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Autore: DonnaEliza    04/08/2015    1 recensioni
"La verità è che a colui che gli dèi vogliono distruggere, ma distruggere davvero, non viene data in dono la follia, bensì l’immortalità.
Ma immagino che Euripide non potesse saperlo."
"Mi chiamo Julian. Sono morto a trentadue anni. Da allora, perdonatemi la battutaccia, tiro a campare."
Genere: Introspettivo, Mistero, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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Non vi terrò per sempre in quella squallida stanza; sapete quanto me che ad un certo punto ho preso una decisione e ne sono uscito. Avvenne mentre albeggiava, e il luogo verso cui mi diressi era la mia casa.
Al presente momento, non posso davvero dire di essermi pentito di qualcuna delle mie decisioni: una volta liberi dalla spada di Damocle della morte, le conseguenze delle nostre azioni fanno molto meno paura, e  acquistano minore importanza. Ciononostante, non potrei negare che l’intera esperienza sia stata, al suo meglio, profondamente sgradevole.
Il solo rimettersi i vestiti fu acutamente fastidioso: erano bagnati, sporchi e maleodoranti quando  me l’ero tolti, e quando li reinfilai erano a malapena passati da fradici a umidi, il che ne accresceva, semmai, il puzzo. Inoltre si erano raffreddati, anche se questo mi procurò meno disagio di quanto credessi; dopo qualche istante, mi resi conto che ciò era dovuto alla mia temperatura corporea, che si era abbassata di diversi gradi dopo la mia morte. Ad ogni modo, muoversi all’interno di quegli indumenti era ripugnante, e non aiutava certo il fatto che non si scaldassero, col tempo, a contatto col mio corpo. Con i piedi che sciaguattavano nelle calze e nelle scarpe mi misi in cammino verso la mia dimora.
Ci misi più tempo del previsto: il pub in cui avevo passato la notte era in una zona fuori mano, rispetto alle strade che percorrevo abitualmente e inoltre mi sentivo profondamente prostrato, confuso e abbacinato dalla luce crescente dell’alba che lasciava il passo al giorno pieno. Ogni persona che scendeva in strada per iniziare la propria giornata sembrava costituire un ulteriore elemento di disturbo alla mia concentrazione già labile: i colori dei loro abiti, il candore di certe camicie, il rumore di un omnibus che passava… erano come ganci che si portavano via la mia attenzione, trascinandola per qualche metro e lasciandola poi sperduta nel momento in cui scomparivano alla vista. Ora so che se fossi stato vivo sarei stato in preda ad una terribile emicrania, ma non ero più in grado di sentirmi male: quello che provavo era malessere senza dolore, senza nausea. Dolore della mente, e sembrava peggiorare. Sulle prime lo attribuii alla stanchezza dovuta alla serata traumatica che avevo trascorso, poi mi ricordai che non ero stanco. Non sarei mai più stato stanco.
Fu quella la prima volta che mi sovvenne l’idea del vampiro: mi resi conto che quel che mi disturbava era la luce. Si affacciava al mondo una giornata limpida e radiosa e il sole, lungi dall’incenerirmi, trasformava però ogni forma in movimento, ogni colore, ogni barbaglio in qualcosa che aveva sul mio cervello l’effetto di un grido a squarciagola direttamente nelle orecchie, ancora e ancora, amplificato a dismisura. Mi sentivo gli occhi in procinto di scoppiare e, nel cranio, la materia grigia entrava in risonanza per simpatia. Tenendomi in ombra riuscii a coprire la distanza che mi separava dalla mia casa.

Perché tornare a casa? Le mie ragioni non sono nobili: prosaicamente, non avevo alcun piano. Non avevo abbastanza soldi, né alcuna idea su come approntare una nuova esistenza in cui nessuno di quelli che amavo dovesse scoprire cos’ero diventato. Certo, ero terrorizzato al pensiero di poter rappresentare un pericolo per mia moglie o le bambine, ma come ho già detto, non vedevo alcun’alternativa. Inoltre, benché il mio corpo non fosse stanco, mentalmente ero stremato: avevo bisogno di un ambiente familiare e di un ragionevole lasso di tempo per riordinare le idee.
Non erano ancora le otto quando girai la chiave nella toppa e il mio arrivo passò assolutamente inosservato: mi ero mosso più silenziosamente possibile ma, soprattutto, a quell’ora la mia famiglia dormiva ancora, anche se a breve la cameriera sarebbe salita a svegliare le piccole e mia moglie si sarebbe levata, seguendo la scia del rumore casalingo. In quanto al personale di servizio, avevamo solo una cuoca e una cameriera ed entrambe si trovavano probabilmente in cucina, affaccendate negli ultimi preparativi per la colazione; il rumore che producevano era sufficiente a coprire il mio. Avevo tempo di sgattaiolare in camera da letto prima che chiunque potesse vedermi, dunque salii le scale alla chetichella e scivolai nella mia stanza.
Morivo dalla voglia di farmi un bagno, ma avrei dovuto attendere se volevo fare le cose per bene: le mie lezioni alla scuola della fabbrica iniziavano alle una, dopo la pausa per il pranzo degli operai, quindi in teoria avrei potuto poltrire fino a tardi, ma sono sempre stato un tipo mattiniero e  la mia famiglia era abituata a vedermi in giro per casa già al suo risveglio. Avevo in mente di mettermi a letto e chiamare Peg la cameriera, al momento in cui i suoi giri l’avessero portata a svegliare le donne di casa, per dirle di andare alla scuola ad avvisare che ero malato. Ci avrei rimesso il giorno di paga, ma non c’era alternativa concepibile, almeno per il momento. In camera mi tolsi finalmente i vestiti imbrattati, fino all’ultimo capo, e li nascosi sotto il letto; avrei atteso un momento opportuno per portarli fuori casa e sbarazzarmene una volta per tutte - da allora non ho mai indossato neanche un cappotto due volte di seguito. Mi infilai nella camicia da notte e poi sotto le coperte, aspettando l’arrivo di Peg con impazienza perché morivo dalla voglia di ordinare quel bagno.
Peg non obiettò quando snocciolai le mie battute – fosse stato altrimenti, non avrebbe avuto un posto da cameriera. Si limitò a rispondere “Molto bene, signore” alle mie richieste e accese senza commenti la lampada a gas quando la fermai nell’atto di aprire le tende per far entrare la luce del giorno. Voltai la testa per nascondere il viso mentre lei trascinava la pesante tinozza di rame in fondo al mio letto e procedeva al faticoso andirivieni dal piano terra alla mia camera, versando un secchio d’acqua calda dopo l’altro. Mentre sbirciavo le volute di vapore salire affacciandosi dalla pediera del letto, mi sovvenne che fino al giorno prima era nei miei progetti risparmiare abbastanza per installare una conduttura per l’acqua calda, così da poter costruire una vera e propria stanza da bagno con vasca e lavandino, come quelle di cui si fregiava ormai quasi tutta la classe media. Nel giro di una notte ero passato da questi placidi sogni borghesi a lambiccarmi per trovare il modo di mostrarmi a mia moglie; a come mantenere il mio impiego, poi, non volevo neanche pensare, per il momento. Era una rivoluzione vertiginosa delle mie condizioni, e quando la saponetta fu posata nel suo piattino e Peg ebbe poggiato con cura una salvietta pulita sulla sponda del letto e si ritirò dalla stanza, mi dedicai al bagno con la concentrazione disperata di un uomo che si getterebbe in qualunque impresa pur di non pensare.

Rimasi a mollo finché l’acqua non si raffreddò, soffregando ogni angolo del mio corpo, godendo del calore che l’acqua imprestava al mio corpo facendolo sembrare vivo per procura. Mentre sedevo ancora nella tinozza registrando la curiosa sensazione di essere in un bagno quasi freddo senza sentirmi minimamente infastidito, il bussare leggero di mia moglie mi raggiunse.
-Julian? Peg mi ha detto che non ti senti bene…
-Un attimo, ti prego.
Fu un attimo che durò più a lungo del previso: alzarmi, asciugarmi e indossare una nuova camicia da notte richiese del tempo, ma più ancora ne persi quando, già sotto le coltri, mi resi conto che la mia gola tumefatta era in piena vista; ne conseguì la proverbiale tabula rasa che mi portò ad annaspare in giro per la stanza in cerca di un fazzoletto da collo, avendo completamente dimenticato dove erano riposti. Quando ebbi rimediato e invitai Catherine ad entrare mi sembrò che fosse passata mezz’ora, ma entrando il suo viso non esprimeva altro che genuina apprensione.
Catherine, mia moglie, era il perfetto prodotto dell’educazione dell’epoca: era operosa, gentile e modesta in ogni sua azione. Ricordandola adesso, con la mente di uomo del ventunesimo secolo, dava l’impressione di veleggiare al di sopra della sostanza delle cose, aggirando con grazia ed eleganza qualunque fonte di conflitto o sentimento sgradito che incontrasse sulla sua rotta: la sua personalità era stata foggiata con perizia topiaria e lei, negli anni, si era limitata ad occuparsi della manutenzione, evitando ogni ributto di carattere che accennasse a germogliare in lei. Al giorno d’oggi non esistono più donne di quel genere, i fattori ambientali non lo permettono ed esse non offrirebbero alcuna attrattiva – a meno di essere generosamente attraenti. Ma, quando l’avevo conosciuta, era un esemplare femminile sopra la media per educazione e costumi; certo non era una bellezza sconvolgente – il viso aguzzo dai tratti volpini non aveva la morbida avvenenza richiesta dai canoni dell’epoca ed era così minuta che in coppia formavamo uno spettacolo curioso, ma per anni mi ero sorpreso della mia buona sorte, trovandola al tavolo della colazione ogni mattina. Era la figlia di un medico condotto e, se questo non l’aveva portata all’altare in compagnia di una dote consistente, mi aveva almeno liberato dalla frustrazione di doverle assicurare un elevato tenore di vita. Eravamo sposati da undici anni ed ero sinceramente contento di ogni comodità che ero riuscito ad offrirle, e lei me ne era stata grata, il che costituiva il ritratto di un matrimonio riuscito.
Entrò nella stanza avvicinandosi lentamente al letto, con un tenero rimbrotto per le tragedie che fanno gli uomini per ogni piccolo malessere; cercava di distinguere il mio viso nella penombra della lampada a gas, poi virò risolutamente verso la finestra e aprì le tende prima che potessi aprire bocca per fermarla.
Non ho dimenticato il modo in cui la sua espressione cambiò quando si girò nuovamente verso di me: le pupille si restrinsero mentre mi metteva a fuoco; le sopracciglia passarono dalla linea corrucciata della preoccupazione all’arco dell’aperta apprensione; le palpebre si sollevarono a scoprire gli occhi; la bocca si aprì lievemente. Vidi anche la sua gola muoversi quando deglutì prima di parlare.
-Julian, ma… Peg mi aveva detto che ti sentivi poco bene, però non credevo… Come ti senti? Hai un’aria davvero… Molto stanca – chiaramente si era trattenuta per non dire “orribile” o qualcosa che potesse spaventarmi. Anch’io stavo attraversando lo stesso cimento; nella mia mente un vocabolario veniva sfogliato da capo a fondo e poi di nuovo, alla ricerca di parole adatte.
In effetti, le dissi, non mi sentivo molto bene. Avevo passato tutta la notte tra i sudori e avevo vomitato. Anzi no, non avevo vomitato, ma c’ero andato vicino (il vaso da notte vuoto e lindo mi avrebbe subito sbugiardato). Di sicuro non era niente di grave; no, non c’erano stati casi di colera in fabbrica, e a quanto ne sapevo, neanche nel quartiere. Probabilmente avevo preso un colpo di freddo tornando a casa, ma non mi sentivo la febbre. Catherine ascoltava, poneva domande e annuiva attenta, seduta accanto a me senza toccarmi: non era certo che non fossi contagioso, dopotutto, e avevamo due bambine.
Riuscii a convincerla a non chiamare subito il dottore, ma insistette per farmi portare qualcosa da mangiare all’ora del pranzo. Mi chiese se volevo qualcosa da leggere, e nominai un paio di libri a caso che lei pescò dalla libreria e mi appoggiò sul comodino. Dopodiché, soffiandomi un bacio sulle dita, uscì. Contai un minuto, poi sgusciai fuori dal letto per chiudere le tende e salvarmi dal barbaglio caleidoscopico che mi faceva scoppiare la testa.
Fatto ciò, rimasi per un certo tempo in piedi, ancora accanto alla finestra, le braccia ciondoloni lungo i fianchi. Che fare? Un vero malato avrebbe dormito, ma io non avevo sonno. Né avevo voglia di leggere, scrivere o altro. Buon Dio, come poteva un uomo affrontare un’ora dopo l’altra, senza la benedizione del sonno, senza nemmeno sentirsi battere il cuore in petto?
Poteva esser fatto, ed io lo feci. Mi rimisi a letto e allenai la vista alla penombra, un’ora dopo l’altra. All’ora del pranzo la cameriera mi portò del brodo; di nuovo mi divertii ad assorbirne il calore tenendo la ciotola tra le mani, poi mi alzai e ne rovesciai buona parte  nel vaso dell’aspidistra che avevo in camera, quindi appoggiai il vassoio sul comodino e ricominciai a fissare il vuoto. Non pensavo a niente. Mi guardavo le mani, le unghie, sapendo che erano bluastre anche se la luce a gas mi impediva di vederne realmente il colore. Alle cinque di sera Catherine fu di ritorno con il vassoio del tè, e rimase a chiacchierare per un po’ con me; fortunatamente, a quell’ora fuori era già buio e lei non pensò a riaprire le tende, ma il rovescio della medaglia fu dover mandar giù un paio di biscotti e bere un po’ di tè per far contenta Catherine. Sentii il bolo masticato scendermi in gola, il liquido tiepido spingerlo giù per l’esofago...
…e poi bloccarsi a mezza strada. Nessun aiuto da parte del mio organismo, il condotto esofageo si rifiutava spocchiosamente di riconoscere tè e biscotti come cibo, e non intendeva dargli alcun aiuto a raggiungere lo stomaco. O forse aveva perso l’elasticità sufficiente per far passare bocconi solidi, fatto sta che mi ritrovavo letteralmente con un groppo in gola. Cominciai a deglutire a ripetizione, cercando di non dare nell’occhio, poi presi un altro sorso di tè nel tentativo di mandare giù la massa: parve scendere di qualche millimetro, ma questo fu tutto. In quella, Catherine mi chiese cosa avrei gradito mangiare per cena; aprii la bocca per risponderle che non avevo ancora molta fame e di portarmi senza troppi complimenti gli avanzi del pranzo, e subito mi venne spedita una raffica di conati. Agitai freneticamente un braccio per far segno a Catherine di allontanarsi, mentre con l’altro mi strappavo le coperte di dosso; feci appena in tempo a sporgermi dal letto, e rigettai sul tappeto che copriva il pavimento sotto il mio letto.

Sentivo che Peg avrebbe voluto dirmi di non vergognarmi, che succedeva a tutti di dare di stomaco, mentre sfregava il tappeto con una spazzola dopo averlo cosparso di amido di mais. Non poteva dirmi niente però: chi si credeva di essere, per prendersi una simile libertà con il padrone di casa?
Sentivo che Catherine era stata sul punto di rimproverarmi per aver sporcato il tappeto; davvero, non avrei potuto trattenermi un attimo in più, cosicché lei mi porgesse il vaso da notte? Non poteva dirmi niente, però: non si può rimproverare un malato per sentirsi male.
Sentivo che il tempo a mia disposizione per la dissimulazione si andava esaurendo.

Non ho mai realmente pensato di dirlo a Catherine: non solo non mi avrebbe creduto, ma ne sarebbe comunque uscita distrutta. E inoltre, cos’avrebbe potuto fare? Una donna non aveva molte possibilità di convincere una forma qualsiasi di autorità ad allontanare il proprio marito: se anche si fosse risolta ad internarmi, spaventata dall’idea di avere un farnetico sotto lo stesso tetto suo e delle bambine, Catherine avrebbe dovuto anzitutto convincere gli infermieri inviati dal nosocomio delle mie condizioni. La vista dell’ individuo lucido e padrone di sé che  ero, anziché di un lunatico vaneggiante, le avrebbe lasciato ben poca credibilità. Sarebbe passata lei per isterica, piuttosto, senza contare che io avrei smentito recisamente la sua versione dei fatti. I passanti ed i vicini avrebbero visto il carro dell’ospedale psichiatrico fermarsi davanti alla nostra casa, le domestiche avrebbero chiacchierato con qualcuno e in un batter d’occhio la reputazione di Catherine, quella della nostra famiglia e il nostro intero matrimonio sarebbero caduti nel fango.
Nemmeno si trattava del peggior scenario immaginabile: la semplice visita del medico di famiglia avrebbe segnato la mia fine. Il pensiero di finire in mano alla comunità scientifica mi spaventa oggi come allora.
Né avrei potuto andare avanti a lungo fingendo di avere una semplice congestione di stomaco: inevitabilmente, per scansare il medico avrei dovuto simulare una guarigione; riprendere a mangiare, uscire alla luce del giorno, tornare a lavorare. Tutte cose che non ero in grado di fare: avevo ingoiato una mezza tazza di brodo all’ora di cena, a scopo sperimentale, riuscendo a trattenerla per quasi un paio d’ore prima di rigettare di nuovo, nel corso della notte, nella sventurata aspidistra della mia camera da letto. Peggio ancora, la luce continuava a lasciarmi instupidito, il che escludeva… beh, tutto quel che aveva costituito la mia vita quotidiana fino ad allora.
Non c’era via d’uscita. O meglio: l’uscita era l’unica via rimasta.

Non lasciai biglietti d’addio. Non inscenai un rapimento. Avessi potuto far scomparire tutte le tracce della mia esistenza da quella casa e dalla mente della mia famiglia, l’avrei fatto: volevo solo volatilizzarmi.
Mi sfilai la fede nuziale e la riposi nel cassetto del mio scrittoio, dove già si trovavano tutti i documenti relativi alla casa e al conto in banca. Presi i contanti dalla piccola cassaforte a muro nascosta dietro un dipinto incorniciato: andavo a versare i miei risparmi in banca ogni tre mesi, e sarebbero scaduti a breve, quindi c’era una discreta somma da parte. Ne intascai la metà, e misi il resto nel cassetto. Aggiunsi anche le chiavi di casa: non volevo darmi la possibilità di un ripensamento.
Attesi che ogni segno di vita, nella casa, fosse cessato; quando mi parve che fosse così, attesi ancora un’ora.
Non pensai a Catherine o alle bambine: la massa dell’ignoto che mi attendeva aveva riempito il mio cervello, scacciandone ogni pensiero per la vita che non avrei più vissuto. Mi tornò tutto in mente più tardi, molto più tardi di quanto abbia voglia di ammettere. Quella notte, mentre la pendola nel salotto dabbasso batteva le tre, badai solo a sfilarmi le scarpe e sfruttare i rintocchi per coprire il rumore dei miei passi giù per le scale.

Non sono più tornato lì; non ho spiato la vita dei miei cari la notte, attraverso le finestre illuminate del pianterreno come un benevolo fantasma. Non ho assistito al funerale di mia moglie e non so se le mie figlie si siano sposate o cosa abbiano fatto delle loro vite. Tutt’ora, non so se la mia vecchia casa sia ancora in piedi e non ho mai riconosciuto qualcosa di mio da un robivecchi. Avrei voluto essere un fantasma, che il mio corpo fosse rimasto in quel vicolo, a fare da ponte tra quel che ero e quel che sono diventato; invece la mia vita si lasciò abbandonare, docile e senza muovere un dito per agganciarmi a sé. E’ bastato camminare in punta di piedi, chiudere la porta con attenzione.
Appoggiati al muro accanto al portone c’erano degli ombrelli ad asciugare; sovrappensiero, ne presi uno, come se stessi semplicemente uscendo per andare al lavoro. Non avevo bagaglio con me, indossavo il mio solito cappello e il soprabito che portavo abitualmente. Scesi tre gradini e fui in strada; scelsi una direzione a caso.
Quando non provavo a respirare, mi pareva di non essere mai morto.
   
 
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