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Autore: Kaleido_illusion    03/08/2015    2 recensioni
Benvenuti a Cardia-Y 311, una città stato post apocalittica.
Tra edifici crollati, piogge acide e severe leggi, si intrecciano le vicende di due giovani di realtà completamente diversi: lei, April, una ragazza disillusa e sospettosa con un caratterino da vendere, vive nei Sobborghi lottando ogni giorno per sopravvivere; lui, Nagìl, un curioso ragazzo privileggiato del Centro, che stufo dei favoreggiamenti riservatigli decide in un attimo di ribellione di visitare quei luoghi che la cupola di vetro gli impedisce di raggiungere. Il caso vorrà che i dui si incontrino e da quel momento in poi le loro vite cambino drasticamente ...
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo 1







Un’ altra giornata calda ed infernale. Il sole cocente di metà Giugno picchia attraverso i palazzi sopra la mia testa, facendomi sudare ancora di più sotto il cappuccio leggero. Mentre corro per le strade affollate dei sobborghi, si alzano ad ogni passo nuvole di polvere e sabbia, che mi irritano la gola mentre i polmoni stanno per scoppiare dalla fatica. Purtroppo, se voglio arrivare salva e intatta a destinazione, non mi posso fermare a riprendere fiato, perché se il tizio che mi insegue mi acciuffasse, con la mole che si ritrova, non mi lascerebbe andare senza un graffio, o qualche osso rotto. Perciò stringo ancora più forte al petto la preziosa borsa di cuoio e corro più veloce che posso, facendomi strada a suon di gomitate e spintoni tra i passanti. Qualcuno cade a faccia a terra o finisce contro una bancarella arrangiata, ma non posso fermarmi a controllare i danni o come stiano, così urlo solamente delle frettolose scuse che si perdono nel chiacchiericcio. Intanto alle mie spalle l’energumeno, ormai a corto di fiato, continua ad urlarmi, con parole molto “fini”, di fermarmi e restituirgli la merce se non voglio finire in guai ancora più seri.
“ Ma crede davvero che me la beva?!” penso trafelata.
Accelero l’andatura e alla prima occasione svolto a destra. Le vie si assomigliano un po’ tutte è l’unico modo per riconoscerle sono i pochi nomi o insegne di negozi ancora sopravvissute che ora pendono con i fili scoperti come resti bionici. Le vecchie case ormai crollate si accasciano su loro stesse come animali feriti o ai lati di quelli che un tempo erano marciapiedi, mentre macerie, ferro e pezzi edili giacciono sparpagliati qui e là per la strada. Alcuni edifici più fortunati si ritrovano senza una porzione di muro, con qualche finestra saltata o qualche portone, ma sono ancora solidamente in piedi; di altri, invece, non rimane più nulla se non qualche piano pericolante, sotto cui sono stati allestiti provvisori banchetti di venditori ambulanti che cercano di rivendere cianfrusaglie, oppure lo spazio viene utilizzato come riparo momentaneo durante la pioggia. Qui a Cardia-Y 311, la città-stato in cui vivo, la pioggia è micidiale ma, sono più che convinta che nelle altre parti del pianeta la situazione non sia poi così diversa. A causa dell’ inquinamento di centinaia di anni, l’acqua, se così si può ancora definire, è diventata talmente acida che bastano poche gocce per corrodere il cemento e tutto ciò che tocca; e l’effetto sulla pelle è altrettanto letale. Inoltre è utile dire che l’acqua stessa è inutilizzabile, a meno che, se si riesce ad immagazzinarla come si deve, non la si usi come potente corrosivo per lavorare o smaltire piccole quantità di rifiuti. Dico piccole, perché lo Stato più di una volta ha tentato di sciogliere tonnellate di spazzatura, con l’unico risultato di creare avvelenamento da fumi tossici come mai prima nella storia, tanto che tutt’ora alcuni distretti, dove si trovavano le centrali di smaltimento, sono chiusi per le esalazioni. Non solo, in alcuni punti della città l’ingresso è vietato anche a causa del pericolo di crolli o della concentrazione di monossido di carbonio, su cui gli scienziati del Centro continuano a indagare per spiegare come mai ci sia addensamenti solo in alcune zone. Ma non hanno trovato ancora risposte soddisfacenti, così si limitano a diffondere delle ipotesi verosimili, per calmare la popolazione.


Finalmente sono arrivata alla vecchia cartiera. Ha lo stesso aspetto di trecento anni fa, almeno così si dice in giro, con l’unica differenza che oggi è inattiva e completamente abbandonata, visto che non esistono più boschi da cui poter prendere il materiale la materia prima per fabbricare la carta. A me è sempre sembrata un’enorme scheletro di cemento. Inoltre all’interno vi sono ancora quasi tutti i macchinari e cianfrusaglie varie. Tuttavia nessuno, tranne me, ovviamente, osa entrarci siccome è una delle zone gialle di livello 5 per il rischio di crollo (quindi una tra le più pericolose). Penso che sia stata chiusa anche perché trattiene monossido di carbonio o qualche altra sostanza tossica­. Una sola volta, quando ero più piccola ed ero in giro con mio padre, la curiosità mi ha spinta ad entrarci. Ho avuto appena il tempo di fare qualche passo all’interno, che la testa ha iniziato a farsi pesante, le braccia e le gambe non mi rispondevano più, erano come piombo saldato a terra, pesantissime e rigide, mentre la vista andava lentamente annebbiandosi. Per fortuna mio padre mi ha trovato e portato via in tempo, altrimenti ci avrei lasciato le penne. Da allora non vado più in giro senza la mia fedele mascherina depura-aria, che adesso sistemo accuratamente sul naso e sulla bocca prima di procedere oltre. Questa è un aggeggio simile alle vecchie mascherine trasparenti per aerosol, usate per curare bronchiti e asma tuttavia al centro ha un cilindro spesso tre centimetri, che contiene griglie al carbonio trattate con agenti chimici, che scompongono l’aria lasciando passare solo ossigeno e, tramite due tubicini ai lati, lunghi tutta la larghezza dell’aggeggio di plastica, vengono espulse anidride carbonica e altre sostanze.
Cerco la solita crepa nel fianco dell’ edificio e mi ci addentro, voltando un attimo la testa per
vedere dov’ è il mio inseguitore; ho appena il tempo di scorgerlo a pochi metri da me che subito sparisco oltre il muro.
Caspita non molla, anche con tutta quella ciccia! Lesta, sposto delle scatole subito dopo l’ingresso della crepa per rallentarlo. All’interno i passi rimbombano troppo forti, producendo un’eco cupo e ritmico. Dovrei rallentare perché ormai sono al limite delle forze, ma le urla sguaiate del tizio mi convincono di nuovo a non farlo. Supero cartacce e sporcizia, trovandomi a una ventina di metri dall’uscita quando uno schianto mi fa voltare di colpo, arrestando la mia fuga.
Il resto accade in un attimo. Il ciccione inciampato nella pila di scatoloni, si è schiantato contro una colonna malandata che sorreggeva una trave di ferro arrugginita. L’impatto fa sì che la trave si sganci completamente dal supporto, precipitando dritto su di me. Mentre il cervello cerca di mettere insieme i dati, i riflessi, allenati ormai da anni di vita spericolata, hanno già dato istruzioni al mio corpo, che perciò si butta in scivolata di fianco ad un enorme macchinario, che credo dovesse tagliare e sminuzzare materiali vari. L’impatto della trave con il suolo è indescrivibile: le vibrazioni, che si propagano sul suolo, sono come scosse di terremoto che percepisco benissimo accucciata come sono e squassano tutto il mio corpo. Spingo la faccia in giù e proteggo con una mano la borsa e con l’ altra la testa, nel momento in cui il sisma scatena una serie di crolli a catena. Aspetto minuti interminabili e decido di riprendere a muovermi solo quando non sento più nessun rumore. Si è alzato un gran polverone nel frattempo, che mi fa lacrimare gli occhi stanchi. Rotolo sulla schiena e, appena la nube si deposita nuovamente al suolo, noto con terrore che ho scampato per un pelo di rimanere spiaccicata: la trave, colpendo in pieno il macchinario, lo ha trasformato in un ammasso compresso di lamiere e miracolosamente è riuscito a sostenere il peso, salvandomi la vita! A quanto pare in questa dannata fabbrica, ogni volta che ci metto piede, rischio di rimanerci secca. Forse è meglio restarle alla larga per un po’.
Impiego qualche minuto a smaltire l’adrenalina e ritrovare il controllo. Di nuovo in me, con la tracolla sulla schiena, striscio lontano dalla trave. Il senso di liberazione è magnifico, sebbene non ne sia uscita indenne; la stoffa della gamba destra del pantalone è completamente strappata ed insanguinata come il gomito e parte del braccio a causa della scivolata e sembrano dei pezzi di carne da macello. Siccome sono ferite agli arti sono lievi, ritorno ad esaminare il pantalone; di sicuro mia zia mi ucciderà! Soltanto settimana scorsa ne ho rotto un altro e non posso permettermi di buttare via ancora un paio, con tutto quello che costano. Sbuffo irritata al pensiero della ramanzina che mi aspetta, ma solleva il morale sapere che il contenuto della borsa e la mascherina sono intatti. Purtroppo non è il momento di pensarci, tra non molto una marea di gente e sorveglianti si precipiterà a vedere cosa è successo e non possono beccarmi di nuovo. Non qui, in una zona dove, in teoria, è vietato l’ingresso. Mi arresterebbero di sicuro, visto che sono al secondo ammonimento, e soprattutto non la farei franca se sul posto dovessero arrivare i Funzionari! Sono il dipartimento al vertice dei servizi di sicurezza e della polizia, perciò hanno molti poteri, oltre ad un piccato senso del dovere e delle regole, per non parlare del loro rigore e dell’inflessibilità che hanno suscitato la diffidenza della popolazione. Credo però che sia anche a causa del reparto di sorveglianza speciale che si occupa delle persone con “abilità” particolari.
Scaccio dalla mente questi pensieri, fascio alla meglio la gamba ed il braccio con degli stracci, e mi allontano senza guardare indietro.

Sporca di terreno, sudata come una capra e ridotta a un rottame, sono finalmente giunta al capolinea, la vecchia drogheria al limite dei sobborghi della città. È un vecchissimo edificio crollato e chiuso da saracinesche, ma è un posto piuttosto isolato, dove il retro con l’ingresso al magazzino è perfetto per un possibile nascondiglio. Apro la botola in cemento con porte di ferro nel giardino dietro il fabbricato, divenuto una discarica di rifiuti ingombrati e senza più vegetazione, e scendo fino al quarto gradino, chiudendo delicatamente i battenti, cercando di non fare il minimo rumore.
Lo scantinato, illuminato da quattro finestre orizzontali e rettangolari, è tappezzato da monitor di computer obsoleti, alcune scrivanie, viti, cacciaviti, attrezzi elettrici, circuiti, fili di rame, saldatrici, chiavi inglesi ed un enorme generatore elettrico in un angolo. È il paradiso per uno con la passione per PC e qualsiasi cosa funzioni ad elettricità e non solo.
<< Ehi Kid!>> urlo, mentre mi siedo sul corrimano in ferro, lasciando dondolare a penzoloni le gambe. Una figura china sotto una delle scrivanie sobbalza e picchia la testa contro una cassetta di ferro.
<< Auch! … grazie mille, April!>> mugugna il ragazzo che si mette in piedi massaggiandosi un punto della testa coperto dal suo cappellino senza visiera preferito. Kid è il mio migliore amico, ha un anno più di me, capelli biondo cenere e occhi grigi. È alto e magro da fare schifo, ma questo lo penalizza in fatto di muscoli: a nulla serve la canotta bianca che porta per mettere in evidenza un filo, appena accennato, di addominali. Adesso cerca di fissarmi seriamente, con lo sguardo di rimprovero che, però, non gli riesce. Cerco comunque di restare al gioco.
<< Mi dispiace tanto>> dico nel tono più dispiaciuto che riesco a fare.
<< Lo sai? Non sei brava a mentire>> mi schernisce.
Mi sa che non ci è cascato, peccato.
<< Qualcuno deve avermelo già detto, ma sono convinta di poter migliorare>> scherzo.
<< Spero di no! Altrimenti siamo tutti fregati>> risponde lui finalmente divertito. Purtroppo per lui, anche quando era piccolo, non riesce a restare arrabbiato per più di cinque minuti di fila.
<< Indovina cosa ti ho portato?!>> cambio volutamente argomento per non tirarla per le lunghe, perché sono una che si stufa facilmente.
<< Hai rubato ancora?!>> adesso è seriamente indignato.
<< Non direi rubato. Piuttosto ho soddisfatto dei bisogni primari>> ribatto decisa.
<< Quale? Quello della cleptomania? >>
<< No, scemo! E poi non sai neanche che significa “cleptomania”>>
Ride. << E cosa mi avresti portato, sentiamo…>>
Estraggo dalla borsa tre mele rosse come il fuoco. Kid ha un’espressione stupefatta, mentre si avvicina estasiato, cosa che mi rende orgogliosa del mio operato, anche se ho rischiato la vita per portagliele.
<< Se fossi stato in te avrei preso qualcosa di più prezioso! Hai idea di quanto costano?>>
<< E dai Kid, non fare il moralista! È da mesi che non se ne vedono in giro. Le ho adocchiate su una bancarella e le ho prese. Chissà quando ci ricapiterà ancora>> cerco di avvalorare la mia tesi, ma mi sa di non averlo ancora convinto, perché non le ha neanche toccate.
<< Oh! Se non la vuoi, la mangio io!>> sbotto stufata. Faccio per addentarne una, quando lui me la toglie prontamente di mano.
<< No! No! La mangio>> strilla lui di rimando.
Non posso fare a meno di sorridere.
Lo conosco fin troppo bene per capire che ha una fame allucinante che solo i ragazzi posso avere, ma non lo mostra mai, perché sa che altrimenti ruberei qualcosa di più sostanzioso per sfamarlo. Così, per assecondarlo, faccio finta di non essermene accorta. Nei sobborghi il cibo è scarso e per lo più mangiamo scatolame o prodotti non deperibili, cioè quelli che si possono conservare più a lungo, anche per mesi. Inoltre sono gli unici che possiamo permetterci perché a basso costo, oltre alle uova e pochi formaggi prodotti dai limitati allevamenti arrangiati. La frutta e verdura “fresca”, in verità frutto di manipolazioni genetiche provenienti dal Centro, hanno dei prezzi assurdamente alti e pochissimi, grazie a risparmi di settimane forse mesi di lavoro, riescono a comprarli. Comunque è sempre un piacere vedere Kid che mangia con gusto, non importa quanto debba rischiare. Ha un’espressione contenta, serena e meno afflitta dai problemi quotidiani, ritornando quasi un bambino, come J. J.
A proposito di lui!
<< Dov’è J. J ?>> chiedo preoccupata a Kid. Di solito, quando vengo qui, mi salta sempre in braccio, come il piccolo koala del libro illustrato che abbiamo trovato in un vicolo abbandonato, proprio come lui.
J. J è un orfano. Tre anni fa, io è Kid lo abbiamo visto vagabondare per le strade, tremante di freddo, mentre un gruppo di cani randagi, con le costole evidenti sotto il pelo, lo seguiva a poca distanza, sperando che si accasciasse al suolo per attaccarlo. Ad un certo punto le sue esili gambe non hanno più retto per gli stenti e la fame, ed è caduto in ginocchio. Mentre passavamo lì accanto, avevo colto un leggero movimento di quello che poteva essere il capobranco dei randagi, e non ho saputo trattenermi, correndo in suo aiuto. Sapevo che non potevamo aiutarlo, perché a stento in inverno riuscivamo a sfamare noi stessi e le nostre famiglie, ma non me lo sarei mai perdonata se fosse morto in quel vicolo, davanti ai miei occhi. Con l’aiuto di Kid ho scacciato i cani a suon di bastonate, per avvicinarmi al bambino e rimetterlo in piedi. Era avvolto solo in una mantella slabbrata e da sotto gli stracci si vedevano le ossa. Fu il viso a colpirmi maggiormente. Le guance erano scavate dalla fame, i capelli castani erano arruffati e sporchi, gli occhi di un grigio spento dalle atrocità viste, ma determinati a non soccombere. Non pensavo che un bambino di poco più di sei anni potesse avere uno sguardo così intenso.
Cosa dovevo fare adesso che l’avevo aiuto? Che speranze potevamo dargli se nemmeno noi né avevamo? Quegli occhi così espressivi mi stavano incastrando lentamente e non sapevo cosa dirli. Allora gli chiesi il nome, ma l’unico suono che emise in risposta fu una flebile j e per questo lo chiamammo J. J. Quando poi menzionai i suoi genitori e dove fossero, mi strinse il braccio con tutta la forza che aveva e, fissandomi intensamente, il suo sguardo disse più cose di quante si possano esprimere con le parole, colpendomi dritto all’anima. Potevo immaginare solo lontanamente cosa avesse subito per trovarsi in quel vicolo, da solo e sperduto e mi chiesi come mai non fosse scoppiato ancora a piangere per comunicarmi il suo disagio. Forse si tratteneva dal farlo o forse non aveva più lacrime da piangere. Semplicemente rimase lì, fermo a trattenermi. Quella stretta, così forte per le sue fragili dita, mi fece capire che anche lui era una vittima, ma voleva sopravvivere a tutti i costi. Mi aveva conquistata mostrandomi la sua determinazione. Perciò capii che non sarebbe stato difficile aiutarlo e che da allora non l’avrei abbandonato. Lo portammo subito al rifugio dove, datigli dei vecchi vestiti del mio amico, gli offrimmo tutto il cibo che avevamo portato con noi. Vederlo mordicchiare il pane, con quegli indumenti troppo larghi, tanto da farlo sembrare più minuto di quanto fosse, mi fece provare subito una certa simpatia ed affetto nei suoi confronti. Da quel giorno in avanti gli portammo avanzi, rimasugli e tutto quello che riuscivamo a trovare e dopo tre mesi, finalmente iniziò a parlare, a muoversi con scioltezza, migliorando di giorno in giorno, fino ad essere lo spiritoso, esuberante ed energico moccioso che è adesso.
<< È anfafo a fafe una fommiffione… >> mi risponde, con la bocca piena della mela che sta gustando.
<< Ingoia! Non fi capiffe nienfe>> gli faccio il verso.
<< È andato a fare una commissione, se la gestisce bene gli abbiamo trovato un lavoro>>
<< Ma è fantastico!>> esulto.
Sono davvero contenta per J. J.. Finalmente potrà guadagnare un po’ di soldi per conto suo ed iniziare a provvedere da solo a se stesso, così da avere dei pasti decenti e non le solite microscopiche porzioni che gli portiamo o possiamo offrirgli di tanto in tanto.
Ripongo con cura una delle due mele rimaste, mentre l’altra la addento senza complimenti con la soddisfazione e la contentezza dipinte sul viso. Appena Kid ha finito la sua, pulendosi la bocca sulla manica corta della maglietta, torna ad armeggiare con il generatore elettrico.
<< April, hai preso i pezzi che ti ho chiesto?>>
Rispondo di sì, saltando giù dalla mia sedia improvvisata e, dopo aver finito con calma la mela, gli piazzo in mano una scatolina con dei fili che schizzano fuori da tutte le parti. Kid lo osserva per qualche secondo sconcertato, poi posa il suo sguardo infuriato su di me. Il suo lato oscuro esce solo quando si tratta di aggeggi di questo tipo.
<< L’hai strappato via a mani nude?!?>> mi rimprovera.
Questa volta la faccia seria gli riesce benissimo e non sta scherzando.
<< Sì?>>
<< SÌ?? Ma sei impazzita?! Potevi danneggiarlo! E come avremmo fatto a sistemare il generatore per accendere i computer?? È da mesi che ci lavoro!!>> sbraita in preda all’ira.
<< Che altro dovevo fare? Non c’erano forbici o oggetti utili a portata di mano. E poi ero di fretta>> sbuffo seccata.
Kid sbuffa a sua volta scontento e sistema i fili scoperti, borbottando come una pentola di fagioli messa a bollire. Purtroppo mi tocca assisterlo e perciò mi siedo pazientemente accanto a lui a gambe incrociate, passandogli gli attrezzi che mi chiede ed aspettando che la rabbia gli sbollisca un po’, prima di riprendere a chiacchierare.
<< Cosa speri di trovare nei PC?>> chiedo dopo un buon minuto di silenzio.
<< Non saprei. Spero che essendo del Centro ci siano dei dati interessanti>> commento ad alta voce.
<< Non credo che abbiano lasciato file importanti in un computer da buttare>>
<< Infatti ho scoperto alcuni metodi per ripristinare file cancellati o criptati. Ci sono diversi sistemi e ognuno ha bisogno di passaggi ben definiti…>> ma il discorso diventa troppo specifico e complesso per me, così mi limito ad annuire e far finta di ascoltare, perdendomi nei miei pensieri. Quando Kid attacca a parlare con la passione per queste cose, non lo ferma più nessuno. Infatti, non so per quanto va avanti, ma nel momento in cui si zittisce ha finito di montare la scatolina. Soddisfatto, attacca gli ultimo due fili ad una ciabatta a più prese, collegandovi le spine necessarie e si ferma ad ammirare il suo capolavoro.
<< Sei pronta?!>> esulta posandosi i pugni sui fianchi.
<< Mah!>> bofonchio. Sono ancora scettica a riguardo. << Sbrigati ad accendere quei dannati affari!>> lo incito ormai stufa. Felice come una pasqua, Kid spinge verso il basso una leva laterale, azionando con un ronzio il vecchio catorcio che dovrebbe fungere da generatore. Appena la corrente inizia a passare nei fili, il mio amico preme uno ad uno i pulsanti dei PC che lentamente prendono vita e i loro monitor, da grigi, assumono un azzurro brillante, mentre una barra verdognola inizia a caricarsi.
<< Funzionano>> rimango senza parole, mentre Kid è fuori di se dalla gioia. << Funziona
davvero Kid. Ce l’ hai fatta!!!>> adesso sono io quella fuori di sé e gli assesto una gran pacca sulla spalla.
<< Cosa ha fatto? Vi si sente da fuori … >> dice qualcuno alle mie spalle, avvinghiandosi a me.
<< J. J !! sei tu >> dico, sobbalzando. Il piccolo koala si stringe ancora di più, anche con le gambe, mentre ridacchia divertito di avermi spaventata.
<< Come è andata la commissione?>> gli chiede Kid, mentre gli faccio il solletico.
Si stacca con il sorriso stampato in faccia << He he! Mi hanno assunto!>> saltella dalla gioia.
<< Bravissimo J>> lo abbraccio fortissimo. << dove andrai a lavorare?>> chiedo rendendomi conto di non aver indagato prima sull’argomento.
<< Sarò l’aiutante del fabbro a due isolati più giù di dove lavora Kid >> racconta J. con il petto gonfio di trionfo e del suo orgoglio di bambino.
<< Sembra grandioso! E quando inizi? >> chiedo curiosa.
<< Dopodomani mattina, però presto>> puntualizza.
<< Mi raccomando, vedi di scottarti!>> lo punzecchia Kid, mentre gli arruffa i capelli ed iniziano ad azzuffarsi per gioco.
Sono proprio due bambini! Kid, grande e grosso, si diverte ancora a fare la lotta con chi è più piccolo di lui. Alzo gli occhi al cielo, ma lascio lo stesso la borsa in disparte e mi butto nella mischia. Non mi lascio mai sfuggire una piccola zuffa contro Kid, soprattutto perché vinciamo sempre J. J ed io. Il gioco finisce quando riesco ad atterrare di schiena il mio amico, mentre J. J gli tiene ferme le gambe.
<< Abbiamo vinto!!>> strilla J.
<< Non vale, avete fatto di nuovo squadra!>> scoppiamo tutti a ridere.
All’improvviso un bip dei computer interrompe il nostro momento di svago. Kid ci scrolla subito di dosso, mandandoci a finire con i sederi per terra, e si avvicina alla postazione. Prima di raggiungerlo do la mela al bimbo, che la divora in un nanosecondo con le guanciotte arrossate per lo stupore.
<< Cosa ti sei fatta?>> mi chiede d’un tratto indicando le fasciature.
Cavolo! Mi ero dimenticata di medicarmi per non fargli vedere le ferite. Quando c’è J. J nei paraggi, evito sempre di farmi vedere bendata e sanguinante, per evitare che si preocupi inutilmente.
<< Di sicuro ha rischiato ancora di farsi ammazzare. Come sempre!>> brontola Kid.
Lo sa che non deve dire certe cose davanti a J. J, accidenti a lui! Perciò gli assesto un cazzotto dritto sul braccio.
<< Che ho detto?>> si lamenta.
<< Parli sempre a sproposito!>> lo guardo furibonda, poi mi rivolgo al bambino << Non è niente di grave, sono solo scivolata>> sorrido per non farlo intristire di più.
<< Stai attenta, non voglio che ti fai male>> ha una faccina così addolorata mentre lo dice, che mi si stringe il cuore e, maledicendo me stessa per la mia disattenzione, gli arruffo i capelli corti. << Starò più attenta, promesso>>.
Ci avviciniamo ai monitor, dove Kid si è già messo all’opera, battendo freneticamente sui tasti neri delle tastiere.
<< Allora?>> chiedo impaziente, sporgendomi da dietro la spalla del mio amico.
<< È più complicato del previsto! Devo studiare bene il sistema operativo prima di procedere al ripristino dei file>> dice in tono serio e concentrato << Perciò oggi non c’è molto che possa fare>> deluso, si appoggia sullo schienale della sedia di legno, reclinando la testa all’indietro, a due centimetri dal mio viso.
<< Quanto ci metterai?>> chiede J. J, appollaiato su una scrivania. Sembra un piccolo scoiattolo curioso.
<< Non so. Una, massimo due settimane>>
<< Caspita, così poco?>> si stupisce J.
<< Ti sei dimenticato? Sono il migliore in questo campo>> afferma orgoglioso.
In effetti Kid è il migliore che conosco: riesce a fare veri e propri miracoli con macchine, ingranaggi e quant’altro. Non a caso è diventato il braccio destro del gestore dell’officina principale dei Sobborghi ed è molto probabile che un giorno ne diventi il proprietario. Questa sua innata capacità, però, allo stesso tempo è fonte di molte preoccupazioni, perché se i Funzionari scoprissero il suo talento, lo trasferirebbero senza perdere tempo al Centro alle loro dipendenze per sfruttarlo per i loro interessi. Perciò tutti quelli che conoscono Kid cercano di essere discreti e di diffondere meno notizie possibili sul conto del mio amico… Ma non riesco a fare a meno di pensare all’eventualità che possa succedere una cosa del genere, se uno solo dei suoi conoscenti o lui stesso, involontariamente si lasciasse sfuggire anche una parola di troppo. Come cambierebbe la sua vita? Si troverebbe meglio o peggio? Cosa potrebbero fargli? Lo torturerebbero? Cosa lo costringerebbero a fare?
<< Ehi April! Yuhuuuu… mi stai ascoltando?>> dice Kid, strappandomi dai miei pensieri.
<< Cosa?!>> mi affretto a chiedere, sentendomi una cretina totale ad aver pensato alla possibilità che Kid ci possa lasciare, dato che non lo permetterei mai!
<< Dicevo che si è fatto tardi. Dovremmo andare a mangiare qualcosa e tornare a casa prima che suonino le sirene>> sbuffa guardando l’orologio di plastica rovinata allacciato al polso.
<< Sì, sì hai ragione. Che ore sono?>> chiedo.
<< Quasi le sette>> mi risponde lui pazientemente.


NDA: se volete vedere le illustrazioni della storia e tanto altro seguiteci anche su Facebook alla pagina Black signs che condivido con l’altra Admin, l’autrice Dusky Doll. Un bacione Kaleido X3

   
 
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