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Autore: Darchrome    04/08/2015    0 recensioni
Il ragazzo dagli occhi d'argento è una fanfiction ambientata nell'universo di Percy Jackson, ma i protagonisti sono del tutto nuovi. Affronteremo insieme le avventure di Sean, un semplice ragazzo di città, e della sua nuova amica Melanie, che lo aiuterà a scoprire le verità più nascoste del suo passato, in un viaggio pieno di insidie, tra miti, divinità, mostri e quanto più ci si possa aspettare da una fanfiction fantasy. Detto questo, buona lettura.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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La vita di un ragazzo di sedici anni non è per niente spensierata come la descrivono gli adulti.
Per loro è facile stabilire una graduatoria su cosa sia importante a quell’età : la scuola prima di tutto, poi vengono gli amici e lo svago, e se rimane tempo, l’amore.
Ma durante l’adolescenza, niente ha la priorità : si studia per compiacere i genitori, perché la paura di sentirsi dire “Mi hai deluso” è maggiore della gioia che deriverebbe da un “Sono orgoglioso di te”.
Rimanere a casa il sabato sera è da asociali, ma rientrare dopo la mezzanotte è da irresponsabili.
Arriva il primo amore, il più innocente, il più dolce, quello che ricorderemo per sempre.
Ma anche quello che provoca più dolore ; si crede nell’amore finché qualcuno non ci spezza il cuore per la prima volta, ed in quel momento ci autoconvinciamo che esso non esista.
A sedici anni ad essere difficile non è soltanto la scuola,  tutto lo è.
Conciliare studio, passioni, amicizie, amore, non è una passeggiata. Si possono programmare gli appuntamenti , le visite, gli allenamenti, ma non si può fare lo stesso con i sentimenti.
Sarebbe interessante poter dire “Oggi alle 15:00 sarò triste, ma solo per pochi minuti, alle 15:15 uscirò di casa felice come non mai”.  E invece no, siamo succubi delle nostre emozioni, che controllano le nostre giornate, ci fanno perdere di vista i nostri obiettivi, e non fanno altro che scombussolarci l’esistenza.
A volte mi chiedo come sarebbe la mia vita se fossi stato un ragazzo normale.
A quanto pare il destino si è divertito particolarmente a tessere la mia storia nel modo più burrascoso possibile, e devo dire che finora se la sta cavando meglio di quanto mi sarei mai aspettato.
Perché avere sedici anni è difficile per principio, ma se aggiungiamo il fatto che io sia un mezzosangue, eccovi servita la rocambolesca vita di un ragazzo che voleva tutto fuorché questo.
Ma procediamo per gradi.
Il mio nome è Sean Woods, e fino a pochi mesi fa conducevo la vita di un ordinario adolescente americano.   
Ordinario per modo di dire : mio padre, Robert Woods, finì sul New York Times per una scoperta che si dice possa rivoluzionare la cardiologia moderna. Un peso leggero da portare sulle spalle, no?                                        
La dislessia non mi ha di certo aiutato a scuola, ma sfogare la mia iperattività in campo sportivo ha sicuramente contribuito a darmi grosse soddisfazioni. Insomma, il cervellone di casa era mio padre, e tentare di emularlo sarebbe stata un’impresa decisamente irrealizzabile, perciò l’atletica mi parve un giusto compromesso.
Non che me la cavassi malissimo a scuola, tutt’altro. Avevo una predisposizione naturale per la matematica, come per qualsiasi materia comprendesse la logica, quindi tutte le materie scientifiche.
Nonostante ciò l’unica materia che mi interessava realmente era la letteratura. Essere trasportati in mondi lontani, pieni di avventure, storie, intrighi, fuori dalla monotonia di tutti i giorni, era ciò che più mi aiutava ad estraniarmi da una realtà statica in cui mi sentivo fuori posto.
Cercavo di allontanarmi il più possibile dal mondo circostante, forse anche per colmare un vuoto, quello creato da una madre che non avevo mai conosciuto. Nessuna sua foto in casa, nessun oggetto, il nulla assoluto.
Essendo sempre vissuto senza una figura materna, non sentii mai il bisogno di una presenza femminile in casa, anche perché mio padre fece un ottimo lavoro come genitore single, senza mai farmi mancare nulla.
Il lavoro lo teneva occupato per la maggior parte del tempo, ma sapevo che stava salvando delle vite, e ciò mi rendeva ogni giorno più orgoglioso di lui.                                                                                                                                      
Un pomeriggio, per pura curiosità, le chiesi di mia madre, e dopo un lungo sospiro disse :
“ Sai, è evidente che sei suo figlio. Avete gli stessi occhi”. La cosa mi fece arrossire, non per il commento in sé, ma perché notai la nostalgia con cui parlava di lei.
“La conobbi mentre mi stavo laureando in medicina a Cambridge. I suoi occhi, di un grigio intenso, mi facevano sobbalzare il cuore ogni volta che incontravano i miei. Era una ragazza molto intelligente, possedeva un’enorme conoscenza in campo medico , e questo mi faceva imbestialire, perché prima di conoscere lei ero abituato ad essere il punto di riferimento dei miei compagni di corso, quello a cui chiedere spiegazioni, e non il contrario.
 Iniziammo a frequentarci pian piano, e tutto d’un tratto avevo tra le mie braccia l’amore della mia vita.
Sembrava tutto perfetto. Troppo perfetto per poter essere vero.
Mi laureai a luglio, e dopo pochi giorni dalla cerimonia mi rivelò di essere incinta.
Pensai “Wow, un bambino. Una grande responsabilità!” Ma dopo pochi mesi arrivò la grande notizia : un grande ospedale di New York aveva accettato la mia proposta di tirocinio presso la loro struttura. Un’opportunità unica per un neolaureato. Quando le diedi la notizia, scoppiò a piangere.
Mi spiegò che il padre non avrebbe mai accettato il suo trasferimento negli Stati Uniti, tantomeno avrebbe lasciato che la figlia si occupasse di un figlio senza un padre. Non per il bene del bambino, ma per quello della famiglia. Così decise che una volta nato il bambino, me ne sarei occupato io, senza se e senza ma.
Cercai di oppormi con ogni mezzo possibile, ma  a quanto mi disse tua madre, fu irremovibile.
E così ci lasciammo, e arrivai in America da padre single, con un bambino di pochi mesi, entrambi con una vita davanti. Credo che suo padre abbia cercato di tenermi lontano per tutti questi anni, perché non sono più riuscito ad entrare in contatto con lei da allora.”
Nel pronunciare quell’ultima frase, una lacrima scivolò lungo la sua guancia. Cercai di essere il più comprensivo possibile, anche se il racconto, soprattutto per quanto riguarda la persona che avrei dovuto chiamare “nonno” ,non mi sembrava completamente attendibile.
Decidemmo di non toccare più l’argomento a meno che non fosse stato assolutamente necessario, e liquidammo così la faccenda.
Ho sempre avuto un ottimo rapporto con mio padre, perciò ritenni l’accordo più che giusto, soprattutto per il fatto che vederlo soffrire era l’ultima delle cose che avrei voluto.
 
Come ho accennato prima, a scuola il tempo scorreva molto lentamente, principalmente per il fatto che l’unica materia che mi interessava occupasse solo quattro ore alla settimana, troppo poche per approfondire davvero la letteratura.­­
Il primo giorno del terzo anno di liceo si prospettava il classico primo giorno di scuola di uno studente asociale: nessun amico da rivedere, nessuno da salutare, una situazione decisamente deprimente.
Qualcosa, o meglio qualcuno, però, mi distolse dalla monotonia di quella giornata ; circa dieci minuti dopo il suono delle campanella, infatti, entrò in classe una ragazza che si era appena trasferita a New York, e che si sarebbe unita a noi per gli anni scolastici a venire.
Rimasi quasi folgorato dalla sua bellezza. Di tanto angelici avevo sentito parlare soltanto dai poeti più dannati, che si struggevano tanto per la donna irraggiungibile di cui erano innamorati.
Capelli neri come la notte, ma lucidi e setosi. Occhi di un azzurro cristallino, luminosi come non ne avevo mai visti. La sua pelle era decisamente pallida, ma non in modo insalubre. Aveva dei lineamenti morbidi, quasi eterei, e delle graziose lentiggini sul naso e sulle guance.
Quando iniziò a presentarsi, iniziai a fissarla dritta negli occhi, in modo quasi inopportuno, ma vedendo che lo sguardo era ricambiato, non lo distolsi un attimo.
“Ciao a tutti, il mio nome è Melanie, e vengo dalla Georgia. Sono molto timida, quindi non ho molto da dire…spero di trovarmi bene con voi “. Dopo un sorriso imbarazzato si sedette nel banco accanto al mio, che ovviamente era vuoto dato che nessuno si sedeva mai vicino a me, così ebbi l’opportunità di studiare da vicino la nuova arrivata.
“Sean, piacere” le porsi la mano e lei la strinse delicatamente, quasi come se non si fidasse del tutto del suo nuovo compagno di banco. “Piacere mio” rispose, con tono diffidente, ma rilassato.
“Hai degli occhi meravigliosi” sussurrai, pentendomi all’istante di averle fatto un complimento del genere appena presentati. Lei arrossì, accennando un timido sorriso, che la faceva apparire ancora più bella.
“Grazie…i tuoi sono molto particolari, non avevo mai visto nessuno con degli occhi così grigi.”
Ebbi quasi un colpo al cuore a quelle parole. Qualcuno c’era, ed era mia madre. Che però non conoscevo.
Mi scrutò con aria preoccupata, forse perché aveva notato la mia pensierosità, ma cercai di sorvolare puntando a trovare degli interessi comuni.
“Quindi…che ti piace fare nel tempo libero?” “Adoro leggere, anche se ci impiego molto tempo a causa della dislessia… e a te?” Nel sentire quella frase gli occhi mi si illuminarono, e senza parlare presi lo zaino e le mostrai un libro che portavo sempre con me, il mio preferito : Alice nel Paese delle Meraviglie, di Lewis Carroll.  
Melanie scrutò il libro con aria perplessa, e mi chiese “Non è un libro per bambini?”
Mi avevano posto la domanda così tante volte, che ormai non me la prendevo più, in fondo è lecito pensare una cosa del genere senza aver letto il libro per intero, e di certo il cartone animato non aiuta.
Dovete sapere che quando qualcuno mi dà l’occasione di esprimere un concetto o di parlare liberamente di un argomento che mi appassiona, inizio a parlare a raffica finché non mi accorgo che l’altra persona si sta annoiando a morte.  Ma con Melanie questo non accadde.
Mentre le spiegavo come Lewis Carroll nel suo libro non si limitava a raccontare la storia di una ragazzina che per caso si ritrova in un luogo incantato popolato da eccentrici individui, ma muoveva una coraggiosa critica al sistema scolastico vittoriano, lei mi fissava con ammirazione e con un interesse che mai avevo riscontrato in una persona quando parlavo di letteratura.
Le illustrai tutte le sfaccettature del romanzo, e notai con stupore il suo sguardo incantato dal mio racconto.
“Wow, ora che me l’hai descritto così, non vedo l’ora di leggerlo! Anche se sarà difficile trovare un libro così vecchio da queste parti, per di più inglese. Ultimamente vedo solo romanzi americani moderni nelle librerie.”
“Posso prestarti il mio, se ti va”. Lo dissi con tale naturalezza che la cosa mi stupì.
I miei libri sono una parte importante della mia vita, li leggo e rileggo più volte, sottolineo le frasi che mi emozionano, incollo linguette colorate alle pagine più significative. Ma soprattutto non li presto mai a nessuno, perché ho sempre paura che me li restituiscano sciupati. Ma con Melanie non esitai, forse perché era la prima persona in tanti anni che condivideva con me una passione così grande, e ciò fece nascere in me una fiducia immediata nei suoi confronti.
Accettò la proposta, e si infilò il libro nella borsa facendo attenzione a non piegarne la copertina.
 
Col passare del tempo , parlando con Melanie tutti i giorni, capii che si trattava di una persona con cui potevo confidarmi, essere me stesso. La prima ragazza che potei chiamare “amica”.
Faticava molto in matematica, e per questo decisi di aiutarla con i compiti e dandole qualche ripetizione nei pomeriggi liberi.
Ci davamo appuntamento a casa mia a giorni alterni, anche perché a suo padre non andava molto a genio il fatto che la figlia frequentasse un ragazzo così assiduamente.
Nonostante la natura degli incontri fosse puramente scolastica, nella maggior parte dei casi la matematica era l’ultimo degli argomenti trattati. Io le descrivevo i miei libri preferiti, e lei i suoi, ci scambiavamo consigli su nuovi autori da provare, e questo mi stimolava incredibilmente a livello mentale, perché non si finisce mai di apprendere.
 
Un pomeriggio decidemmo di tralasciare lo studio per dedicare una giornata al relax più completo, così preparammo panini, bibite e libri e ci sistemammo sul verde prato di Central Park per un simpatico pic-nic.
Era una giornata perfetta da passare al parco: un sole intenso scaldava la terra, ma il venticello leggero che soffiava rendeva il clima mite e fresco.
Sistemammo la coperta sull’erba, e dopo una breve conversazione iniziammo entrambi a mangiare.
Un uccellino si avvicino al mio piede, e quando vidi che stava fissando insistentemente il mio panino, ne staccai un pezzetto e lo lanciai verso di lui, in modo che si allontanasse, ma ottenni l’effetto contrario.
I suoi amici pennuti, infatti, seguirono l’esempio del loro compare, e si fiondarono in massa accanto alla coperta del nostro pic-nic. Melanie scoppiò a ridere, e così feci anch’io, ignorando lo sguardo bisognoso del piccolo stormo di passeri e merli che ci si era avvicinato nella speranza di un pasto.
Dopo circa un un’ora, notai lo sguardo fisso di Melanie verso un punto indefinito, come se qualcosa la turbasse. D’istinto le domandai “ C’è qualcosa che non va?”
Si girò lentamente verso di me, sospirò, e sbatté le palpebre come fa uno studente in crisi quando l’insegnante lo invita alla cattedra per l’interrogazione più importante dell’anno scolastico.
“Vedi, Sean…”- la sua voce era tremolante ed insicura, quasi come se non riuscisse a trovare le parole giuste da dire – “Devo parlarti di una faccenda molto importante”.
Due cose nella vita spaventano a morte un ragazzo di sedici anni : le ragazze, e la frase “Dobbiamo parlare”.
Quando le due cose si combinano, è la fine.
Pensai “ Avrò fatto qualcosa di male? Non voglio rovinare il nostro rapporto!”
Riprese il discorso con voce più sicura : “Come avrai notato, sappiamo entrambi di avere molto in comune sotto molti punti di vista, ma c’è un’altra cosa che ci rende simili, e non chiedermi spiegazioni, cerca soltanto di fidarti di me”.
Accennai un assenso con la testa, sempre più curioso di sapere cosa volesse dirmi Melanie di tanto importante.
“Sean, siamo entrambi figli di padri single, e non abbiamo mai conosciuto le nostre madri, ti sei mai chiesto il perché?”.
La domanda mi colse completamente alla sprovvista, tanto che non seppi come risponderle.
“Sai, il fatto è che loro non si sono mai fatte vive perché non sono persone come noi”.
La fissai con un’espressione tanto perplessa che quasi mi faceva male la fronte.
“Intendi dire che sono delle criminali?”.
Melanie mi guardo con lo sguardo di chi non è capace di dare una cattiva notizia, ma dopo un lungo respiro, proseguì :”Le nostra madri sono entrambe delle d…”.
Un boato assordante la interruppe. Sentii delle urla, la terra iniziò a tremare, il mondo sembrava crollare nel caos più assoluto.
Cercai Melanie con lo sguardo per assicurarmi che stesse bene, e osservandola in viso, non notai soltanto paura ; notai il terrore puro di chi sta guardando qualcosa che ha già incontrato prima, e per questo la teme.
Mi voltai lentamente verso il punto che stava fissando Melanie, e la visione fu terrificante.
 
   
 
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