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Autore: Tully_    05/08/2015    2 recensioni
21 marzo 1901 - 21 marzo 1903.
Due anni esatti in cui, con alterne vicende, un adolescente e idealista Roy, apprendista di Berthold Hawkeye, imparerà a conoscere la figlia del suo maestro. Presentazioni e saluti di commiato nella rinascita della natura, il 21 marzo.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Riza Hawkeye, Roy Mustang
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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21 marzo 1901.
 

 

 

 

Era appena iniziata la stagione della rinascita della natura, la primavera. Da quell'erba alta e poco curata che infestava il giardino di casa Hawkeye, spuntavano timidamente dei fiori di campo, delicati e fragili, ostacolati nella loro crescita da tutti quei fili verdi che li opprimevano e li soffocavano; privi di attenzioni e nutrimenti adeguati, quei piccoli boccioli sarebbero stati destinati alla morte subito dopo la loro nascita. La porta d'ingresso, di legno un po' marcio, cigolò, socchiudendosi, e una testa bionda fece capolino pian pianino. Era una dodicenne che si vantava di essere sulla soglia dei tredici (seppur il compleanno fosse a ottobre), con gli occhi castani grandi e curiosi, che tentavano disperatamente di scorgere dei fiorellini colorati in mezzo a tutta quell'erbaccia che con le sue delicate manine non avrebbe potuto sradicare. Uscì, lentamente, e passo dopo passo si avvicinò al giardino, un po' stupita per quel sole caldo e confortante che finalmente era comparso, dopo tanti giorni di nuvole plumbee. Si addentrò in mezzo a quella piccola giungla, infilando le mani tra i fili d'erba alla ricerca di quei piccoli tesori naturali. Un sorriso di ingenua e infantile speranza decorava quel viso paffuto e candido, finché non venne sostituito da un'espressione di trionfo e soddisfazione quando, dopo mezz'ora di ricerche, era riuscita a ottenere un bel mazzolino dei fiorellini che tanto desiderava. Se li rigirò tra le dita, contenta e con gli occhi pieni di aspettative, mentre si sedeva per terra, sul selciato, per ordinarli in base al colore. Ne aveva colto una quindicina, e molti di quei fiori erano quasi secchi, ma per lei erano come un enorme e costoso mazzo di rose rosse comprato a Central City. Passò un'altra manciata di minuti prima di decidere di rientrare dentro, in modo da precipitarsi in cucina per trovare un vasetto colorato pieno d'acqua dove infilare i suoi tesori di inizio primavera. Appena riuscì a riporli in un vaso di terracotta, il sorriso timido si allargò. “Decoreranno la casa, è così spoglia, silente e vuota.” Pensò, tristemente, accarezzando con premura un petalo di un fiore, stando ben accorta a non staccarlo. Si sedette al tavolo dove aveva poggiato prima il vaso pesante con fatica (dopotutto era ricolmo d'acqua per dissetare quei poveri fiori), e sbuffò per la noia. Non aveva nessuno con cui parlare, era pomeriggio inoltrato e i compiti erano stati fatti diligentemente ore prima, al rientro, quindi cominciò a tamburellare con le dita sulla superficie lignea del tavolo, arricciando il naso.

Era molto taciturna tra i banchi scolastici: durante le lezioni era in ascolto riguardo ciò di cui parlava l'insegnante, e non badava ai giochi dei compagni che volevano solo distrarsi; solo alla ricreazione riusciva ad aprirsi un poco con alcune sue coetanee, ma comunque niente di eclatante. Nel primo pomeriggio era a casa, e per non lasciarsi alcun impegno indietro, eseguiva tutti gli esercizi senza fermarsi e senza cadere dalle nuvole- beh, nemmeno aveva i giochi che i suoi compagni possedevano in casa, e manco una radio per ascoltare le notizie, quindi c'era ben poco con cui distrarsi dai propri doveri.
Tuttavia, ora si trovava a muovere con nervoso le dita sul tavolo, alla ricerca di qualcosa da fare. Gli occhi le si illuminarono, dopo qualche minuto di grandi elucubrazioni.

- Ci sono. Potrei... potrei portare questo vaso da lui! - definirlo papà era troppo intimo, ormai – Così vede che il giardino è fiorito, che è primavera e... 

Improvvisamente la voce le si incrinò e il tono, prima deciso e pieno di spirito e di determinazione, scemò di intensità, fino al silenzio. Abbassò gli occhi, tornando a riflettere con più logica e razionalità sull'idea formulata così con impeto e poi scosse la testa.

- No, no. Lo disturberei, e interromperei, anche se per pochi attimi, il suo intenso lavoro.

Sospirò, giunta ormai a quella mera conclusione, e malgrado riprovasse a spremersi le meningi tentando di scovare chissà quale altro impiego per quel lungo pomeriggio, non ne fu capace. Tanta fu la delusione e l'amarezza che, in ben poco tempo, si addormentò con la testa poggiata di lato sul tavolo.

 

 

Un grande campo di papaveri si stendeva, maestoso, nella sua visuale, e un leggero venticello le scompigliava i corti capelli color del grano. La piccola Riza, di appena cinque anni, si sistemò meglio il cappello di paglia sul capo, e lo trattenne per i lembi con le mani, visto che sarebbe potuto volare via. Era una tiepida giornata estiva e non aveva esitato ad accettare la proposta della mamma di fare una bella passeggiata nelle caldi campagne dell'Est, non lontano da casa loro. La bambina non camminava, ma correva a perdifiato per quei piccoli sentieri erbosi, tenendo per una mano il cappellino dal quale spuntava un delizioso fiocco rosso, mentre con l'altra cercava di acchiappare delle farfalle variopinte che svolazzavano leggiadramente tra i fili d'erba. A nulla valsero i tentativi della madre di arrestarla: Riza si divertiva, ed emetteva risate cristalline ogni volta che inciampava, procurandosi qualche misero graffio sulle ginocchia (ma era forte, e le ferite per lei erano qualcosa di poco conto), prima di tornare a correre, annaspando un po', verso alcuni insetti. Stesero la tovaglia a scacchi rossi e bianchi in una radura silenziosa, animata soltanto dal vociare concitato della bimba che raccontava, per l'ennesima volta, l'ultimo giorno di scuola all'asilo. La madre, annuendo interessata, prendeva dal cestino, nel frattempo, qualche manicaretto preparato da lei e avvicinò in seguito la figlia, sistemandole il cappellino e togliendosi il proprio per offrire al sole una chioma ramata e mossa.

- Mamma, perché papà non è venuto con noi?

Riza lo chiese con quella tipica ingenuità infantile, sbattendo gli occhioni castani pieni di curiosità e in attesa di risposta. Nonostante fosse piccola, era molto arguta. L'espressione di serena gioia sul volto della madre si trasformò in qualcosa di più cupo, e dovette darsi forza per sorriderle ancora, socchiudendo gli occhi nocciola.

- Era impegnato, tesoro. Ti prometto che la prossima volta verrà anche lui.

- Ma è sempre impegnato, a volte manco scende a mangiare con noi!

Ribatté la biondina, infervorandosi e facendo sporgere il labbro inferiore, come segnale di broncio. La donna non era capace di replicare, stavolta: sospirò, prendendola in braccio e abbracciandola. Per fortuna, Riza non poteva vedere quella singola lacrima scendere sulla guancia.
Quel momento d'affetto venne interrotto quando la bambina si staccò bruscamente dal petto della madre, additando un punto preciso del terreno erboso attorno a loro, almeno a due metri di distanza.

- Mamma, c'è un grosso ragno che ci vuole disturbare!

Disse, con fierezza, e con coraggio, prendendo un sasso abbastanza pesante da lì vicino. Lanciò il masso, mirando al suo obiettivo, prendendo in pieno quel ragno nero, 
schiacciandolo.

- Ma brava, Riza! Era distante e l'hai stanato! Complimenti al mio piccolo cavaliere che mi salva da ogni pericolo.

La sua risatina bambinesca di trionfo venne smorzata dalle improvvise coccole della madre e dal solletico sfrenato sull'erba.

 

 

 

Quella fu la loro ultima scampagnata.

 

 

Si destò tutto ad un tratto, spalancando gli occhi e rizzando il capo, guardandosi attorno un po' spaesata, dopo quel pisolino che la rendeva intorpidita e ancora mezzo insonnolita: per rendersi conto se fosse davvero sveglia, si diede un pizzicotto al braccio e constatò, con dolore, di essere tornata alla realtà.
“La mamma mi manca...” Fu un pensiero quasi naturale, di fronte al silenzio che governava in quella casa da qualche anno; non esistevano più chiacchierate, passeggiate, uscite di famiglia. Gli unici brevissimi discorsi li instaurava portando il pranzo e la cena al padre, nel suo studio, null'altro. Non poteva disturbarlo ulteriormente con patetici discorsi riguardo le sue giornate a scuola, o su come stava, o su cosa voleva per Natale o per il compleanno, dunque tendeva a starsene per i fatti suoi, imparando a cucinare con l'aiuto di qualche libro e della propria curiosità e voglia di fare. 
“Alla fine non gli interessa niente di ciò che gli posso raccontare... e non conosco la sua amata alchimia.” Quando finì di elaborare quell'altro triste pensiero, si soffermò sull'ultima parola. Alchimia... da parte del padre, qualche settimana prima, aveva sentito parlare di una persona, a loro sconosciuta, che avrebbe voluto essere un apprendista alchimista, e a quanto pare sarebbe venuto presto per la lezione di prova. Sicuramente era stato attratto dalla fama del padre, seppur non buona: le maldicenze della gente erano tante, inventandosi di sana pianta che fosse uno stregone, o chissà che altro demonio sceso in terra, proprio perché non lo si vedeva mai e le voci giravano. Qualcuno si era interessato, tuttavia, se proprio voleva venire a casa Hawkeye per intraprendere la faticosa arte dell'alchimia, a cui bisognava essere probabilmente predestinati. Riza non lo era certamente, e forse per questo, si diceva lei per giustificare il comportamento del genitore, non riusciva ad avere un rapporto saldo col padre. Si sentì vagamente gelosa di questo novello allievo, perché lei non aveva mai avuto l'occasione di poter stare nello studio a far compagnia al signor Hawkeye, se non per portargli i pasti.

Aggrottò le sopracciglia, cercando di mandar via dalla mente un rancore infantile che germogliava dentro di lei, e si mosse dalla sedia, alzandosi, e andando verso la finestra dalla quale filtravano i raggi caldi di quel sole primaverile. La aprì, inspirando a pieni polmoni quell'aria così buona, e si appoggiò con le mani sul davanzale, osservando con un piccolo sorriso il giardino. Il suo sguardo curioso spostava la propria attenzione su ogni dettaglio dell'erba, del selciato, dei fiori che quando era uscita non aveva intravisto, finché non si soffermò sulla collina in lontananza. Una sagoma. Pensò di aver visto male, tanto che si stropicciò gli occhi diverse volte, prima di mettere a fuoco nuovamente: sì, era una figura in lontananza! Spalancò la bocca, di certo non abituata a qualcuno vicino alla loro casa così desolata, e facendo rapidamente mente locale...

- Ma certo, deve essere quell'allievo. Non penso che durerà molto, conoscendo mio padre...

Si bloccò. Lo conosceva per davvero, da quel poco che si vedevano? No, e di certo non aveva tante memorie di lui quando era piccola, visto che di quel periodo aveva ben poche immagini sbiadite nella mente e qualche avvenimento, come la scampagnata sognata. Si spostò dal davanzale, chiudendo in fretta la finestra. Cosa avrebbe dovuto dire? Magari accompagnarlo, o prima avvisarlo di come fosse scorbutico quel vecchio alchimista, o semplicemente farlo andare da solo alla ricerca dello studio? Di certo il signor Hawkeye non sarebbe sceso a salutarlo, l'avrebbe aspettato mentre continuava le sue folli ricerche, era chiaro. Si scrollò la polvere dalla gonna lunga, andando di fronte alla porta, un po' in ansia: per rimediare a quel panico decise di respirare profondamente, calmandosi pian piano, e chiuse gli occhi.

Il bussare alla porta la ridestò da quel lieve torpore, e subito, muovendo un passo, aprì la porta, facendola, come al solito, cigolare. In quei giorni aveva pensato alcune volte a che aspetto avrebbe potuto avere quell'allievo sconosciuto, e se lo immaginava o come una ragazza con gli occhiali da miope, con le mani sudate che reggevano male diversi libroni, o come un trentenne fissato con le scienze e parecchio bizzarro. Ma ciò che le si era presentato davanti era inaspettato: un ragazzo, sicuramente un po' più grande di lei, almeno sedici anni, coi capelli corti corvini, gli occhi color pece, lievemente allungati e piccoli. Aveva un sorrisetto strafottente sulle labbra, ricambiato da un'espressione più cordiale dell'altra.

- Io sono la figlia del signor Hawkeye, mi chiamo Riza.

- Roy. Roy Mustang.

Il tono di voce, un po' grave, era però terribilmente audace e deciso. La biondina sorrise d'impeto, benché sapesse che sarebbe rimasto solo per le eventuali lezioni (sarebbe potuto essere scaricato subito, e non tornare più, o non piacere), e che quindi non avrebbe avuto alcun rapporto con lui. L'allievo del padre, e basta.

- Bene, mio padre è nel suo studio... ti accompagno, fammi prendere una cosa.

Approfittò del fatto che dovesse necessariamente salire per prendere il vaso coi fiorellini colti precedentemente e, non accusando difficoltà nel maneggiarlo, almeno in apparenza, per non mostrarsi debole, cominciò a incamminarsi, facendo un cenno al giovane.
Il tragitto non era lungo, tuttavia trovava il bisogno di evitare di soffermarsi sul rumore dei propri passi e del proprio respiro, quindi prese nuovamente parola.

- Ti... piace l'alchimia?

- Non credo a ciò su cui blaterano le persone, che la considerano spesso come chissà quale stregoneria. Voglio farci luce e penso proprio che sarà una materia molto interessante.

Riza annuì, concentrata su quelle parole: era curiosa di sapere se il pensiero di quel Roy sarebbe stato lo stesso, terminata quella lezione di prova. Arrivarono finalmente allo studio e, con un po' di timore, la ragazzina aprì la porta, il tanto giusto per non lasciar filtrare troppa luce in quella penombra della quale gli occhi del padre si erano ormai abituati. Strisciò dentro prima lei, successivamente l'altro, e si incamminò su quel pavimento polveroso, facendo attenzione a non inciampare su fogli di carta pieni di disegni e scritte, tutti appallottolati. Avrebbe voluto fare più pulizia, ma avrebbe soltanto disturbato e attardato le intense ricerche alchemiche. Vi era un forte odore di muffa e di inchiostro per scrivere: dal calamaio sulla scrivania gocciolava infatti il liquido nero, come se la penna fosse stata intinta con energia: sicuramente il padre aveva avuto un altro lampo di genio e voleva scrivere e appuntare in fretta ciò che gli era venuto in mente.

- Papà... è arrivato l'allievo.

Con quelle parole, l'uomo fece un cenno al giovane di prendere una sedia da lì vicino e accomodarsi al suo fianco, senza spiccicare parola. Riza, sospirando, andava a poggiare il vaso, che dava un po' di colore e di vitalità a quel tavolo stracolmo di pergamene ingiallite e libri polverosi, in un piccolo spazio libero. Capì che non poteva rimanere ancora: Roy aveva cominciato, con occhi luminosi, a prendere dalla borsa che aveva portato con sé alcuni volumi, un quaderno e matite. Aspettava, ansioso, di iniziare, mentre la figlia del grande alchimista si allontanava, a passi felpati dallo studio, chiudendosi la porta alle spalle. Scese lentamente le scale, sospirando, e riaccomodandosi al tavolo, cominciando a cerchiare con le dita la superficie. Quanto sarebbe durato? Probabilmente un'ora o poco più. Per non rimanere con le mani in mano, cominciò a spolverare la cucina e il salotto poco lontano, oltre le scale, per poi preparare qualcosa di semplice, nel caso quel ragazzo avesse avuto appetito. Qualche panino con dentro prosciutto e formaggio, magari, accompagnati da un budino alla vaniglia. Si convinse immediatamente, annuendo soddisfatta a quelle idee, mettendosi il grembiule della mamma color rosa pastello e accingendosi a preparare.


Mentre aspettava un altro po' che i budini fossero sufficientemente freschi in frigo, riempendo il secondo panino (uno per lei, uno per Roy), sentì i passi sulle scale. Stava scendendo, e notò, guardando alla finestra, che fuori era quasi il tramonto. Si era intrattenuto parecchio: con curiosità, passò lo sguardo sul suo viso, aspettandosi chissà quale espressione di amara delusione, trovando invece... trionfo. Sbigottita e perplessa, finì di preparare il panino lasciato in sospeso, ponendo quello e il primo su un vassoio, poggiato infine sul tavolo.

- Ho preparato qualcosa, nel caso avessi fame. Com'è andata?

Lo chiese con finta distrazione e indifferenza, mentre prendeva due budini dal frigo, pronti, e due cucchiaini dal cassetto delle posate, per poi apparecchiare alla bell'e meglio, senza tovaglia.

- Splendidamente. Avevo pensato bene che fosse qualcosa di interessante. Mi ha detto poco in questa prima lezione, ma da quello che traspare dai suoi appunti che custodisce con gelosia e dalle prime fondamenta dell'alchimia... sono veramente attratto. E sono ammesso ufficialmente come suo allievo, non sto più nella pelle.

Riza si sedette al tavolo, invitando con un cenno l'altro a far lo stesso, cominciando ad addentare il suo panino.

- Cosa vorresti fare, successivamente?

- Entrare nell'esercito e, spero, sommando le sue lezioni e la mia voglia di controllare i suoi scritti proibiti, che vorrei mi rilasciasse, chissà... Diventare alchimista di stato, rendere questo Paese migliore.

Sembravano soltanto pensieri un po' troppo ipotetici e da prendere con le pinze, ma la ragazzina ne rimase affascinata. Forse era tutto troppo utopico, ma era bello crederci e forse in futuro riuscire a realizzarlo, con costanza e determinazione. Non rispose, finendo così il panino, pronta a consumare il budino, mentre Roy faceva lo stesso, davvero affamato dopo quelle ore intense di prima lezione. Non spiccicarono altre parole, non fu necessario. Sapevano che si sarebbero rivisti, sicuramente sarebbe venuto due o tre volte alla settimana. Stava davvero per calare la sera, e qualche spiffero freddo riusciva a intrufolarsi dalla finestra chiusa male: il giovanotto, resosi conto dell'orario, ripose i libri e i suoi appunti fitti nella borsa, alzandosi dal tavolo.

- Bene, penso che sia il caso di andare. Ci si rivede, Riza.

Alzando una mano in segno di saluto, un sorriso a trentadue denti che campeggiava sul viso, se ne andò in tutta fretta, eccitato ancora da quell'assaggio di alchimia che aveva appena avuto. La bionda non ebbe il tempo di rispondere al congedo; scosse solo il capo, vagamente infastidita da quella mancanza di educazione. Uscì fuori, scorgendo da lontano il ragazzo che si allontanava sempre più, sparendo dalla sua vista. Sospirò, respirando per qualche minuto l'aria frizzante della sera appena cominciata, con gli ultimi strascichi del tramonto che insanguinavano, con quel rosso scarlatto, il cielo tendente al blu scuro.


 

  
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