ad aiutare la mia ragazza, colei che mi aveva salvato in più occasioni e che non mi dispiaceva.
Non mi dispiace.
Sbuffai leggermente e mi diedi mentalmente dello stupido. Non riuscivo nemmeno a pensare alla frase giusta. Perché era così difficile dire o anche soltanto pensare che Sana-Chan mi piacesse?
In quel momento compresi che avevo ancora molta strada da fare per essere realmente di supporto per lei, ma ero consapevole anche del fatto che senza di lei non sarei riuscito mai ad andare avanti e ne avevo avuto conferma quando lei era dovuta partire per girare Mizu no Yakata e io, senza nemmeno propriamente accorgermene, avevo cominciato a regredire e a ritornare pian piano quello che ero prima che Sana-Chan entrasse nella mia vita.
Persi la cognizione del tempo, ma quando lei si svegliò e soltanto dopo essermi assicurato che lei stesse davvero bene, riprendemmo il nostro giro tra le varie attrazione del DreamLand.
Fu ad un certo punto che Sana-Chan se ne venne con un’altra delle sue idee che però, questa volta, mi preoccupò non poco.
«Ah, ho portato la macchina fotografica!», disse con entusiasmo ma con la perenne assenza di espressioni facciali, «Perché mi erano rimasti dei rullini! Facciamo un po’ di foto insieme?»
«Eh...? Le foto…?», chiesi, guardandola con espressione leggermente sconvolta.
Non potevo permetterle di fare delle foto ad entrambi o lei avrebbe notato l’assenza di espressioni sul proprio viso.
«Ah, non ti piacciono le foto?»
«No no, non è per quello, ma…»
Sapevo che protestare con lei era inutile: in un modo o in un altro, lei riusciva ad averla comunque vinta.
«Sorridi!», esclamò con entusiasmo mettendosi in posa, «Andiamo!»
Come avevo immaginato, la mia protesta non era stata minimamente ascoltata.
Dopo un paio di scatti e dopo aver terminato tutte le attrazioni del parco divertimento, grazie alla sua bravura di attrice, riuscimmo ad ottenere una stanza in un albergo vicino al DreamLand.
Mentre lei era corsa in bagno a struccarsi e cambiarsi, notai la busta con le foto che avevamo fatto sviluppare ma che non avevamo ancora visto. Quando le presi in mano, notai come effettivamente ella non avesse proprio espressioni. Effettivamente non le avevo nemmeno io, ma per quanto mi riguardava era una cosa abbastanza normale, ma il problema effettivo era che Sana-Chan credeva di averle mentre, nella realtà dei fatti, lei non mostrava nulla.
 
«Ma non devi sforzarla… Per esempio potresti cercare di risvegliare la coscienza dei suoi sintomi… Altrimenti le si spezzerà il cuore…»
 
Ricordando le parole della madre di Sana-Chan, presi la decisione che sarebbe stato meglio non mostrarle nulla e così le nascosi sotto al letto.
In quel momento sperai che quella fosse la scelta giusta.
Un tonfo.
Quel rumore mi spaventò così tanto che corsi in bagno allarmato e vi trovai Sana-Chan a terra.
«Sana!», urlai in preda al panico precipitandomi verso di lei.
Aiutandomi con il braccio sano, con un po’ di fatica la rimisi in piedi e con lentezza la guidai verso il letto.
Non potevamo continuare così.
In quel momento ero più che convinto che quella follia della fuga d’amore si sarebbe ritorta contro di noi e che Sana-Chan si sarebbe potuta aggravare, che il suo fisico avrebbe potuto non reggere.
In quel momento mi venne in mente una donna che, come Sana-Chan, aveva dato tutto per me e poi era morta.
Mia madre.
Non volevo che anche Sana-Chan morisse.
Non volevo.
Eppure quella paura era perennemente presente nella mia mente, in quei lunghi giorni.
I Kami mi stavano ancora punendo per i miei errori.
Per l’ennesima volta, misi a tacere i pensieri e mi concentrai nuovamente sulla mia ragazza che continuava a sussurrare che stava bene e che si sentiva solo un po’ stanca.
Io non riuscivo a crederle.
Vederla così, in quello stato, non faceva che aumentare la mia paura di perderla.
«Non è che ti è salita la febbre?», domandai più a me stesso che a lei, mentre l’aiutavo a stendersi sul letto, per poi afferrare rapidamente la cornetta del telefono.
«A chi stai telefonando?», domandò lei allarmata.
In quel momento dovevo solo pensare alla sua salute.
Solo a lei.
«Andiamo in ospedale! L’ambulanza…»
«Non farlo!», mi urlò lei, «Altrimenti tutto finirà!»
«Ma allora cosa dobbiamo fare?», le urlai di rimando, completamente invaso dal panico.
«Se prendo le medicine e mi riposo, sono a posto… Quindi scusami», sussurrò lei implorandomi con lo sguardo, «Aspettami… Solo un altro po’…».
Non riuscivo a dirle di no, non ci riuscivo proprio e così la lasciai fare, anche questa volta.
Sapevo bene che questa fuga non serviva a nulla, che eravamo solo dei bambini e che senza l’aiuto dei nostri genitori non saremmo mai riusciti ad andare avanti perché non si entra nel mondo degli adulti comportandosi come loro e questo lo avevamo compreso a nostre spese non molti giorni prima. Ed ero consapevo che anche Sana-Chan, in cuor suo, sapesse che tutto questo era inutile. Eppure, nonostante quella consapevolezza, non riuscivo a negargli tutti quei suoi desideri e non perché lei era malata e non potevo contraddirla, ma perché lei era Sana-Chan e volevo solo renderla felice, volevo rendere felice quella persona che io stesso avevo ridotto ad un fantasma senza più vitalità.
Volevo rimediare ai miei errori.
Però non potevo continuare a fare quello che lei mi chiedeva restando nella consapevolezza che lei rischiava ogni minuto che passava di stare seriamente male.
Non potevo.
Cosa devo fare?”, pensai esasperato, capendo che ormai anche io ero al limite. Ormai anche io avevo la testa piena di idee confuse.
Mi presi la testa fra le mani e tenni lo sguardo rivolto verso il basso, cercando di venire a capo di quella situazione, se un rimedio esisteva.
«Hayama...?», sussurrò lei che evidentemente si era svegliata, «Penso di essermi un po’ ripresa…».
Non le risposi e restai nella mia posizione, immobile e ancora pensieroso.
Per quanto tempo ero rimasto lì, seduto, a pensare?
Non lo avrei saputo dire: avevo perso la cognizione del tempo.
«Stai dormendo...?», domandò lei cercando di attirare la mia attenzione, ma nemmeno a quella domanda mi degnai di rispondere.
Continuavo a pensare solo a come potevo fare per farla guarire.
Io desideravo solo quello.
Come facevo a partire e lasciare Sana-Chan in quelle condizioni?
Eppure, partire, a quanto pareva, era inevitabile.
Distrattamente la sentii alzarsi dal letto e, mentre si incamminava verso di me, avvertii il suo passo arrestarsi improvvisamente. Alzai leggermente lo sguardo per comprendere cosa stesse accadendo e la vidi chinarsi accanto al mio letto ed estrare la busta con le nostre foto che io avevo tentato di nascondere.
«Come mai proprio lì…», la sentì sussurrare più a se stessa che a me.
Avrei dovuto nasconderle meglio, ma ormai le aveva trovate e tanto valeva che lei vedesse come si era ridotta.
Ed era l’ora che io prendessi una decisione definitiva.
Ormai anche io ero al limite.
Mi ero stancato di star lì e guardare con discrezione Sana-Chan che al trascorrere dei giorni non faceva che ammalarsi sempre di più.
Non riuscivo più a vederla in quello stato.
«Mah...?», esclamò lei sorpresa vedendo le foto, «Credevo di aver fatto il mio miglior sorriso, ma… Cos’è questa faccia...?»
Alzai lo sguardo e la osservai mentre, reggendo in mano le foto, si avvicinò allo specchio della stanza in cui alloggiavamo e si specchiò. Come al solito lei, quando si vedeva allo specchio e sorrideva, si vedeva mentre lo faceva, ma in realtà non riusciva a notare come il suo viso rimaneva immobile, impassibile.
Ormai io avevo deciso.
«Dicono che tu veda il tuo sorriso negli specchi per un’illusione ottica, sai?», le parlai, attirando la sua attenzione, «Dicono che tu sia malata… Psicologicamente».
La osservai con aria seria, cercando di comprenderne le sue emozioni dallo sguardo.
«Eh...?», esclamò lei con sorpresa.
«Non devi impressionarti. Mi sono documentato sui libri che mi ha dato Kamura ma, nel tuo caso, mi chiedo se all’ospedale conoscano la malattia che hai tu. In ogni modo, c’è tanta gente che soffre di disturbi mentali, e non tutta si fa seguire da un medico», feci una breve pausa e osservai la sorpresa di Sana-Chan alle mie parole, «Se è così, forse anche io ero malato».
«Ha-Hayama…», sussurrò lei, «C-che cose incomprensibili ti metti a dire all’improvviso?»
La ignorai, fingendo che lei non avesse parlato.
«Ho letto anche che, ognuno, a proprio modo, soffre di qualche disturbo del genere. Nel tuo caso, però, il modo di manifestarsi del disturbo è molto eccentrico», presi una delle foto fatte al DreamLand e la alzai davanti al suo sguardo, «Tu hai sempre una faccia così, sai?»
La vidi mentre si toccava il viso sorpresa e incredula.
«Piano piano guarirai», le sussurrai in modo più conciliante e rassicurante.
«Perché… Cosa… Non ci capisco niente».
«Ti sto dicendo che sei malata! Anche se non hai espressioni, non ne sei consapevole».
«Non so, io ho solo qualche malessere fisico».
Mi stavo spazientendo. Lei continuava a non capire, a scappare dal suo problema a fingere che tutto stava continuando ad andare bene. Tuttavia, nonostante la rabbia che covavo dentro, cercai nuovamente di mantenere la calma, di dar retta ancora una volta a Misako Kurata.
«Che c’è… All’improvviso fai una faccia così spaventosa… E cominci a parlare di cose incomprensibili!»
Dovevo ascoltare la madre di Sana-Chan.
Dovevo.
Eppure non ce la facevo più.
Ero al limite.
Perché non riuscivo a far guarire Sana-Chan?
Perché i Kami continuavano a punirmi per i miei errori passati?
Perché?
“Basta!”, pensai esausto.
«Anche io sono al limite. Se tu ti spezzerai anch’io mi spezzerò. Insieme alla mia responsabilità. Sta tranquilla».
«Ah ah… Mi fai impressione sai? Cosa vuol dire che mi spezzerò?»
Più lei poneva quelle domande in quella maniera ironica, non riuscendo a comprendere la serietà della situazione, e più io mi spazientivo.
Non ero mai stato un bambino tranquillo e Sana-Chan lo sapeva bene.
«Se tu non avrai la consapevolezza della tua malattia, non potrai far niente per guarire».
«U-una malattia psicologica? È impossibile che proprio io sia affetta da una cosa simile!», esclamò lei incredula, scimmiottando la situazione.
«Si che lo sei! Ammettilo!», la rimproverai.
«Se così fosse sarebbe un bel guaio!», esclamò lei di rimando, per poi cambiare argomento, «Ma stavamo compiendo allegramente una fuga d’amore! Parliamo di cose più allegre!»
Succedeva sempre così: appena si parlava di cose serie che la riguardavano, lei tendeva a scappare; mentre se erano gli altri ad essere in difficoltà, si intestardiva e lottava con tutta se stessa per aiutarli.
«Non scappare», le intimai.
Ero stufo di vederla fuggire. Ero stanco di vederla soffrire in silenzio e lasciare che la sua malattia la consumasse.
Io rivolevo la mia Sana-Chan.
«Vado a fare una doccia», continuò lei ignorandomi.
Quella, ammetto, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Non volevo perderla.
Non volevo perdere colei che teneva davvero tanto a me.
Non volevo perdere la persona che mi aveva salvato.
Non volevo perdere la bambina che aveva reso migliori le mie giornate con i suoi sorrisi, le sue stranezze e le sue follie.
Se l’avrei persa, io mi sarei perso con lei.
Ne ero certo.
«Non scappare!», le urlai nuovamente, infuriato e afferrandole in malo modo il braccio.
“Perché continui a scappare?”
“Perché ti allontani dalla realtà?”
“Perché ti allontani dalla tua famiglia?”
“Perché ti allontani dai tuoi amici?”
“Perché scappi da me?”
“Perché?”
Stavo pensando troppo e più lo facevo e più aumentava la mia rabbia, sentimento che Sana-Chan non aiutava a placare ma che al contrario sembrava alimentare a dismisura.
«Ma che vuoi? Basta, lasciami!», esclamò lei spaventata.
«Così non si risolve…», non ebbi il tempo di terminare che lei mi interruppe e le sue parole mi spiazzarono.
«Visto che dopo tutto tu andrai a Los Angeles… Almeno questi ultimi momenti insieme potresti farmeli passare un po' più serenamente».
È vero, quelle parole inizialmente mi spiazzarono, ma poi accesero in me una rabbia che mai in vita mia avevo provato.
“Che egoista!”, pensai distrattamente mentre la spingevo con rabbia verso la parete, lasciando che la rabbia si trasformasse in un fiume di parole.
«Adesso basta!», urlai con forza, «Tu non hai capito niente!»
La guardai con rabbia.
«Pensi che sarai l’unica a sentirsi sola quando ci allontaneremo? Che vuoi? Pensi di sentire tu soltanto la solitudine e ti sei anche ammalata! Non scherzare! Certo che anche io…», urlai tutto d’un fiato preso da quel moto di rabbia incontrollabile, ma verso la fine non riuscivo a continuare però dovevo farlo.
Dovevo farlo per lei.
Perché lei doveva capire i miei sentimenti, doveva capire quanto io tenessi a lei.
Dovevo farlo.
Per una volta, anche io, dovevo smetterla di avere paura dei miei sentimenti e dovevo esternarli.
«Certo che anch’io mi sentirò solo se ci allontaneremo!», proseguii, riuscendo finalmente ad aprire il mio cuore a quella ragazza che mi aveva salvato e che ora aveva bisogno di me, «In realtà… Io mi sentirò più solo di te. Quando mi separerò da te, sarò io quello distrutto...!»
Nel parlare, nell’urlare a quella ragazza alla quale io ero legato, non mi ero reso conto che ero scoppiato a piangere.
Mai, da quando io avevo memoria, avevo versato una lacrima.
Mai.
Infatti con un moto di vergogna per quella mia debolezza, cominciai ad asciugarmi gli occhi con la manica della felpa, decidendo tuttavia di continuare a parlare.
Ero giunto fin lì e non volevo tirarmi indietro.
«Anche l’altra volta, quando non c’eri, mi sentivo solo da morire! Ma ormai ero sicuro di riuscire a sopportare, potevo pensare di farcela nonostante la lontananza, ma tu…», stavo parlando con più calma rispetto a prima, ma senza volerlo conclusi quel mio pensiero urlando, «… Non diventare così per me! Sorridi!»
Le lacrime non avevano mai smesso di rigarmi il volto, così a metà di quella mia ultima frase, rinunciai ad asciugarmele.
Ormai ero disperato e mi sentivo così vulnerabile davanti a lei.
Avevo esternato tutto.
Le avevo appena dato l’ultima cosa che avevo: il mio cuore.
Ora lei aveva tutto me stesso.
«Sorridi e dimmi che Los Angeles è vicina…», sussurrai in un ultimo e disperato tentativo di rivedere la mia Sana-Chan.
Distrattamente tra le mie lacrime, prima di essere abbracciato da lei e di crollare in ginocchio sul pavimento, avevo visto le lacrime di lei.
Restai stretto tra le sue braccia, a piangere come mai avevo fatto e a sentire innumerevoli volte la parola “scusami” uscire dalle labbra di lei in modo sussurrato e disperato.
Non riuscivo a capire se avessi fatto bene o male a sfogarmi in quel modo.
Mi avevano proibito di urlarle contro, eppure io lo avevo fatto.
L’avevo spezzata o l’avevo salvata?
Qualsiasi fosse la risposta a quella domanda, io sarei rimasto insieme a Sana-Chan.
Per sempre.
 

~Fine

   
 
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