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Autore: Temperina    07/08/2015    1 recensioni
Protagonista della storia narrata è un simpatico gatto nero di nome Heebum, che ha vissuto sin dalla nascita in un castello semi abbandonato conducendo le sue giornate in modo tranquillo e pacifico. Questo finché un gatto arancione di nome Cherry, con la sua banda di gatti randagi, non ha fatto il suo ingresso nel castello e ha cominciato a rendere la vita di Heebum impossibile. Afflitto dalla sua triste condizione, Heebum un giorno decide di partire alla ricerca del leggendario Gattun, gatto saggio che si dice viva a valle del castello. Alla ricerca di un perduto coraggio felino, Heebum inizia così la sua avventura, alla scoperta del Gattun e del vero se stesso. Incontrerà l’amicizia e poi l’amore in una dolce gatta bianca un po’ sopra le righe, che gli insegnerà come si può vivere giorno dopo giorno senza stare a preoccuparsi troppo del domani. Due topi originari del castello, che erano partiti alla ricerca di una cagna famosa per le sue feroci cacce ai gatti, incroceranno la propria strada con quella di Heebum e tutti insieme decideranno di unire le forze per scacciare dal castello una volta per tutte Cherry e i suoi accoliti.
Genere: Avventura, Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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« Ehi, Miguel, cosa è quello? » chiese curioso Carlos. I due topi si avvicinarono alla bottiglia di vetro che saliva e scendeva rotolando sulla riva della spiaggia, spinta dalle onde che l’avevano portata fino a lì chissà da dove. « Guarda Miguel, c’è qualcosa dentro. Apriamola e vediamo cosa c’è » affermò Carlos, il topo più giovane tra i due. « No, Carlos, non possiamo farlo adesso. Sarà una faticaccia, ma la dobbiamo portare fino al castello. Ora aiutami » parlò chiaro Miguel. I topi trovarono il modo di farlo: ingegnandosi con l’aiuto di alcuni fili d’erba più lunghi, resistenti e secchi, si legarono la bottiglia che qualche tempo prima aveva contenuto del latte sulle spalle. Carlos, che era il più giovane e più alto, su di sé aveva il collo della vecchia bottiglia. Miguel che era più grande e ingombrante ma non più alto, il fondo. Insieme si equilibravano bene il peso. « Mi raccomando compagno, dobbiamo correre a tempo, dobbiamo riuscire a rimanere sempre affiancati. Dobbiamo fare in modo che non ci cada mai, così non perderemo tempo a sistemarla di nuovo. Il viaggio è lungo e pericoloso » confermò Miguel, consapevole che tornare al castello non sarebbe stata un’impresa semplice. « Io sono pronto. Quando vogliamo partire, ci sono. » L’alba aveva iniziato a dare il cambio alla notte, che lentamente stava lasciando il posto al sole con l’impegno di illuminare il giorno. « Coraggio, andiamo » incitò Miguel all’altro. Fianco a fianco i due topi di castello iniziarono ad andare. « Miguel, andiamo a fiuto? » chiese Carlos al suo compagno d’avventura appena iniziata. Loro dovevano tornare al castello, dove vivevano non più tranquilli da quando una delle due bande di gatti aveva costretto le loro famiglie a rifugiarsi dentro una tana, dietro la cucina per fortuna. A loro era toccato il compito di andare a trovare aiuto e per questo motivo si erano spinti così lontano, fino al mare, alla ricerca di Bugsy, un cane di razza Bull Dog amico dei loro parenti, che fino a quel momento non avevano trovato. In compenso, avevano trovato quella bottiglia, che ancora non sapevano cosa contenesse al suo interno. Anche se dal vetro, ormai parecchio sporco di erbetta di mare, a loro pareva di vedere all’interno come dei fogli arrotolati. Puliti rispetto allo stato della bottiglia. Quello era segno che all’interno l’acqua non era entrata e quindi i fogli sé, se fogli erano, si erano mantenuti asciutti. Appena passate le prime dune di sabbia Miguel disse: « Carlos, ascolta. Tu ancora non sei molto esperto, ma ti assicuro che quelle sono le tracce lasciate da un serpente mangia topi. Con quegli animali non ci si ragiona, dammi retta, sono peggio dei gatti! Fidati, dobbiamo aggirare il laghetto e poi riprendere verso la collina. Andiamo di là. » E sempre fianco a fianco girarono a sinistra e costeggiarono il laghetto. Fortunatamente non trovarono nessun intoppo fino all’altra parte. « Vieni Carlos, riprendiamo ad andare verso la collina. Siamo appena partiti e dobbiamo arrivare lassù. » In alto, sulla collina davanti a loro, si erigeva il castello. La loro accogliente casa, prima che quelle due bande di gattacci decidessero di stabilircisi. Una delle due bande di gatti era capeggiata da un gatto arancione di nome Cherry. Era arrivata al castello per sfuggire agli attacchi di Bugsy, il cane che loro erano venuti a cercare e che era la guardiana di una piccola fattoria più a valle del castello. Bugsy, più di ogni altro cane, dei gatti non sopportava nulla e aveva costretto alla fuga e all’esilio Cherry e il suo gruppo, che dopo parecchio girovagare erano entrati nel castello e avevano messo in fuga uno dei due gatti domestici guardiani, ormai vecchi, e avevano costretto le famiglie di Carlos e Miguel a rintanarsi dentro una tana parecchio grande dietro la cucina. Miguel e Carlos avevano un compito importantissimo, per quanto difficile e pericoloso. Avevano giurato ai loro familiari che avrebbero trovato aiuto e che sarebbero tornati per mandare via i gatti dal castello una volta per tutte. Al pian terreno del castello ci si era insediato un altro gruppo di gatti, composto tutto da mercenari ammazza-topo, che si spostava da un posto all’altro in cerca di topi da stanare e sbafare, in banchetti a base di quella carne bianca e poco grassa. Il capo della banda dei mercenari era un certo Heebum, un gatto nero e occhi gialli dalle origini incerte. Era forse il più cattivo e pericoloso. A Heebum, oltre che i topi, piacevano parecchio anche i pesci. Lui, che si riteneva un gatto dalle nobili origini, passava parecchio tempo sul ponte levatoio del castello, che dopo l’abbandono da parte dei nobili che lo avevano abitato era rimasto abbassato. Nel fossato pieno d’acqua, ampio e discretamente profondo, ci vivevano tre lucci, ormai parecchio grandi e sempre affamati, alcune varietà tra rane e rospi, che nelle notti di luna piena facevano dei concerti strazianti, per i quali brontolavano addirittura le armature vuote che i nobili proprietari del castello, costretti all’esilio, non si erano potute portare dietro, visto che se ne erano dovuti andare via tutti in fretta e furia. Heebum cercava di ipnotizzare i pesci rossi del fossato. Era parecchio che dava la caccia a una femmina bella grossotta. « Pisciulina, guardami, non mi scappare! Lasciati addormentare, vedrai che ti piacerà. » Era giorni che imperterrito provava la carta dell’ipnosi senza riuscita. Era stato lui che più d’una volta aveva rischiato di addormentarsi con la sua stessa voce e per poco non era caduto nel fossato, dove i lucci non gli avrebbero dato certo la possibilità di tornare a terra sano e salvo. Lo sapevano bene le rane e i rospi, che nonostante non fossero un cibo ottimo per i tre lucci continuavano a fare una gran fatica a mantenersi in numero abbondante. Il luccio più grande con Heebum c’avrebbe fatto un gran bel pasto! Comunque il gattone, convinto dei suoi poteri, continuava a cercare di ipnotizzare la pesciolotta rossa, che a sua volta si fermava a guardarlo da sotto il pelo dell’acqua e gli soffiava bolle d’acqua, cosa che lo faceva imbestialire. Tutti i giorni provava prima l’ipnosi poi faceva diversi tentativi di tuffo o entrata in acqua per infine, come al solito, desistere e tornarsene a bocca vuota nel castello. Cherry, come obbiettivo, aveva quello di non far entrare altri gruppi di gatti nel castello. E se ci riuscivano, lui e la sua banda dovevano far sparire tutti i topi da lì dentro. Cosa che per il momento non gli era riuscita e parecchio per colpa delle intromissioni di Heebum e dei suoi compagni maldestri e poco furbi, quasi sempre capaci di creare solo caos. Infatti tutta la famiglia di Miguel e Carlos erano riusciti a trovare quella tana bella confortevole solo grazie al fatto che di loro si era proposto di occuparsene Heebum e i suoi, tanto per dimostrare a Cherry come si faceva a sterminare due famiglie di topi in pochissimo tempo. Quella prova era andata a finire con le famiglie di topi che avevano cambiato solo tana e avevano dovuto effettuare un ennesimo trasloco. E Heebun, invece, aveva fatto la sua ennesima brutta figura con i suoi e con la banda di cherry. Ormai in quel castello abbandonato non faceva più paura a nessuno. Girolamo, padre di Carlos e fratello del padre di Miguel, se ne stava sdraiato in un angolo vicino alla mezza candela. Se ne stava a pensare come lui e i suoi avrebbero potuto fare a scendere alla prima fattoria, a metà collina, per recuperare un po’ di quel formaggio così tanto buono e utile per la loro salute. In fondo, dove era l’uscita della tana, la candela illuminava gli occhi verdi di un gatto sentinella del gruppo di Heebum. Prima di provare a uscire, lui e gli altri dovevano distrarre quel ceffo e assicurarsi che la via fosse temporaneamente libera. « Guarda, Miguel. Là c’è un fienile o sbaglio? » « Ci vedi perfettamente, Carlos. È arrivata l’ora di vedere se riusciamo a trovare qualcosina da sgranocchiare, che ne dici? » « Certo che sì » rispose Carlos, che aveva anche il bisogno di riposarsi un attimino. I due topi si avvicinarono al fienile, che sembrava del tutto abbandonato e lasciato andare. Arrivati al fienile si fermarono, erano stanchi e affamati. Si guardarono intorno, non videro nessuno e non fiutarono odori che non conoscessero. Ciò significava che nei paraggi non c’erano né umani né altri imminenti pericoli. Vicino una balla di fieno per terra, visione delle visioni, trovarono un po’ di noci. Qualcuno si era fermato lì a mangiare ed era ripartito, dimenticando quelle noci. Un regalo del tutto inaspettato e graditissimo. « Che fortuna, Miguel! Guarda, hanno lasciato delle noci qua per terra! Guarda! » « Le vedo, amico, ma penso sia meglio lasciar perdere e andarcene subito. Non credi? » lo interrogò l’amico Miguel. « Io ho una gran fame e sono sfinito. Ho bisogno di mangiare, bere e riposarmi un po’ » disse Carlos davvero stanco, con la lingua di fuori. « Va bene » lo assecondò Miguel, sempre meno titubante. Era stanco anche lui. « Il giaciglio per dormire un po’ è ottimo. La vedo un po’ più dura per rompere le noci » rifletté ad alta voce Miguel. Il topo più giovane rimase zitto ad ascoltare l’altro . Poi esultò: « Ho un’idea. Le porteremo una alla volta sopra quel pilone che è bello alto da terra e le butteremo giù, mirando su uno di quei grossi sassi. Come ti pare? » chiese Carlos tutto eccitato. Miguel, dopo qualche attimo di ripensamento, si convinse che valeva la pena provare, anche se l’impresa per salire su quel pilone dell’acqua era ardua davvero. « Ascoltami, Miguel. La cosa più importante che dobbiamo fare, e la dobbiamo fare subito » disse il giovane Carlos « è quella di liberarci di questa bottiglia immediatamente. La dobbiamo aprire, tiriamo fuori il contenuto e solo quello lo portiamo al castello. Della bottiglia, che è un grande e pesante ingombro, ce ne liberiamo oggi stesso. Dimmi che sei d’accordo. » « Pensandoci, non stai dicendo una cosa che non sta in piedi. Ma sì, apriamo la bottiglia e prendiamo ciò che contiene. Sicuramente quello che è dentro sarà più leggero e meno ingombrante del suo involucro. Dai, diamoci da fare. » « Come facciamo? » chiese Carlos un po’ pensieroso. « Faremo come per le noci, la porteremo sul pilone e poi la lasceremo cadere giù. Vedrai che funzionerà, ne sono sicuro » disse serio Miguel, mentre guardava con un occhio la bottiglia e con l’altro il pilone. « Rosica qui, Carlos. » « Va bene, Miguel. Ecco fatto. » In poco Carlos, affamato, si era rosicato i fili d’erba che avevano intrecciato per legare la bottiglia alle loro spalle. La bottiglia una volta libera sul terreno scosceso della collina iniziò a ruzzolare verso il pilone, qualche metro più sotto. Nell’impatto con il pilone in cemento si ruppe. I vetri schizzarono un po’ dappertutto. Miguel e Carlos si avvicinarono lentamente, schivando e spostando i vetri tutti da una parte. Così non rischiavano di ferirsi alle zampette. Alla prima impressione, quando arrivarono davanti al contenuto della bottiglia, rimasero un po’ delusi. Appena videro con loro sorpresa che all’interno della bottiglia che si era rotta c’erano soltanto dei foglietti arrotolati e ben conservati, praticamente asciutti, curiosi come non mai srotolarono la carta per vedere se capivano cosa ci fosse scritto. All’interno dei foglietti c’erano una sfilza di formule a loro sconosciute. Capirono perché lessero solo l’intestazione in alto che diceva ‘Topolass’ e poi non c’era scritto nient’altro. La firma in calce in fondo a uno dei foglietti non la videro e di certo loro non potevano sapere chi era stato Topasso. A distanza di migliaia di miglia, in un altro continente, altri due topi erano entrati in possesso della micidiale formula che serviva per la creazione della Topolass. I due pensarono subito che in quei foglietti ci doveva essere scritto qualcosa di molto importante e se ne presero subito cura. Ora era molto più semplice continuare la loro missione. Qualche centinaio di metri prima del castello, si ricordarono che in una tana alla base di una grande quercia abitava il grande Topix, amico della famiglia di Carlos e grande filosofo, poeta, nonché scienziato e chimico. « Vieni, Miguel, aiutami. Passami una noce » chiese Carlos mentre si penzolava dal pilone tenendosi soltanto con le zampette posteriori. Con difficoltà, Miguel gli passò tre noci e lui, una volta risalito, le tirò giù sul sasso una alla volta e si ruppero. Si erano guadagnati la cena. Mangiarono le tre noci. Sazi, con la pancia piena, si riposarono su una balla di fieno dentro a quel fienile abbandonato. « Seguimi, Carlos, e non fare domande. » Miguel si infilò dentro lo spazio che c’era tra una balla e l’altra. Carlos, che aveva percepito la presenza un imminente pericolo, lo seguì di corsa. Con i foglietti nella zampa, arrivarono a metà fienile sfruttando le loro qualità contorsionistiche e gli spazi tra balla e balla. Rabbrividirono con il pelo ritto quando sentirono il tetro rumore di un gatto sopra le loro teste che si stava stirando prima di iniziare la sua battuta di caccia notturna. Sentirono non molto lontane le voci terrorizzate degli altri topi che vivevano in quei paraggi e che se la stavano dando a gambe. Loro due quella volta erano stati parecchio fortunati a trovarsi in quel posto. L’ambiente era buio, ma loro da topi che erano ci vedevano abbastanza bene e poi sentivano chiaro che il gatto sopra di loro si stava allontanando velocemente. Quando non sentirono più l’orribile puzzo di gatto uscirono all’esterno. Ognuno di loro teneva un paio di foglietti, che avevano trovato nella bottiglia arrotolati e legati, in testa con lo stesso sistema di sempre, con dei fili d’erba più lunghi. Miguel aveva legato i foglietti sopra la testa di Carlos e viceversa aveva fatto l’altro. La carta era leggera e poggiata lungo il corpo non dava fastidio. Erano meno ingombrati, portare un foglio di carta legato sopra la testa era uno scherzo, potevano fare qualsiasi movimento. Al castello Girolamo avvicinò una mezza candela all’entrata della tana. Il gatto sentinella non lo sentì arrivare. Odorò, dopo qualche attimo, i baffi prendere fuoco. Scappò via come una saetta. Il miagolio di paura del gatto che scappava lo sentì perfino il fantasma del conte Pedrito Ito, che trasalendo per lo spavento perse la testa che teneva sempre in braccio da quando, anni prima, i Francesi gliel’avevano tagliata con la ghigliottina, in quanto ritenuto una spia della Spagna. E da quel momento in poi, lui che non era mai riuscito a trapassare, era rimasto chiuso nel castello e lì vagava senza mai fermarsi, portandosi la propria testa sotto il braccio. Era rimasto un burlone come era stato in vita. Era lui che durante la notte muoveva le vecchie armature, spostava i quadri lasciati lì dai vecchi proprietari del castello quando lo avevano abbandonato. Girolamo con la sua famigliola approfittò per fare un salto nella cucina del castello, che era appena fuori della tana. Speravano che i due vecchi guardiani, dopo aver mangiato, avessero lasciato qualche avanzo. Era l’ora di fare una perlustrazione. Portarono via dalla cucina un buon bottino. Tornarono alla loro tana con dei pezzotti di cavolo lessato, un bel tozzo di pane secco, che per loro era ottimo, e riuscirono a far rotolare nella tana anche due mele. Si erano procurati il pasto per due giorni, stando attenti a non buttare niente. « Come ti butta, Heebum? » chiese Cherry, passando sul ponte levatoio. Aveva salutato a suo modo Heebum, che era lì anche quella volta sdraiato su quel ponte a escogitare un modo per arraffare un pesciolotto e fare colazione. « Heebum, sei sempre su questo ponte e non riesci ad attaccare un pesce, povero gatto nero! Miaoo! » Cherry si stirò ben bene e passò oltre. Poi, girandosi quando era già qualche metro avanti, aggiunse: « Vedi, io sono uscito all’alba e me ne sono andato in una fattoria qui vicino. Prima che il padrone mi vedesse, ho fatto una ricca colazione a base di uova fresche e due piccoli uccelletti, che il primo volo lo hanno spiccato nella mia bocca. Bene, adesso sto proprio bene caro mio! » Heebum lo guardò con i suoi occhi tondi e gialli. E tra sé disse: “Brutto gatto arancione, ma chi ti credi di essere? Arriverà anche il mio momento e allora imparerai qualcosa, miaoo!” Heebum, con un colpo di reni e uno di fortuna, ce la fece: per poco non cadde nel fossato. I tre lucci, che erano diventati degli squali ormai, quando nuotavano sotto il ponte e lo vedevano sdraiato che provava i suoi stratagemmi fasulli di caccia, si posizionavano e iniziavano a girare in cerchio, aspettando che prima o poi quel gatto nero cadesse in acqua. E per poco non era accaduto proprio quel giorno. Heebum, ormai stanco di quell’ennesima battuta di caccia che non aveva dato risultato, drizzò il pelo, fece un saltello sulle zampe, tanto così per scaldarsi, e poi voltandosi verso l’uscita saltellando si avviò a scendere più a valle alla ricerca di un buon pasto, vista la carestia di quel posto. Parecchio carico, Heebum si avvicinò a un muro a secco dove ricordava di aver visto nei giorni precedenti più di una lucertola a prendere il sole. A passi leggeri, attento a non fare il minimo rumore, si avvicinò quatto e serio con il muso parecchio più nero di quello che madre natura gli aveva regalato. Quando fu oltre metà muro vide ciò che più voleva vedere: un bel ramarro verde piuttosto grassottello qualche metro avanti a lui se ne stava impalato, immobile, a godersi i raggi del sole. Si leccò i baffi e l’acquolina in bocca risvegliò il suo istinto predatore. Prima si accucciò su tutte le quattro zampe e tra sé disse: “Non mi scappi, bella lucertolona verde! Non ti darò la possibilità neanche di poter pensare di scappare. Sei mia!” Mentre il gatto accovacciato pensava già d’aver la lucertola in bocca, il ramarro senza correre si era spostato dentro la fessura tra due bei sassi di quel muro. Heebum, caricato a molla con tutti i muscoli perfettamente in trazione, vedendo la coda della lucertola verde scappare, gli si avventò sopra come una tigre. Con un balzo schizzò per aria e mentre era in volo, pronto ad afferrare con gli artigli la sua tanto sospirata colazione, vide la coda sparire dentro i massi. Fece appena in tempo a coordinarsi e riuscire ad atterrare, ammortizzando il colpo sempre sullo stesso muro. La lucertola, ormai al sicuro tra i massi, ebbe l’ardore di dirgli: « Ssssciocco di un gattone nero, sss-se tutti i gatti foss-ssero come te noi sss-saremmo più di un milione, quasss-si padroni del mondo!
Peccato, ahimè, che di gatti come te ce ne sss-siano veramente pochi! Ma tu, mi raccomando, resss-sta da quesss-ste parti, non te ne andare! » Heebum, a sentir quelle parole, dette con tanto di lisca che gli faceva ancor più male, desolato e sempre più amareggiato saltò giù dal muro, sperando di trovare una qualsiasi cosa da mangiare al più presto. Sceso dal muro, si fermò un attimo a guardare in lontananza il mare, che seppur lontano era sempre così bello. Dopo una mattinata di caccia senza risultati, Heebum si accontentò di mettere sotto i suoi denti un po’ di larve e qualche scarafaggio. “Eh, se fossi nato in una grande città! Lì sì che sarei stato a mio agio! Invece, me misero, sono nato a due zampate da un castello abbandonato in compagnia di un maledetto gatto arancione e sapientone! E quei topi maledetti, che da me proprio non si vogliono far prendere! E ai miei amici è meglio non pensare!” In effetti, la sua banda era parecchio scalcinata. I membri erano: Ramòn, un gatto grigio, bello di pelo, ma un po’ troppo ingenuo e con qualche rotella in meno; Ronni, che era stato il gatto di corte da quanto lo avevano fatto ingrassare i conti prima di abbandonare il castello. Non era più riuscito a dimagrire e pesava quasi venti chili. Purtroppo per lui non riusciva fare più di quello che faceva sempre, ossia starsene sdraiato su un tappeto pieno di pulci, lasciatogli in eredità dai conti. La bella Agata apparteneva alla banda solo con il nome, tanto per far figura, perché in realtà era andata via da parecchio tempo, dietro a un gatto zingaro conosciuto lì nei dintorni. Heebum tornò al castello. Non si fermò sul ponte, sotto c’erano soltanto i tre lucci di guardia. Entrò nel piazzale del castello. Lo sfiorò una ventata di fresco. Non era altro che la testa del conte Pedro che era caduta al padrone e stava ruzzolando intorno al piazzale del castello, chiedendo ripetutamente come un disco incantato di essere fermata. La testa del conte gli passò oltre. Il conte, che era lì presente, la fermò, la riprese sotto il braccio e poi si allontanò con lei. Passò a salutare i suoi e trovò soltanto Ronni, che era tutto affaticato perché era andato a fare due passi e si sentiva stanco. « Buongiorno, Miguel. » « Buongiorno, Carlos. Vogliamo avanzare un altro po’? » chiese baldanzoso al compagno di avventura. « Sento un ottimo odore di formaggio provenire da quella direzione. Andiamo a vedere, muoviamoci. » « Certo, andiamo » gli rispose già pronto Carlos. I due topi ripresero ognuno i propri foglietti e ripartirono andando a fiuto, quello di Miguel. Alla salita rallentarono e si diressero verso est, allontanandosi dalla strada. Entrarono nel bosco, che era parecchio all’ombra. « Lo sento, lo sento. Viene da lì. Senti che buon profumo? Questo è odore di formaggio stagionato a puntino. Chissà di chi sarà e se lo vorrà condividere con noi? »
« Preoccupiamocene quando lo avremo trovato » affermò il giovane Carlos. Proseguirono attirati dall’odore di formaggio. Arrivarono davanti a una casa in pietra, non molto grande ma parecchio carina. Accanto a quella ce n’era anche una in legno. Era da quella in legno che proveniva quell’inconfondibile odorino. Sulla soglia di entrata Carlos esclamò: « Siamo arrivati in paradiso! Finalmente! Guarda quante belle forme di cacio! Guarda Miguel, come sono belle! Ci invitano ad assaggiarle. Rimaniamo qui per sempre? » « Non possiamo, egoista. Dobbiamo tornare al castello e dobbiamo trovare il modo di liberare le nostre famiglie da quel gattaccio e i suoi stupidi amici. Non ti ricordi che i nostri sono prigionieri nella tana, quella nella cucina? » « Sì che me lo ricordo » rispose Carlos puntualizzando che comunque aveva una grande fame e che tutto quel formaggio lo chiamava. Tutto sembrava tranquillo, non c’era nessuno a fronteggiarli. Non videro né gatti né uomini con bastoni. Entrarono nella rimessa in legno, dove c’erano i formaggi a stagionare. Lasciarono i foglietti in un punto sicuro e poi iniziarono ad abbuffarsi di formaggio. Cominciarono da quello più fresco e arrivarono a quello più stagionato. Smisero di mangiare e rosicchiare solo quando si sentirono scoppiare. Con le pance piene non se la sentirono di riprendere subito la salita. Preferirono rimanere un pochino lì nella rimessa, dove oltre al formaggio c’erano anche delle balle di fieno a seccare. Approfittarono per fare un riposino rigenerante. Dormirono abbastanza, sognarono pezzi di formaggio sempre disponibili per loro e altre leccornie. Al risveglio non trovarono nessuno ad aspettarli, solo un invitante profumo di un pezzo di formaggio. Non ci volevano credere, quel posto doveva essere davvero il paradiso dei topi. Pensò Miguel tra sé: “Quale altro posto potrebbe essere così? Abbiamo mangiato formaggio, lo abbiamo sognato e ne troviamo altro al nostro risveglio prima di ripartire. Se non è il paradiso questo!” Poco più in là di dove si erano fermati a riposare, c’era una gabbietta all’apparenza innocua con un bel pezzotto di formaggio parecchio profumato al centro. Di sicuro era lì per loro, pensò Carlos, il più giovane. I due topi erano quasi arrivati all’entrata della gabbietta quando una voce li fermò giusto in tempo. « Fermi! Non entrate, quella è una trappola! » Era un topo più grande di loro, che portava un paio d’occhialetti tondi e aveva l’aria di sapere un sacco di cose. Miguel e Carlos si fermarono subito e non ci pensarono più a quel pezzo di formaggio. « Grazie per averci salvato » dissero in coro al topo che li aveva avvertiti. « Noi siamo Miguel e Carlos » si presentarono i due. « Io mi chiamo Topinto e sono il guardiano del caseificio dove ci troviamo adesso. E voi stavate per entrare dentro una delle prigioni che il fattore e suo nipote mettono di continuo qui per catturare gli intrusi. E per intrusi intende noi topi. Avete capito adesso? »
« Grazie Topinto » risposero in coro i topi, che si erano appena salvati. Il topo del caseificio li invitò a rimanere un po’ con lui, a fargli compagnia in quel posto dove se abbastanza stavano attenti di cose da mangiare ce ne erano tante e tutte buone e gustose. Miguel e Carlos, dopo averci pensato un attimo, decisero di passare lì quello che rimaneva di quel giorno. Topinto li invitò prima a fare un bel bagnetto al ruscello. I tre topi si avventurarono con la canoa del guardiano. La canoa era proprio sotto la casa in legno dove veniva stagionato il formaggio. « Venite, salite a bordo » disse loro Topinto. Miguel a prua, Carlos al centro e Topinto a poppa, scesero lungo il ruscello per un po’, fino a che il guardiano non decise di accostare per guadagnare di nuovo terra. Si lavarono ben bene. I topi ospiti raccontarono la loro storia al guardiano, che consigliò loro di ripartire subito il giorno dopo la mattina presto. Quella sera si abbuffarono nuovamente, assaggiando più formaggio che poterono. Sazi e pieni, si addormentarono dopo aver chiacchierato per parecchio con quel topo così simpatico e ospitale sotto il chiarore della luna. Heebum sempre più desolato, abbastanza disperato, si allontanò ancora di qualche metro dal castello, alla ricerca di altre larve e insetti facili da acchiappare, visto che fino a quel momento niente di più era riuscito a trovare. Quei pesci lo facevano impazzire, quelli più piccoli si prendevano gioco di lui, compresa quella pesciolina rossa che tanto gli faceva gola e che spesso sognava di mangiare. E poi, ogni volta che era su quel ponte a cercare di ipnotizzare i pesci senza risultati, rischiava di addormentarsi lui stesso e di cadere in acqua in bocca a uno dei tre grandi lucci, che non aspettavano altro per sbaffarselo tutto in un paio di bocconi. Quei malefici che non erano altro! Mentre disperato camminava quatto alla ricerca di insetti e larve, si ricordò che sulla collina, proprio a all’altezza del castello, un po’ più a ovest ci viveva un gatto tibetano, saggio, alquanto mistico, che sapeva un sacco di cose. “Eureka!” rammentò tra sé. “Devo trovarlo e chiedergli aiuto, sicuramente mi potrà aiutare a diventare un vero gatto d’assalto e allora non ce ne sarà più per nessuno. Sì! Non tornerò indietro se prima non sarò riuscito a parlare con il saggio dei gatti.” Heebum tiratosi su d’animo a quel pensiero, iniziò a dirigersi verso ovest alla ricerca di Gattun, l’eremita saggio che si diceva tra i gatti della zona vivesse in una grande grotta senza bere e mangiare sin da quando, molti anni prima, era stato abbandonato sull’autostrada a fondo valle. « Miaoo! Conte, che paura con quella testa! » urlò Cherry quando si vide ruzzolare la testa del conte, che gli era caduta per l’ennesima volta.
Il fantasma del conte, in quella condizione di spirito, aveva assunto la capacità di poter comunicare con i gatti e con i due vecchi guardiani, ai quali si manifestava spesso per chiedergli favori più disparati e mai possibili da garantire, anche se avessero voluto. Il conte era riuscito più di una volta ad allontanarsi dal castello ed era entrato in una casa a metà collina, facendosi vedere da un ragazzino di nome Raphaell. Un ragazzino di undici anni un po’ diverso dai suoi coetanei. Era un ragazzino timido e introverso. Per tutta la settimana studiava in un collegio a fondo valle, tornava a casa a piedi per il fine settimana. In collegio per lui la vita non era poi così facile, tutti i compagni di classe lo prendevano sempre in giro perché portava da mangiare ai topi nelle cantine del collegio. Lo consideravano un pazzo sfigato. A lui tutto ciò non interessava più di tanto, trattava quegli animali come fossero degli uccelli e poi non erano in molti, nelle cantine vivevano quattro topi. E da mangiare, pezzotti di pane e qualche frutto, non lo portava nelle tasche o in mano. Raphaell lo trasportava con il pensiero, telepaticamente. Così, quando era solo in camera, tirava fuori i vestiti dall’armadio per vestirsi, girava i fogli dei libri quando studiava e, sempre con l’aiuto della telecinesi, si spazzolava la schiena quando si lavava sotto la doccia. Era dotato di un potere telecinetico potente, ma non ne aveva mai potuto parlare con nessuno. Lo avrebbero timbrato come matto, definitivamente. Specialmente i suoi compagni di scuola, che lo additavano come l’amico dei topi. E lui non lo negava. Più di una volta, litigando con i compagni che lo avevano esasperato, il conte lo sentì dire loro arrabbiato: « Meglio avere i topi come amici piuttosto che voi! » Per due volte il conte fantasma, con la testa sotto il braccio, era andato a trovare quel ragazzino che si sentiva così solo. Raphaell alla prima visita del fantasma del conte non si era messo paura, tutt’altro, aveva avuto un’occasione per parlare con qualcuno. Non gli importava se si trattava di un fantasma o anche solo di una visione del suo cervello. In quella figura evanescente non ci trovava niente di pericoloso. Anzi, il conte con i suoi modi di fare da nobile, faceva sorridere il ragazzino, che lo aveva invitato a comparire tutti i fine settimana, se voleva. Tanto lui era solo anche a casa, gli unici due amici che aveva e che lo capivano erano in due collegi ancora più distanti dal suo e tornavano a casa soltanto per le feste lunghe o per l’estate. Con l’arrivo dei suoi amici, per Raphaell finiva la solitudine e la tristezza fuori casa. Anche a casa, con il fantasma del conte quando si faceva vedere, non si sentiva più solo. Altrimenti, quando capitava di esserlo, il ragazzino passava i suoi pomeriggi in compagnia dei suoi animali di campagna. Gli facevano compagnia nelle sue passeggiate la sua capra Barbetta e il suo cane Bugsy, un Bull Dog maschio nero dal pelo sempre lucido e perfetto. Heebum camminò per l’intera giornata senza trovare nessuna grande grotta, tantomeno gatti tibetani. Comunque, quella volta non si arrese né desisté. Si fermò a riposare all’ombra di un albero, bevve in una pozza d’acqua pulita, si specchiò riflettendosi nell’acqua e disse a se stesso che non era poi così male. Si ripromise, dopo essersi stirato ben bene, che dopo che avesse trovato il saggio sarebbe tornato al castello e si sarebbe liberato una volta per tutte di quei topi così libertini e di quel gatto arancione. Avrebbe fatto vedere lui a tutti chi era Heebum!
« Venite, venite! Ehi, Miguel! Carlos! Vi voglio presentare Carlita e Morena, sono due mie amiche. Carlita è la cantante che tra poco, quando inizieremo la festa, ci delizierà con i suoi uh-uh così intonati con la luna! Vedrete che vi piacerà tantissimo. » Carlita era una civetta e Morena una topina niente male. Quella sera Topinto organizzò una seratina coi fiocchi: ricca cena sociale per i topi che vi parteciparono, tutta a base dei formaggi più raffinati in stagionatura della rimessa, con tanto di musica offerta dalla civetta e da altri volatili notturni, fermatisi lì per un ballo. I due topi amici ballarono fino a che esausti non si accasciarono sulla balla di fieno, ben nascosti alla vista di chi sarebbe entrato nella rimessa. Cherry, con la momentanea assenza di Heebum dal castello, si sentiva legittimato come nuovo padrone. Pretendeva d’essere salutato come un re dai suoi amici e per far capire a tutti chi era il capo, organizzò una scorribanda per il castello, a far cadere le armature che erano state lasciate davanti a ogni colonna portante dai vecchi proprietari durante la loro fuga. Il fracasso e il rumore fu tale che il fantasma del conte Pedrito quella notte decise di abbandonare il castello, temporaneamente per lo meno, finché non fosse tornata la calma. Passando vicino a una finestra aperta, la testa che teneva sempre in braccio gli volò di sotto e prese via nella discesa che portava verso valle. E visto che non aveva poi così tante cose da fare, sentendone immediatamente la mancanza, saltò giù dalla finestra per ricercarla. Era già morto, non gli poteva certo accadere altro. Leggero come gli competeva, si spostò immediato in un'altra abitazione. Senza star lì tanto a scegliere si infilò nella prima che il viaggio dimensionale gli permise. Si ritrovò così nell’armadio del piccolo Raphaell, che dormiva stanco nel suo letto. I raggi del sole riempirono quella camera dove il ragazzino stava dormendo. Carezzandolo sul viso, lo svegliarono e lui decise così di alzarsi. Seduto al bordo del suo letto, ancora un po’ insonnolito, si mise a guardare il risveglio del giorno fuori dalla finestra. L’aprì, respirò l’aria frizzante e fresca. L’erbetta ancora un po’ bagnata dalla brina brillava. A un tratto sentì passarsi alla sua destra una piccola ventata fredda, che lo sfiorò come per toccarlo. Subito dopo da dentro il suo armadio più che con l’udito con la mente udì: « Finalmente sei tornata! Credevo quasi d’averti persa. » Un anta s’aprì senza che nessuno lo avesse fatto all’apparenza. Sempre nella sua mente si sentì dire: « Buon giorno, ragazzo mio. Non temere, mi son fermato qui ieri sera giusto per aspettar di ritrovare la mia testa, che dalla finestra se ne era andata. » « Ma di chi è questa voce che mi risuona in testa? » chiese Raphaell, sempre con l’uso della mente e senza dir parola. « Ragazzo mio, se fai mente locale ti ricorderai di me. Raphaell scese dal letto e abbassò immediatamente la persiana della sua finestra. Poi si affrettò a girarsi nuovamente verso il suo armadio, che gli era di spalle. L’anta socchiusa si aprì del tutto e dall’armadio uscì un signore vestito in maniera elegante, che si teneva la testa tra le mani. « Ciao, ragazzo mio. Sono sempre io, il conte Pedrito. » Nel momento in cui aveva parlato, aveva tolto le mani dalla testa che subito gli cadde in terra, lì nella camera di Raphaell. Il ragazzo rimase un attimo allibito, anche se non era la prima volta che incontrava il conte: non era certo uno bello spettacolo trovarsi ai piedi la testa del fantasma. Raphaell sospirò esasperato e chiese al conte: « Cosa c’è oggi? Come mai sei venuto qui? » Rimbombò nella testa del ragazzino una risata bella grassa e divertita. « Se ti faccio un brutto effetto, prendo la mia testa e me ne ritorno immediatamente su al castello. » « Ma no conte, si fermi pure per un po’. Però cerchi di capire, mi sono appena svegliato e non capita tutte le mattine di trovarsi a parlare con un signore senza testa attaccata al collo. » « Ma è solo il mio fantasma, la mia anima, la mia coscienza, che ancora dopo anni non ha trovato pace. E poi se mi tengo la testa al collo non sono poi così male, vero? » « In effetti, conte, così va molto meglio. Mi dia il tempo di abituarmici. » Il conte fece un’altra bella risata, che solo lui e il ragazzino potevano sentire. « Scusami, Raphaell. Vedrai, starò più attento. » « L’armadio sarà tutto suo, conte, finché vorrà rimanere » disse con gentilezza il ragazzino. « Grazie d’aver accettato la mia richiesta, caro ragazzo. Vedi, su al castello due gruppi di gatti scalmanati stanno disturbando, e non poco, la mia magra esistenza di non trapassato. Ed è un gran problema, cosa credi amico mio? Io che oramai vago nei meandri di quel castello da qualche anno ero abituato alla compagnia di una famiglia di topi lavoratori e per niente rompiscatole e di una coppia di guardiani sordi e parecchio anziani. Ognuno stava nelle sue stanze senza disturbare gli altri. Poi sono arrivati i gatti e i problemi sono iniziati. La quiete è finita. Miagolii, continue litigate. Ieri, esasperato dopo che la mia testa è caduta dalla finestra, ho deciso di allontanarmi qualche tempo e mi sono ritrovato al buio nel tuo armadio. Tutto qui! » « Capisco, conte. Spero soltanto non la veda mio padre, che di ogni cosa fa un finimondo. Figuriamoci trovasse un fantasma senza testa nella mia stanza. Sfogherebbe tutte le sue ire su di me. Pensi, conte, che io avevo quasi deciso, vista la bella stagione che sta iniziando, di portare a pascolare lontano da qui le mie tre pecore, la mia capra e il mio cane, il mitico Bugsy, grande sterminatore di gatti insulsi e prepotenti. Qualsiasi gatto, come vede il mio Bugsy, scappa a gambe levate. Anche il più selvatico. È un cane molto riservato e solitario, come me. Come amico ha un vecchio topo professore di matematica. Cosa le devo dire? » Il ragazzino si zittì. Il conte si tirò dietro l’anta dell’armadio e si chiuse dentro senza far nessun rumore. Raphaell uscì dalla sua camera per sedersi a fare colazione.
Aveva appena finito di tagliarsi una fetta di pane da inzuppare nella tazza di latte che suo padre padrone gli urlò dietro: « Fai presto, devi portare le mie pecore a pascolare, altrimenti quella è l’ultima tazza di latte che vedrai, contaci! » Insieme al pane Raphaell mandò giù il primo maltrattamento della giornata e rispose: « Buongiorno, padre. Provvedo subito, mi alzo e vado. La colazione la farò domani. » « Vedo che hai capito cosa è più importate e allora muoviti » puntualizzò con voce dura quel padre padrone sempre così duro con quel figlio, quando non usava le mani o la cinghia dei pantaloni. Perché nella maggior parte delle volte erano botte da orbi. Raphaell uscì dalla casa. Radunò le poche pecore, la sua capra e il cane e si allontanò verso la collina, dove appena prima del bosco c’era un prato. Lui di solito portava a pascolare il suo misero gregge lì. Raphaell, grazie al suo potere mentale, con gli animali ci parlava come con il conte. Traduceva i loro pensieri e trasformava i suoi a seconda di quale animale aveva davanti. Quando era in compagnia delle pecore, della sua capra e del suo cane, per un po’ riusciva a dimenticare il dolore della sua realtà e diventava un ragazzino felice anche lui. « Contente? Andiamo al prato ? » chiese Raphaell ai suoi animali. « Sì » gli risposero in coro le pecore, la capra e il cane. « Allora fate le brave, camminate tranquille che tra poco ci fermeremo a bere al ruscello. E poi con un altro po’ di cammino saremo arrivati al pratone. E, amiche mie, se avrò un po’ di fortuna non ci sarà nessuno alla casetta dove stagionano i formaggi, potrò mangiare un pezzetto di formaggio che fa bene. » Le tre pecore e la capra procedevano davanti, il cane al suo fianco. Tutti insieme lentamente si avviarono. Arrivati al ruscello le pecore, la capra e il cane bevvero tanta acqua. Raphaell si fermò ad aspettare che le sue bestioline avessero finito. Con la forza del pensiero in un attimo si alzò la borraccia che teneva a tracollo. Mentre la borraccia era in aria svitò il tappo, che rimase sospeso davanti alla borraccia. Raphaell spinse la borraccia nell’acqua, la riempì, la tirò fuori dal ruscello senza far versare neanche un goccio d’acqua fresca, la riportò a sé sempre con la forza del pensiero, ci riavvitò il tappo e la ripose a tracollo, lasciando che ricadesse sul suo fianco sinistro. Arrivarono al pratone che il giorno era completamente illuminato. L’erba ondeggiava morbida come un mare verde sotto le carezze del vento. Le tre pecore e la capra si misero da una parte e iniziarono a brucare, Bugsy le guardava da sopra un piccolo montone di terra e ogni tanto abbaiava per ricordare alle pecore di non allontanarsi troppo. Anche Raphaell se ne stava sdraiato su un piccolo montone di terra erboso a riposare e a controllare cosa stesse accadendo. Anche se il gregge era quello che era, la responsabilità era la sua, le doveva far rientrare a casa nel loro ovile tutte sane, come le aveva fatte uscire quella mattina. « Andiamo, piccolo Bugsy, accompagnami. Le pecore e Barbetta qui sono al sicuro. Noi non staremo via molto, giusto il tempo di arrivare al caseificio e se non c’è nessuno prenderò un pezzettino di formaggio per farmi passare il grosso della fame e torneremo. Va bene, Bugsy? »
« Vengo con te, Raphaell. Alle pecore e alla capra qui non può accadere nulla. Ti seguo » confermò con il pensiero il cane. Raphaell e il suo cane, che gli camminava al fianco, si avviarono verso il bosco, che non era molto lontano da lì. Appena entrarono nel bosco, Bugsy iniziò a puntare verso la casetta in pietra e la rimessa di legno. « Raphaell, laggiù di formaggio ce né quanto ne vuoi, amico mio. E non mi sembra di sentire puzza di esseri umani in cerca di attaccar briga. Mi pare che ci sia qualche topino che si è sfamato da poco. Possiamo andare, però facciamo attenzione. Bisogna sempre stare con gli orecchi alti e attenti. » « Andiamo, vecchio mio » disse piano il ragazzino al cane, che ritmava gli stessi passi del suo padroncino. Arrivarono alle due case. Raphaell si accertò che nella casa in pietra non ci fosse nessuno. Controllò anche all’entrata della casa più piccola in legno, che fungeva da rimessa per la stagionatura dei formaggi. Si concentrò un attimo e cercò di captare i pensieri di chi era lì nei dintorni. Non sentì nessun pensiero di uomini o ragazzi. Captò la soddisfazione di due topi, che appagati e con le pance piene e riposati, stavano per iniziare di nuovo il viaggio che avevano interrotto. Il ragazzino si fermò sulla soglia di entrata della rimessa. « Conte, anche lei è qui? E la sua testa? » « La mia testa la raccolgo subito » disse il fantasma del conte mentre raccoglieva la testa da terra per tenerla di nuovo in braccio. « Io, conte, se non la disturba approfitto di tutto questo buon formaggio e ne prendo un pezzettino, visto che a casa non mi è stato permesso di fare colazione. » « Approfitto anche io, ragazzo mio, e ti guarderò mentre mangi così mi sazierò anch’io. Mi basta poco, anche immaginare soltanto quel buon odore di formaggio. » Raphaell assaggiò un pezzetto di formaggio stagionato e se lo lasciò squagliare in bocca. « Uhm, buono! » esclamò dopo aver mandato giù il bocconcino di quell’ottimo pecorino. « Hai ragione, è vero, è proprio buono quel formaggio » sentì telepaticamente dire dietro di sé. Si voltò e abbassando lo sguardo vide un topo ritto sulle zampe posteriori con un paio d’occhialetti tondi sul musetto. « E tu chi sei? » sempre telepaticamente chiese il ragazzino a quel topo, che era rimasto imbalsamato lì a guardarlo. « Sì, giusto…io chi sono? Io sono il professore Topinto, e tu? » « Io mi chiamo Raphaell e abito qui vicino. Ho portato le mie tre pecore a pascolare e io, che ero affamato, sono arrivato fino a qui attratto dal ricordo di esserci venuto già una vota a prendere un pezzetto di formaggio. E, ovviamente, attratto anche dall’irresistibile profumo che si sente dal prato qua fuori. Ora che ho preso un pezzetto di formaggio torno indietro dalle mie pecore, non vorrei gli accadesse nulla. »
« Ti presento i miei valorosi amici che stanno partendo. » « Chi sono loro? » chiese il ragazzo al topo con gli occhialetti tondi. Con sicurezza il topo gli rispose, sempre con il pensiero: « Lui è Miguel e l’altro si chiama Carlos. Tornano al castello per liberare le loro famiglie dalla prigionia di due gruppi di gatti. È un’impresa assai pericolosa, che darà loro un gran valore se riusciranno a portarla a termine. » « Conte, lei cosa fa? Si trattiene o si sposta altrove? » « Se permetti do una spinta alla mia testa, che ruzzolando anticiperà il mio rientro nel tuo armadio, e sparisco anche io, mio caro ragazzino. Quando hai voglia di parlare con me, Raphaell, sai dove trovarmi. Per il momento ho un armadio dove stare, grazie a te. » « Allora parleremo quando torno a casa, conte. La saluto. » Bugsy scosse la testa, lasciando cadere a terra parecchia bava, come fanno tutti i Bull Dog del resto. Disse al suo padrone: « Raphaell, amico mio, andiamocene. Stanno arrivando i padroni del formaggio e se ci trovano qui non capiranno che hai preso un pezzetto di formaggio solo perché avevi una gran fame. Vienimi dietro, così non ci vedranno. Sento il loro odore, so dove non dobbiamo passare. » Il ragazzino senza farselo ripetere seguì il cane, che grazie al suo olfatto acuto riuscì a schivarli. Fecero un giro parecchio più lungo, ma riuscirono a non farsi notare. Tutto filò liscio, in poco furono di nuovo di guardia al loro piccolissimo gregge. Heebum aveva camminato per tutto il giorno e anche parecchio per la notte, ma ancora del gatto saggio del Tibet non c’era neanche l’ombra. Proprio non c’era odor di gatto, né amico né nemico. Scavando nel terreno aveva trovato diversi vermi e qualche grossa larva, tra le altre cose anche saporita. Aveva smesso di commiserarsi e stava iniziando a guardare alla vita con un piglio diverso, un tantino meno pessimista. Era il secondo giorno che si era allontanato dal castello e non né sentiva per niente la mancanza. Neanche di quei pesciolotti che non era mai riuscito a prendere. E senza la vicinanza di Cherry, quel gatto sapientone, si sentiva alquanto bene. Più sereno, meno aggressivo, niente lo disturbava. Aveva intrapreso quella ricerca e quella strada e non sarebbe tornato indietro prima di riuscire a parlare con il saggio da cui aveva deciso di imparare più cose possibili, per garantirsi un proseguimento della vita da gatto dominante. All’alba un temporale primaverile lo colse impreparato. « Miaoo! Che botta! Per tutti i gatti che fanno miao! » urlò Heebum fuggendo al riparo dentro una grotta sulla sua strada, dopo che un fulmine lo aveva depilato cadendogli vicino. “Me la son vista proprio brutta, per tutti i gatti che fanno miaoo!” pensò tra sé, mezzo spelacchiato ma ancora tutto intero. Borbottando in gattesco si addentrò di più nella grande grotta, che nonostante il tempo ancora nero era parecchio illuminata. Guardingo, camminò lungo il fianco della parete. Scese saltando su diversi massi. Era buio, ma lui ci vedeva molto bene. Non era freddo per  niente e non fece più di tanto caso al buio. Era ancora inebetito per la botta che aveva preso con la scarica del fulmine, che solo per un caso fortuito non l’aveva arrostito. La grotta si fece di nuovo piana e gli si avvicinò una gatta tutta bianca apparsa dal nulla. « Salve, gatto nero, dove stai andando? » gli chiese la gatta. « Miao! Credo di saperlo, ma non so se questa è la strada giusta » rispose Heebum appena prima di presentarsi. « Mi chiamo Heebum e sono un gatto un po’ depresso e parecchio sfortunato. E non ti voglio assillare con le mie disavventure. Tu chi sei? » chiese il gatto assai incuriosito da quella bella gatta dal manto bianco e candido, con gli occhi verdi come smeraldi e coda con un accenno di arricciolamento che la rendeva ancora più bella. « Io mi chiamo Tara e vivo in questa grotta da sempre. Ci sono rimasta io dopo che i miei se ne sono andati in cerca di fortuna, lontano, in un castello abbandonato. Io non ho voluto seguirli, ho preferito aspettare il mio destino nel luogo dove sono nata, dove ho tutto. Voglio la luce del giorno, esco fuori. Mi devo riparare dalle intemperie e dal freddo, torno dentro. Un po’ più internamente, le rocce restano tiepide tutto l’anno. E poi non è male per niente come posto, non trovi? » « Sono appena entrato, è la prima volta che vedo un posto del genere. Io vengo dal castello abbandonato a un giorno e mezzo di cammino da qui. Un fulmine mi ha quasi ammazzato e sono entrato in questa grotta a cercare riparo dal temporale che c’è fuori. Non pensavo di trovarci una gatta né tantomeno bella come te. » « Grazie, sei gentile » gli rispose la gatta spostandosi su un altro masso, un po’ più lontano da dove era lui. « Io sto cercando il gatto saggio de Tibet. Tu mi puoi aiutare? » « Non lo so, ne ho sentito parlare ma non sono sicura che sia tutta realtà. Cosa cerchi da quel gatto? » « Vorrei imparare dalla sua saggezza. Mi sono ridotto a mangiare larve, vermi e insetti. I topi mi ridono in faccia e i pesciolotti belli grassi del fossato intorno al castello quando mi vedono mi fanno le bolle d’acqua sminuendomi. Come gatto cacciatore non valgo proprio niente. E al castello, da quando è arrivato quell’antipatico di un gatto arancione che sa tutto lui, non si vive proprio più. Non lo sopporto io, quel tipo. Ho preferito andarmene, devo trovare il saggio e imparare da lui per diventare un gatto dominante all’altezza di vivere in un castello, a capo di tutto. Tu mi capisci, vero? » « Non proprio » gli rispose la gatta bianca guardandolo con aria un po’ delusa. « Tu, Tara, di cosa ti nutri? » « Delle stesse cose di cui ti nutri tu, con l’aggiunta di erbe che fanno tanto bene. Io sono semi vegetariana, me l’ha insegnato mia madre che non ha voluto seguire Cherry, mio padre. » « Cherry è tuo padre? » rimase sbalordito a sentire quella confessione Heebum. Quel gatto che sapeva tutto lui, che era forte solo lui, che voleva e pretendeva d’essere trattato come un re, quel gatto che con i suoi modi di fare l’aveva spinto ad andarsene…
« Ha solo contribuito a darmi i natali e mi ha abbandonato. Io non so niente di lui e non voglio saperne. Ti prego, non parlarmene. Mi sono fatta la mia vita. Preferirei non ricordare i giorni di quando ero cucciola. Vieni, andiamo a trovare qualche larva saporita. Sai, ce ne sono molte in questo terreno. È un terreno molto fertile. Ci sono tanti piccoli e gustosi animaletti, belli morbidi da mangiare e anche delle ottime erbe disintossicanti. Non vedi il mio pelo come è bello lucido? » « È vero » dovette ammettere Heebum. La gattina bianca con il nome di una stella stava proprio bene ed era pure carina. Per un attimo si distolse dal suo obbiettivo, giusto il tempo per fare un pranzetto e per conoscere un po’ meglio quella gatta. « Seguimi, gatto nero e un po’ spelacchiato. Devo dire che non sei poi così sfortunato. Un altro al tuo posto sarebbe rimasto fulminato. Non è da tutti sopravvivere a una grande scarica di corrente, a quanto io ne sappia » concluse soddisfatta la gatta bianca, arricciando ancor di più la sua candida coda. « Scendiamo giù, tra quegli alberi. Se ben ricordo troveremo delle ottime larve di termite rossa, sono parecchio saporite e non ingrassano. » « Ti vengo dietro » le rispose Heebum, sempre più incuriosito da quella gatta. Stentava a credere che fosse figlia di quel bell’imbusto di Cherry. Pensò Heebum: “Sicuramente la gattina avrà preso tutto dalla madre, che dopo il parto abbandonò quel gatto arancione senza pensarci più di tanto. È così carina e per niente antipatica, tutto l’opposto di quello spaccone di suo padre.” « Barbetta! » chiamò con il pensiero la sua capretta Raphaell. « Dimmi tutto, padroncino » gli rispose la capra avvicinandosi a lui e alle tre pecore. « È arrivata l’ora di tornare a casa purtroppo, amiche mie. » « Peccato » aggiunse sbavicchiando qua e là Bugsy. « Lo so, amiche care. Ancora qualche giorno e poi ce ne andremo su, vicino al castello a cambiar pascoli e un po’ in vacanza. » « Finalmente, per tutte le pecore in fila per due! » esclamò una delle tre pecore, che non vedevano l’ora di cambiare aria per qualche tempo. Raphaell e il suo mini gregge arrivarono a casa che il sole stava calando, avvolto in un tramonto rosso fuoco. Raphaell lo guardò di sfuggita, era troppo impegnato. Riportò le tre pecore nel loro piccolo ovile. Raccolse il latte dalle tre pecore e da Barbetta, ne fecero quasi tre litri. Il pascolo del pratone dove le portava era assai pieno di erba nutriente e i risultati erano visibili. Anche quel giorno Raphaell aveva provveduto a reperire il latte per lui e suo padre. Il padre, in casa, era ubriaco anche quella sera. E quando era in quello stato il ragazzino sapeva che era meglio non parlare per non buscarle. La cosa migliore era lavarsi, mangiare e ritirarsi in camera sua. Così fece: entrò, salutò il padre che neanche si accorse di lui, per fortuna, e si andò a lavare. Poi tornò e mangiò un piatto di minestra fredda che suo padre, tra un barcollamento e l’altro, era riuscito a cucinare. Quella sera Raphaell si poté sfamare perché, poveri come erano e con quel padre, molto spesso saltava la cena. Suo padre, oltre che un ubriacone, a volte pareva un uomo senza cuore, egoista e violento. Sembrava pensare solo a se stesso, il figlio come se non esistesse. Era diventato così dopo la morte della madre del ragazzino. Prima non era così, ossia fino a quando la donna era stata in vita. Nonostante tutti i maltrattamenti Raphaell voleva bene a suo padre. Dava la colpa di quei comportamenti scellerati alla solitudine che attanagliava quella casa e al fatto che non ci fosse più la mamma lì a dare sostegno al padre. Raphaell si era abituato a vivere il presente senza mai sognare un eventuale futuro. « Signor conte, è nell’armadio? » Si aprì l’anta, scricchiolando appena un po’. « Ciao, Raphaell. Come stai? » « Bene, signor conte, sto abbastanza bene, non c’è male. Sono tornato da poco con il mio gregge, che anche oggi mi ha regalato del buon latte. Lei dove è stato tutto il giorno? » « Ho fatto un viaggetto dimensionale in un altro armadio qui vicino, in un’altra fattoria. Ma chi l’abita non mi ha visto. Non hanno un cuore buono e dopo un po’ mi sono reso conto che sarebbe stato meglio fare ritorno in questa casa dove ci sei tu. Con te posso parlare, hai la sensibilità per vedermi e i poteri per potermi sentire e parlare con me. Penso proprio che finché non tornerò al castello l’anta del tuo armadio sarà per me il miglior alloggio, sempre se tu me lo permetterai. » « Ma che domande, signor conte! Certo che sì. Gliel’ho già detto, resti pure quanto vuole, non mi da nessun fastidio. Anzi lei è un’ottima compagnia. » « Ragazzino caro, son felice della tua gentilezza. È che io non so proprio come potrò pagare quando me ne andrò. » « Basterà soltanto che non si dimentichi di salutare. » « Sei proprio un bravo ragazzino » affermò il conte, congedandosi nell’anta dell’ armadio. Il conte la notte russava, sembrava che nell’armadio ci fossero un branco di boscaioli con sega in mano e tutti al lavoro a segare tronchi. Più d’una volta Raphaell, con i suoi pensieri, svegliò il conte che si scusava e subito dopo riprendeva a russare manco fosse pagato. Alla seconda sera il ragazzino si era abituato e nessuno si lamentò più.
« Miguel vieni, presto! Guarda che bella tartaruga gigante. Se facciamo presto gli saliamo sulla corazza. Ci trasporterà lei per un po’, sarà come avere una carrozza! » Senza farsi notare i due topi ripresero i foglietti e salirono sulla tartaruga. Era l’ora di rimettersi in cammino. Lentamente, a cavallo di quella tartaruga, si allontanarono dal caseificio. Salutarono Topinto, che rimase a guardia nella rimessa a imparare altre nuove strategie per eludere le trappole che gli uomini si ingegnavano a costruire. Topinto ne conosceva diverse e la sua era diventata una vera e propria missione. Si era preso la responsabilità di trasmettere ciò che sapeva a tutti i topi che passavano di lì e c’è da dire che ne aveva salvati un bel po’ da quando si era stabilito nella rimessa. E non si sa da quanto tempo gli uomini gli dessero la caccia.
« Tara, potremmo andare dal Gattun insieme, potresti accompagnarmi. Sono sicuro che lo troverò, fosse anche l’ultima cosa che faccio. » « Heebum, non mi giudicare male per il mio no, ma penso fermamente che questa è una strada che devi percorrere da solo. Non volermene. » « E come potrei? C’è gentilezza anche nel tuo rifiuto. E poi è giusto, sono partito per cercare il Gattun. A lui voglio chiedere aiuto per migliorare. Hai ragione, Tara, è bene che io percorra la strada della ricerca da solo. Forse i nostri destini si incontreranno di nuovo. » « È possibile, perché no? Non mi dispiace per niente la tua presenza » gli disse la gatta prima di rientrare nella grotta. « Aspettami, partirò all’alba di domani » affermò Heebum mentre entrava anche lui nella grotta. « Costeggiamo la parete, scendiamo di qualche metro e passiamo una notte tranquilla al calduccio. E poi i bagliori provenienti da sotto le rocce, con il buio, sono molto belli. Fidati e non temere. » « Ti seguo, Tara, sono dietro di te. Fino a domani non me ne andrò » confermò Heebum, a suo perfetto agio in quel momento.
« Che bella luna, guarda Miguel! » « La vedo, Carlos » fece appena in tempo a dire Miguel prima di cadere. La tartaruga saliva piano ma il suo carapace era parecchio scivoloso, dovuto anche alla fitta pioggerellina che cadeva. Li fece cadere entrambi. Prima uno poi l’altro, i topi caddero tutti e due a terra. E sull’erba bagnata e scivolosa tornarono indietro di parecchi metri. In poco si ritrovarono al punto di partenza: un’altra volta davanti allo spiazzo, fuori alla rimessa dove stagionavano i formaggi. Attirati da quel meraviglioso profumo a cui non sapevano rinunciare, come in trance si avvicinarono alla porta da dove erano usciti qualche tempo prima, quando avevano salutato Topinto per la partenza. Si affacciarono all’interno della rimessa. Delle lucine flebili e a intermittenza attirarono la loro attenzione e curiosità. « Siete di nuovo qui, vedo con piacere » disse loro Topinto, che li invitò ad accomodarsi. « Entrate, venite avanti, facciamo festa anche stasera. Carlita e Morena ci faranno un altro spettacolino e di formaggi per sfamarvi ce ne sono quanti ne volete. Favorite, non fate complimenti, divertiamoci che la vita è tanto breve e quella che abbiamo davanti, di poco, è bene viverla spensieratamente senza dar troppo peso al domani. » Topinto si alzò sulle zampe posteriori e iniziò un caloroso applauso a lui dedicato. Nella rimessa volavano diverse lucciole fuori stagione ed erano loro che illuminavano la stanza con quelle lucine fioche e affascinanti. Carlita cantò più di un brano, gli applausi dei topi partecipanti la incoraggiarono a stendere per intero il proprio repertorio. Morena, la topina dal pelo scuro, ballò per tutti invitando i partecipanti a fare la stessa cosa. Quella rimessa era un posto magico, c’era un’atmosfera di perenne allegria come calava il sole. E poi c’era il miglior formaggio di tutta la valle. « Ehi, Carlos! Riposiamoci un pochino. Noi, come alzerà il sole, dobbiamo ripartire. Il nostro viaggio è ancora molto lungo, si può dire che siamo appena partiti. » « Stai tranquillo. Lo sento sulla mia pelle che andrà tutto bene e troveremo chi ci aiuterà. Sicuro topo, sono giovane ma so quello che dico, fidati » affermò certo Carlos mettendo la zampetta davanti a un enorme sbadiglio di stanchezza. Era ancora buio e si misero a dormire nascosti bene in un angolo della casetta in legno.
« Ma lo sai che è proprio bello qui, in questa grotta? » si complimentò Heebum con la gatta che lo aveva ospitato. In lontananza, bagliori della lava incandescente che risaliva dal fondo delle viscere della terra e correva lungo un canyon abbastanza lontano da loro, illuminavano soffusamente tutto ciò che era possibile illuminare. I minerali duri che si trovavano nella grotta splendevano accendendosi dei colori più belli. Le rocce sotto di loro erano tiepide. Heebum era sereno, per un attimo pensò di essere a casa.
« Conte, mi sentite? » Raphaell chiamò il conte con la forza del pensiero. In breve il conte con la testa sotto il braccio uscì dall’anta dell’armadio. « Dimmi Raphaell, non hai sonno? Vuoi parlare un po’ con me? » gli chiese fermandosi davanti al letto dove era sdraiato il ragazzino. « Dal tuo respiro sento quanto sei triste. » « Lo ammetto conte, sono triste e mi sento tanto solo. » Uscì una lacrima dagli occhi del ragazzino. « Raphaell, tua madre è morta e tu non puoi farci nulla, caro piccolo mio. E tuo padre è l’orso che è. Ma sono sicuro che dietro a tutto quel suo essere un duro si sente tanto solo anche lui. E ha tanta paura di non farcela. » « Se mi fermo a pensare, conte, in effetti prima, quando mamma era viva, papà non beveva ed era sempre sorridente e bravo. Mai mi aveva picchiato. È cambiato con la morte della mamma. » « Lo immaginavo » gli rispose il conte mentre raccoglieva la testa da sopra il letto di Raphaell, che ormai si era abituato a vederla ruzzolare dappertutto. Il ragazzino si addormentò e non si svegliò più fino al mattino.
« Ottimo lavoro hai fatto con le armature poco fa, Tito. Sono fiero di te » disse Cherry a quel gatto arancione, simile a lui in quasi tutto. Era un componente della banda e anche suo figlio. « Grazie pa’, è stato un piacere e uno scherzo far cadere tutte le armature. Così stamani quei due vecchi guardiani dovranno lavorare parecchio per ricomporle tutte e rimetterle al loro posto. E quando lo avranno fatto, noi saremo pronti a iniziare di nuovo questa guerra psicologica. Vedrai pa’ che vinceremo noi e quei due se ne andranno. » « Hai perfettamente ragione, tu mi assomigli e sei degno di regnare con me. Tutti devono inchinarsi a noi, gli imperatori di questo castello. Chi si ribella… » Cherry alzò la zampa e fece il segno dello sgozzamento allungando uno dei suoi artigli affilati. Oltre che superbo e sapientone era anche di molto cattivo, quel gatto arancione. E dalla sua aveva un figlio uguale identico a lui, di colore e di indole. Il giorno aveva illuminato la grotta. « Allora te ne vai, Heebum? » « Sì, Tara. È una ricerca troppo importante la mia e per ora non c’è spazio per nient’altro nella mia vita. Neanche per un fiore come te. » « Ho capito. E allora non posso fare altro che salutarti. » Tara diede un ultimo sguardo al gatto nero e senza proferire altro si allontanò. “Non mi posso fermare adesso. Devo trovare il Gattun e imparare da lui, poi potrò tornare alla vita di tutti i giorni. Quando sarò un altro gatto anche io potrò dare le mie garanzie. E se vorrò continuare a mangiare larve, sarà perché mi va e non per obbligo.” Il gatto riprese ad andare verso ovest. Il sentiero che seguiva lo portò un pochino più verso valle. Scendeva prima di risalire e girare intorno alla grande collina. « Sveglia topi! » si fece sentire Girolamo. Le scorte si stavano esaurendo, urgeva rimpinguare. « Ho visto Cherry insieme agli altri scendere nel piazzale e uscire dal castello. Andrà a caccia fuori. Meglio per chi resta e cioè noi. Facciamo un salto a vedere cosa c’è di buono di là in cucina. »
« Andiamo » gli fecero eco i figli, pronti a scovare qualcosa da mangiare in quel periodo di carestia così grama. I topi uscirono guardinghi dalla tana e si infilarono spediti nella cucina, misera quella mattina. Nell’angolo dove di solito i guardiani buttavano i rifiuti del cibo, trovarono una mela e un tozzo di pane pieno di buona muffa. « Ottimo, meglio che niente » esclamò Girolamo, perennemente ottimista. In poco tempo rientrarono nella tana portandosi con loro il pane e la mela. Standoci attenti, ci avrebbero mangiato per altri due giorni. Girolamo spesso ricordava felice i giorni della libertà, quando ancora Cherry non era arrivato al castello. Con Heebum la convivenza era più tranquilla e spesso quando il gatto si assentava dal castello se ne andava a trovar formaggio nelle fattorie vicine. “Bei tempi”, sospirò mentre spingeva la mela via dalla cucina. « Eh, miei cari, spingete, portate! Facciamo presto, sento il puzzo di quel gatto maledetto che si avvicina. Entriamo nella tana, mettiamoci al riparo. » Finì di dire quelle parole per un pelo, il vento di una zampata andata a vuoto gli fece rizzare il pelo e rabbrividire su se stesso. Erano ben visibili i denti affilati e gli occhi verdi di quel brutto gatto arancione appostato nuovamente subito fuori la loro tana. « Vieni fuori, topastro grassottello. Ho più tempo per aspettare di quanto tu possa immaginare e il vederti accresce l’acquolina nella mia bocca. » « E allora, brutto gatto arancione, aspetta quanto vuoi » gli rispose il topo da dentro la tana ormai al sicuro, almeno per un paio di giorni.
Quando aprì gli occhi quella mattina Raphaell vide il fantasma del conte che vegliava su di lui. « Buon giorno a te, piccolo ragazzino gentile. Spero tanto tu abbia fatto un bel sogno. » « A dire il vero io un bel sogno l’ho fatto, ma sicuramente non era il mio » rispose Raphaell con il suo visino triste. Il conte provò a carezzarlo sulla testa, cosa che non gli riuscì, era un fantasma. Il conte spesso dimenticava di non esser più fatto di materia. Provava a far le cose dei comuni mortali e ci rimaneva male per un attimo quando poi si rendeva conto d’esser padrone di un’altra dimensione, che gli stava di molto stretta. E da dove non poteva assolutamente far ritorno. « Io, conte, la saluto. Ho già perso troppo del mio tempo. Vado a fare colazione e poi porto il mio gregge al pascolo al pratone. La saluto, lei senza far troppo rumore stia pure qui nella mia stanza. Le farò un saluto questa sera quando ritornerò e verrò a mettere a posto. »  Raphaell si mise a sedere davanti alla sua tazza di latte e alla fetta di pane. « Buongiorno, padre. Faccio colazione e porto il gregge a pascolare. » « Muoviti, fai presto » gli rispose il padre senza contraccambiare il buongiorno. « Padre, chiedevo a voi se era possibile… se prima di portare le pecore al pascolo potevo pulire la mia stanza, che ne ha di bisogno. » Il padre guardò l’orologio a pendolo attaccato al muro e gli rispose dopo aver dato un pugno sul tavolo. « Va bene, prenditi ancora una mezzora e pulisci bene che dopo controllo. » « Grazie padre, allora corro. » Di corsa Raphaell si alzò e rientrò nella sua stanza. Si mise in piedi davanti al suoletta. Poi con la forza della sua prodigiosa telecinesi iniziò a sistemare il letto. Come in una magica danza tirò le lenzuola, spazzò in terra con la scopa, dal bagno tirò fuori lo spazzolone con lo straccio che sciacquò e strizzò più volte. Quando ebbe finito aprì le finestre e scappò fuori. « Arrivederci papà, io ho finito. Porto le pecore a pascolare. » Il padre come aveva promesso, appena il ragazzo uscì andò a controllare. Rimase a bocca aperta. Non si sapeva dare una spiegazione. Si chiedeva soltanto come avesse fatto. Tutto era a posto e in perfetto ordine. Il letto rifatto, le poche carte in ordine, il pavimento perfettamente lavato e aveva anche spolverato dappertutto. Si rifiutò di indagare ancora, era un altro dei misteri di quel figlio a cui non riusciva a chiedere perdono anche se dentro di lui cresceva sempre più il desiderio di farlo. « Andiamo, amiche mie » telepaticamente disse Raphaell alle pecore, alla capra e al suo cane. « Ti seguiamo, siamo con te » gli risposero in coro gli animali. Si fermarono al ruscello. Le tre pecore la capra e il cane bevvero, lui con la forza della sua mente riempì la borraccia come faceva sempre. « Topinto, se non dovessimo tornare su al castello a liberare i nostri familiari io mi fermerei qui con te a imparare come si organizzano feste tutte le sere. Peccato che non posso » affermò affranto Miguel, che a quel tipo di vita ci aveva preso gusto. In fin dei conti Topinto faceva una gran bella vita: si occupava di far la guardia a un gran bel posto, da mangiare non gli mancava di certo, si era fatto un giro di amicizie niente male e cosa più gradita era che, come finiva il tramonto, all’imbrunire della sera, c’era sempre da far festa. I topi si fermarono per un’altra sera e si accomodarono per la cena. « Carlos, guarda là che bella forma di gorgonzola bello fresco! » « L’ho vista Miguel, mi ci vado a tuffare » gli rispose Carlos che era già davanti a quel ricco formaggio così profumato. Il topo più giovane nella forma di gorgonzola ci infilò tutto il musetto e per qualche minuto mangiò e respirò soltanto formaggio. Anche Miguel non perse tempo. Si avvicinò a Morena, che era lì anche quella sera, e la invitò a fare un giro ballerino culinario su di una forma di pecorino stagionato, che per loro era un gran richiamo. « Accompagnami » le chiese Miguel. « E dove andiamo? » di risposta chiese Morena, la topina parecchio scura di pelo. « Ora che la musica è partita, ti vorrei far fare due giri di valzer su quella caciotta proprio lassù » le confermò Miguel facendosi un passo avanti verso di lei. « Vengo, ma solo un ballo. Perché io tra le altre cose dovrei anche far presto a tornar alla mia tana. I miei mi hanno detto di non far tardi. Io vengo qui a lavorare, tu questo lo sai. Dopo aver cantato un paio di canzoni lascio il posto a Carlita e io me la batto in ritirata. I miei sono topi all’antica e non ammettono discussioni. Ti è chiaro questo concetto? » « E come non potrebbe? » le rispose Miguel, con lo sguardo di chi aveva capito più che bene ciò che gli era stato detto. « Dammi la zampetta allora, non perdiamo tempo. » Miguel la invitò a prendere posto in pista sul pecorino stagionato. I topi si limitarono a quel ballo e, quando le lucciole smisero di luccicare e le due falene di cantare, Morena salutò tutti e scappò via di corsa da uno scarico che era lì vicino, che conduceva dritto al ruscello. Miguel fece appena in tempo ad alzar la sua zampa per salutare che la topina era sparita, non la vide più. Era rimasto colpito da quell’esserino. Ma in quel momento, anche se non sembrava, cose più importanti aveva da fare e di certo non si poteva mettere a conoscere meglio topine in una rimessa usata come sala da ballo.
“Che odore forte e buono di ranocchi e pesciolini! Penso proprio d’essere arrivato a un laghetto parecchio rifornito”, rammentò Heebum dandosi pure una leccatina ai baffi. Man mano che saltellando se la camminava spedito verso il laghetto, il gracidare dei ranocchi di quel posto lo induceva a pensare che l’ora di un bel pasto abbondante e saporito era arrivato. Con lo sguardo attento e muovendo meno erba possibile si avvicinò alla riva. Il gracidare aumentava a ogni suo passo. Si fermò di scatto, pronto per attaccare. Fece le prove e il controllo degli artigli delle zampe anteriori. Erano in perfette condizioni. Fece ancora due passi avanti per vedere meglio cosa ci fosse, mise la testa fuori dall’erba alta e vide una quantità enorme di rane tutte colorate. Cosa non gli frullò per la testa! Aveva già immaginato di mangiar una rana e tra una rana e l’altra ci avrebbe visto bene anche un bel pescetto, che non si sa da quanto tempo non mangiava. Forse un pesce Heebum non lo aveva mai assaggiato. Era pronto a sferrare il suo primo attacco. Caricato sui suoi muscoli, era pronto a saltare su una bella rana verde proprio davanti a lui, che lo stava lì a guardare senza batter ciglio con un paio d’occhioni neri fissi. « Ranocchietta, con te sarò parecchio bravo. Voglio darti il tempo di scappare. Se in tre salti, e ripeto in tre salti, sarai abbastanza lontana da me non ti verrò più a cercare. E mangerò qualche altra tua sorella. » La rana non si scompose neanche per un attimo. Lo guardò ancor più fisso e dritto negli occhi. Poi, dopo avere gracidato un paio di volte, in tutta calma gli disse: « Gatto nero, io ti capisco. E quando ti ricapita di trovare un bocconcino come me? È bene che tu sappia che io sarò il tuo primo e ultimo boccone, gatto nero, perché su questa terra non esiste animale più velenoso di me e delle mie sorelle. Perciò vieni avanti, facciamo presto. Or dunque, sono curiosa di vedere se farai prima tu a mandarmi in corpo o il mio veleno a stenderti. E giurerei sul fatto che il mio veleno faccia prima, di solito chi ha il dispiacere di toccarmi in un passo o due dice addio a questo mondo. » La ranocchia verde fosforescente gracidò un'altra volta. Heebum la guardò più attentamente, mettendola bene a fuoco. E pensò che se un animale così piccolo con tanta sicurezza gli aveva detto quelle cose allora c’era sicuramente da stare più che attenti. Il gatto si spostò più sulla destra e telò via, dove non vedeva nessuna rana colorata. Uscito dall’erba alta del laghetto arrivò su quella molto più corta, vicino al percorso che lì lo aveva portato. Percorse ancora qualche metro e poi si mise a scavare nel terreno morbido alla ricerca di qualche bella larva da mandare giù e a quell’ora di fame ne aveva anche parecchia. Dopo aver fatto una ricca colazione a base di larve fresche di formica rossa, si stirò i muscoli più d’una volta poi riprese ad andare. Tutto sommato, anche quel giorno non era iniziato troppo bene. Le rane così indigeste erano rimaste al lago. Ancora una volta non era riuscito a cacciare niente. Però scavando nel terreno si era sfamato ugualmente. “Cosa ci sarà poi di così brutto nell’essere più che un gatto cacciatore un gatto trovatore esperto in larve e erbette salutari? Mica è da tutti! Chissà se quel sapientone di Cherry sarebbe capace di vivere così. Io sono capace e quando tornerò al castello lo capirà da sé, quel bell’imbusto di un gatto arancione!” Uno dei due vecchi guardiani salutò l’altro, che lentamente entrò in cucina e si sedette. « Come va’ Bastiano? » « Vista l’età, Amilcare, non mi lamento. Sono quei gatti così rumorosi e fastidiosi che rompono. Povero Heebum! Hai visto? Alla fine hanno fatto in modo di mandarlo via. Ma gli ho preparato un bello scherzetto. Se ne ricorderanno quando riproveranno a buttare per terra tutte le armature, quelle che abbiamo rimesso in piedi l’altro ieri. » « Raccontami » chiese Amilcare. « Volentieri, ti racconto. Ti ricordi quel super grasso che avevo trovato in un negozio del centro? Quello che bastava sfiorarlo e tutto scivolava come se fosse spinto da un reattore? » « Sì che mi ricordo, funzionava a meraviglia. E allora cosa ci hai fatto? Dillo anche a me » chiese Amilcare ancora più incuriosito. E Bastiano gli raccontò ciò che aveva combinato. « Vecchio amico mio, hai presente il lungo corridoio qui di sopra, dove ci sono le armature tutte esposte? » « Lo ricordo perfettamente, vecchio mio » gli rispose Amilcare, tutto intento ad ascoltare. « Prima, quando ho fatto il giro d’ispezione a tutti i piani, ho portato con me quel grasso e l’ho versato proprio a filo delle armature. Che ci riprovino a buttarle giù! Per di più ho anche aperto tutte le finestre e se tanto tanto riproveranno a correre vicino a quelle statue di ferro passeranno un brutto momento. E stai attento anche tu quando vai di sopra, il ghiaccio ha di sicuro più attrito. » « Ben fatto » rispose Amilcare tutto soddisfatto. « Cosa ci mangiamo per stasera, Bastiano? » « Il pesce che ho pescato stamattina mentre tu pulivi. » « Bene, allora lo preparo lesso nell’acqua di sorgente con tanto di patate lesse accanto » confermò Amilcare, che dei i due era il cuoco. « Cucinalo come ti pare, lo sai che io mangio tutto. » « Va bene, per le sei sarà pronto » rispose Amilcare, che per alzarsi dalla sedia ci mise più di cinque minuti, povero vecchio. Nel piazzale del castello, intanto, Cherry con i suoi stava preparando un’incursione per buttar giù le armature proprio per quella sera stessa. Da sopra tre scalini disse ai suoi: « Ascoltatemi bene tutti quanti. Ho deciso, questa notte faremo un altro giro a buttar giù le armature. Agiremo quando la notte sarà ancora in cielo. » « Siamo d’accordo » gli fecero il coro tutti gli altri. E lui pieno di superbia si stirò davanti a loro per mettere in mostra i muscoli. E scattò anche il coro che di spontaneo poco aveva. Tutti e quattro i gatti della banda al segnale, sempre da lui impartito, poco spontaneamente miagolarono forte: « Grande Cherry, per tutti i gatti che fanno miaoo! » E lui, sempre più in pompa magna, ordinò che quella notte dovevano restare tutti al piano della cucina. Tanto per fare un po’ di guardia e tortura psicologica a quei brutti topi nella tana, come prima cosa. Poi da lì sarebbero saliti in fretta e furia al piano di sopra, sarebbero corsi vicino alle armature e sfiorandole, come lo sapevano già, esse sarebbero cadute. E i guardiani avrebbero preso un bello spavento. I due guardiani, seduti fuori dalla cucina, notarono che i gatti erano in fermento. Ormai li conoscevano, sapevano bene che dietro a quei miagolii così prolungati e forti, se non erano nel periodo degli amori, si nascondevano solo guai presto in vista. E purtroppo non erano nel periodo degli amori. La sera calò al castello e su tutta la collina. Dopo aver mangiato come tutte le sere i due vecchi guardiani si ritirarono ognuno nella propria stanza per riposarsi dalle fatiche del giorno, che alla loro età si facevano sentire e non poco.
« Buona sera conte, come si sente? » chiese Raphaell. Con un accenno di sorriso, telepaticamente gli rispose: « Cosa vuoi che ti dica, mio giovane amico? In realtà da quando mi trovo in questa condizione, a me per niente gradita, il sentir come intendi tu l’ho del tutto dimenticato. Noi fantasmi il dolore o il piacere non lo sentiamo sulla pelle, che è solo una visione. No! Noi lo sentiamo direttamente dentro l’anima, perché di quella siamo fatti. E il piacere o il dolore solo di sentimenti sono fatti e non sensazioni, come invece le provate voi. È tutta un’altra cosa, caro mio. Oserei dire che è parecchio più intensa delle sensazioni, nel bene e nel male. Poi io, Raphaell, quando fu la mia esecuzione son morto così tanto in fretta che di quel brutto giorno poco o niente ricordo. » « Meglio così conte, non trovate? » rispose attento il ragazzino.
Dopo l’ennesima prova di forza nel piazzale, quando ormai la luna era piena e alta nel cielo, Cherry davanti a tutti, che poi erano quattro, alzando la coda disse: « Valorosi, seguitemi! È arrivata l’ora di iniziare a salire. Tra non molto cambieremo il decorso dei sogni di quei due guardiani rimbecilliti. Aprite le orecchie, perché non parlerò più e sapete bene che non ammetto errori. Il piano è questo. Arriviamo quatti al piano delle armature, ci mettiamo in fondo al corridoio. Poi, come abbiamo fatto l’ultima volta, corriamo a più non posso in fila indiana a sfiorare le armature. Ci divertiremo un sacco. E tutto questo al mio via, mi raccomando. » Il silenzio degli altri gatti determinò il consenso. I quattro, quando furono al piano delle armature, diedero per scontato che tutto fosse come sempre. Tra le altre cose, quel grasso era talmente viscido e trasparente che non lo notarono neanche loro, gatti che al buio vedono benissimo. Dalla loro c’era anche tanta convinzione d’essere i più furbi nel castello. E non sempre la furbizia è un pregio e mai da confondere con l’intelligenza, sono due cose assai diverse. E lì quella notte di intelligenti proprio non ce ne erano. Arrivarono in fondo al corridoio. Cherry diede un ultimo sguardo alle armature, che già gustava di sentir cadere una a una dietro il loro passaggio. Si accucciò per prendere meglio la rincorsa e quando l’impulso glielo comandò diede il via ai suoi, che subito iniziarono tutti a correre a più non posso. Corsero più veloci che poterono, giammai deludere il capo! E lui per primo correva come un razzo. Quella notte non cadde neanche un’armatura. Dopo un trenta metri di corsa superlativa si sentì nel castello un ‘Miaoo!’ di paura collettivo. Erano i quattro gatti, che finiti su quel grasso aumentarono e non di poco la loro velocità, senza più controllo delle loro traiettorie. Quel ‘Miao’ si senti per parecchio, fino a quando non si udì un tonfo. I gatti volati giù dalla finestra, che avevano sfondato, si erano impinzati tutti e quattro in un carro vuoto, lasciato abbandonato nel piazzale del castello. Gli costò parecchio caro quello scherzetto a Cherry e a tutta la sua squinternata banda. « Miao, ohi, per tutti i gatti che fanno miao! » si lamentò Cherry verso i suoi, che non stavano affatto meglio di lui. « Miaoo, capo, che botta! » gli fece eco Rigoletto, un gatto grigio con una benda nera all’occhio sinistro. Si era cecato in un altro brutto incidente da lui stesso causato. « Miei prodi, rientriamo nel castello e stiamo calmi per qualche tempo. Se Heebum non se ne fosse andato saprei senza nessun dubbio con chi sfogarmi. Di certo con voi non posso » rifletté ad alta voce Cherry, ancora stordito dalla botta che aveva preso. Infatti, nello impinzarsi con la testa dentro un carro non c’era niente di morbido. Comunque anche quel tonfo non gli servì di lezione. Scaricò la colpa su tutti meno che su di sé. Il suo ego smisurato non glielo permetteva.
Nella pozza dove si era fermato a bere, Heebum annaspando con una zampa fece muovere l’acqua, che quando si ricompattò gli rivelò una visione. Nella pozza d’acqua trasparente apparve l’immagine di un gatto dal pelo nero e lucido, pareva brillasse. Come anche i suoi penetranti occhi gialli. Sbalordito Heebum gli chiese: « Chi sei tu, me lo puoi dire? » « Te lo dirò quando mi avrai trovato, miao! » rimbombò una voce sicura di sé da quella pozza. “Miaoo, sto impazzendo! Saranno le troppe larve che sto mangiando, ho le visioni. Questa è la fine, povero me!” Si scrollò di dosso quell’attimo e più sereno continuò a camminare per la strada verso ovest, allontanandosi da quel laghetto per niente sicuro e a dir poco pericoloso.
« Buongiorno, padre. » « Siediti e fai colazione » gli disse il padre senza rispondere al saluto del ragazzino. Ma quanta rabbia si portava dentro quell’uomo! Raphaell si tagliò una fetta di pane e la mangiò con il latte. « Oggi le porto io le pecore a pascolare. Tu vai a casa di zio a trovarlo. È arrivata Penelope, tua cugina. Falle un po’ di compagnia e non la stancare, mi raccomando, altrimenti peggio per te. Ci siamo capiti? E portati anche il tuo cane pieno di pulci. A lei piacciono i cani, anche quelli bavosi come il nostro. » “Che bello, papà ha detto ‘nostro’ e si riferiva a Bugsy! Allora non si è proprio dimenticato tutto”, rammentò tra sé il ragazzino. Raphaell uscì di casa contento e in poco arrivò a quella dello zio. Bussò due volte alla porta. Aprì lo zio, che subito lo abbracciò. « Buongiorno, nipote mio. Come stai? » « Bene zio, io sto molto bene. E Penelope? » « Sarà qui tra poco e vedrai che sarà molto felice di vederti. » Penelope era la cugina della sua stessa età che da un anno era costretta a vivere su una sedia a rotelle, dopo essere caduta dalle scale del soppalco nel fienile. E sembrava avesse perso l’uso delle gambe. « Ehi Raphaell, come ti sei fatto alto! Penso di esserlo anche io, ma in questo periodo non è che mi alzo tanto spesso da questa cosa.» «Non ti alzi, ma sei sempre la più bella » le disse Raphaell abbracciandola forte. « Bella…dai, non prendermi in giro! Simpatica, vorrai dire. » « Anche, cuginetta. E non perdere mai il tuo sorriso, mi raccomando. » « Sì Raphaell, non ti preoccupare. Sono sicura che mi rimetterò in piedi. Contaci. » « Ci credo Penelope » e la abbracciò di nuovo. « Ora, mia cara, fai la tua colazione e tutte le tue cose, poi ti porterò a fare un giro fuori. Ti va? » « E come potrei rifiutare l’invito del mio bel cugino Raphaell? E dove mi porti? » « Per campi, naturalmente. Siamo in campagna. Non ti prometto di farti vedere il mare, ma di farti sbavare un pochino dal mio Bugsy, quello sì. » « Allora Raphaell, faccio colazione e andiamo, se vorrai.» «Sono qui tutto per te, cuginetta mia. Tu mi dici quando sei pronta e io ti spingerò, portandoti leggero come se volassimo. » « Sarebbe bello, Raphaell. Naturalmente, garantendomi di non cadere. L’ho già fatto e mi sono ridotta così. Per il momento mi basta e mi avanza, cugino caro. Non ho nessuna intenzione di finire sdraiata in un letto a guardare soffitti e mangiare pappette con la cannuccia. No, proprio no! » Raphaell aspettò trattenendosi a parlare con lo zio e gli raccontò dei suoi lavori al pascolo con il suo micro-gregge. E anche del suo rapporto con il padre, che stentava a migliorare e che era così da quando era morta la madre. « Mi dispiace, Raphaell, che mio fratello sia diventato così arcigno e duro. Prima non era così. Sai, io credo che si senta tanto solo e abbia paura. Però, orgoglioso come è, non sfoga il suo dolore all’esterno e quella è la sua reazione. » « Zio, lo credo anche io. » I due, nipote e zio si abbracciarono. « Sono pronta, Raphaell » lo avvisò la cugina, che con la sedia a rotelle gli si era fatta al fianco. « Andiamo, allora » disse Raphaell, che con la forza della mente aveva posizionato la sedia a rotelle davanti a se, senza che la ragazza se ne accorgesse tanto era stato veloce e spontaneo a fare quel movimento.
« Brutto topastro, che mi guardi da in fondo al buco, perché preferisci morire di stenti? Potresti farlo nella mia bocca! Sarebbe molto più veloce come morte e anche più dignitosa. Topolino, non trovi? » Esordì così quella mattina Cherry, che si era piazzato davanti alla tana mentre con un occhio guardava l’interno. Incitava i topi a morire nella sua bocca, garantendo una morte veloce e dignitosa. Dal suo punto di vista. E Girolamo, che lo guardava dall’altra parte del buco, al sicuro, gli ricordava che lui e i suoi famigliari non sarebbero morti per bocca sua né di nessun altro gatto. E quando gli ricordò che loro in quella tana ci sarebbero potuti rimanere senza problemi per parecchio tempo, fu il gatto arancione, preso da un attacco di nervi, che lasciò quel posto furioso, con la coda che gli si arrotolava e gli si stendeva di continuo. Gli era spuntato un altro tic a sommarsi a quelli che già aveva, come starnutire senza sosta quando vedeva uno dei due anziani guardiani e quell’orecchio che era un continuo piegarsi in avanti e rialzarsi.
I due topi erano arrivati davanti a un grosso masso, che caduto dall’alto aveva occupato tutta la strada. La domanda che aveva bisogno di una risposta urgente era: aggirarlo o scalarlo? « Miguel, c’è un’altra bella prova per noi » disse Carlos all’amico d’avventura. « Tocca che ci facciamo venire un’idea al più presto, amico caro. Iniziamo a pensare. » « Tu che penseresti di fare? » gli chiese Miguel, che gli era accanto. Dopo un minuto di pensiero intenso, Carlos gli espletò la sua idea. « Per me la cosa migliore è aggirare il masso, anche se so che sarà parecchio lunga come cosa. » « In effetti, scalarlo con i fogli in zampa sarebbe ancor più difficile. » « Hai detto bene collega, lo aggireremo questo grande masso. Ci metteremo un po’, ma ce la faremo. Dammi il cinque, vecchio mio. » I due si scambiarono il cinque e iniziarono ad aggirare il masso dalla parte della strada che guardava a monte della collina. Con i foglietti sempre ben legati sulla testa che gli scendevano lungo il corpo, Miguel e Carlos salirono lungo la parete della collina, da dove si era staccato il grande masso. Il sole era alto ormai e faceva anche parecchio caldo. Passarono su di un prato di muschio, che era ancora bagnato dalla guazza. Si rinfrescarono un po’ e succhiando il muschio ancora bagnato approfittarono anche per bere. Chissà quando avrebbero trovato una pozza o un ruscello d’acqua fresca. Non era quello l’obbiettivo principale in quel momento. Ora dovevano riuscire ad attraversare quel pezzo di collina, per ricongiungersi alla strada sterrata che li avrebbe avvicinati ancora di più al castello. « Se uno di noi due fosse stato un uccello, tutti questi problemi non ci sarebbero stati » disse Miguel all’amico, senza star tanto a pensare. « Dimmi Miguel, che tipo di uccello ti sarebbe piaciuto essere? » « Senza dubbio un’aquila o un falco, amico mio. Sono i più belli » rispose Miguel. « Caro mio, scusa se ti faccio notare che se tu fossi stato aquila io forse adesso già non ci sarei più. Le aquile e i falchi a noi topi ci mangiano con più facilità dei gatti, tanto per ricordartelo. E speriamo che nessuno di quei due animali ci stia osservando adesso. » Un’ombra fece battere gli occhi a entrambi. « Corri, Miguel! Corri! » urlò Carlos mentre aveva cominciato a scappare verso valle. Con il cuore in gola, corsero veloci più che poterono. Il falco che li inseguiva li mancò per due volte. Entrarono a gambe levate un’altra volta nella rimessa. « Aiuto! » esclamò Miguel con un filo di voce, da quanto era sfinito per tutta quella faticaccia che avevano fatto. Nessuno gli rispose subito, Topinto non c’era. Erano soli. Si rifugiarono dietro una balla di fieno, in un angolo. Erano scampati a un falco, era meglio stare nascosti. Non si sapesse mai, poteva spuntare il bastone del padrone della rimessa. In fin dei conti si erano invitati nuovamente da soli. E di sicuro, per l’essere umano padrone di quel posto loro non erano per niente ospiti graditi. Restarono in silenzio rintanati dietro a quella balla per tutta la mattina. Riuscirono a trattenersi davanti alla fame e al richiamo del formaggio, che era lì a stagionare. Una prova difficile fu quella, ma riuscirono a trattenersi. Uscirono al tramonto, quando riconobbero la voce di Topinto, il guardiano. « Buonasera, Topinto » dissero in coro. « Salve, giovani. Siete di nuovo qui? » « Sì Topinto, siamo scappati perché inseguiti da un falco. Che per nostra fortuna ci ha mancato per due attacchi di fila e scappando siamo tornati di nuovo qui. » « Va bene, giovincelli, va bene così. Vorrà dire che sarete nuovamente i miei ospiti. Sapete che qui siete sempre i benvenuti. E ora servitevi da mangiare, sapete bene come si fa. » « Finalmente si mangia, Miguel » disse Carlos, che si era ripreso bene dallo spavento della mattina. « Allora, Raphaell, dove pensi di riuscire a portarmi? Non siamo in città, siamo in campagna qui. È tutto sconnesso come terreno. Pensi di farcela, cugino mio? » « Certo, Penelope. Se sono qui è perché sono sicuro di poterti portare in giro a vedere un po’ di verde, che non è tanto ma neanche poco. Ti piacerà, il ruscello. Berremo dell’acqua fresca e dolce. » « Io sono pronta, Raphaell. Per diverse ore non avrò bisogno di nient’altro che della tua gradita compagnia. »  Raphaell aprì la porta e uscirono. Andò dritto verso i tre scalini della veranda. Senza preoccuparsi minimamente di come fare per scendere la sedia. « Per precauzione, Penelope, tieniti ai braccioli e non temere nulla. Farò tutto io » disse tranquillo alla cugina inferma. Davanti alle scalette, con l’aiuto della sua potente mente, sollevò la sedia per farla scendere e lo fece con tanta delicatezza e naturalezza che quel gesto fu poco visibile alla ragazzina, che tranquilla non disse nulla. Solo quando la mise per terra, Penelope gli chiese: « Raphaell, ma come hai fatto da solo, senza l’aiuto di nessuno, a mettermi giù con tanta delicatezza? Non pensavo tu fossi così forte. Comunque meglio così, starò davvero sicura con te, cuginetto. » « In effetti, Penelope, non te ne sei accorta ma io mi sono aiutato parecchio. È difficile capire come faccio, per chi non mi è sempre vicino. Le mie pecore, la mia capra e Bugsy, il mio cane, sanno bene quali sono i miei poteri. Non posso presentartele stamani perché sono uscite con mio padre. È stato lui che oggi mi ha chiesto di occuparmi di te e io l’ho fatto con piacere. » Raphaell si mise dietro alla sedia e iniziò a spingere la ragazza, che si teneva ben stretta ai braccioli. Con la forza del pensiero, mentre parlava anche con sua cugina e la spingeva, chiamò Bugsy. « Dove siete, amiche mie? » « Al pratone, Raphaell. Ti aspettiamo, con tuo padre non è per niente divertente. » « Lo capisco, Bugsy. Ma io oggi devo fare altro. Più tardi, quando ci vedremo, ti spiegherò e voi sarete fiere di me. Ti saluto, fai buona guardia. » Il cane gli rispose di sì e Raphaell si rimise a parlare con sua cugina, ignara della chiacchieratina che aveva fatto con il suo cane. Raphaell fece in modo di non far sentire neanche una buca alla sedia della ragazzina. Si fermarono al ruscello, nella parte più distante dal pratone. Non voleva farsi notare dal suo mini-gregge, non voleva togliere nessun merito a suo padre né tantomeno farlo arrabbiare per niente, visto che sapeva bene come fosse fatto. « Ho una gran sete, Raphaell. Puoi fare niente per passarmi un po’ d’acqua? » « Sì che posso, cuginetta. È solo che per il momento vorrei tu ti girassi con la testa, perché vorrei prenderti l’acqua senza farmi vedere come faccio. Ti dispiace? » « No signore, assolutamente. Se il tuo è un segreto non vedo perché non lo dovrei rispettare. Girami di spalle al ruscello e ti prometto che non mi volterò a guardare quello che fai. » « Ma sì, mi fido di te » le rispose Raphaell, quasi non curante di essere visto da Penelope. Senza sforzarsi più di tanto, sospese la borraccia che aveva a tracollo, la svitò pensando di farlo. La portò al ruscello, la immerse, la riempì e se la rimise al collo piena e tappata. « Ecco la borraccia che ti disseterà. Tieni Penelope, è per te. Bevi e quando avrai finito berrò anche io. » « Che gentile che sei, Raphaell! Mica tutti i ragazzi sono come te. Un altro mi avrebbe fatto bere sicuramente per seconda, fregandosene del fatto che io sia donna o meno. »  « Me lo sono semplicemente ricordato » le rispose lui, strizzandole l’occhio. « Ma come hai fatto, che non ho sentito alcun rumore dei tuoi movimenti? Sembra quasi che la borraccia sia andata a riempirsi da sola. » « Ma che dici, cugina? Ora ti sembra possibile che una borraccia possa andarsi a riempire da sola? » « Per logica, sicuramente è così » rispose la ragazzina, sempre più convinta e affascinata da quel cugino per certi versi così misterioso.« Perché non puoi dirmi come hai fatto a riempire la borraccia? » « Abbi pazienza, Penelope. Al momento giusto ti farò vedere io stesso. Non me lo chiedere più, l’insistenza non ti si addice. » « Grazie Raphaell, hai perfettamente ragione. Guarda quanto è bella quella piccola collinetta d’erba verde! Mi piacerebbe tanto sedermi lì con te e rimanere ad ascoltarti. O anche solo a rimanere in silenzio a guardare lontano, verso l’orizzonte, e pensare. Se mi funzionavano le gambe l’avremmo già fatto. » Raphaell la spinse fin sopra il rialzo di terra erbosa, dove lui quand’era al pascolo con le sue tre pecore si sdraiava a rimirare il cielo e i disegni che madre natura ci aveva fatto dentro. Si avvicinò alla sedia, la frenò per bene e quando si fu assicurato che la sedia non si sarebbe mossa di lì si avvicinò alla cugina. « Vorresti davvero metterti seduta o sdraiata a terra a rimirare il cielo? » « Se potessi, lo vorrei fare, Raphaell. » « Con il mio aiuto ce la farai. E sorridi, che non ti fa male. Oggi ti aiuto io. Verrà un giorno che lo rifarai da te. Chiudi gli occhi. » « Ecco, li ho chiusi. Fai un’altra tua magia, non ho paura di te. Mi fido. » « Quando ti chiederò di riaprire gli occhi lo farai. » La sollevò con tanta delicatezza che la ragazzina più che sentirsi prendere in collo si sentì carezzare. « Apri gli occhi » le disse Raphaell. « Bello! » esclamò ad alta voce Penelope, che riaprendo gli occhi si era ritrovata seduta sulla morbida erba e non più su quella sedia a rotelle. I due ragazzini rimasero seduti nell’erba per un tempo abbastanza lungo. Penelope volle che Raphaell gli raccontasse più cose possibili di lui. Raphaell le raccontò più delle sue giornate da pastore che di quelle da studente orfano di madre in un collegio di campagna dove, durante la settimana quando c’era scuola faceva una vita brutta e piena di sberleffi da parte dei suoi cattivi compagni, ai quali non faceva nulla con i suoi poteri. Cosa che avrebbe potuto. Lui, conscio della responsabilità che gli davano i suoi poteri, preferiva rimanere in disparte e farsi prendere in giro piuttosto che rischiare di far male a qualcuno.
« Miao! » Tirò un lungo sbadiglio quel gatto arancione, che si stava riprendendo dal brutto colpo che aveva preso la notte prima. “Ho bisogno di mettere sotto i miei denti affilati da vero condottiero qualcosa da mangiare e al più presto. La mia pancia inizia a brontolare. Chissà di cosa avranno cenato i due guardiani.” « Ehi! Rigoletto, stupido gatto grigio, accompagnami in una perlustrazione su, nella cucina. Voglio vedere di mettere qualcosa nella pancia e non voglio aspettare oltre. » L’altro lo seguì senza discutere, sottomesso a quel gatto arancione di cui era suddito. Scemo, ma sempre suddito. A loro si aggiunsero anche gli altri due componenti della banda. Silenziosi, da felini quali erano, salirono fino al piano della cucina. Tanto per dare dimostrazione di potenza e sprezzo del pericolo, Cherry si affacciò all’interno della cucina. Proprio lui, il grande capo che credeva d’essere. « Venite! » incitò gli altri a entrare. I gatti, tutti in fila, girarono e rigirarono per la cucina, a quell’ora chiusa. Era già parecchio che i due vecchi guardiani avevano finito di mangiare. Prima di loro era passata di lì a rifornirsi la famiglia di Girolamo. Non c’era più nessun avanzo da portar via. Cherry, presa visione che di cibo quella sera non ce ne era, se la prese con quel topo ladro di Girolamo, che andava abbattuto al più presto. Lui non ne poteva più d’essere trattato come un gatto qualsiasi. Lui era il capo di quel castello! « Miaoo! Questa sera faremo sentire noi a quei due balordi dei guardiani cosa vuol dire farsi Cherry come nemico. Sono sicuro che se mi darete retta alla lettera stanotte rivolteremo sottosopra tutto il castello. Faremo fuggire anche il fantasma del conte, che è già parecchio che non sento » disse sicuro di sé quel gatto arrogante. Accecato dalla superbia e dal suo stupido egoismo, accompagnato tra le altre cose anche da poca astuzia, saltò su uno sgabello al centro della cucina e disse: « Miao, per tutti i gatti che fanno miao! I due vecchietti se ne sono andati a dormire, sicuri di passare una notte in santa pace. Poveri illusi! Non sanno che il grande Cherry e i suoi sono sempre in agguato. Miei prodi, faremo stasera quello che non abbiamo potuto ieri notte. Il piano è lo stesso. Sono sicuro che Bastiano ha sistemato tutto. L’ho studiato bene quel tipo, io. E noi stasera gli faremo uno bello scherzetto di ringraziamento. E allora, tanto per ripassare, saliamo al piano di sopra a un trotto veloce e baldanzoso, da veri atleti che siamo, arriviamo in fondo al corridoio e poi, senza aspettare il mio via, uno alla volta corriamo a più non posso a filo delle armature. State tranquilli, li conosco quei due! Sono nelle loro teste, a volte mi sembra anche di comandarli a distanza. Qualcuno di voi ha domande? » Nessuno del gruppo di squinternati obbiettò la parola del capo. Sogghignarono, sicuri di fare il brutto scherzo ai guardiani. Arrivati in fondo al corridoio, certi del loro capo ancora una volta, uno dietro all’altro presero a correre per far cadere le armature. E di nuovo quella notte si udì nel castello un ‘Miao’ di paura che durò quanto la notte prima. Poco dopo quel miagolio spaventoso, un altro tonfo, come la notte prima. I quattro gatti dritti, dritti, sottovalutando la scaltrezza dei guardiani, erano finiti un’altra volta sopra il grasso ed erano volati, un’altra volta, giù dal castello, passando dallo stesso buco della sera prima, andandosi a impinzare, un’altra volta, sparati nel carro abbandonato sempre lì di sotto. « Miaoo! Che brutta botta! Mi sa che quei due vecchietti non ci avevano pulito. Abbiamo ripreso a scivolare tale e quale a ieri notte. Che dolore! Un paio di vite me le sono giocate ieri sera, un altro paio questa sera. Devo stare un po’ più attento, in fin dei conti ne ho soltanto sette, così dicono » disse all’aria Cherry, prima di svenire un’altra volta e non riaprire gli occhi per tutta la notte. Heebum continuava a camminare lungo lo stradello che girava la collina, passando per ovest. Ogni tanto ripensava a quella pesciolina che non era mai voluta saltargli in bocca e che sicuramente era ancora lì nel fossato. A meno che non se la fosse mangiata uno dei tre lucci. Quei mostri spaventosi, guardiani del fossato. Nonostante quel pensiero gli avesse fatto venire l’acquolina in bocca, continuò a camminare. La voglia di trovare il famoso Gattun era troppa e superava ogni altra sua fantasia. La fame gli batté più volte in pancia. Si guardò intorno, vide parecchio buon terreno da scavare. Ricordò le esperienze fatte nei giorni passati e nel frattempo, a mangiare larve belle saporite, ci aveva preso gusto. Non erano affatto male e con un po’ di pazienza era abbastanza facile individuarle. Ricordava tutto quello che gli aveva spiegato la bella Tara, che di scavi per la ricerca delle larve se ne intendeva per davvero, lei che era semi vegetariana per propria scelta. « Heebum aspettami » una voce delicata attirò la sua attenzione. Proveniva da dietro di lui. Heebum si voltò e con tanto piacere in quel momento vide venirgli incontro proprio Tara, che aveva lasciato la sua bella e grande grotta per seguirlo. « Buongiorno Heebum, vogliamo fare una buona colazione? » « Io un po’ di fame ce l’avrei, tu? » « Anche io, gatto nero, e vedo con piacere che ti stavi preparando a scavare. Ho indovinato? » « Sì, Tara, hai detto il giusto. A odore del mio naso in questa zona, appena sotto l’erba, c’è parecchia roba da mangiare. Ho imparato, ora so come riconoscere l’odore di quelle morbide e saporite larve. E ti dirò di più, qui sotto ci sono formiche rosse in abbondanza. » « Dai, allora mettiamoci a scavare, non vedo l’ora di mangiarne un po’ » confermò la gatta bianca, che messasi al fianco di Heebum iniziò a scavare a tempo con lui. Trovarono parecchie larve, insieme a qualche verme e altri insetti che vivevano in quel terreno. Si riempirono ben bene. Lei lo condusse a cercare anche delle erbette toccasana e buone di sapore, che mangiarono tutti e due. « Scusa, Heebum, ma io adesso devo fare un po’ di pulizia e igiene personale. » « Ma figurati. Certo, ti capisco. Lo faccio anche io. » I due gatti viaggiatori si misero sdraiati su di un sasso bello grande e asciutto. Poi presero a leccare ognuno il proprio pelo. In breve, con dovuta maestria, pulirono i propri peli. Lei era di nuovo candida e lui nuovamente nero e lucido. « Heebum, se la mia presenza non ti ostacola, sarei felice di accompagnarti alla ricerca del Gattun. Posso? » « Non potrei essere più felice. Accompagnato dalla più bella gatta della collina! »
« Via, non scherzare. Risalto agli occhi perché sono bianca, sono una normalissima gatta di campagna. » « Anche io sono un gatto di castello, costretto all’esilio per colpa di un arrogante gatto arancione che si crede di esserne il capo e padrone. E quando tornerò, sarò pronto a dare una bella lezione a quel presuntuoso di Cherry. » « Spero tu sarai in grado di dargli una bella lezione senza essere violento. » « Tara, dipenderà tutto da cosa farà di me il Gattun. Io mi rimetterò a lui. È una scelta che ho fatto riflettendoci a lungo. Ho iniziato questo viaggio per trovare il Gattun e ritrovare me stesso. » « Ti seguirò passo dopo passo » disse Tara avvicinandosi a lui. « Heebum, ma non è che stiamo scendendo un po’ troppo? » chiese la gatta. « Tara, il mio istinto mi ha fatto prendere lo stradello che ci ha portati fin qui e io vorrei continuare a seguirlo. Sento che è questa, la mia strada. Capisco che non ti posso obbligare a seguirmi. » « Ma che dici, Heebum. Sono io che voglio seguirti, non mi stai obbligando affatto. Sono sicura che questo viaggio farà bene anche a me, ero un po’ stanca di vivere sempre nella grotta ed eccomi qui. A volte i cambiamenti improvvisi fanno migliorare. » « Allora se scendiamo ancora un po’ e seguiamo lo stradello fino a che non risalirà a te non dispiace? » chiese titubante Heebum. « No, non mi dispiace affatto! È una nuova occasione per vedere un po’ di mondo, che non ho visto e che non è troppo tardi per visitare. » « È così che ti voglio, con uno spirito d’avventura aperto a nuovi incontri e conoscenze! Vedrai che ci troveremo bene. Almeno per me sarà di sicuro così. La mia vita in quel castello era diventata impossibile » affermò serio Heebum. « Non credere, anche io fino a che non sei arrivato tu a portare quel vento di novità ero sempre da sola nella grotta. Una noia! Tu non puoi immaginare quante volte ho sognato di vedere arrivare qualcuno con cui parlare. È troppo bello comunicare con un altro della tua specie. E con te, tra le altre cose, mi riesce spontaneo, Heebum, gatto nero dal pelo lucido. » « Grazie per il complimento, bella gatta bianca. Guarda là, dove è iniziato a tramontare il sole. Tara, non ti pare che ci siano due casette e una è in legno? » « Sì Heebum, non ti stai sbagliando. Ci sono due casette e una è in legno. Vogliamo arrivarci e guardare di cosa si tratta? » « Ma sì, arriviamoci. Sono curioso e poi, se l’abbiamo viste, è perché faranno parte del nostro viaggio. Sicuramente ci sarà qualcuno che ci starà aspettando. » I due gatti si affrettarono e in non molto arrivarono alle due casette. La prima, in muratura, pareva disabitata, almeno in quel momento. Ma non abbandonata e fatiscente. Si spostarono allora verso quella in legno, da dove proveniva un bel profumo di formaggio. La porta dell’entrata era semi chiusa. Dentro il silenzio imperava. Solo un ottimo odore di formaggio veniva all’esterno, a invitare loro a entrare. « Piace a te il formaggio? » chiese Heebum alla gatta che gli era vicino. « A dire il vero non dispiace affatto. Non ho mai capito bene il perché, ma è così. » « Io, prima d’ora, non è che ci avessi mai dato molta importanza a tale odore. Ma adesso ne sono attratto. Bella gatta, dopo di te io sarò subito dietro. Tara, entra pure. » « Heebum, possiamo entrare camminando l’uno al fianco dell’altro. Se sei d’accordo, lo preferisco » rispose la gatta con una tale sicurezza che Heebum non poté dire altro. Affiancati, entrarono all’interno della rimessa, piccolo paradiso del formaggio. Saltarono così su di una balla di fieno, poi su un’altra. Davanti a una forma di buon formaggio già sapientemente avviata si fermarono per un assaggio. « Senti buono questo cacio! Mi riporta indietro nel tempo, quando da piccolino fui adottato e allattato da una pecora giù a valle. » « Come sei romantico, gatto nero » lo guardò Tara mentre si gustava anche lei quel prelibato assaggio. Heebum fece un mezzo passo avanti e si accucciò in posizione d’attacco. Cosa che aveva quasi dimenticato come si facesse. Si compose per l’attacco a causa di qualcosa che non vedeva ma di cui sentiva perfettamente l’odore. « Che ne pensi, bella gatta, se dopo il cacio ci mangiamo anche mezzo topo per uno? » « Non ci provare, gatto nero dal nome così originale. I topolini non fanno parte della nostra dieta in questo momento. Tu attacchi il topolino e io sparisco e non mi vedrai più. Giuro sulla coda di Arturo! » « Va bene, Tara…ma a quale sacrifici mi sottoponi! » « Non mi dire così, non susciti nessuna compassione. Le larve di cui ci nutriamo sono più energetiche di un topino. E poi ora ti piacciono, dimmi il contrario! » Heebum fece per un attimo il muso pensieroso, di quelli seri, da vero pensatore. Poi rispose alla gatta che era con lui: « Ma sì, hai ragione. Che me ne frega di addentare un gustosissimo topolino? Figurati, le larve sono così saporite e buone! Poi accompagnate da qualche filo d’erba sono una toccasana. Però, se questo topolino che sta impregnando l’aria di un odore così buono si facesse vedere, potrebbe forse indicarci la strada per risalire verso il castello. Così potremmo continuare la nostra ricerca del Gattun. Che ne pensi, Tara? » « Penso che noi, con il nostro di odore, il topo l’abbiamo fatto scappare. A meno che non sia tutto rincretinito.» «Però, mia cara, supponendo che sia la seconda risposta quella giusta e il topo fosse un po’ rincretinito, appena lo troviamo un paio di morsetti ce li potremmo dare. Tanto se non lo facciamo noi lo farà qualche altro che vive nei paraggi. »  « Non ci provare, Heebukm. Siamo intesi? » « Va bene, Tara. Ho promesso e Heebum quando promette mantiene. Non dubitare, il topino può stare tranquillo. Anzi, guarda, scarico tutta la pressione che avevo dato ai miei muscoli. » Heebum lasciò andare la tensione accumulata in un lungo sbadiglio miagolato. «Ora sì che mi sento molto meglio! Sono di nuovo rilassato.» « Guardami, gatto nero dagli occhi gialli!» Heebum guardò la gatta, che gli strizzò il suo occhio verde smeraldo. «Tara, ma perché non inviti il nostro amico a uscire da dove si nasconde? Ti ho promesso che non gli torcerò un pelo. » « Bestione d’un gatto nero, non senti l’odore della paura? Sono in due e sono dietro a quella balla. Non si fidano, sentono la nostra presenza come noi sentiamo la loro. Diamogli tempo, vediamo se si muoveranno. » I gatti rimasero accovacciati sulla balla senza fare nessun rumore.
« Rigoletto, miaoo, chiama Tito! Quel gran gatto del figlio mio! E iniziamo una nuova perlustrazione. Non vorremo che due anziani guardiani e dei topi fermino i nostri piani! » precisò Cherry risoluto, dopo essersi stirato ben bene. « Miaoo, per tutti i gatti, miaoo! Figlio mio preferito, portati con te quel gatto grigio di Rigoletto e andate a perlustrare i piani del castello. Io resterò qui ad aspettare le vostre nuove. Smanio, aspettando di riuscire a buttar giù le armature e far trasalire quei due babbei dei guardiani. » I due gatti prescelti partirono per la perlustrazione e lui non perse tempo per salire in cucina a cercare qualche avanzo da mettere sotto i denti. Fece il suo solito giretto davanti alla tana a controllare lui stesso Girolamo come era messo, tanta era la sua voglia di sbafarselo. Mise l’occhio davanti al buco della tana. E, per tutti i topi, non volle credere ai suoi occhi! Il topastro e i suoi figli si stavano spolpando ciò che rimaneva di un coscio di pollo. Allungò più che poté la sua zampa dentro il buco per acchiappare qualcosa, ma rinunciò dopo vari tentativi, solo aria aveva spostato. « Maledetto di un topo, con tutti i topetti! Non penserete mica che io allenti la guardia su di voi, miaoo, stupidi topi! » « Se pensi che prima o poi riuscirai a combinare qualcosa, continua pure, vile gatto arancione! Una cosa so per certo. Molto presto riceverai una gran bella lezione e io sarò qui a guardarti implorare perdono a chi ti saprà mettere a posto. » « Deve ancora nascere chi può dare una lezione a me! » Cherry, carico di superbia e boria. Tirò fuori la sua zampa dalla tana e soffiando si allontanò. Scese di nuovo nel piazzale e si fermò sul ponte levatoio abbassato, a riflettere su chi mai potrebbe dargli una lezione. A lui, il padrone  incontrastato di quel castello abbandonato! Mentre guardava i pesci nel fossato, gli passarono per la mente diverse figure che frequentavano il castello. Tra sé fece due conti. “Il conte è un fantasma e a me non può fare nulla. I topi, se provano a venir fuori da quella tana, me li mangio. E non sarà di certo quel gatto nero di Heebum, che se ne è andato con la coda tra le zampe. Di sicuro in questo posto non farà più ritorno, quello smidollato di un gatto nero, miao! Qui proprio non c’è nessuno che mi può dare una lezione. Sono il capo , miaoo!” Con un salto leggero scese giù dal carro dove la notte prima si era impinzato con i suoi prodi, quando per la seconda volta erano volati come razzi giù dal piano delle armature. « Bene, Tito. Siete ritornati. Orsù, ditemi come è la situazione nel castello. » « Miaoo! A noi è sembrato tutto più che a posto. Tutto è calmo nel castello. I guardiani sono entrati nelle loro stanze, parevano parecchio stanchi e assonnati. Bastiano anche più dell’altro. » « Siete saliti al piano delle armature?» «Certo, padre. Ho eseguito alla perfezione quello che mi hai chiesto. » « Dimmi, Tito, possiamo correre in sicurezza per far cadere le armature e svegliare quei balordi dei guardiani? » « A me è parso possibile, non ho visto nulla di strano a quel piano, miaoo! Ma per essere più sicuro, padre, chiedi pure a Rigoletto che era con me. » Cherry cercò di assumere un’aria assai importante e, con fare altezzoso, chiese conferma anche a quel gatto grigio di Rigoletto, che non ricordando affatto ciò che aveva fatto poco prima, tanto era rincretinito, per essere sicuro di non sbagliare e far arrabbiare Cherry, decise di confermare ciò che aveva detto Tito, cercando così di togliersi da ogni responsabilità. « Tito, è arrivato il momento che io ascolti anche un tuo piano per buttar giù le armature. Sarò giù nel piazzale ad aspettare una tua novità, non mi fare attendere troppo. Vorrei agire al più presto, non sopporto più quei due guardiani. Ogni volta che li vedo, mi si rivolta il pelo. Tu capisci, non è una bella cosa per un gatto della mia levatura. »
« Tara, li ho sentiti. Sono in due o forse più, il mio fiuto difficilmente mi inganna. Sono dietro a quella balla di fieno laggiù in fondo. E dimmi, Tara, cosa sono quei piccoli bagliori di luce che illuminano la rimessa? » « Heebum, non far rumore. Te lo spiego, ascolta. Quelle sono due lucciole. Illuminano questo posto con la loro intermittenza. Non è carino? » « Sì che lo è, bella gatta bianca. E lo sarebbe stato ancor di più se qui ci fossimo stati solo noi due e nessun altro. »  « Non pensare solo a te stesso, gatto nero amico mio. Cerchiamo di capire come stanno questi topini, tanto impauriti dalla nostra presenza. » Tara prima e Heebum dietro si avvicinarono alla balla in fondo alla stanza, illuminata dalle lucciole, che svolazzavano al centro della rimessa e la illuminavano con la potenza di due candele. « Ehi, voi due dietro alla grande balla! Non siamo qui per farvi del male! Potete pure uscire, fidatevi. So che il nostro odore vi ricorda solo denti affilati e morte, ma noi non siamo qui per mangiarvi. Siamo qui per conoscervi, vi do la mia parola. Mi chiamo Tara e mi cibo di succulente larve e erbe. Sono semi vegetariana e il mio amico Heebum è uguale a me. Vogliamo chiedervi una cosa. Non so se potrete darci un’indicazione a noi utile per davvero. » Lentamente, tra uno sbalzo di luce e l’altro, uno alla volta uscirono i due topi da dietro la balla. Sfidando la sorte, coraggiosi più di due topi leone, arrivarono davanti alla gatta, che con un occhio verde guardava loro e con l’altro teneva puntato Heebum per precauzione. « Salve Tara, come va? Io sono Miguel e lui è il mio amico fraterno Carlos. Siamo qui di passaggio, ci ha ospitato Topinto. Noi dobbiamo cercare di arrivare al più presto al castello, dobbiamo liberare i nostri familiari che sono ostaggi di una famigerata banda di gattacci. » Heebum riuscì a trattenersi a fatica. Il suo istinto di predatore lo portò a caricarsi come una molla, pronto a schizzare. Lo sguardo di Tara gli fece ricordare immediatamente che aveva promesso di non fare nulla di insensato. « Piacere, topi. Questo è il vostro giorno fortunato. Proprio noi avete incontrato » disse loro con un sorrisetto un po’ beffardo. Miguel e Carlos, che non erano poi così fessacchiotti, si misero subito sulla difensiva, pronti a tornare di corsa dietro alla balla. « Fermi! » esclamò Heebum. « Non vi faremo nulla, io l’ho promesso alla mia amica e per me lei conta parecchio. Quindi state pure tranquilli, qui nessuno oserà saltarvi addosso, io per primo. » « Cosa volete da noi? » chiese ancora impaurito Carlos. « Un’indicazione, se ce la sapete dare. Io, cari topetti fortunati, sto cercando il gatto tibetano, il saggio che vive sulla collina. Ho bisogno del suo aiuto per riprendermi il mio posto al castello, da cui sono stato costretto all’esilio forzato da un gatto arancione superbo e arrogante di nome Cherry. » « Ci dispiace Heebum, deve essere lo stesso gatto che tiene prigionieri i nostri familiari » disse Miguel con più sicurezza. « Buona sera, giovani topi. Sono tornato dal mio giro d’ispezione. Fuori è tutto tranquillo, possiamo fare festa anche stasera » disse Topinto appena rientrato. Miguel gli si parò davanti e rassicurò Topinto. « Stai tranquillo, non sono nemici. » Si riferiva esplicitamente a Tara e Heebum, che nel vedere l’altro topo neanche si mossero da dove si erano sdraiati. « Che strano, cosa mai vorranno di tanto importante due gatti da noi, che stanno lì senza assaltarci? » chiese ad alta voce Topinto dopo aver visto i due gatti sdraiati sulla balla, immobili. « Ci hanno chiesto un’indicazione, devono andare a cercare il gatto tibetano. Tu ne sai niente? » chiese Miguel a Topinto. « Miguel, io è la prima volta che sento nominare il gatto tibetano. Sono sicuri che si trovi su questa collina? » « Pare di sì, almeno così a noi ci hanno chiesto. Ma non possiamo aiutarli, neanche noi lo abbiamo ma sentito nominare. E qui a cacciare di sicuro non ci è mai venuto, altrimenti tu lo sapresti. Non è così? » « Lo puoi dire forte! Io è parecchio tempo che sono a guardia della rimessa. Ora però mangiamo, è tutto a vostra disposizione per fare dei gustosi assaggi. Heebum, Tara questo vale anche per voi. Se il formaggio vi piace, naturalmente » si espresse chiaramente Topinto. E aggiunse: « C’è giusto il tempo per mangiare e, come sarà arrivata Carlita, faremo anche due balletti prima di ritirarci dietro qualche balla. » « Ottima idea » gli fecero in coro gli altri due topi e anche i gatti. I due felini, insieme ai roditori, assaggiarono più di un tipo di formaggio e ne decantarono la bontà. « Niente male davvero, questo formaggio » rammentò Tara mentre si leccava i baffi e si spostava ad assaggiare un altro tipo di qualità. « Confermo, bella gatta bianca. Sono buoni per davvero, se ne intendono questi topi! » « È naturale, non trovate? Mangiamo per lo più formaggio, noi siamo degli esperti in latticini » rispose Miguel, infilando in bocca un altro pezzettino di formaggio ben stagionato. « Padre, io penso che forse sarebbe meglio provare a correre zigzagando. » « Spiegati meglio, Tito. Sarai tu, questa notte, che ci condurrai a compiere lo scherzetto. E nessuno potrà contraddire la tua parola. Io per primo ti verrò dietro. » Partirono baldanzosi anche quella sera. I quattro risalirono dal piazzale, dove più spesso stavano a cacciare. Saltellanti e silenziosi, grazie alle loro zampe felpate, arrivarono al piano delle cucine. Aspettarono che la notte avesse colorato del tutto il cielo. Poi, uno dietro all’altro, salirono al piano superiore. Le armature erano lì tutte in piedi, vicino al muro. Imponenti alla luce delle torce, che i guardiani avevano acceso anche quella sera. Non aspettavano altro di essere buttate giù per terra. I gatti stavano tutti in fila dietro Tito, che arancione come il padre teneva il passo da capofila. « Allora, è giunto il momento. Non dovete fare altro che venire dietro a me, correndo più che potete. Ma ricordatevi di non sorpassarmi mai. Voglio essere io il primo a buttare giù quei pezzi di ferro. » Arrivati in fondo, prima di partire per la corsa che avrebbe portato i gatti a far rovinare a terra le armature, Tito si raccomandò per l’ultima volta: « Alzate le code e seguitemi. Via, gatti! » Come forsennati, corsero in direzione delle armature. Rasentandole le avrebbero fatte cadere, come le altre volte. Davanti a tutti c’era Tito, che si definiva il grande, dietro di lui Cherry, poi Rigoletto e infine l’altro. Arrivarono come razzi, a trenta centimetri dalle armature. Tito sgranò gli occhi e tentò pure di frenare. La mattina Amilcare, che doveva pulire, si era sentito troppo stanco per farlo e aveva rinviato. Fatto sta che i gatti arrivarono spediti in diagonale sulla prima armatura, dove iniziava la strisciata invisibile di super grasso. Appena la toccarono presero via come razzi, rimbalzando contro il muro, senza beccare nessuna armatura. Schizzarono ben untati verso la sponda opposta, per ritornar ancor più veloci di nuovo su quella dove erano le armature. Trovarono un altro spazio vuoto, che c’era tra un’armatura e l’altra. Batterono un altro gran colpo al muro. Poi un altro dall’altra parte. L’ultima sponda, quando erano sempre più veloci, li spedì belli dritti giù per le scale a chiocciola, rasentando il muro senza neanche toccare una delle tante scale. Anche quella sera nel castello si sentì un lungo ‘Miaooooo!’ e poi un tonfo. Tito, con il gran colpo, aveva infilato la testa nella tana dei topi e anche un po’ le spalle. Cherry e Rigoletto avevano lasciato le loro impronte sullo stesso muro, solo un po’ più in alto. E il fratellastro di Tito si era andato a impinzare sotto un vecchio armadio, una decina di metri più avanti, e aveva iniziato a miagolare all’incontrario in maniera penosa. Ci pensarono i guardiani a liberare Tito la mattina. Per tirarlo fuori dalla tana dovettero faticare prendendolo per la coda. Rintronati, appena Tito fu liberato, i quattro gatti tagliarono la corda e scapparono giù nel piazzale. « Me la pagherete, per tutti i gatti che fanno miaoo! » disse Cherry, mentre barcollando cercava di guadagnare le scale che lo avrebbero portato al piazzale.
« Buon giorno, Raphaell. Sento il tuo buon umore e questo mi fa piacere » gli disse telepaticamente il conte, che era sbucato fuori dall’armadio, con la testa come al solito che gli era rotolata giù per terra. Ogni volta che il fantasma del conte, per qualsiasi motivo, si dimenticava di tenere bene stretto il braccio a quel corpo senza materia, la sua testa puntualmente cadeva per terra, lamentandosi a non finire. E incitava il conte a fare presto a raccoglierla per rimettersela sotto il braccio, che era l’unico posto dove stava bene. « Caro Raphaell, che noia questa mia testa! È proprio una rompiscatole, non mi da mai pace. E io di quella avrei bisogno. Cosa fai oggi, Raphaell? » « Visto che è ancora presto, approfitto per dare una bella sistemata alla mia stanza, alla mia maniera. State pure conte, non siete di nessun impiccio. Voi proprio non date nessun ingombro. » Il fantasma del conte rimase lì dove era mentre Raphaell iniziò muovere la scopa e la cassetta raccogli sporco con la forza della mente. Mancava solo la musica, perché dentro quella stanza era iniziato un ballo degli utensili. Come faceva sempre quando puliva, anzitutto rifece il letto. Prima lo sfece del tutto, portando in volo le lenzuola, le coperte e il cuscino alla finestra. Li fece muovere velocemente, come fossero dei serpenti, cosicché scaricarono fuori il pulviscolo accumulato nella notte, rinfrescandosi all’aria aperta. Poi, rifatto il letto, passò a far danzare e a far pulire la sua camera dal frettazzo e lo straccio bagnato. L’aria pulita asciugò in poco tempo mentre lui finiva di chiacchierare  con il conte. Quando fu tutto asciutto, sempre con il suo potere, rimise a posto tutti gli attrezzi, non voleva che suo padre lo scoprisse ancora. Uscì dalla stanza in perfetto orario per fare colazione. « Ciao, Raphaell. » « Buongiorno, padre. Faccio colazione e corro a portare al pascolo le pecore. » « A pascolare le pecore ci penso io anche oggi. Tu occupati di nuovo di tua cugina, falle compagnia. Mi ha detto tuo zio che ieri si è divertita con te nei prati. Mi fa piacere » gli disse meno imbronciato del solito il padre. Aveva la faccia un tantino meno tirata e, cosa importante, era sobrio. « Ci penso io a Penelope. La porterò a fare lo stesso giro che abbiamo fatto ieri. E questa fetta di pane la salvo, così ce la divideremo più tardi. Cosa ne pensi? » « Mi sembra un’ottima idea, sei generoso. Prendi anche queste due mele, sono dolci, non vi faranno male. Siete giovani, la frutta vi fa bene. » « Grazie padre, mangio e vado. » « Fai a modo, Raphaell. » Il ragazzino mangiò di fretta la sua fetta di pane e bevve il latte della sua capra. Tornò in bagno a lavarsi, poi uscì in fretta e raggiunse la casa dello zio. Bussò. Al secondo tocco, suo zio era lì ad aprirgli. « Sei qui anche oggi, caro nipote. Penelope, sarà molto felice di vederti. » « Lo sono anche io, zio. Sono venuto a prenderla, se posso.» «Bussa a quella porta, senti se è pronta e se puoi entrare. » Raphaell, inquadrata la porta, bussò. « Chi è? » chiese Penelope dall’altra parte della porta, nella sua stanza. « Sono io, Raphaell. Sei pronta? Ti porto a spasso come ieri, se ti fa piacere. » « Entra pure, cugino, sono pronta. Cinque minuti, mi pettino e poi usciamo. Certo che ne ho voglia! Sono io che approfitterò di tutti i minuti che mi vorrai regalare della tua compagnia, per me è preziosa. » Raphaell, ricevuto il permesso dalla cugina per entrare, aprì la porta lentamente e le si avvicinò alla carrozzina. Penelope si era posizionata davanti allo specchio e con la spazzola districava i suoi lunghi capelli castani dopo il sonno della notte. « Sono belli i tuoi capelli » si complimentò con lei Raphaell. « Sembrano dei lungi spaghetti. Senti come sono morbidi! Sono puliti, li ho lavati ieri sera. » Raphaell si avvicinò ancor di più e le carezzò più volte la testa. « Sono veramente morbidi e lunghi. È un piacere carezzarti la testa, cugina mia. Sei più morbida della mia Barbetta dopo che si è tuffata al ruscello e si è asciugata al sole. »  « Ti ringrazio, sei gentile» gli rispose ironica la cuginetta, che di certo non se l’era presa per quello che Raphaell le aveva detto riguardo la morbidezza dei suoi capelli. «Io sono pronta, Raphaell. Quando vuoi, per me possiamo andare. » Raphaell iniziò a spingere la carrozzella. In poco furono fuori, nella veranda.« Penelope, ora chiudi gli occhi, io farò una magia. Tu fidati, non ti farei mai del male. Sai quanto ti voglio bene » affermò Raphaell convinto. « Dai Raphaell, fammi guardare. Io delle tue magie non ne parlerò mai con nessuno. Te ne ho vista fare già qualcuna e sempre per me mi sono tenuta quello che ho visto. » « E cosa mi hai visto fare? » domandò il ragazzino, curioso di sapere cosa mai gli avesse scoperto la cugina. La cugina si schiarì la voce poi, sorridente, lo guardò e gli disse: « L’anno scorso, era in estate, ancora non avevo avuto l’incidente. La giornata era quasi finita. Dalla veranda ti vidi entrare con le pecore e la capra nella stalla. Incuriosita, venni a vedere cosa stavi facendo e rimasi a bocca aperta, esterrefatta, quando vidi il forcone che raccoglieva la paglia da solo e tu eri poco distante. Quella di sicuro era una magia e neanche da poco, scusa! Almeno per me, era la prima volta che vedevo un forcone che infilzava la paglia e la gettava via senza che tu lo tenessi. È passato un anno e non mi pare che oltre me, che ti ho visto, lo sappia qualcun altro. Mi sbaglio? » « No Penelope, non ti sbagli. È vero, di te mi posso fidare. Io non sono un vero mago, non faccio incantesimi o altre stregonerie. Io sfrutto solamente la forza dei miei poteri mentali, che ho scoperto anni fa quando ero più piccolo. Con la forza della mia mente riesco a comandare le cose, le metto dove voglio, le sposto a mio piacimento. E in più, leggo i pensieri degli altri, compresi quelli degli animali, con i quali riesco a comunicare. Questa è la mia magia, niente di più. » Penelope aprì la bocca, ma rimase completamente muta e sbalordita per qualche minuto. « Che forza che sei, Raphaell! E sei mio cugino, cavolo! » « Ora stai tranquilla sulla tua sedia ché ti faccio scendere i tre scalini. Tu reggiti ai braccioli, per sicurezza, ma vedrai che andrà tutto bene. » Penelope si resse ai braccioli e Raphaell, guardando la carrozzina, con la forza della sua mente la spostò dolcemente fino a terra. Penelope rimase senza parole, tanta fu la sua gioia per quello che era successo. Raphaell l’aveva fatta scendere con la carrozzina dalle scale di casa trasportandola come fosse fatta d’aria. Era stupendo quello che era accaduto. A Penelope ritornò immediatamente alla mente la scena che ricordava di aver visto l’anno prima, quando il forcone infilzava la paglia da solo e la buttava nell’ovile. Ricordò perfettamente che quello strumento da lavoro andava dove lo sguardo di suo cugino lo mandava. Ne era sicura di questo. « Raphaell, ho capito. Tu sei il capo dei maghi. Ora tutto mi è chiaro, sono cugina di un grande mago! » « Non è così, Penelope. Io non sono un mago né uno stregone, non faccio incantesimi, non trasformo le cose. So che riesco a spostare gli oggetti senza bisogno di usare le mani, lo faccio pensandolo e gli  faccio fare quello che voglio. Come riesco a sentire i pensieri della gente e degli animali, con i quali riesco a parlare. Tutto qui cuginetta. Ora sai qual è il mio segreto e lo terrai per te, giura! » « Raphaell, lo giuro. Ma non c’era bisogno che tu mi chiedessi di farlo, sarò muta come un pesce. » « Allora andiamo, avviciniamoci al ruscello. Ti farò vedere come riempio la mia borraccia. » « Sicuramente la farai riempire da sola, immagino. » « Hai detto bene, cuginetta. Sì, io faccio così. Lo posso fare. » Al ruscello, Penelope guardò suo cugino che riempiva la borraccia senza toccarla con le mani e senza bagnarsi minimamente.
« Heebum, ascoltaci. Perché non ci porti con te? Ti faremo compagnia. Non siamo dei rompi » chiese Miguel quella mattina al gatto nero. Heebum rimase perplesso a quella richiesta e gli disse: « E voi cosa gli dovete chiedere al Gattun? » « Noi al Gattun non dobbiamo chiedere nulla. Venendo con te fino al castello potremo conoscerti meglio e aiutarti a riprendere il tuo posto. E tu, una volta mandato via quel gattaccio arancione di Cherry, libererai le nostre famiglie prigioniere nella tana e ci lascerai vivere nel piazzale. Non ti daremo fastidio. Ci troveremo un posticino vicino al ponte levatoio, così passeremo più tempo fuori che dentro al castello. Che te ne pare come proposta? » Il gatto nero si allisciò il muso sulla zampa anteriore sinistra, si consultò con Tara. Saltò sulla balla di fieno dove aveva riposato e, guardando con i suoi occhioni gialli e penetranti i topi, rispose: « Ho riflettuto. Voi avete chiesto ospitalità per me e per la mia amica al guardiano di questo posto, che ci ha fatto mangiare e dormire. E l’esperienza potrebbe essere positiva per tutti, meno che per Cherry. E questo è quello che ci vedo di più interessante in tutta questa storia. Sì, venite con noi. Ci conosceremo meglio e forse potrete anche essermi d’aiuto. Però una cosa me la dovete spiegare: cosa c’è scritto in quei foglietti che portate al collo? » « Ci sono scritte tante cose, ma noi non sappiamo di cosa si tratti » gli rispose Miguel, parecchio dispiaciuto. « Io, di tutto quello che c’è scritto, ho capito solo che l’autore si chiamava Topasso e che questi foglietti ben asciutti li abbiamo trovati in una bottiglia sulla spiaggia a fondo valle. Per dirti di più dovrei fare un grande uso della fantasia. Ma non credo che sia questo quello che tu voglia. » « È vero. Posso dare un occhiata? » « Fai pure, Heebum. E, se ci capisci, spiega anche a noi, grazie. » Heebum, facendo parecchia attenzione, spiegò i foglietti per terra e si mise a leggere. Era tutto scritto in topesco, non è che ci capì molto, non era di certo la sua lingua. Ci voleva qualcuno che avesse studiato più di lui.  Carlos, che era lì vicino e riguardava quei foglietti a un tratto esclamò: « Ma queste sono tutte formule per creare la Topolass! Lo spiega qui, è una micidiale pozione lassativa. Questa è un’arma e anche una di quelle potenti. VediHebum, qui c’è scritto che con un poco di questa pozione si può far perdere la ragione a un gatto per qualche mese, creando in lui un immaginario terrore. Ottima, per nemici difficili. Heebum, potrebbe essere buona per il tuo scopo, che poi è anche il nostro. Sei d’accordo? » « Direi proprio di sì » rispose Heebum con un sorrisetto negli occhi. « E allora rimettete via i foglietti, al collo come li avevate prima. Tra poco si parte. » « Va bene, capo. Ti seguiamo subito. » I due con un po’ di fatica riuscirono a rimettere i foglietti legati al collo e si presentarono sull’attenti davanti a Heebum, che al suo fianco aveva Tara. « Allora, Miguel e Carlos, voi adesso salirete uno sopra la mia groppa e uno su quella di Tara. Vi porteremo noi durante gli spostamenti. Voi andrete in avanscoperta ogni volta che ce ne sarà bisogno. Da questo momento, non siete più topi di campagna e basta, siete promossi a topi scopritori e assaltatori. Va bene? » « Sì, grande Heebum! Siamo con te » risposero entusiasti i due topi di campagna, passati di grado sotto il comando di un gatto nero. « Cherry, tuo figlio ieri sera era quasi riuscito a entrare nella tana. Mi spiego meglio. Se il colpo che ha battuto ieri sera fosse arrivato un po’ più forte, non si sarebbe fermato al far passare solo la testa e un pochino le spalle. No, sono sicuro che gli si sarebbe staccata l’anima e almeno quella sarebbe entrata. Chissà se è cattiva come lui. Non lo scoprirò oggi. Ti saluto Cherry, tu resta anche lì a guardare nella tana. Infila anche la tua zampa, c’è tanto posto! Io intanto, se a te non dispiace, vado a leggere qualcosa. Sai, lo preferisco, lo trovo molto più interessante di star qui a guardare un gatto arancione scemo. Tu, mi raccomando, fesso di un gatto arancione, resta pure lì. Ci sta che qualche topino ti venga direttamente in bocca. Non sarebbe niente male, visto il gran cacciatore che sei. Mi fai quasi pena, gatto presuntuoso e arrogante. Sai, so per certo che tra poco sarai tu ad andartene con la coda tra le gambe dal castello. Io questo me lo sento tutto sul mio morbido pelo e so anche chi ti manderà via una volta per tutte. Sarà quel gatto che tanto hai umiliato e preso in giro, fino a costringerlo ad andare via. Sì, penso proprio che Heebum tornerà e te la farà pagare. E noi saremo di nuovo topi liberi di vivere come lo eravamo prima che tu arrivassi, gatto maledetto! Quando tutto questo accadrà e di questo ne sono più che sicuro, io in quel momento sarò il primo a ballare e cantare, mentre tu ti allontanerai, brutto ceffo che non sei altro. » A quelle parole, Cherry non resisté. Dovette accettare il colpo. Si alzò e, senza neanche stirarsi, con gli orecchi bassi lentamente se ne andò via. Girolamo uscì dalla tana e, sempre tenendo sott’occhio il gatto che era ormai lontano, fece due balletti sul posto, una capriola tanto per burlarsi di Cherry, dopodiché rientrò nella tana soddisfatto. Subito dopo il pranzo dei guardiani, prima che Cherry si facesse rivedere, i topi semi prigionieri passarono dalla cucina a fare qualche provvista per il loro mantenimento. Quella mattina lavorarono e non poco. Portarono via dai rifiuti quasi mezzo cavolo  lesso, due pomodori maturi interi e anche due mele, che i guardiani non avevano mangiato e buttato via. I topi presero tutto e in due viaggi, senza rischiare troppo, portarono la refurtiva nella loro tana.
Raphaell portò sua cugina a vedere dove era la rimessa dei formaggi. Ma non si avvicinarono più di tanto, non voleva che qualcuno li vedesse e pensasse che fossero dei ladri. « Raphaell, perché non ce ne torniamo sulla piccola collina di ieri? Mi piacerebbe che tu mi aiutassi a rimettermi seduta a terra. È stato troppo bello! Ti dispiacerebbe farmi provare di nuovo quelle emozioni? Sai, nella condizione in cui mi trovo adesso, e spero che sia solo momentanea, sono costretta a guardare le cose sempre dallo stesso punto. » Raphaell ascoltò in silenzio la cugina e intanto si dirigeva, spingendo con la mente la carrozzina, verso la piccola collina. Arrivati sul dosso, frenò la sedia a rotelle. Poi prese in braccio la cugina e la mise a sedere a terra. « Ieri, Raphaell, sei stato più delicato. Quasi non ti ho sentito mentre mi prendevi in braccio. Oggi invece sì che ti ho sentito. » « Penelope, questo che mi hai detto non può altro che farmi un immenso piacere. Le tue gambe hanno sensibilità? » « Certo, cuginetto mio, è già da qualche tempo, ma ancora non si muovono. Però è certamente un buon segno. » « Ne sono sicuro anche io » le rispose contento Raphaell mentre la metteva seduta a terra nell’erba. « Che bello, Raphaell, stare seduta sull’erba! Senti com’ è morbida e come profuma! E poi guarda in cielo le nuvole, non ti sembra che facciano dei disegni? » « Sì, Penelope. Quello là di sicuro è un uomo con la pipa spenta in bocca, vero? Lo vedi anche tu? » « Sì, Raphaell, e non mi devo neanche impegnare più di tanto per focalizzarlo, è disegnato molto bene. » « Quello più in là è un toro, invece » affermò Raphaell in cerca di consenso. « Raphaell, scusami, ma per affermare che in quella nuvola io veda nitida la forma di un toro, cugino caro, ho bisogno di usare parecchio la fantasia. Non te ne avere... » « Hai ragione, Penelope. Ho esagerato, mi sono lasciato andare alla mia di immaginazione. Sai, a stare sempre da solo con tre pecore, una capra e un cane, mi sono abituato ai soliloqui e ai pensieri, ma tu non ci fare caso più di tanto. » « D’accordo, cuginetto caro. Arriverò fino a dove me la sento. Comunque è un piacere stare con te. » « Grazie, bella bambina. Ora però torniamo a casa, non vorrei che tuo padre, mio zio, si preoccupasse. Vieni, ti aiuto » le disse Raphaell, che si era avvicinato a lei per prenderla in braccio e rimetterla a sedere sulla carrozzina. La tirò su da terra e la mise seduta sulla sua carrozzina con delicatezza. « Guarda, Raphaell, che me ne sono accorta benissimo che le tue braccia non mi hanno sollevato. Mi hai sollevato con il pensiero. Lo so, ma la gamba destra l’ho mossa io da sola. » « Prova ancora » le chiese il ragazzino. Era sbalordito. Non aveva visto, impegnato come era a tirare su la cugina. La ragazzina provò di nuovo a muovere la gamba destra. Raphaell lì per lì non volle credere ai suoi occhi. Al terzo movimento della gamba di Penelope cedette all’esultazione della gioia. Lì, in sua compagnia, sua cugina aveva mosso per più di una volta la gamba e quella non era stata un’allucinazione. E non era stato lui, con la sua mente, aveva fatto da sola e ciò voleva dire che i medici avevano azzardato un po’ troppo nella loro diagnosi. Penelope non aveva perso l’uso delle gambe, come le avevano fatto credere per un anno. L’uso lo aveva perso solo temporaneamente. Raphaell in quel momento decise che l’avrebbe aiutata a camminare di nuovo. Accompagnò Penelope a casa sua, tra le braccia amorose del padre. Non disse nulla allo zio e alla zia, voleva prima essere sicuro che la ragazzina fosse davvero nella fase di recupero. « Ti passo a prendere domani mattina, se potrò » le disse Raphaell mentre la salutava. « Se puoi, vieni, mi raccomando » lo salutò la ragazzina. « Miao, per tutti i gatti che fanno miao! Sono troppo arrabbiato per rientrare adesso tra le mura di questo castello maledetto! Seguitemi, andiamo a pesca » disse ai suoi Cherry in maniera imperativa, senza lasciare a nessuno la libertà di scegliere. Con lui non si poteva, decideva di fare una cosa e gli altri dovevano seguirlo, quel gatto dittatore. « Allora, da ora in poi viaggeremo così. Io porterò Miguel, che mi sembra un po’ più pesante, e Tara porterà Carlos. E speriamo di trovare al più presto il mitico Gattun. » I topi salirono, uno in groppa a Heebum e l’altro a Tara. I gatti con i topi in groppa iniziarono ad andare, seguendo sempre lo stradello che andava ad ovest della grande collina. Cherry e i suoi uscirono dal ponte levatoio. A Rigoletto venne la bella idea di proporre al suo re un tipo di pesca che gli aveva spiegato un suo parente, che era stato tanto in Oriente. « Sire… » si rivolse con tono ossequioso a Cherry.  A quel richiamo Cherry allargò il petto e gli rispose: « Sono tutto orecchie, Rigoletto. Mio fido, ti ascolto. » Cherry, totalmente preso dalla boria e dalla superbia, con un orecchio ascoltò quello che Rigoletto gli propose per la pesca. Non si pose neanche qualche dubbio, prese per buone tutte le cose che aveva detto quel gatto grigio senza un occhio. « Andiamo, miei prodi! Vi farò vedere come pescano i gatti orientali. Vediamo se riusciamo a svuotare questo fossato. Vieni Rigoletto, facciamo vedere a questi gatti come si attirano nella trappola i pescetti. » Rigoletto, che di cervello ne aveva poco più di un chicco d’uva, raggiunse il capo e quando Cherry, tutto impettito, gli disse di girarsi con il sedere verso il fossato pieno d’acqua e di muovere la coda sul pelo dell’acqua, molto lentamente obbedì. Lo scemo di un gatto grigio eseguì l’ordine guardando orgoglioso e fiero il capo. Rimase a scodinzolare la sua coda sul pelo dell’acqua per non più di qualche minuto. In effetti, come esca funzionò più che bene. All’improvviso un ‘Miaoo’ di terrore e dolore si innalzò. Rigoletto scappò via come un razzo, senza quasi tutta la coda, che aveva lasciato nella bocca del pesce che aveva abboccato e che di piccolo non aveva proprio niente. Per fortuna sua solo la coda gli si staccò. Più di mezza. Perché se Rigoletto fosse stato solo qualche centimetro più spostato verso il fossato, di lui lì al castello ci sarebbe rimasto solo il ricordo, perché quel luccio che gli aveva mozzato la coda con due bocconi se lo sarebbe pappato. I quattro gatti, più il loro capo, abbattuti e sconfitti dalla sorte giornaliera, rientrarono nel piazzale del castello. « Ascoltate tutti il vostro Re! Mi prenderò questo giorno e tutta la notte per riflettere. Le cose devono cambiare! Non sono io lo sfigato. Quello che c’era se ne è andato, non ci posso credere che mi ha lasciato la scalogna come eredità! Perciò vedrete che da domani le cose cambieranno. Parola del grande Cherry, che sarei io! » Gli altri gatti miagolarono in segno di sottomissione. Non potevano fare altro, almeno per quel momento. Erano completamente soggiogati dal potere di quel gatto arancione, tra tutti loro era il più forte. E non transigeva mai ogni volta che prendeva una decisione.
Continuando a camminare per lo stradello, che aggirava la collina verso ovest, i gatti e i due topi decisero di fermarsi per mettersi a trovare un gustoso spuntino. « Scendete a terra, piccoli amici. È arrivato il momento di provare a scavare un po’ in questo terreno alla ricerca di qualche larva saporita. Vedrete che piacerà anche a voi » spiegò Heebum, che con una zampa aveva già iniziato a scavare. « Se permetti, Heebum, noi ci sposteremmo un po’ più avanti alla ricerca di qualche gustoso seme. Le larve son buone per voi carnivori, a noi sono indigeste e ci rimane un alito cattivo per parecchio tempo. Non si sa mai, trovassimo una topina con cui scambiare quattro parole non starebbe bene avere un alito come uno stagno quasi secco » gli rispose Miguel parlando anche per Carlos. « Avete tutta la mia fiducia. Non fate scherzi e rimanete vicini alla strada. Noi vi raggiungeremo. » « Ok, Heebum. Ti puoi fidare, ti abbiamo dato la nostra parola. E per come siamo stati educati ha un valore troppo importante, non la tradiremmo mai. Fidati, gatto nero » gli disse Miguel. Lui e Carlos, affiancati, iniziarono ad allontanarsi lungo la strada. « Se trovate qualche indizio sul Gattun, tornate a riferire. Non vedo l’ora di incontrarlo» disse loro Heebum salutandoli. Heebum scavò per lui e per Tara. In poco trovò parecchie larve belle grasse. Ne mangiarono a volontà, quel terreno ne era pieno ed erano anche parecchio buone. «Heebum, guarda Miguel e Carlos. Non si sono accorti che hanno perso i loro foglietti. Prendiamoli, glieli daremo appena li avremo raggiunti. » « Ok, bella gatta bianca. Però prima voglio darci un’altra occhiata. Tu permetti? » « Fai con comodo, gatto nero di campagna. Io sto al tuo fianco a vedere di capirci qualcosa. Sicuramente quattro occhi vedono meglio di due, non trovi? » « Trovo » le rispose Heebum, sempre sorridente con lei. Allargarono per terra i foglietti dove era più pulito. Studiarono con calma tutte le formule elencate e rilessero più volte tutti i nomi, uno alla volta. « Non è poi così difficile reperire tutte queste erbe» esclamò soddisfatto Heebum. «Siamo a buon punto » replicò lei con uguale soddisfazione. « Va bene, gatto nero. Ora però rimettiamoci in cammino e cerchiamo di raggiungere Miguel e Carlos. Sai, non vorrei che gli succedesse qualcosa senza di noi lì vicino. » « Hai ragione, gatta bianca e bella. Incamminiamoci. » E i due presero ad andare sempre per quella strada. Dopo avere camminato per parecchio, mentre il sole lentamente stava salutando il giorno, arrivarono in prossimità di una larga curva, dove la macchia diventava sempre più brulla e la strada più sassosa. Prima di iniziare a girare la curva, sentirono Miguel e Carlos che stavano gridando aiuto. Senza stare lì a perdere troppo tempo,Heebum si diresse a corsa verso le urla dei topi disperati. A fine curva si trovò davanti di un paio di metri Miguel, paralizzato dalla paura di fronte a un sasso bello grande. Con la coda dell’occhio vide un gatto grigio che gli stava per saltare addosso, pronto per sbafarselo. Heebum non ci vide più. Tutto gli venne d’istinto, quello che pensava di non avere. Caricò come una molla i suoi muscoli, nascosti sotto il manto nero e lucido. E come il gatto grigio fece per lanciarsi sul topo ormai inerme, schizzò lanciandosi contro il gatto in questione. Mentre stava volando verso quel gatto grigio, rivide velocemente quel momento: lui che stava lottando per salvare qualcun altro. Era la cosa che doveva fare. Si levò nell’aria un ‘Miao’ da vero super gatto. E quando con la testa impattò sull’altro, vide il gatto grigio cadere a terra completamente privo di sensi. Ci mise un po’ ad accettare ciò che aveva fatto, era riuscito a salvare un altro animale. Lì per lì stentò a crederci, poi si avvicinò al gatto che aveva steso e che ancora stava dormendo svenuto. Rimase stupito quando vide che quel gatto a terra era Rigoletto. « Stai tranquillo, Miguel. Questo qua non ti farà più nulla. » « Grazie, Heebum. Grande capo, mi hai salvato! Di nuovo, grazie! Se non ci fossi stato tu a quest’ora sarei già nella sua pancia fatto a pezzettini. Grazie ancora, sei il nostro capo! » esultò felice il topo dopo essersela vista davvero brutta. Heebum  si avvicinò a Rigoletto che stava iniziando a riaprire gli occhi. Non infierì su di lui, aspettò che si riprendesse. Voleva sentire direttamente dalla sua bocca cosa ci faceva in quella zona. « Salve, Rigoletto. Mi riconosci? » Il gatto grigio mise a fuoco l’unico occhio che aveva per vedere e poi gli disse: « Certo, Heebum, che ti riconosco. Ti sei mangiato il mio topo? » « No gatto cecato da un occhio, non me lo sono mangiato. È mio amico. Ho solo impedito che lo facessi tu. E dimmi, perché ti trovi qui, gatto grigio con un occhio in meno già da parecchio tempo? E come vedo, adesso hai perso anche mezza coda. Stai perdendo pezzi o mi sbaglio? » « Non ti sbagli affatto, Heebum. Stare dietro a quel gatto arancione è sempre più difficile. Per assecondarlo e compiacerlo ho sacrificato la mia coda in bocca a uno dei grandi lucci che sono nel fossato. Heebum, non ne possiamo più di quel gatto ingrato, superbo, arrogante e chi più ne ha più ne metta! Torna ad aiutarci, ti prego a nome di tutti! » « Io tornerò quando sarò pronto. Per il momento lascia stare i miei amichetti, se non vuoi finire male. » « Lo farò » gli rispose Rigoletto, ancora parecchio dolorante per la perdita della coda. E si allontanò immediatamente. Heebum prese coscienza che ciò che aveva fatto non era stato poi così difficile. Aveva affrontato un altro gatto ed era riuscito a farlo in maniera semplice, senza dover pensarci troppo. Si era lasciato guidare dal suo istinto e dalla voglia di salvare quel topo di campagna, che gli stava anche parecchio simpatico. I topi risalirono uno sulla groppa di Heebum e l’altro su quella di Tara. Si era fatto buio, era calata la sera sulla collina. Tutti e quattro avevano bisogno di mangiare, bere e riposare un po’. Camminarono stanchi ancora un pochino, sempre seguendo lo stradello. I bagliori della luna illuminavano un cielo carico di stelle. La visibilità era ottima. Si fermarono con le zampe doloranti per la stanchezza davanti a una grotta, che aveva di fronte una polla d’acqua. Il rumore delle bolle, dell’acqua che saliva dal profondo della collina, attirò immediatamente la loro attenzione. Tutti e quattro si avvicinarono al bordo della bolla ad assaggiare un sorso di quell’acqua. Era buona al sapore e fresca. Bevvero tutti quanti più che poterono, si riempirono. Sotto il bagliore della luna si vedevano riflessi. Rimasero un po’ a guardarsi divertiti in una bolla poi in un'altra. Heebum accanto a Tara ebbe di nuovo quella visione. Gli apparve davanti, nella bolla, un’altra volta il gatto nero con gli occhi brillanti e gialli come li aveva lui. Il gatto aveva di nuovo quel turbante in testa e anche quella volta lo guardò come se lo conoscesse. Ma non si pronunciò, neanche per un semplice saluto tra felini. Heebum contraccambiò lo sguardo e tra sé pensò: “Com’è strano e quanto mi somiglia quel gatto! Ma chi sarà? Mah, non ci capisco più nulla!” Finì di bere e per primo entrò nella grotta in avanscoperta. Non aspettò che entrassero i topi, che erano gli esploratori.  « Miao! venite pure qui, è tutto tranquillo. » Lo raggiunsero gli altri. « Bella gatta bianca, sono un po’ preoccupato. Ho visto nuovamente quel gatto nero nella bolla e tra le altre cose mi somiglia anche molto. Non mi ha parlato neanche questa volta. Non vorrei fosse una visione che annuncia la mia pazzia. Sai, l’aver cambiato alimentazione, tutte queste larve non lo so mica se mi possono fare male. » « Sulla tua alimentazione posso garantire io, che non ti farà mai male. Scusa, guarda come sto io e sono un gatto come te. Femmina, bianca e un po’ più fine! Non ti preoccupare,Heebum. Tu stai bene come forse non sei mai stato. » « È vero, capo. Ha ragione Tara, stai benissimo. Sembri un leone, anche più forte » gli fecero eco i due topi incitandolo. « Grazie amici, ma non esagerate. Ce ne passa tra me e un leone! » « Heebum, a me non è parso da come hai steso oggi quel gatto con un solo colpo. E non mi è sembrato neanche un colpo fortunato quello che hai sferrato a quel gatto » gli ricordò riconoscente il topo che aveva salvato dai denti di Rigoletto. Heebum fece accomodare più nell’interno Tara e i due topi con i foglietti. Lui si mise sull’entrata a riposare e a fare la guardia. La notte passò lenta e tranquilla. All’alba, quando il giorno iniziò a fare la sua comparsa, Heebum approfittò per dare un’altra occhiata a quei foglietti, che iniziavano a essere sempre meno difficili da interpretare. Chiamò i due topi e si fece dare i foglietti. Chiese loro di rimanere lì con lui, erano ottimi interpreti. Loro conoscevano il topesco, era la loro lingua e lo scritto era uguale al parlato. Tutti e tre analizzarono quelle formule, rimasero a leggerle per un po’. « Ma queste sono tutte erbe? » chiese Heebum ai topi. « Sì, capo, sono erbe e noi le conosciamo anche bene. Ti aiuteremo a raccoglierle. Anzi, inizieremo da oggi stesso. Sono sicuro che sulla collina ci sono tutte, basta sapere dove guardare. » « E tu lo sai? » chiese Heebum a Miguel, che dimostrava una certa sicurezza in quel che diceva. « Capo, in poco vedrai che le avremo raccolte tutte. Poi dovremmo trovare un posto dove poter creare la pozione e quello sarà il momento più difficile e pericoloso. Almeno qui così sta scritto. Ti spiegheremo poi il perché. L’ho capito leggendo e rileggendo il formulario » finì col dire Miguel, più che soddisfatto. Il sole riempì il giorno e lo colorò di bello, più di quello che era passato. La luce era perfetta, gli occhi non sforzavano minimamente. Heebum invitò Tara a stargli al fianco, si spostarono nel terreno un po’ più all’ombra, sotto un albero che stava lì vicino. « Lascia fare a me, Tara. Vorrei offrirti la colazione. » Si mise a scavare con le sue zampe anteriori. Sotto quell’erbetta verde, nel terreno che era bello morbido, trovarono parecchie larve belle grosse e grasse. « Bella gatta bianca, fatti da una parte e mangia quanto vuoi. Queste sono qui tutte per noi. » « Condivido quello che dici, gatto nero dagli occhi brillanti come il colore del sole. Hai ragione, facciamo un’abbondante colazione. Sono sicura di essere sempre più vicini alla nostra meta. Anzi, la tua. Scusami Heebum, ho usato un noi che non mi compete. » « Io invece, bella gatta bianca, penso proprio di sì. Ti ricordi? Anche tu sei salita nel mio viaggio sin dall’inizio e quindi, per come vedo io le cose, la meta è anche la tua. Poi vedremo una volta arrivati se continuare ancora insieme o dividerci. Ma non è questo il momento di pensarci. Oggi pensiamo solo a questo di giorno così colorato. Guarda che cielo! » « Hai ragione gatto nero. Continuiamo a seguire questo stradello? » « Ma sì! » le rispose Heebum, sicuro come non lo era stato mai.
« Buongiorno conte, come va? » « Non c’è male. Ho passeggiato per tutta la notte nello scomparto dell’armadio. Ora, giovane amico mio, lancio la mia testa da un'altra parte e la seguirò, come faccio sempre. Arrivederci, Raphaell. Se mai verrai al castello in cima alla collina, dove io dimoro aspettando di passare oltre, ci rivedremo. Ciao, bravo ragazzo! » Il conte lanciò la testa fuori dalla finestra aperta e nel fresco della mattina sparì dalla casa del ragazzino. Raphaell prima di uscire dalla sua camera, dirigendo alla perfezione tutti gli attrezzi della pulizia, mise tutto a posto. Era pronta per un’ispezione da parte del padre. Quando ebbe finito, uscì e si presentò per fare colazione. Il padre, in piedi davanti al tavolo, prima che si sedesse lo lasciò stupito. Gli diede il buongiorno e disse: « Buongiorno, figlio mio. Hai dormito bene? » Era da anni che non gli domandava se aveva dormito bene e i suoi occhi erano lucidi. « Sì padre, ho dormito bene. Mi sento riposato e sono pronto a fare quello che mi ordinerete .» « Raphaell, tu continua a occuparti di tua cugina, al pascolo ci penso io. Portala in giro a prendere un po’ d’aria buona, che le fa bene. » « Con molto piacere, padre. La porterò a guardare il mare d’erba verde del pratone, dalla collinetta dove eravamo ieri. Le è piaciuto molto, era serena e mi ha chiesto di portarcela di nuovo. Lo faccio molto volentieri. » « Sei un bravo ragazzino, Raphaell. Sono fiero di te. Ce l’ho fatta a dirlo, finalmente. Vieni qua, mangia. Fai colazione, è il latte della tua Barbetta. » Raphaell si alzò dal tavolo tanto svelto che il padre rimase fermo, fisso a guardarlo. Corse ad abbracciare quel padre che forse era tornato in sé. Era tanto che aspettava quel momento, Raphaell non voleva sprecarlo. Padre e figlio si abbracciarono forte per un po’, poi una volta liberati dall’abbraccio Raphaell prese il suo sacco, con una fetta di pane e una di formaggio, e uscì per andare a prendere la cugina. Bussò alla porta della casa dello zio che il sole era già alto. «Buongiorno» disse allo zio, sorridente quando aprì. « Posso entrare? » « Certo che puoi Raphaell, tua cugina è di là che ti aspetta. In questi giorni vive per andare in giro a passeggio con te. Guarda, in quello zaino tua zia vi ha preparato il pranzo. Così tornerete quando più vi farà voglia. Ora vai da Penelope, ti aspetta. » « Vado subito, zio. » Il ragazzo si avvicinò alla stanza della ragazza. Bastò un tocco e la ragazzina gli disse di entrare, pure lei era pronta e non aspettava altro. Quella mattina Raphaell rimase a occhi spalancati e sbalordito. Penelope si era fatta trovare seduta a metà letto. Le si avvicinò, le diede il buon giorno e poi le disse: « Penelope, non ti muovere. Vado a chiamare tuo padre, così ti metterà sulla carrozzina. » « Non ci provare, cuginetto, o mi metto a urlare “attenti al mostro”. Penso proprio che ce la possiamo fare da soli, mi aiuterai tu come facciamo quando siamo fuori. Non sarà poi così difficile. Invece di aiutarmi a salire da terra, lo farai aiutandomi a salire dal letto. Però ci sarà una novità che penso proprio ti farà tanto piacere. Vieni qui, vicino a me. » Il ragazzino si avvicinò a Penelope. Lei gli mise le braccia intorno al collo, come per abbracciarlo, poi lentamente, miracolo, iniziò a tirarsi sulle gambe e mentre lo faceva rideva e piangeva dalla felicità. « Raphaell, grazie! I dottori evidentemente avevano sbagliato la diagnosi e li ho già perdonati. Ma tu, in questi due giorni mi hai aiutato a trovare dentro di me la forza per provare. Sarà ancora lunga e tutta in salita la mia ripresa, ma ora ho la certezza che ritornerò a camminare con le mie gambe e tu mi aiuterai fino a che l’estate non finirà. Me lo prometti? » « Sì Penelope, volentieri. Ora però siediti sulla carrozzina, fai a piccoli passi cuginetta. È un anno che purtroppo non cammini, ci vorrà un po’ di tempo. Ma ce la farai e quella carrozzina diventerà solo un brutto ricordo, tutto si sistemerà. Evviva, andiamo! » « Ci sono, Raphaell. Per favore, mi puoi spingere con la mente? Lo so che lo fai sempre, ma io fuori sono attratta dal mondo che gira intorno a noi. Poche volte sono riuscita a beccarti sul fatto, mentre mi spingevi o facevi altro. » « Va bene, grande rompi. Vedi? Ora ti sto spingendo con la forza della mia mente. Cosa cambia per te? » « Raphaell, come cosa cambia? Non è mica roba da tutti i giorni vedere una carrozzina che cammina da sola, senza essere stata spinta da nessuno e con il pavimento perfettamente in piano. Non trovi anche tu che è una cosa alquanto strana? » « Io non ci trovo niente di strano. Sin da piccolo, sposto e comando gli oggetti senza toccarli. Vedrai che ti abituerai a vedermelo fare, staremo insieme tutta l’estate. » « Sono felice, ma ora ti prego, metti le mani sulle impugnature. Non vorrei che ti vedesse mia madre più che mio padre. Mi risulta che sono solo io a esserne a conoscenza, o sbaglio? »  « Hai perfettamente ragione » le confermò Raphaell, che si era subito ricordato che, in effetti, del suo potere ne erano a conoscenza le sue pecore, Barbetta la capra, Bugsy, il fantasma del conte e sua cugina Penelope.
 Heebum, con Miguel in groppa e al suo fianco Tara che portava Carlos, si incamminò di nuovo verso lo stradello. I topi, da sopra i gatti, annusavano l’aria nel cercare di riconoscere tutti gli odori che arrivavano alle loro narici. E con i loro occhietti neri erano in cerca delle piante che servivano per la pozione. Un paio di piante importanti le trovarono quasi subito, lì vicino a loro, mentre camminavano. « Fermo, capo. Quella là è la Malva Nera di montagna, ce ne servono sei foglie. Avviciniamoci » disse Miguel. « Carlos, ascoltami, prepara il tuo zainetto. Abbiamo trovato la Malva Nera, metti subito nello zaino le foglie, devono rimanere al buio fino al loro utilizzo. Mi hai capito, secco di un topo? » « Sì Miguel, provvedo subito. » Carlos scese dalla groppa di Tara e si avvicinò alla pianta per raccogliere le sei foglie. Quando ebbe finito, con lo zaino chiuso risalì sulla gatta. All’imbocco di una curva leggera guardarono a sinistra, su una parete di roccia. Vicino terra videro il Rosmarino Rosso, famosi erano i suoi fiorellini rossi. Si sapeva nell’ambiente dei topi di campagna che con quella pianta bisognava andarci molto piano nell’uso, perché era alquanto allucinogena. Faceva venir alla mente di chi l’assumeva soltanto i brutti ricordi. Era chiamata anche il Rosmarino dei Brutti Ricordi. Ne presero quattro fiorellini, molto carini nell’aspetto, e li misero nello zainetto. Più in là trovarono i cinque petali di Rosa Sciogli-Tutto, e anche quelli misero al sicuro nello zaino. Prima che si facesse avanti il tramonto di quella bella e produttiva giornata , tra due sassi belli grandi trovarono anche il micidiale Agrifoglio Nero, che era l’ultimo ingrediente per la creazione della Topolass. Soddisfatti, unirono le forze e l’ingegno e riuscirono a prendere tre rametti dalla pianta. Poi si allontanarono per cercare cibo. Non era tanto indicato mangiare qualcosa lì vicino a quella pianta e alle sue radici. Si sapeva che l’Agrifoglio Nero era famoso per far fare tanta aria a chi ne ingeriva anche una piccola quantità. Lo sapevano bene le capre della collina che, quelle volte che era capitato loro di mangiarlo avevano poi scorreggiato per tre giorni di fila sentendosi gonfie come dei palloni. Il quartetto quella sera si arrangiò a mangiare delle erbette consigliate da Tara e poi si riparò, stando tutti vicini, sotto un albero molto vecchio di olivo selvatico, che trovarono sempre lungo quella strada. Erano riusciti a riunire tutte le piante di cui avevano bisogno per creare la Topolass. Dovevano trovare al più presto anche Topisio, il grande topo della collina, che sapeva fare tante cose ed era un chimico rinomato fino a valle. Era il farmacista della collina. Tutti i topi abitanti su quella collina così isolata per ogni problema di salute si rivolgevano a lui, che dispensava consigli, sciroppi e pozioni risanatrici. Cherry, infuriato, chiamò davanti a sé suo figlio Tito. « Tito, sei l’unico di cui io mi fido. Prendi con te chi ti pare e trova al più presto quel gatto nero maledetto. Sento che anche fuori dal castello si sta organizzando per tramare contro di me. Tu non vuoi che accada niente a tuo padre, vero? » gli chiese mostrando i suoi denti affilati. « Certo che no, padre. Io sono qui per servirti. » « Mi fa piacere sentirti dire questa cosa, mio caro figlio prediletto. E allora muoviti, prendi e vai a cercare quel gatto nero. E fai in modo che per me non sia più un problema, fallo sparire da questa collina, sconfiggilo definitivamente. Non ne voglio più sentire parlare. Ci riuscirai? » « Stanne certo, padre mio. Quando lo troverò gli lascerò la mia foto direttamente sul suo pelo nero. Te lo prometto. » Tito lasciò il castello quella sera stessa e, spavaldo e superbo come il padre, non pensò affatto che forse lui da solo sarebbe stato poco. Non se ne preoccupò. Cherry, come tutti vigliacchi di potere, come Tito uscì dal ponte levatoio cambiò immediatamente aspetto. La finì subito con l’essere arrogante e presuntuoso, sempre tutto lui. Praticamente ridimensionato e anche un po’ impaurito, quel vigliaccone, rasentando i muri per avere le spalle più protette e miagolando come un cucciolo abbandonato, salì fino alla cucina. Non andò a fare il gradasso fuori alla tana dei rifugiati, andò a cercare di far pena nella cucina e vedere se c’erano i due guardiani. Ma si dovette accontentare di fare un giro della stanza, solo come un cane. Dietro l’angolo, dove a regola ci dovevano essere i rifiuti della sera, non trovò proprio un bel niente. C’era solo un foglietto con su scritto: “ Fesso, sei arrivato tardi!” “Maledetti topi! Presto vi mangerò uno a uno, parola di Cherry” rammentò tra sé incavolato nero, con il fuoco negli nocchi. Tentò allora di andare a cercar consenso fuori dalla camera di Bastiano. Anche lì miagolò più volte, come se fosse stato bastonato. Il viscido e perfido era lì soltanto per trovare coccole a scrocco, in quel momento di bisogno. Ma quel gatto opportunista rimase a miagolare fuori alla porta per un po’. Se ne andò con la coda tra le gambe perché nessuno giustamente gli aprì. In quel castello tutti lo conoscevano, sapevano bene chi era. I due guardiani, nonostante amassero gli animali, di lui proprio non si fidavano più, gliene aveva combinate troppe davvero. Non si lasciavano più commuovere da quel gatto arancione, che quando faceva così subito dopo ne combinava una delle sue. Ed erano sempre cose gravi. Heebum non riusciva a chiudere occhio. Una voce dentro di sé lo spinse a spostarsi da dove si trovava con tutti gli altri. Nel cielo illuminato solo dalle stelle, perché quella notte proprio la luna non c’era, si allontanò seguendo quel richiamo dentro di lui. Non era proprio una voce nitida e scandita, era più un richiamo dell’istinto. E lui doveva seguirlo, voleva vedere dove l’avrebbe portato. Si allontanò senza ritornare sulla strada. Prese a scendere verso valle direttamente attraverso macchia. Sperava  di trovare al più presto il punto da cui arrivava quel richiamo. Si fermò per un po’ a guardare il firmamento, che quella notte era illuminato da tante piccole luci lontanissime che brillavano nel buio. Rimase affascinato da quanto fosse bello il cielo quella notte. Lui nero, in quel buio pieno di brillanti, ci stava proprio bene. Si sentiva come una tigre, non aveva affatto paura. Sentiva tutte sensazioni positive intorno a lui. E poi non cercava guai, era solo curioso di sapere da dove arrivasse quel richiamo che non poteva fare a meno di seguire. La notte corse via così, con Tara e i topi al riparo sotto l’albero e Rolfo in cerca di qualcosa che voleva conoscere a tutti i costi. L’alba e il giorno nuovo arrivarono silenziosi e pian piano tutto si colorò di luce. Heebum arrivò fresco e riposato davanti a una grotta. Non era tanto grande, ma parecchio illuminata. Infilò il muso dentro, entrò per qualche metro. Era un pochino titubante. « Miguel! Carlos! Non possiamo proseguire e lasciare indietro Heebum. » « Ci mancherebbe, Tara. Non si lascia da solo, il capo. Lui non lo farebbe con noi » le rispose a tono Miguel, ritto sulle sue zampe posteriori e lo zaino pieno di foglie sulle spalle. « Io sento il suo odore, non è poi così lontano. Potremmo seguirlo e rimanere a distanza, finché non avrà fatto quello che deve e sarà pronto a tornare indietro. Che ne pensate? » « Hai avuto un’ottima idea » gli risposero in coro gli altri due. E tutti d’accordo iniziarono a incamminarsi, i due topi avanti a fiutare l’aria e Tara dietro. Presero a scendere anche loro la collina, dalla stessa parte da dove era sceso Heebum la notte prima. Certo andavano molto più lentamente e poi non lo dovevano raggiungere, dovevano solo andargli incontro per riunirsi e continuare il viaggio tutti insieme. I topi, come Tara, si erano affezionati a quel gatto, che avevano eletto a loro capo. Heebum fece ancora qualche passo avanti. « Conte, che ci fai in questa grotta? » chiese spaventato Rolfo al fantasma del conte, che chissà come era finito lì dentro. « Heebum, gatto nero, ieri ho tirato la mia testa, come faccio sempre d’altronde quando mi sposto, e quando poi a istinto l’ho seguita mi sono ritrovato in questa grotta, che non è proprio uguale al castello. Sempre ieri, ho lasciato l’armadio di un ragazzino eccezionale, che mi ha ospitato per qualche giorno. Ora sai che faccio? Provo a lanciare in direzione del castello. » Il conte prese la testa in mano, ci fece due o tre palleggi a terra poi a corsetta uscì dalla grotta. Si girò verso la cima della collina, direzione castello, e calciò forte come un portiere quando rinvia la palla. Rolfo sentì: « Vado, Heebum. Ci vediamo al castello o da un’altra parte. Ti saluto, seguo il lancio! » Il conte sparì in un attimo. Heebum era di nuovo solo e in realtà era quello che più voleva. Aveva bisogno di affrontare il suo destino da solo. Si fermò davanti a un grande masso. Il terriccio alle sue  zampe gli favorì un riposino da vero gatto, con un occhio chiuso e uno aperto, sempre vigile. Quante cose aveva imparato da quando era andato via dal castello! E se ci fosse ritornato sarebbe stato tutto un altro gatto, anche non avesse conosciuto a pieno il suo destino. Si sentiva un gatto nuovo, rigenerato. Non gli interessavano più la pesciolina e tutti i pescetti del fossato. Ora sapeva di cosa poteva cibarsi per vivere più che bene. Lo aveva imparato da quella gatta bianca che aveva deciso di rimanergli al fianco e che, anche se era poco che aveva lasciato, già un po’ gli mancava. Un soffio d’aria passatogli vicino lo svegliò del tutto. Seguì il suo istinto, entrò ancor di più nella grotta. Si fermò dove c’era meno luce, davanti a un altro grande masso. Rimase davanti a quel masso senza fare nessun movimento e in perfetto silenzio. Ci rimase non si sa per quanto tempo. « Heebum, seguimi » gli disse una voce. « Arrivo » rispose il gatto nero e si diresse dove era ancora più buio. Certo, per lui non era un problema essendo un gatto. « Chi sei? Cosa vuoi da me? » chiese Heebum a quella voce. « Ma davvero non mi vedi? Guarda bene su questo masso. » Heebum mise a fuoco il più possibile. Guardando meglio, lo vide. C’era il Gattun, lo riconobbe subito. Nero come lui con un turbante in testa blu. Heebum si avvicinò più che poté. « Finalmente ti ho trovato, Gattun! Finalmente! » « Non è stato poi così difficile, da quando hai scelto di seguire il tuo istinto. Vero? » « Hai ragione, Gattun. Tu sai tutto! » « In effetti qualcosina penso di sapere, ma non proprio tutto. Anche io sono solo un gatto, un po’ allenato ma pur sempre un gatto. Esattamente come te, un gatto nero. » « Gattun, insegnami a combattere e a diventare più forte. » « Vedi Heebum, lo farei anche molto volentieri se tu ne avessi bisogno. Ma tu, affrontando la vita e non solo un avversario, hai già fatto un bel salto nell’imparare. Vedi Heebum, nel momento del bisogno, quando un altro ha avuto bisogno di te, hai saputo mettere da parte l’egoismo e hai fatto sfoggio della tua forza e del tuo coraggio. E in un solo colpo hai battuto il tuo avversario, riconoscendo in te quella virtù che non tutti hanno. Mica tutti sanno quanto è importante, innanzitutto per noi stessi, aiutare gli altri quando sono in pericolo e in difficoltà. Tu questo lo hai capito e anche bene. Ti sei saputo mettere in gioco per chi era più debole. Ora non devi fare altro che ascoltare il tuo cuore e imparare a donare amore. Vedrai che per te non sarà difficile, gatto nero. Ora ti saluto, Heebum. Se mai in seguito tu avessi ancora bisogno di me sai dove trovarmi. Basta tu ti metta a seguire il tuo istinto e subito ti riporterà da me. Ma nei tuoi grandi occhi gialli vedo che quello di cui avevi bisogno lo hai assorbito. Ti saluto, gatto nero senza turbante. Addio! » Il Gattun scomparve come era apparso, cioè istantaneamente.
Tito era giunto nei pressi della rimessa, vicino alla casa in muratura dove era guardiano Topinto e dove erano stati, fino a poco tempo prima, i due topi e Heebum. Ci arrivò attirato dall’odore del guardiano. In quel momento nella rimessa c’era soltanto il formaggio. Topinto era fuori, in un ‘altra tana, a prendere lezioni di filosofia topina e storia animale generale. Anche le due intrattenitrici delle feste che organizzava Topinto erano fuori, nelle proprie tane. Chi frequentava la rimessa sapeva bene che il giorno non era bene entrarci. Con le trappole messe dal fattore e altro, durante il giorno non era il posto più sicuro nei paraggi. Ci si fermò Tito che, superbo come il padre, si sentì subito padrone visto che all’interno non aveva trovato nessuno da sfidare, per poi dettare il suo volere. Non assaggiò nessun formaggio, a lui faceva venire il travaglio. Si fermò su una balla al centro della rimessa a riposare, convinto di essere solo al cento per cento. Ci rimase per un bel po’, faceva un giretto intorno alla rimessa e poi tornava a oziare sulla balla. Rimase in quello stato per tutto il giorno. Prima del tramonto entrò nella rimessa anche Rigoletto, che si era fermato mentre faceva il giro della collina a ritroso per tornare al castello. Dopo essere stato umiliato da Heebum, dopo che con un solo colpo l’aveva battuto mandandolo quasi all’altro mondo, Rigoletto entrò senza far nessun rumore, silenzioso come un vero felino. Vide Tito che scendeva dalla balla di fieno e lo fermò subito.
« Ehi, Tito! Che ci fai tu qui? Perché non sei al castello? »
« Mio padre mi ha chiesto di mettere fine a Heebum. Non ne può più di quel gatto nero. Ormai gli da noia anche la sua non presenza al castello. Mi ha chiesto di annientarlo definitivamente e sa che solo io lo posso fare. Di voialtri non si fida. »
« E tu, Tito, sei sicuro che se trovi Heebum sarai in grado di sconfiggerlo davvero? E da solo? »
« Hai qualche dubbio, gatto grigio e tutto scemo? Io non sono mica come voialtri. Io sono bravo, il figlio prediletto di Cherry! Il Re del castello ha incaricato me proprio perché sa che lo annienterò appena avrò modo di trovarmelo davanti. Capito, Rigoletto? »
« Tu dici? Ne sei proprio sicuro? Io al posto tuo non lo sarei. L’ho incontrato l’altra sera e ti devo dire che è stato un incontro assai spiacevole per me. Con un solo colpo di testa mi ha fatto dormire tutta la notte. E su di me non ha voluto infierire! Heebum è in compagnia di una bella gatta bianca e di due topi di campagna. Mi ha rovinato la cena più bella che mi ero preparato a puntino. Ero prossimo a mettere in bocca il topastro, quando lui si è messo a difendere quel topo dandomi una grande testata. E non ha mangiato il topo, lo ha solo difeso! Poi io sono scappato, non ricordo altro. Ma certamente io non sono forte come te. Tu l’avresti fatto filare via, gambe alzate, senza nemmeno dover muovere una zampa. Tu sei Tito, il figlio di Cherry. Io invece sono solo un gatto cecato da un occhio e con la coda mozzata. Spero di non incontrarlo più quel gatto. Mi tremano le zampe solo al pensiero di trovarmelo davanti! »
« Ne ero certo. Mi fai pena » gli rispose freddo e distaccato Tito, guardando Rigoletto da sopra la balla. Poi si alzò sulle zampe, si impettì e gli disse: « Tu torna al castello, femminuccia. Non ho bisogno di te. Il gatto nero me lo cucino da solo, non ho bisogno di nessun aiuto. So bene quello che devo fare quando incontrerò quel gatto nero. Vedrai che su questa collina di lui rimarrà soltanto il ricordo, parola di viceré. Te lo garantisco. Ora porta via il tuo brutto pelo. »
Il gatto grigio, che era sottomesso a Cherry e anche al figlio, si voltò immediatamente e uscì dalla rimessa senza star lì a discutere con chi non poteva.
 
Heebum  uscì dalla grotta con un musetto perfettamente rilassato. Si voltò a guardare un attimo alle sue spalle, poi riprese ad andar da dove era venuto. Iniziò a risalire la collina, voleva fare presto a ricongiungersi con i suoi. E non ci mise molto. Stava salendo da un po’ verso la strada da cui era disceso quando, esultanti, lo chiamarono i due topi.
« Capo, come è andata? Finalmente sei di ritorno! Ti aspettavamo con ansia, noi e anche la bella Tara. »
« Ora sono qui » rispose il gatto nero.
« Raccontaci, capo. Siamo tutti orecchie, siamo curiosi di sapere cosa è successo. Dove sei stato? »
« Ho finito di ricucire qualcosa che ancora mi mancava e ho trovato chi aveva la risposta a ciò che cercavo e non sapevo. Diciamo che sono stato parecchio fortunato. Ho avuto una lezione molto intensiva di come si deve vivere, niente di più. »
« E chi più di te, capo, sa come si deve vivere? »
« Il Gattun! Finalmente l’ho incontrato e mi ha insegnato le ultime cose che mi mancavano. Ora possiamo veramente pensare di tornare al castello a liberare anche i vostri genitori da quel gatto che si è impadronito di un ruolo che non è il suo. »
« Noi siamo con te, capo » urlarono i due topi. Gli fece eco anche la gatta bianca, felice e sorridente di rivedere Heebum.
Lui le si avvicinò e quando le fu vicino all’orecchio le sussurrò: « Tara, non vedevo l’ora di rivederti. »
« Dici davvero, gatto nero dal pelo lucido? »
« Non sembrerà, ma sono molto serio. Molto più di quello che posso sembrare. Truppa, muoviamoci! È l’ora di far visita al vostro amico e chimico Topisio. Sarà lui a creare la pozione di cui abbiamo bisogno per stanare definitivamente tutti quei brutti ceffi dal castello. Non trovate? »
« Hai ragione, come sempre capo » risposero in coro gli altri.
« Heebum, rallenta un attimo. Aspettami. Perché non ci organizziamo e proviamo a creare la pozione da soli? Non so perché, ma sento che è quello che dobbiamo fare » gli propose la gatta. Asserendo ciò che pensava, era sicura che fosse la miglior cosa da fare.
« Penso proprio che si possa fare » le rispose Heebum guardando anche le espressioni dei topi, che dai loro musetti parevano parecchio consenzienti.
Miguel disse: « Allora capo, organizziamoci. Troviamo una grotta, delle candele da accendere, poi ci serviranno delle ampolle e acqua di una pozza un po’ rafferma. »
« Sono d’accordo » asserì Heebum sorridente e ottimista.
Tutti e quattro camminarono ancora per parecchio. Fino a quando non trovarono una grotta con un’entrata abbastanza stretta, ma comunque facile per tutti. All’interno, la grotta si presentava asciutta e calda, anche se parecchio buia. D’altronde l’entrata era stretta per davvero e la grotta, che dentro si ingrandiva e anche di molto, andava subito in penombra. Si scuriva sempre di più man mano che i quattro entravano sempre più all’interno. Heebum era in testa alla fila, poi tutti uno dietro all’altro. Quel posto metteva anche un po’ paura. Arrivati a una curva a gomito, ormai completamente buio, fecero un summit tra di loro. Furono rassicurati da Heebum, che garantì che se rimanevano uniti nessuno avrebbe potuto fare loro del male.
« Proseguiamo tranquilli. Ora ci sono anche io con voi. E ricordatevi che noi abbiamo un obbiettivo da raggiungere. Vogliamo liberare il castello da quel gatto arancione e renderlo di nuovo quello che era prima che arrivasse Cherry. »
« Certo, capo » risposero in coro, esaltati dall’incitamento che aveva dato loro heebum diventato oramai un vero leader.
Oltrepassarono la curva a gomito. Erano completamente nel buio, denso anche ai loro occhi. Heebum si allungò di un passo rispetto agli altri. A un certo punto, quando diventata caverna, la grotta si allargò.
Heebum chiese ai suoi: « Guardate laggiù. Non vi pare che ci sia una luce? »
Prima di Miguel e Carlos fu Tara a confermare che anche lei la vedeva. « Heebum, anche io là in fondo vedo un leggero bagliore. » E si unirono anche i due topi alla stessa affermazione.
« Allora continuiamo ad andare avanti. Forse siamo proprio nel punto giusto. Statemi vicino e state attenti. »
Camminarono ancora per qualche metro, fino a quando, nella direzione della luce, si formò una grande ombra sul muro della caverna. Qualcuno girato di spalle davanti loro stava armeggiando su qualcosa con l’aiuto del fuoco. Un pochino impauriti e titubanti, si avvicinarono silenziosi più che poterono a quell’ombra. Miguel, in un attimo di estremo coraggio, si spinse un po’ più avanti e arrivò al fianco di chi era lì seduto.
« Topisio, mi sbaglio o sei proprio tu? »
Il topo, che era tutto preso da ciò che faceva, si voltò verso Miguel e in tutta calma gli rispose: « Ci conosciamo? »
« Sì, Topisio. Sono uno del castello, uno dei figli di Girolamo. Sei parecchio amico di mio padre, se mi ricordo bene. »
« È vero, come sta? » gli chiese di rimando il topo adulto, che aveva smesso di armeggiare per parlare con Miguel.
« Io e il mio amico Carlos siamo partiti dal castello già da qualche giorno alla ricerca di aiuto, perché le nostre famiglie sono prigioniere dentro una tana. Il gatto, che si sente il re del castello, gli dà la caccia. Li dobbiamo aiutare e siamo qui con il nostro capo per chiederti consiglio e, se puoi, anche aiuto. »
« E il vostro capo chi sarebbe, se posso? »
« Il nostro grande capo è lui, si chiama Heebum. »
Il gatto fece ancora un passo avanti e il topo, come lo mise a fuoco, per poco non morì lì sul posto dallo spavento. Fece saltare in aria tutto quello che aveva davanti al suo tavolo. Topisio rimase per un attimo senza aria, non gli usciva nulla dalla bocca. Poi, sempre rivolto a Miguel, balbettando disse: « Ma che razza di scherzo è questo? Quale droga hai consumato, giovane Miguel? Un gatto nero a capo di due topi e un altro gatto! Ahimè! Vuol dire che evidentemente o sto sognando o ho un incubo perché ho mangiato male, oppure vuol dire che sono morto. Non ci sono altre spiegazioni. Non può diventare vero l’impossibile! »
« Invece è proprio così » rispose serio Miguel al topo ancora del tutto incredulo e sbalordito.
I due topi e i due gatti si erano avvicinati il più possibile mentre Topisio era in preda a forti tremori, sempre legati alla paura più che alla sorpresa.
« Topisio, non temere. Non sono qui per mangiarti. Io mi nutro bene di larve saporite e cacciare topi ora non è nelle mie priorità. Lo è invece liberare il castello da un gatto arancione alquanto superbo e arrogante che si è proclamato re senza averne diritto. Io voglio spodestarlo e mandarlo via, così tutto tornerà come prima e io potrò tornare a viverci tranquillo in compagnia della mia amica e dei miei amici topi. Se vorranno. »
« Gatto nero dagli occhi gialli, mi hai convinto. Sento che mi posso fidare di te, non mi mangerai. E allora ditemi, come vi posso aiutare? »
« Leggi questi. »
Miguel gli passò i foglietti dove c’erano scritte le formule e i passaggi per la creazione della Topolass Tre. Il topo, chimico e alchimista, prese i foglietti e li mise davanti alla luce della candela, che era sul tavolino davanti a lui, stando attento a non farli bruciare. E si trincerò dietro i suoi pensieri, nel più completo silenzio. Ogni tanto muoveva la testa, come per dire ‘sì’. Annuiva, insomma. Anche i gatti e i topi non parlarono per tutto il tempo. Topisio rimase immerso nella lettura e nello studio delle formule per un bel po’.
Quando fu pronto, sempre con molta calma, si voltò verso i quattro e disse loro: « Siete in possesso delle formule della micidiale Topolass, l’arma biologica più micidiale mai creata da un topo. Il famoso Topasso l’ha creata e per quanto ne so è stata riprodotta solo un paio di volte, non qui sulla collina. Vi avverto, bisogna organizzarsi bene e seguire alla lettera le formule che ci sono scritte. Bisogna stare molto attenti, è estremamente pericolosa. Non è una cosa che potremo fare oggi, ma vi assicuro che vi aiuterò, statene certi. Una delle cose che odio, e non sono molte, è l’arroganza e la superbia. Perciò io sono dei vostri. Ce la faremo. » Topisio riavvolse per bene i foglietti e li ridiede a Miguel. « Conservateli con cura, quei foglietti. Sono un patrimonio per tutti noi topi. Ve lo ripeto, la Topolass è un’arma può anche uccidere se somministrata ad alte dosi. »
« Noi non lo vogliamo uccidere Cherry. Gli vogliamo far prendere un grandissimo spavento, in modo tale che abbandoni lui stesso il castello. Noi vogliamo questo, Topisio. È forse chiedere troppo? »
« In fin dei conti, se voi in quel castello ci abitavate prima di lui, mi sembra giusto che vi vogliate riappropriare della vostra dimora. E tu, gatto nero, cosa mi dici? »
« Solamente che io in quel castello c’ero già con i conti prima che lo abbandonassero. Ci sono nato. A me spetta quasi di diritto abitarci. E ora ancor di più, visto che non sono più solo. »
« Hai ragione, gatto nero » gli rispose Topisio, sempre più rilassato.
Anche Tara, che non era poi così lontano, gli sorrise e tirò su la coda in segno di piena accettazione di ciò che Heebum aveva appena detto.
“Farò da solo questa notte. Non mi fido più di questi gatti! Non sono poi così validi come credevo. Per me sono quasi un peso. Io, che sono tanto intelligente e scaltro, farò da solo. Devo rompere le scatole a quei guardiani, non li sopporto davvero più” rimugino tra sé Cherry, sempre più nervoso e pieno di rabbia.
Lasciò il piazzale e salì al piano delle cucine, dove era anche la tana-prigione di Girolamo. Si avvicinò con l’occhio al buco della tana. Guardò dentro, non vide nessuno. Eppure la tana era quella, riusciva a vederla tutta. In fondo, davanti a lui, c’era l’ombra di Girolamo intento a leggere un libro. Almeno così gli parve. Chiamò il topo con la solita voce, voleva terrorizzarlo. Dopo due o tre volte che aveva inutilmente chiamato Girolamo e non aveva ricevuto nessuna risposta, gli urlò la solita frase che gli diceva ogni volta: « Prima di quanto credi, ti acchiapperò! E giuro che ti mangerò in un solo boccone, brutto topo! »
Infilò la zampa anteriore a cercare di acchiappar qualcosa, come faceva sempre del resto, e anche quella volta andò a vuoto.
« Cherry, ho deciso che è venuta l’ora di affrontarti! »
Sentì una voce dietro di sé, che subito non riconobbe. E quando la riconobbe fece giusto un pensierino saporito. Aveva capito che Girolamo era proprio dietro di lui e lo aveva addirittura chiamato. Rimase per un attimo sbalordito. Poi, come una molla, si girò di scatto e quando vide che davanti a lui c’era Girolamo, per davvero, d’istinto si alzò per inseguirlo. Sarà stato per l’emozione o sempre per la sua superbia, ma invece di gettarsi immediatamente sul topo perse tempo a dirglielo e a farsi grande come al solito. A differenza sua, Girolamo non perse tempo: gli passò in mezzo alle zampe e con una corsa fu di nuovo in salvo dentro la tana, insieme agli altri che non erano mai usciti, ma che Cherry, accecato dalla rabbia, non aveva neanche visto dietro al solito abbaglio: quello che si credeva un super gatto. Giorno dopo giorno, dai fatti, veniva ridimensionato. Anche quella volta la colpa non la diede a se stesso. La divise preciso a metà tra i topi e i guardiani. Era giusto che in qualche modo la facesse pagare subito, per lo meno ai guardiani. Salì al piano di sopra. Arrabbiato come non mai, a passo felino, passò in ispezione davanti a tutte le armature, compresa quella più grande del conte a cavallo vicino alle scale. Era sicuro, il super grasso non c’era più. Finalmente ci avevano pulito, quei due balordi.
“Stasera farò un gran bel fracasso” rammentò tra sé tutto eccitato.
Almeno avrebbe fatto un brutto scherzo ai due vecchi guardiani, che si erano già ritirati a dormire nelle loro stanze. Le armature, sempre ben pulite, luccicavano sotto i riflessi delle torce appese al muro. Sembrava proprio che tutto filasse liscio come l’olio quella sera. Ripassò mentalmente il suo piano. Si portò in fondo al lungo e grande corridoio, che pareva una statale. Si concertò parecchio. Fissava le armature, aveva deciso di buttare giù la prima con il suo sistema collaudato. Poi, sarebbe scartato verso destra, fulmineo come era da lui, per poi ritornare verso il muro a tirare giù le ultime tre e anche quella a cavallo, la più grande, che avrebbe fatto tremare tutto il castello.
Prese una rincorsa spaventosa al solito urlo: « Miaoooo! Per tutti i gatti che fanno miao! »
Partì a razzo verso le armature. Sfiorò la prima e la buttò giù con successo. Alla sterzata verso destra mai avrebbe pensato che lo spostamento d’aria della prima armatura caduta avrebbe fatto cadere anche il grande elmo integrale della terza, la successiva che lui avrebbe trovato all’attacco.
« Miao! Arrivo! »
Cherry sterzò di nuovo verso il muro di sinistra come un razzo. Doveva infilare la terza armatura. Aveva quasi finito, gli mancava quella e poi l’ultima: la più bella dell’antica collezione. Preso dalla corsa e dal rumore infernale della prima armatura che cadeva, non vide bene quello che faceva e, povero lui, si andò a infilare dritto dritto a tutta velocità nell’elmo integrale. Il rumore della botta fu assordante. Cherry una botta così fino a quel momento non l’aveva mai presa. Impinzato nell’elmo d’acciaio, volò di nuovo giù dalle scale. Ruzzolò su tutte quante fino a finire sempre sotto il carro abbandonato nel piazzale. Non ce la fece a rialzarsi quella notte. Rimase dentro all’elmo, dove ci aveva lasciato tutta la sua impronta. La mattina seguente era ancora tutto intontito, barcollava a ogni passo e per fortuna camminava già a quattro zampe.
Ce la fece a tirarsi fuori dall’elmo e tra sé disse: “Non farò più nulla fino a che non avrò pensato a un piano definitivo per mandare via quei due balordi dei guardiani! I topi me li mangerò con calma, me lo posso permettere. Il problema è mandare via i guardiani maledetti. Una volta che non ci saranno più loro metterò delle guardie fuori alla tana e la fame mi darà una ricca mano. È questa la vera e unica soluzione su cui devo concentrarmi.”
« Buongiorno a tutti » disse pimpante e sorridente Topisio.
« Buongiorno a te, Doctor » gli rispose Heebum, già sveglio da parecchio, si era già fatto una ricca colazione di erbette e larve insieme alla sua amica dal pelo bianco. « Sei tutto bello allegro e pimpante » gli fece notare Heebum
« In effetti, è vero. Mi accade sempre dopo essermi preso un grande spavento, è la mia reazione del giorno dopo alla paura. Non ci fare caso. Noi scienziati non ce l’abbiamo mica tutte le rotelle a posto. E poi sono contento, perché mentre riposavo ho ripassato tutte le formule. Ho controllato le piante e
le erbe nello zaino di Carlos. Ce ne manca solo una, forse la più importante. Perché secondo i miei studi è quella che lega tutte le altre e che dà grande forza alla pozione. »
« Dove la possiamo trovare? Vado subito » si fece avanti Heebum.
« Gatto nero dagli occhi gialli, io so dove si trova il Trifoglio Rosso, ma non sarà una cosa semplice reperirlo. Più tardi vi accompagnerò sul posto e vedrete. È solo a un paio d’ore di cammino da qui, in cima a un grande masso abitato da un’aquila. »
« Dobbiamo avere anche il Trifoglio Rosso » puntualizzò convinto Heebum. « Salirò io a prenderlo, Topisio. Ce la farò, ne sono sicuro » confermò sicuro Heebum, dichiarandosi volontario.
« Va bene, Heebum. Questo ti fa onore, perché il tuo compito non sarà facile per niente. »
Uscirono in cinque dalla grotta. Era una giornata piena di sole. In poco furono sulla strada. Topisio fece diversi salti, girandosi più volte su se stesso. Al terzo salto, come mise le zampe per terra, esclamò: « Per di qua! È questa la direzione giusta, sono certo. Non è la prima volta che faccio questa strada. »
Si fermò ad annusare l’aria, poi ripartì spedito e tutti gli altri dietro a lui a coppie: i topi, sempre con i foglietti legati al collo, e Heebum con la gatta bianca che chiudevano la fila. Camminarono così fino a un ruscello dove bevvero fino a farsi passare la voglia.
« Fermi, seguitemi. Intanto dobbiamo prendere una cosa. » Topisio li portò davanti a una tana. Prima di entrare disse: « Questo è il mio vecchio studio e come vedete qui possono entrare solo i topi. Non sono mica scemo! Qui ho ricevuto tanti topi malandati e li ho guariti. Ora nessuno qui sta male, meglio così. Vi ho fatto fermare perché nel mio studio dobbiamo prendere alcune ampolle e un alambicco che ho sempre usato. Dobbiamo stare attenti a non romperli, ci saranno di importante aiuto se vorremo portare a termine il piano. »
« Hai ragione » gli rispose Heebum, avvicinandosi a lui. « Topisio, io e Tara vi aspettiamo fuori. Non vedo come potremmo fare a entrare nel tuo vecchio studio. Fate presto, prendete quello che dovete e continuiamo. Non vedo l’ora di essere in possesso anche dell’ultima cosa che ci manca e cioè il Trifoglio Rosso. Dopo passeremo alla creazione della Topolass e vedremo di liberare il castello da quel gatto arancione e la sua banda. »
 
« Buongiorno, Penelope. Come ti senti stamattina? »
« Raphaell, se il mio non è un sogno, io mi sento sempre meglio e sono felice di vederti, cuginetto caro. Che facciamo di bello oggi? »
« Intanto approfittiamo del fatto che sei nel letto ancora a sedere. Proviamo a vedere se ti alzi meglio di ieri. » Raphaell si mise di fronte alla cuginetta e le chiese di abbracciarlo al collo. Lei lo fece immediatamente. « Ora Penelope, aiutandoti con me alzati in piedi. »
La ragazzina, dopo un attimo iniziale di esitazione, si tirò in piedi sorridente e disse: « Te lo volevo dire dopo, ma avevo già provato e c’ero riuscita. Sai, da quando mi sono resa conto che le mie gambe non sono paralizzate e flaccide, non mi accontento di provare un po’ alla volta, faccio più di una prova al giorno, sempre stando attenta a tutto. Non ti preoccupare, Raphaell. Ora che ho avuto la possibilità di alzarmi da quella maledetta carrozzina dove sono stata seduta per più di un anno non ci voglio ritornare per nessun motivo al mondo. »
« Ben detto, cuginetta! Parole sagge. E io ti aiuterò a migliorare ancora, fino alla fine dell’estate. Sei d’accordo? »
« E me lo chiedi? È quello che voglio. Guarda, ora riesco a stare in piedi. Non ti pare una bella cosa? »
« Meglio non potrebbe andare » le rispose Raphaell, invitandola a prendere le sue mani. « Ora però siediti di nuovo nel tuo letto, sdraiati e fammi vedere come muovi le gambe. Fai come se tu stessi andando in bicicletta. »
La ragazzina provò, ma le sue gambe non si mossero. Inizialmente diventò bianca. Lentamente, dopo aver preso nuovamente fiato e mettendocela tutta, piegò prima una gamba e poi l’altra. « Ce l’ho fatta! Guardami, Raphaell! Riesco a fare la bicicletta, non è meraviglioso? »
« Sì, Penelope, lo è. Però ora non ti affaticare. Ti rimetto a sedere alla sedia a rotelle. Abbi pazienza ancora per un po’, vedrai che prima di quanto tu possa pensare farai di nuovo tutto con le tue gambe. Dai il tempo ai muscoli di riprendere le loro forze. »
« Raphaell, stai parlando come farebbe un medico. Quante ne sai, cuginetto mio. »
« Vero? E non guardo neanche la televisione, è tutta farina del mio sacco. Niente male, eh? »
« Ma, veramente! Scusa, ora vogliamo uscire? Ti prego, dai. Andiamocene a passeggiare. Mi piace troppo quando mi fai scendere gli scalini con la forza della tua mente. Penso proprio che solo tu sei in grado di farlo al mondo. »
« Questo io non lo so, non mi sono mai informato. Io ci riesco e questo mi basta, non ho nessuna intenzione di fare gare o battere dei record. Non voglio diventare un fenomeno, caso mai anche da studiare. No mia cara, mi bastano i miei problemi, sono troppi quelli che già ho! Non ne voglio altri. Il mio è un segreto e come tale deve rimanere. E ti ricordo, Penelope, hai giurato di mantenerlo » le disse serio Raphaell.
« Raphaell, se vuoi continua a chiedermelo. Ho anche giurato, pur di farti stare tranquillo. Se ti dico che di me ti puoi fidare, fallo. Io non posso fare altro. Però ora andiamo, la giornata è troppo bella per non essere respirata tutta, cuginetto. »
Scese le scalette, si avviarono verso il ruscello, come avevano fatto anche gli altri giorni. Come furono arrivati, si fermarono sulla sponda, dove il ruscello si allargava un po’.
« Aiutami Raphaell, dammi le tue mani. Vorrei provare a fare due passi, solo due, e poi mi siedo nuovamente e non parlo più. Dai, aiutami Raphaell! Non ti far pregare così tanto. »
« Ma come sei testarda, Penelope cara! » Raphaell si fece cadere le braccia lungo il corpo ma dentro di sé era più che felice d’aver sentito quelle parole. Era tosta, sua cugina. Ce la stava mettendo tutta per tornare a camminare, aveva una forza di volontà incredibile. Gli si parò davanti e le disse: « Proviamo, voglio darti retta. Così non sentirò più le tue richieste continue. »
Le allungò le mani, la ragazzina le afferrò. Un po’ con la forza delle sue gambe, un po’ aiutandosi con le mani di Raphaell, si mise in piedi davanti alla sedia a rotelle. « Ora tu vai in dietro molto lentamente e io provo a camminare. Al peggio, finirò per terra. »
Raphaell fece un passo indietro e la ragazzina, portando prima la gamba destra avanti e poi la sinistra, fece il passo anche lei.
Dopo un altro passo ancora, Raphaell si fermò e le disse: « Non ti lamentare. Per oggi basta, siediti sulla tua sedia. Questo è un ordine, Penelope. E non provare a dirmi di no. »
La ragazzina si mise seduta sulla sedia soddisfatta e ringraziò il cugino per averla aiutata a provare. « Dove arriviamo oggi? » chiese Penelope contenta.
« Se ti va, ce ne torniamo a mirare il cielo seduti sulla collinetta. Mi hai detto che ti piaceva tanto. »
« Hai detto bene, Raphaell. Andiamo a sederci in mezzo all’erba. Su quella collinetta di ieri ho fatto dei pensieri felici e ho sognato momenti che stanno diventando realizzabili. Hai avuto l’ennesima bella idea. »
Raphaell non commentò e si diresse verso il rialzo di terra erbosa. La brezza era un po’ più forte degli altri giorni, faceva ondeggiare quel mare d’erba. Era uno spettacolo, l’erba del pratone si piegava tutta sotto la spinta del vento e si rimetteva dritta come il vento smetteva un attimo.
« Mi piace molto stare qui, Raphaell. La sedia è frenata bene. Io approfitto e faccio un po’ di allenamento. »
« Spiegami quello che vuoi fare » le chiese Raphaell sempre meno preoccupato. Si fidava di quella ragazzina così volenterosa.
« Niente di troppo impegnativo. Approfitto della sedia che ha i braccioli. Faccio un po’ di alzate e sedute. Non immagini quante volte ho sognato questo momento. Ora che è arrivato lo voglio sfruttare. Non sei d’accordo? »
« Va bene, testa dura. Però non ti affaticare. »
« Va bene, Raphaell. Ne farò giusto un po’. Proprio per riprendere il gusto a farlo. E poi mi aiuto con i braccioli della carrozzina, non vedi? »
« Ti vedo, Penelope. Sei brava, questo lo devo ammettere. È invidiabile la tua forza di volontà. »
« Penso verrebbe a chiunque dopo essere stato seduto su questo coso per un anno e poi scopre di non essere paralizzato e che le gambe riprendono a muoversi. Tu che dici? »
 
« Semplicemente che hai ragione. Ora siediti e stai tranquilla, ti prometto che quando saremo tornati a casa, quando saremo nella tua camera, prima di andare via ti farò fare altri due passi. Va bene? »
« Mi sono seduta, cuginetto. Vedi? Ti do sempre ascolto, non sono poi così testarda. »
 
« Allora, Topisio. Come possiamo fare a ricreare la Topolass? Sento che il tempo sta diventando maturo. »
« Un pochino di pazienza e troveremo il posto per lavorare insieme. Mi ricordo che qui vicino, nei pressi della cascatella, ci deve essere una grotta parecchio spaziosa. Ci potremo entrare tutti quanti. Ehi, Miguel, non dimenticate tutte quelle mezze candele! Son sei pezzi, è come se ne avessimo tre intere. Altri sei pezzi, che troverete appena qui fuori, e siamo quasi a posto. Ora prendete quelle ampolle e state attenti a non farle rompere, mi raccomando. Senza quelle non possiamo fare più nulla. »
« Le metteremo nel sacco insieme alle piante, così staranno in un posto morbido, al sicuro » risposero i topi sicuri di averci visto giusto.
Topisio si allisciò il pelo del musetto e dopo avere riflettuto un po’ ricordò a tutti: « Vi siete dimenticati della potenza di quella pozione. Le due ampolle non possono stare nel sacco delle foglie che avete raccolto. Sono foglie impregnate di principi attivi, che servono per creare la Topolass. Non vorrete certo provarla voi per primi? »
« No! » risposero rabbrividendo i gatti e i topi.
 
« Miao, per tutti i gatti che fanno miao, che noia! Seguitemi, gatti senza spirito felino. Andiamo a perlustrare i piani dove ci sono i topi e le armature. Basta bighellonare in questo piazzale! Mentre aspettiamo che Tito fa ritorno trionfante e io mi libero una volta per tutte di quel gatto, controlleremo che aria tira ai piani di sopra. »
Impettito, si sgonfiò dopo il discorso e saltò giù dal solito scalino, che gli serviva per elevarsi sopra gli altri, ormai stanchi di quel brutto gatto arancione. Non né potevano più di quel dittatore. Sottomessi come erano, lo seguirono continuando a pensare e sperare che presto quel tipo di vita potesse finire. Arrivati al piano della cucina, quella volta trovarono addirittura la porta chiusa. Così anche il buco della tana. Girolamo con i suoi figli si era organizzato, aspettando che i tempi migliorassero e Miguel e Carlos facessero ritorno. Usarono un pezzo di pane secco, che preferirono non mangiare, come tappo da mettere davanti al buco di uscita ogni volta che ne avevano bisogno. Con un ingegnoso sistema di carrucole e pezzettini di filo di lana belli resistenti, erano riusciti a tirare sopra il buco della loro tana un pezzo di ferro abbastanza pesante. Erano pronti per far capire a Cherry che per lui non sarebbe stato facile avere la meglio su di loro. Non dovettero aspettare neanche tanto.
Lo sentirono arrivare con quel suo: « Miao per tutti i gatti che fanno miao! »
Dopo il giro fuori alla cucina e dopo avere trovato la porta chiusa, Cherry  maledì ancora una volta i poveri guardiani. Poi, invece di salire al piano di sopra a vedere come erano messe le armature, come al solito pensò di passare a stuzzicare e impaurire i topi prigionieri e far sentire loro chi comandava lì dentro, ricordandogli che li avrebbero mangiati presto lui e i suoi fedeli. Sbruffone come sempre, si presentò davanti al buco della tana-prigione, a vedere Girolamo e i suoi figli cosa stessero facendo costretti nella tana. Come mise l’occhio, vide solo buio.
Dopo qualche secondo, tra sé disse: “Ma guarda te questi topastri! Hanno messo un tappo come se mi potesse impensierire, sciocchi bocconcini! Ora infilerò la mia zampa e toglierò quel misero tappo e comincerò la mia tortura psicologica.”
Convinto di essere lui il più furbo, il meglio tanto per capirci, si avvicinò di più e infilò una zampa con slancio a togliere quel tappo che avevano messo i topi. “È solo un pezzo di pane appoggiato, ma quanto siete scemi!”
Spinse e il pezzo di pane saltò via. « Girolamo, sono venuto anche oggi a offrirti una morte dignitosa, senza dover aspettare che le mie ire salgano ancora. Guarda, è semplice: io apro la mia bocca, tu ci appoggi la testa e zac! In un secondo te la stacco. Non sentirai nulla, è garantito da anni di esperienza, da quando ero ancora un gatto in carriera fuori dal castello. »
« Assolutamente no! Proprio non mi interessa morire mangiato nella tua brutta bocca. E poi tu a me non fai paura. Prova ad andare a cercare di mangiare qualche altra cosa. » E il topo sparì dalla sua visuale.
Cherry sentì un: « Ora mollate! »
Poi ebbe soltanto il tempo di chiudere quella bocca e subito il dolore lo fece saltare.
« Miaoo! » gridò con il pelo tutto dritto. Scappò come un proiettile che esce da un fucile. Per un momento fu più veloce il suo corpo che la sua anima. Arrivò fino nel piazzale per rifugiarsi in un angolo e leccarsi la zampa. « Maledettissimo topo! Per poco non mi lasci con tre sole zampe » urlò nascosto dietro a un muro. E gli altri del suo gruppo lo guardavano senza commentare e senza sguardi compassionevoli. Stava sempre più sullo stomaco a tutti. Quasi quasi sembrava che più che in gattesco lo guardassero in cagnesco. Era sempre più un gatto solo.
« Topisio, non sarà mica quello il grande masso? » chiese Heebum. Erano arrivati davanti a una serie di enormi massi, che sembravano poggiati lì dal cielo stesso, non provenienti dalla terra.
« Ci siamo quasi, il nostro è quello là in fondo, quello più alto di tutti. Sembra una montagna » gli rispose Topisio, per niente preoccupato, mentre gli altri, Heebum compreso, andando avanti assumevano sempre di più un atteggiamento di preoccupazione e di paura.
« Non temete » cercò di tirarli su rincuorandoli Topisio. « Io, personalmente, ci sono stato già diverse volte. È vero, bisogna fare molta attenzione all’aquila che ci ha fatto il nido, ma vedrete che ce la faremo. Se te la senti, Heebum, saliremo noi due. Tu sei un gatto e per te l’arrampicarsi è una cosa naturale. Io ci sono stato almeno altre tre volte e so la strada, perciò chi meglio di noi due può salire? »
« Hai ragione, Topisio. Il mio unico problema è che io il Trifoglio Rosso non lo conosco. »
« Non ti preoccupare per questo, Heebum, lo conosco io. Se l’aquila non sarà nel suo nido, sarà facile. Te lo garantisco. »
« L’ultima cosa Topisio: e se l’aquila è nel suo nido? »
« Allora saranno grossi problemi, vedremo di superarli. Ora di più non posso dirti, quello che sapevo te l’ho detto. Prendo io lo zaino. Il trifoglio va toccato una volta sola, quando si prende il rametto, e va subito messo nello zaino. Toccarlo più volte vuol dire diminuire il suo potere e a noi serve più integro possibile, così avrà un grande effetto gastrointestinale, di quelli che fanno impazzire dall’intensità. »
« Topisio, io sono pronto a seguirti. Quando lo riterrai più giusto andiamo. »
Topisio fece due salti girando su se stesso e al terzo, quando mise le zampe a terra, disse: « Per di qua. »
Il topo davanti e il gatto dietro si avviarono verso il masso. Topisio portava lo zaino con le piante, Heebum era al suo fianco. Camminarono un pochino per arrivare sotto il grande masso. « Seguimi per di qua, so la strada » suggerì sicuro Topisio.
Il gatto e il topo aggirarono per metà il masso. Arrivarono a uno stradello molto stretto e ripido, che però permetteva ancora di camminare, anche se con difficoltà. Sempre Topisio avanti e Heebum subito dietro, i due iniziarono a salire. La salita si dimostrò subito ardua e pericolosa. Arrivarono dopo poco a un restringimento dello stradello. Riuscirono a passare, stringendosi il più possibile alla parete. E per loro fortuna erano entrambi parecchio leggeri, il terreno sotto di loro era veramente fragile. Più di una volta, dopo il loro passaggio, si era sbriciolato ed era precipitato. Facendosi coraggio l’un con l’altro, salirono fino a una nicchia naturale scavata nella roccia, dove si riposarono. Erano già molto in alto. Sarebbe stato un grande guaio cadere da lassù, sarebbe stata una morte sicura, specialmente per il topo. Ma iniziava a essere alto anche per il gatto.
« Andiamo Heebum, il peggio è quasi finito. Siamo quasi arrivati in vetta. »
« Ok, ci siamo Topisio. Facciamo un altro sforzo e portiamo a termine la nostra missione. È questo quello che conta. Le ho contate, altre dieci scale e siamo arrivati in cima » ricordò Heebum al topo.
« Aspettami Heebum, saliamo insieme. So dove cercare, conosco bene quella pianta » disse Topisio tutto affaticato.
« Ti aspetto, Topisio. Dai, muoviti che siamo arrivati. È stata dura, ma ora siamo sulla vetta. »
Da sopra il masso, che era quasi una montagna alta e stretta, il panorama era perfetto. Erano in linea con il castello, che non era più così distante da loro. Heebum, facendo un po’ d’attenzione, vide addirittura uno dei guardiani che lentamente stava facendo il giro sulle mura. E sempre guardando in quella direzione, vide quel gatto arancione sdraiato sopra il carro in mezzo al piazzale. Gli mancava quel posto, come gli mancavano le carezze dei guardiani e le chiacchierate con il fantasma del conte. L’unico di cui riusciva tranquillamente a fare a meno era Cherry. Da quell’antipatico avrebbe voluto stare anche più lontano. Erano lì in missione e non per piacere.
« Topisio, mica sarà quello là il Trifoglio? »
« Sì, Heebum, è proprio quella piantina là marrone. Ci penso io a prenderlo, so come fare. »
Il topo andò verso la pianta e la prese tutta dal gambo. La mise immediatamente nello zaino, al buio, insieme alle altre. Non doveva perdere la sua forza.
« Andiamocene, la nostra missione si è conclusa. Dobbiamo scendere e non sarà una cosa semplice. Non lo è stato a salire figuriamoci ora a testa in giù. »
« Ce la faremo Topisio, stai tranquillo. Anzi, affrettiamoci » disse Heebum incalzando il topo.
Arrivarono all’inizio dello stradello, scesero quattro scalini. Un’ombra passò sopra le loro teste. Poi un grido paralizzò i due e quella fu la loro fortuna. Rimasero impietriti, attaccati con il fianco alla parete. Misero a fuoco l’aquila che, grande e bella, passava sopra di loro. Ma messi in quella posizione, così vicino al muro, non gli poteva fare nulla. Finché stavano affiancati alla parete, sarebbero stati salvi. L’aquila non si poteva avvicinare più di tanto, non c’era lo spazio. Avevano il cuore che batteva all’impazzata e a ogni passaggio, quando l’aquila li guardava, a loro sembrava addirittura che il cuore si fermasse. Rimasero così per un po’.
« Ora che facciamo? » chiese con lo sguardo sempre più impaurito il topo.
« Per il momento non possiamo fare altro che rimanere qui e riprendere a respirare » disse Heebum, che non riuscì a rassicurare per niente il topo, ormai prossimo all’infarto tanto era teso e impaurito.
Topisio sapeva bene che era lui la preda che l’aquila aveva adocchiato. E a ogni passaggio glielo diceva. « Ho parecchio tempo, aspetto e poi ti mangio. Non ho fretta, topino caro. Qui cosa ci sei venuto a fare? » gli chiese l’aquila all’ennesimo passaggio. Topisio a rispondere non ce la fece, rimase tale e quale a come era.
Heebum le fece una domanda quando l’aquila passò di nuovo: « Aquila, ma non hai proprio nient’altro da mangiare? Non siamo venuti a disturbare. Siamo saliti fin quassù per prendere una piantina di Trifoglio e ce ne stavamo andando. Sai, dobbiamo liberare il castello laggiù in fondo da chi se ne è impadronito senza diritto. »
« A me non è che interessi molto di quello che succede nel castello. Io so che lì c’è un bel topino e se ho pazienza tra un pochino me lo mangio. Niente male, non credi? Sei tu che non capisco. Perché non te lo sei già mangiato? »
« Perché siamo diventati amici e mi sta aiutando. »  
 
« Questa poi sì che è bella! Un gatto amico di un topo, che tra le altre cose lo sta aiutando! Tu sei un furbo, ci stai provando. Pensi che con ciò che mi hai detto io ti creda e mi allontani? Così tu rimarrai da solo con il topino? Niente male, devo dire. Ma io non l’ho bevuta la tua balla, non sono mica scema io! Non ti preoccupare, gatto nero, non ho impegni importanti. Posso aspettare. Anzi guarda, salgo un attimo a ricaricarmi con un po’ di carne che mi è avanzata dal coniglio di stamattina e torno a vedere come sta il mio prossimo spuntino. Tu fagli la guardia. Mi raccomando, fai in modo che nessuno me lo tocchi o saranno guai anche per te. Hai capito? »
Heebum guardò l’aquila con i suoi occhi gialli da vera tigre e non disse nulla. Come il grosso uccello predatore fu salito sulla cima del grande masso, Heebum incitò Topisio ad andare avanti. « Topisio, so che hai una paura cane, ma dobbiamo andare avanti se vogliamo provare a scappare. »
«Heebum, ho paura. A me non si muovono le zampe. Penso che resterò quassù ad aspettare che l’aquila abbia cose più importanti da fare » rispose Topisio, seriamente intenzionato a rimanere fermo lì ad aspettare gli eventi.
« Aspetta, Topisio, ho la soluzione. Sei talmente leggero che portarti in groppa non mi dà nessun fastidio. E allora salta su, che io riuscirò a scendere molto più velocemente. Fidati, sono un gatto, scalare e arrampicarmi è il mio forte. Proviamo immediatamente, ora che quell’uccellone mangia. »
Il topo raccolse tutte le forze che gli erano rimaste e con uno sforzo salì in groppa al gatto. Heebum non aspettò neanche un secondo, iniziò a scendere spedito. Gli riuscì benissimo la discesa. Rischiarono giusto un po’ dove gli scalini si facevano rasenti alla parete, ma anche lì Heebum se la cavò egregiamente. Si fermarono arrivati a terra, quando Heebum invitò tutti gli altri ad avvicinarsi alla parete, che era l’unico posto dove poter star tranquilli tante volte fosse tornata l’aquila. In ogni caso, anche l’ultima pianta era stata raccolta. Superato il problema aquila, sarebbero stati a posto. Gli mancava da riempire mezza ampolla d’acqua di pozza rafferma e poi sarebbero dovuti tornare allo studio di Topisio, dove lui si sarebbe messo a lavorare per ricreare la Topolass. Rimasero vicino al muro per parecchio tempo, fino a che Heebum non vide l’aquila volare alta nel cielo, diretta da un’altra parte. Evidentemente si era dimenticata di loro e gli altri impegni erano diventati importanti.
« Che aspettiamo? Andiamocene via, facciamo ritorno al mio studio. Ricordo bene che poco prima di arrivare alla mia vecchia tana c’è una pozza che si sta asciugando. A noi serve l’acqua di quella pozza. Che chissà da quanto è lì che si sta asciugando. Quell’acqua fa proprio al caso nostro, ci saranno dentro larve di diversi insetti. Speriamo ci siano pure quelle di mosca nera, arricchiranno la potenza della Topolass » esultò tutto contento Topisio, che si era rilassato dopo lo spavento.
Heebum, che come gli altri sapeva bene cosa succedeva a Topisio dopo un grosso spavento, gli chiese di mettersi come ultimo della fila. Non voleva rimanere rincretinito dalle scoregge che il topo avrebbe mollato appena si fosse rilassato ancora un altro po’. E fece bene a farlo spostare in fondo, perché di lì a poco il topo, sempre più rilassato, riempì di gas l’aria che gli stava intorno.
« Coraggio, facciamo ancora altri sforzi e avviciniamoci il più in fretta possibile allo studio di Topisio » incitò tutti Heebum, che iniziava a vedere una luce sempre più vicina per riprendersi una rivincita su quel gatto dittatore che aveva provato a rovinare la sua vita. Più che una vendetta il suo gesto voleva diventare un insegnamento che quel gatto non avrebbe più dimenticato. Heebum era sicuro che se
 
avesse potuto comunicare con i due guardiani anche loro sarebbero stati d’accordo a dare una bella lezione a quel gatto.
« Miao, per tutti i gatti che fanno miao, radunatevi qui sotto, davanti a me che sono il vostro re! » disse Cherry, tutto impettito come sempre. Scese dal carro e sempre con quel tono continuò: « Miei fidi, aumentiamo i turni di guardia sulle mura e davanti al ponte. Mi preoccupa il fatto che Tito non è ancora tornato. Ci penso e non riesco a capire il perché. Non voglio assolutamente brutte sorprese. Se permettete, io le sorprese amo farle e più brutte sono più mi divertono. Mi raccomando allora, più occhi possibili sulle mura. Io mi vado a sdraiare un po’ sul ponte levatoio, non mi fate sentire che non faccio niente tutto il giorno! » Per sottolineare il concetto miagolò arrabbiato e si diresse verso il ponte sempre abbassato.
D’altronde, la giornata bella e tiepida invitava a stare sdraiati sul legno caldo e asciutto. Rilassato, sicuramente gli sarebbe venuta in mente qualche ottima idea per disturbare la vita di quei due vecchi balordi dei guardiani, che erano ancora lì al castello. E pareva pure che non avessero nessuna intenzione di andarsene. Per lui questo era un logorio, non era ancora riuscito a sfrattare i due vecchietti. Ci aveva provato e continuava a farlo senza ottenere nessun risultato. Cherry, dopo una serie di interminabili sbadigli, scorse suo figlio che faceva ritorno mogio mogio.
« Bentornato, Tito. Spero tu abbia ottime notizie da darmi. »
« In realtà non è proprio così, padre. »
« Dimmi tutto, Tito. Non mi tenere con questa ansia, non vedi che coda tesa che ho? E i miei orecchi che si alzano e si abbassano impazziti? Tutto perché sono nervoso. Allora, cosa hai fatto? L’hai spedito a valle o all’altro mondo quel gatto nero? »
Sempre mesto, come se fosse stato bastonato, Tito gli rispose: « Pa’, io Heebum non l’ho trovato. L’ho cercato, ma non l’ho visto. Ho incontrato invece Rigoletto ieri pomeriggio alla rimessa. Stava scappando, era tutto impaurito. »
« E perché quel gatto grigio cecato da un occhio e con mezza coda stava scappando? E da chi? Dimmelo! »
« Non ci crederai, stava scappando proprio da Heebum, che la sera prima gli aveva dato una lezione per difendere un topo. Gli ha mollato una sola testata e lo ha lasciato steso per tutta la notte. Non avevo mai visto un gatto così, in quello stato. Più che con un altro gatto pareva si fosse scontrato con un bisonte. Quel gatto grigio ha avuto anche il coraggio di mettermi in guardia e di lasciar perdere Heebum. L’ho avvisato, chiamandolo femminuccia, di non farsi vedere più da me. Ti ripeto, mi sarebbe piaciuto incontrarlo, ma quel gatto nero forse ha sentito che lo stavo cercando e si è nascosto. Tu che dici padre? »
« Penso proprio che sia così » gli rispose Cherry in un impeto di superbia.
« Buongiorno » disse Raphaell allo zio che gli aveva appena aperto.
« Buongiorno a te, Raphaell. Felice di vederti. Entra e guarda tua cugina che bel regalo che ci ha fatto questa mattina. »
Raphaell mise la testa dentro prima di entrare e rimase stupefatto, anche se in fondo non più di tanto. Se lo aspettava. Vide sua cugina seduta al tavolo nella sala. Si strusciò gli occhi per essere sicuro che quello non fosse un miraggio e poi entrò.
Si mise seduto al tavolo accanto a lei e piano le chiese: « Come ci sei arrivata fino al tavolo? »
« Ma che discorsi fai? Come ci sono venuta? Con le mie gambe, scusa! Te lo avevo detto che era una cosa che non vedevo l’ora di fare al più presto. Eccomi, questa mattina mi sono alzata e ho avvisato mia madre che avrei provato. Mi sono tenuta con la mano appoggiata al muro per i primi passi. E quando ho visto che tutto procedeva al meglio mi sono lasciata andare alle mie gambe. Mi sono svegliata presto stamattina, sono andata anche un po’ di fuori, alla veranda. Grazie Raphaell per avermi aiutato a credere sempre di più in me stessa. Se non ci fossi stato tu, sarebbe stato tutto molto più lungo. Grazie di nuovo. Te ne dico un’altra, Raphaell. Io oggi, per uscire, mi porterò un bastone. Con la carrozzina ho chiuso. »
Raphaell sorrise, poi non poté fare altro che abbracciare Penelope e assecondarla. Le si leggeva tranquillamente negli occhioni verdi che sarebbe andato tutto bene. E fu la ragazzina a rassicurarlo: « Raphaell, ci sono molti posti dove sedersi, non ci preoccupiamo. Se mai dovessi essere stanca, mi metterò a sedere e aspetterò prima di ripartire. Te lo giuro! »
« Mi hai convinto, Penelope. Io sono qui per te anche oggi. E quando avrai deciso di andare, verrò con te. »
« Andiamo, allora » gli disse Penelope, che si era già alzata e si stava avviando verso la porta d’ingresso. « Raphaell, vieni. Aiutami, dammi le tue mani. È la prima volta dopo un anno che rifaccio le scale, mi vorrei sentire più sicura. Se non ti dispiace, la tua mano è più sicura di un bastone. » Il ragazzino andò davanti alla cugina e le porse le mani. « Una mano, non esagerare. Ho bisogno di una mano, se vuoi essere così gentile. »
« Tieni » le disse Raphaell e le allungò la mano. Lei gliela prese e facendo un minimo di forza per l’appoggio scese i tre scalini. « Brava! Ce l’hai fatta bene, sono contento. Adesso prova a salire, te la senti? »
Non passò neanche un secondo che Penelope era già voltata verso le scale. Salì senza chiedere aiuto al cugino, le bastava sapere che fosse lì. Si appoggiò morbida alla ringhiera in legno delle scale e in un attimo fu di nuovo sulla veranda.
« Ora, Raphaell, possiamo veramente andare! » esclamò. Era tornata davanti a lui e aspettava che anche il cugino si muovesse. Raphaell le concesse il braccio, cavallerescamente. Penelope appoggiò il
suo e poi lo ritirò subito: « Raphaell, ti ricordo che non stiamo per ballare, stiamo andando a fare una passeggiata e a me basta starti al fianco, se per te va bene. Grazie, cugino. »
« Ok, Penelope. Se anche a te fa piacere, io tornerei di nuovo al pratone. Andiamo? »
« Andiamo, Raphaell. Oggi, quando sarò seduta sull’erba, mi lascerò andare nuovamente ai sogni e a tutti i pensieri felici che mi verranno in mente. Scusa, Raphaell » disse al cugino mentre camminavano: « pensi che sarà tanto dura arrivare fino alle casette che mi avevi detto? »
« Ho capito Penelope, tu vuoi visitare la piccola rimessa dei formaggi, dove mi sono fermato tante volte a mangiare senza permesso qualche pezzetto di formaggio. »
« Non sarebbe male se nessuno ci vedesse e se ce n’è tanto come dici tu non sarebbe poi un danno così grave. »
« Va bene, cugina. Intanto incamminiamoci e vediamo di volta in volta la forza delle tue gambe. La salita che dobbiamo fare non è molta ma è impegnativa, spero tu abbia la forza per farla. »
« Raphaell, abbiamo tutto il giorno per arrivarci e tornare! Se sarò stanca mi riposerò su qualche masso e tu mi racconterai qualche tua avventura. »
« Dai, andiamo Penelope. Passiamo dal ruscello che voglio riempire la mia borraccia. Ci servirà. »
I due ragazzini si avviarono verso il ruscello. Ci arrivarono presto, Penelope camminava molto più lesta di quanto si potesse immaginare. « Raphaell, falla riempire a me la borraccia. Non usare i tuoi poteri, fallo fare a me con le mie mani. »
La ragazzina si avvicinò senza bagnarsi i piedi al ruscello, si chinò e riempì la borraccia. Raphaell la guardava divertito e fiero, la sua cuginetta stava recuperando a vista d’occhio. Trovò così uno stimolo in più per portala su, fino alla rimessa. Salutarono il padre di Raphaell che era al pratone con il micro gregge: la capretta, le tre pecore e il cane. Con il pensiero, Raphaell si sentì chiamare.
Era Bugsy: « Padroncino, dove vai? Non ci vieni neanche a salutare? »
« Arrivo, vecchio cane bavoso! »
Si avvicinarono agli animali di Raphaell. Raphaell pensò a fare i complimenti alle sue pecore, la sua capretta e infine alla suo cane Bugsy, il Bulldog grigio-nero stermina gatti. « Andate a mangiare del buon formaggio? »
« Sì, Bugsy. Volete venire anche voi? »
« Raphaell, loro producono il latte per fare il formaggio » disse Bugsy indicando le tre pecore e la capra. « Io invece sono di guardia, non mi posso allontanare. Un’altra volta che le pecore rimarranno all’ovile potremo andarci insieme. »
Il cane abbaiò spargendo fili di bava dalla bocca, si strusciò su una gamba del padroncino e ritornò di corsa al suo posto. I due ragazzi continuarono a camminare verso la casetta in muratura, che si
vedeva già da lì. La rimessa in legno, invece, era un pochino più nascosta, dovevano salire ancora un po’ per scoprirla.
« Miao, per tutti i gatti che fanno miao, il tempo non passa mai in questo posto! Che noia! Devo inventare per forza qualcosa, almeno una piccola opera di disturbo » disse Cherry tutto impettito mentre saltava giù dal carro.
« Buongiorno, Cherry. Miao! » lo salutarono gli altri gatti, sempre sottomessi e stanchi.
« Miei figli, fatevi venire in mente qualcosa per creare problemi a quei due guardiani. Non fate pensare sempre a me ciò che bisogna fare. Tito, fatti venire in mente qualcosa. »
Il figlio, senza alcuna verve, gli rispose: « Padre, faccio una perlustrazione al castello. Innanzitutto voglio andare a vedere i prigionieri cosa stanno facendo. »
« È vero Tito, sei proprio figlio mio! Vieni, andiamo insieme. »
I due gatti lasciarono gli altri e si avviarono trotterellando verso le scale che portavano ai piani superiori. A passo felpato arrivarono fino alla tana, dove erano nascosti i topi. Prima Tito poi Cherry guardarono attraverso il buco della tana. Cherryr vide in fondo Girolamo girato di spalle che, noncurante della paura, stava leggendo un libro alla luce di una candela. Girolamo si sentì osservato e si girò verso l’entrata. Si avvicinò a distanza di sicurezza e riconobbe immediatamente l’occhio verde di Cherry.
« Brutto gattaccio arancione, sei venuto a farmi la tua solita predica? Non ce la farai a convincermi. Ho sognato che tra non molto tempo verrai spodestato e costretto ad andartene via per sempre da qui. E aggiungo: subirai tante pene. »
Cherry fece una risata sguaiata e patetica. « Miaooo, ma tu ti rendi conto con chi stai parlando? Ti avevo dato una possibilità di morire decapitato nella mia nobile bocca, ora questo non vale più, con te mi voglio divertire. »
Il gatto stava per infilare la zampa nella tana per cercare di afferrare il topo, quando pensò immediatamente a quello che gli era accaduto qualche giorno prima. La zampa destra gli faceva ancora male. Emise un miagolio di paura e indietreggiò parecchio. Diede anche due colpi di orecchi, uno avanti e uno indietro, in un attimo di ansia. La coda gli si tese, come sempre in quei momenti. Face segno a Tito di muoversi e in tutta fretta si allontanarono da quel posto.
« Miao! Tito, figlio mio, facciamo un salto in cucina. Andiamo a vedere se quei balordi dei guardiani hanno lasciato qualcosa. »
Entrarono quatti nella cucina del castello. Andarono subito a vedere nell’angolo dove di solito c’erano i rifiuti alimentari. Ci trovarono soltanto una vecchia ciabatta di uno dei due guardiani. L’annusarono e veloci se ne andarono.
« Vieni Tito, andiamo a fare un giro delle mura. Quando rientriamo, guardiamo se il grasso dove sono le armature non c’è più. »
Si avviarono sulle mura. Lentamente, osservando all’esterno, fecero tutto il perimetro del castello. Non videro nessuno in lontananza, soltanto le ombre dei grandi lucci che giravano nel fossato sottostante. Rimasero lì un pochino a confabulare tra di loro e poi decisero di rientrare per guardare se al piano delle armature tutto fosse finalmente pronto per sferrare un attacco senza dover pagare con altri incidenti. Cherry e tutti i suoi gatti erano già abbastanza rotti, ne avevano prese di brutte botte nel tentativo di far cadere quelle armature, che sembrava impossibile far venire giù. Silenziosi e saltellanti rientrarono e salirono fino al piano delle armature. A passo lento rasentarono le armature, in effetti sembrava che non ci fosse più nessuna traccia di quel super-grasso. Cherry  provò con una zampa a verificare se ci fosse meno attrito rispetto a dove posava le altre tre zampe. No, il grasso non c’era più. Ebbe l’idea, quella sera potevano agire.
Con un ghigno lo fece presente a Tito: « Questa sera colpiremo. E verranno giù, ve lo assicuro, tant’è vero che sono il vostro re! Andiamocene, ora. Torniamo nel piazzale, voglio cercare di riposare il più possibile. Fallo anche tu, Tito. »
« Hai ragione, padre. Scendiamo di nuovo nel piazzale, andiamo a ricaricarci. »
I due gatti, padre e figlio, scesero di nuovo nel piazzale e si riunirono a Rigoletto e agli altri due. Cherry, che comandava tutti, si avviò al posto che preferiva: se ne andò sul ponte levatoio. Mentre sonnecchiava gli piaceva ogni tanto dare un’occhiata ai pesci che passavano sotto di lui, sempre con la speranza di beccarne qualcuno. Gli altri si assopirono, chi sopra e chi sotto al carro.
Heebum, Topisio e i suoi erano quasi arrivati al vecchio studio dove avevano appoggiato le ampolle, l’alambicco e sei mezze candele. Un forte odore di stagno secco li avvisò che erano arrivati vicinissimo alla pozza quasi asciutta.
« Ci siamo, amici, ci siamo » disse Topisio dirigendosi spedito verso quell’odore di uovo marcio. « Venite, eccola! Sentite che fetore! Con mezza ampolla di quest’acqua la Topolass acquisterà una forza incredibile. Qui c’è una carica batterica da far paura. »
Quante ne sapeva quel topo! Si avvicinò Carlos, con lo zaino dove teneva anche l’ampolla. La tirò fuori e a fianco di Topisio levò il piccolo tappo e la riempì per metà. Quell’odore era nauseante. Tappò l’ampolla e la rimise dentro lo zaino.
« Ho fatto, Topisio. Quando volete, per me possiamo andare. »
Ripresero a camminare tutti e cinque. Avanzarono ancora un po’ per quella strada, tutto era tranquillo. Ma mano che si allontanavano, il fetore passava. « Heebum, ascolta. Ti volevo dire che ne sintetizzerò un’ampolla piena in liquido micidiale e un altro po’ la sintetizzeremo come polvere, da mettere poi nel mio soffietto e da usare come arma di attacco e di difesa. Potremo spruzzarla nel muso di qualsiasi animale nemico che ci voglia intimidire. »
« Sei un genio, Topisio. »
« Sono soltanto uno scienziato. Sviluppare queste formule rientra nel mio mestiere. » Topisio fece due salti girando su se stesso, quando atterrò al terzo disse: « Per di qua, andiamo! »
Ormai erano arrivati davanti a una parete di gesso, coperta dall’erba alta. Topisio si avvicinò all’erba, annusando ripetutamente. Riconobbe i suoi odori. Si addentrò nell’erba, incitando gli altri a seguirlo: « Venire, venite! Ci siamo, ho ritrovato il mio studio. Si è solo nascosto un po’. »
I gatti e gli altri due topi andarono verso la voce di Topisio, si infilarono anche loro nell’erba. Agile e veloce, Topisio arrivò in un attimo alla parete. Dietro all’ultimo ciuffo d’erba, trovò il buco della sua vecchia tana.
« Aspettate che vi dica io di entrare » disse Topisio agli altri due topi. Scesero dai gatti e si misero davanti all’ingresso ad aspettare il via di Topisio. Non passò molto tempo, Topisio li incitò a entrare: « Venite! Venite! »
La tana era stata abbandonata non da molto e si era mantenuta in buono stato. C’era soltanto un po’ di polvere. Topisio all’interno accese subito una delle sei mezze candele. Tutto si illuminò, all’interno diventarono visibili il letto di Topisio, i tavoli da lavoro e tante ricette appese al muro insieme a fiori e foglie essiccati.
« Questo è il mio sgabello preferito. »
Topisio aveva ritrovato lo sgabello che aveva usato per anni e con cui si trovava benissimo. Spolverò i tavoli e chiese a Miguel e a Carlos di crearsi un giaciglio per quella notte. La mezza candela accesa aveva cominciato a riscaldare la tana, che non era più fredda ed era anche parecchio asciutta.
Topisio riuscì e disse a Heebum e a Tara: « Capo, voi non credo che ce la farete ad entrare. Però potrete seguire tutto infilando la testa dentro. E poi, per oggi non credo faremo niente. Ci riposeremo e faremo tutto da domani mattina in poi. Ci vuole una grande concentrazione, tutto deve essere a posto. Una cosa importantissima che devo fare, con l’aiuto di Miguel e Carlo, è quella di andare ad aprire tutti quegli sfiatatoi lassù in cima. Li vedete? Altrimenti, appena la pozione sarà pronta, i primi ad essere intossicati saremo noi. Quando l’ultima ampolla diventerà verde, dovremo essere sicuri che l’aria da qui esca immediatamente. »
Topisio e gli altri due topi salirono sull’impalcatura che aveva lasciato il padrone della tana. Con un po’ di sforzo riuscirono a togliere i tappi dagli sfiatatoi. Tirata dall’ossigeno all’esterno, la fiamma della candela si allungò immediatamente, saltellando più frequentemente. Ciò voleva dire che il tiraggio era perfetto.
« Vedrete che tra non molto ci prenderemo una bella rivincita su quel gattaccio arancione. »
“Questa notte potremo colpire indisturbati. Le butteremo giù una alla volta. Voglio essere sicuro che il castello rimbombi.”
Cherry stava quasi per prendere sonno quando lo spostamento dell’acqua sotto di lui gli fece stappare immediatamente gli orecchi. Gli orecchi, come sempre quando si innervosiva, presero ad andargli uno in avanti e uno indietro. “Che paura! Questi maledetti pesci! Sono salvo.”
Un grande luccio era passato proprio in quel momento. Cherry si alzò e ritornò a oziare sotto il carro, con una coda così tesa che faceva senso. « Tito, per poco uno dei due grandi lucci mi faceva la festa. Stavo per cadere nel fossato, giusto la mia nobile anima mi ha salvato. Mi sono svegliato in tempo. »
« Mi fa piacere, padre. Quando attaccheremo per far cadere le armature? »
« Quando i due vecchietti balordi saranno andati a letto. E questa notte non li faremo dormire » sogghignò Cherry eccitato. Con lo stesso ghigno, il figlio lo accompagnò. Rimasero tutti ad oziare lì nel piazzale per tutto il pomeriggio, tra sbadigli e lamenti di gatto. Quando la sera fu calata sulla collina, come la luna accese il suo bagliore in cielo, Cherry  chiese ai suoi di mobilizzarsi e di iniziare a salire. A passo felpato, da felini e veri ladroni, entrarono nel castello. Fecero la solita tappa davanti alla cucina, la porta era chiusa. In lontananza, nel buco della tana, videro la luce della candela che Girolamo teneva accesa. Cherry decise che quella sera non era il caso di andare a fare torture psicologiche al topo, quasi quasi era convinto che non sarebbe più riuscito a mangiarlo. Presero atto che i due guardiani erano già andati nelle loro stanze. Le torce ad olio erano appese ai muri. Tornarono indietro di cinquanta metri e salirono al piano di sopra. Videro subito le armature, che luccicavano sotto i riflessi delle torce. Quella sera non avrebbero potuto fallire. Il terreno era tutto di un colore uniforme, era sicuro che il grasso non ci fosse più. A piccoli balzi arrivarono fino in fondo al corridoio.
« Via, venitemi dietro! »
Corse come avevano già fatto altre volte. Quella sera gli andò bene, a corsa sfiorarono le armature ed una ad una le fecero cadere. Il fracasso fu talmente forte e assordante che sembrava che il castello vibrasse. Cherry era soddisfatto, aveva raggiunto il suo obiettivo. L’aveva combinata grossa: aveva fatto cadere tutte le armature, compresa quella a cavallo. Era soddisfatto, si crogiolava nella sua superbia.
Ai suoi disse: « Ringraziate il vostro re. Grazie alla mia intelligenza ce l’abbiamo fatta a buttare giù le armature. I balordi saranno schizzati dai loro letti. Andiamocene via. Che nessuno corra, statemi tutti dietro, organizzeremo una festa. »
Uno in fila dietro l’altro scesero le scale lentamente, miagolando vittoria. Nel piazzale fecero qualche ballo stupido sotto il chiarore della luna. Erano tutti maschi, non c’erano femmine in quel gruppo. Ne stavano bene alla larga, le gatte. Anche se di campagna, non avrebbero mai voluto accoppiarsi e fare cuccioli con uno qualsiasi dei gatti che era lì. Cherry, alzandosi in piedi sul carro, impettito respirò a pieni polmoni per due volte e si vantò a più non posso della rivincita avuta la notte verso i vecchietti.
« Miao! Dove vi ho condotti ieri notte! Smidollati, avete visto? Seguendo me al momento in cui ho detto le armature sono andate giù come candele consumate dal fuoco. Ancora romba nelle mie orecchie il rumore degli acciai che cadevano a terra. Penso che i due balordi saranno schizzati dal loro letto e ancora staranno tremando. »
« Hai ragione, padre. Che ottima idea hai avuto ieri! E non vorrei essere nei panni di Heebum, casomai dovesse tornare per sbaglio al castello. »
« Non tornerà, figliolo. Non ti preoccupare, se ne è andato per non tornare. Ma se proprio dovesse, ci troverà preparati. Avete capito voialtri? Voi del primo turno di guardia, andate sulle mura. »
Due dei gatti presenti si alzarono e, neri in volto ma comunque succubi salirono le scale per andare sulle mura.
Uno fece all’altro: « Sarebbe troppo bello se invece Heebum tornasse e ci dimostrasse di poter sconfiggere quello spaccone e superbo di un gatto arancione!»
« Lo speriamo tutti. Non se ne può più di Cherry, ci ha ridotto alla fame e alla povertà. Sarebbe bellissimo se da questo castello se ne andassero lui e Tito. Io mi ricordo, quando c’era Heebum era tutta un’altra cosa. Nessuno era succube e tutti stavamo bene. Non pretendeva neanche che cacciassimo per lui e non si sentiva né re né imperatore. Era il primo arrivato, perché nato nel castello, e voleva soltanto godere di rispetto. Spero tanto che torni. »
« Anch’io. In ogni caso spero tanto che finisca questo momento. Siamo gli unici gatti che le femmine non vogliono avvicinare. Tu hai visto qualche cucciolo eccetto Tito, che ormai è maggiorenne e vaccinato, qua dentro? »
Dopo aver fatto la sua camminata impettito, Cherry salì le scale. Era arrivato il momento di andare a fare la solita tortura psicologica a Girolamo. Si avvicinò alla tana, guardò nel buco e in fondo vide Girolamo che sgranocchiava una mela. Quella visione lo mandò immediatamente in tilt. Le orecchie iniziarono ad alzarsi e abbassarsi a intermittenza e la coda gli si tese. Provò a chiamare Girolamo per vedere se gli rispondeva. Silenzio assoluto. Eppure lo vedeva, forse non aveva più paura di lui. Con tutti i suoi tic, si allontanò dalla tana e andò verso la cucina per vedere se c’erano i due guardiani. Si affacciò alla porta, vide una pentola nel camino che buttava fumo. Davanti alla pentola c’era Amilcare, Bastiano gli era al fianco. Si avvicinò con un miagolio di strafottenza. I guardiani erano preparati, sapevano bene che lo spavaldo, dopo aver fatto cadere le armature, si sarebbe fatto vedere per vantarsi a modo suo. Lo stavano aspettando. Amilcare aveva un mestolone in mano col quale girava il contenuto della pentola; Bastiano, che era a un metro da lui, teneva la mano appoggiata sul camino e stava pronto con l’altra mano ad afferrare il manico della scopa lì vicino.
Il gatto si avvicinò a loro miagolando insistentemente, come per dirgli: “Avete imparato la lezione?”
I due vecchietti non si scomposero: uno continuò a girare il contenuto della pentola, l’altro senza farsi notare impugnò la scopa. Di scatto gliela diede addosso. Naturalmente la forza era quella di un vecchio, ma il gatto arancione come fu colpito scappò a zampe levate, con la coda tra le gambe.
« Miaoo! Me la pagherete! Quello di ieri sera è solo l’inizio » miagolò forte mentre scappava.
« Guarda cos’ho preparato, Amilcare » disse Bastiano all’amico.
La mattina aveva preparato dei tappi di cera da infilarsi nelle orecchie la notte quando andavano a letto. Quei due vecchietti arzilli non erano affatto fessi, si erano subito premuniti per aspettare tranquilli la vendetta di Cherry, che non si sarebbe fatta attendere tanto.
« Vedrai, Bastiano, che ci divertiremo anche noi. Ora vado al piano di sopra e do un’altra passata di super-grasso. Se non staranno attenti, stavolta non li sentiremo nemmeno volare fuori dalla finestra. Ogni mattina ci affacceremo e vedremo se si sono impinzati nel carro o altrove. »
Bastiano ci rise. Amilcare, subito dopo che ebbe finito di girare il contenuto della pentola, lasciò Bastiano a finire di preparare il resto del pranzo e lui, lentamente, salì al piano di sopra a spargere il grasso a filo delle armature.
Mentre saliva le scale, pensò tra sé: “Bel gatto nero, dove sei? Quanto mi manchi! Sarebbe bello fare due carezze ripagate dalle tue fusa. Heebum, se mi senti, torna!”
Sparse per bene il grasso, si accertò che con il pavimento pulito fosse invisibile e inodore, poi tornò dal suo amico in cucina. Anche all’amico ricordò quanto gli mancasse quel gatto nero.
« È vero, non me lo dire! Era tutta un’altra cosa. Era un piacere la sera aspettarlo per dargli quei pochi avanzi che rimanevano. A suo modo, ringraziava sempre. Speriamo che stia bene. »
« Sono sicuro che Heebumo se la stia cavando, ovunque si trova. E che prima o poi tornerà al castello, è anche casa sua. »
Aiutandosi l’uno con l’altro, spostarono la grossa pentola dal camino, la poggiarono sul tavolo e si versarono due mestolate nei piatti. Si sederono uno davanti all’altro, come facevano sempre, silenziosi a mangiare.
Raphaell e Penelope arrivarono alla rimessa. Naturalmente, la casetta in muratura sembrava abbandonata, o perlomeno chiusa. Raphaell preferì andare a controllare più da vicino, sentiva la responsabilità di sua cugina, che era con lui. Non voleva che le succedesse niente di male. Si avvicinarono alle finestre, il silenzio era pieno.
« Vieni, Penelope, passiamo dalla rimessa. Prendiamo giusto un pezzettino di formaggio e ce ne andiamo. »
« Aspetta, Raphaell. Quando abbiamo finito di uscire dal boschetto ho sentito dei passi dietro di noi. Non andiamoci, preferirei tornare indietro. Mangeremo stasera, mia madre stava preparando da stamattina lo stufato. Potresti mangiare con noi. Ma ora non fermiamoci alla rimessa dei formaggi.»
Si girarono per tornare indietro, direttamente lì dal piazzale. Come non detto, avviandosi di nuovo al boschetto, videro il fattore e il nipote che stavano arrivando. Salutarono per educazione e continuarono dritti per la loro strada. I due che arrivavano li salutarono soltanto con il gesto della mano, ma non si fermarono a chiedergli nulla. Non avevano fatto niente di male, erano soltanto entrati nel piazzale. Si voltò un attimo Penelope e vide che l’uomo apriva la casetta in muratura, mentre il giovane con una borsa simile a una valigia si dirigeva alla rimessa in legno.
Sentirono che da dentro la rimessa il giovane gridava all’uomo: « Niente, zio! Non è caduto niente nella trappola. Questi topi sono davvero furbi! »
 
Il giovane ragazzo biondo uscì di nuovo dalla rimessa e andò nella casetta in muratura. Loro continuarono a camminare. Non vedevano più le casette, stavano facendo rientro al pratone e poi a casa. Era incredibile come Penelope stava migliorando di ora in ora. Era arrivata tranquillamente fino alla rimessa dei formaggi e ora stavano tornando indietro. Si era riposata soltanto una volta e quando lo aveva fatto, aveva fatto piacere anche a Raphaell. Oltretutto erano anche digiuni, avevano soltanto bevuto l’acqua dalla borraccia di Raphaell e succhiato qualche filo d’erba, tanto per giocare.
« Raphaell, fermiamoci tranquillamente al fienile. Non ho paura dei ricordi, li ho cancellati dalla mia mente con la guarigione. Senza andare al piano di sopra, possiamo sederci su una balla di fieno , lì sulla porta e aspettare che il sole tramonti. Così mi riposo un po’ le gambe, e lo fai anche tu. Andata? »
« Va bene » rispose Raphaell alla cugina.
Si fermarono per un’altra ora seduti sulla soglia del fienile su una balla di paglia. Rimasero fermi e affascinati a guardare un tramonto tendente al rosso e all’alternanza dei colori successivi. La sera stava facendo la sua apparizione, accompagnata da una luna allegra e quasi piena, carica di bagliori argentei che avrebbero reso ancora più bella la notte.
Nello studio di Topisio, i topi si dovettero accontentare di un giaciglio di fortuna per riposarsi un po’. Heebum e Tara si allontanarono un poco per cercare da mangiare. Qualche larva non gli avrebbe fatto male per niente. Heebum scavò il terreno sotto un albero, vicino alla tana di Topisio, dove l’erba era meno alta e il terreno bello morbido. Mangiarono ben bene. Tara intrecciò parecchi fili d’erba e in poco fece una specie di paniere. Con Heebum al suo fianco, raccolse parecchie olive, non del tutto mature, che per essere mangiate dai topi erano più che buone. Riempito il panierino, lei stessa portò le olive ai topi. Tara infilò prima la testa nella tana, per avvertire Topisio e gli altri, poi con la zampa allungò all’interno le olive.
« Grazie Tara, ringrazia anche Heebum. Siete gentili » le dissero quelli che erano dentro.
« Domani, quando il giorno si sarà acceso, inizieremo a lavorare sulla pozione » confermò Topisio lo scienziato.
Tara sorrise e mentre tirava fuori la testa dalla tana gli rispose che andava bene e augurò a tutti la buona notte. « Heebum, non ho sonno, non mi sento stanca per niente. Perché non facciamo una passeggiata noi due soli? »
« Sono felice di accompagnarti. Appena sarò riuscito a mandare via quel gatto arancione dal castello e saremo potuti rientrare in quello che è la mia dimora, tempo per riposare ce ne sarà tanto. Andiamo, vieni. Saliamo più in alto, ci fermeremo a guardare le stelle che brillano alte nel cielo. Ti piacciono? »
« Certo che sì e in tua compagnia saranno ancora più belle. »
« È vero. Se mi metto tra te e le stelle, il nero con il giallo male non stanno. »
Tara ci sorrise ed esclamò: « Che sciocco che sei! »
Sorrise anche Heebum e salirono ancora un pochino. Si fermarono quando la collina diventò meno ripida. Rimasero a guardare il cielo vicini, uno al fianco dell’altro.
« Heebum, quando pensi che potremo tornare al castello? Guarda, lo vedi? È laggiù, siamo parecchio vicini. È bello sotto il bagliore della luna. Quella è casa tua. »
« In effetti ci sono nato. Ci ho vissuto fino a che c’erano i conti. Ero il loro preferito. Ricordo ancora con piacere le carezze della contessina e anche quelle dei guardiani, che mi volevano tanto bene pure loro. Sai, tutte le sere mi facevano trovare da mangiare. Forse era anche troppo quella vita per me. Sono più felice adesso. Ho conosciuto te e anche me stesso, ho trovato le mie sicurezze. Grazie al Gattun mi sento un altro. Sono un gatto nero diverso. Ho anche tre topi come amici. »
« Per loro sei più di un amico. Ti hanno eletto loro capo. Hanno trovato in te chi li poteva aiutare a liberare la loro famiglia al castello. Sono prigionieri di Cherry. Miguel e Carlos credono in te e anche io. »
Gli occhi gialli più della luna gli brillarono come due diamanti vivi. Le loro code si sfiorarono, quasi in un abbraccio. « Torniamo vicino alla tana di Topisio, sei d’accordo? »
« Rimaniamo ancora, Heebum. Non mi sono mai sentita così bene. »
Un leggero venticello tiepido li carezzò. Si lasciarono andare a un riposino, sdraiati fianco a fianco, il calore dei loro corpi così vicini li cullava.
Cherry saltò giù dal carro, sicuro che fosse arrivato un altro momento per attaccare e far cadere di nuovo le armature. Il baccano della sera prima per lui era stato solo un antipasto. Così credeva. Presuntuoso e borioso come sempre, saltellante disse ai suoi: « Seguitemi! Se ce la fate balzate leggeri come faccio io, pezzenti. »
Cherry trattava così i suoi sudditi, ormai stanchi di lui. Di malavoglia si alzarono uno a uno e iniziarono a seguirlo, chi trotterellando e chi balzando come faceva lui. Cherry si voltò indietro a guardare e disse a suo figlio: « Sei l’unico che riesce a starmi dietro, Tito. Vieni al mio fianco. Ripeteremo quello che abbiamo fatto ieri sera, tale e quale. Passiamo un attimo a vedere alla cucina se è già stato chiuso tutto e se i due balordi sono andati a letto. »
Si avvicinarono alla porta della cucina: era chiusa. Tito chiese al padre se voleva andare a fare un po’ di torture psicologiche ai topi nella tana. Cherry gli rispose che ci avrebbe pensato la mattina dopo. « Guardando la luna alta in cielo, direi che è l’ora. Andiamo, seguitemi! »
Salirono tutti al piano di sopra. La grande finestra all’angolo era chiusa, le torce illuminavano il corridoio e facevano luccicare le armature. Erano sempre messe bene, come tutti i giorni. Evidentemente quei vecchietti le lustravano anche. Impettito, Cherry si allungò verso la fine del corridoio. Gli altri lo seguirono e si misero in coda a lui.
« Venitemi dietro e correte più veloci che potete. Via! »
I gatti iniziarono a corre come razzi. Imitando la stessa scena della sera prima, si avvicinarono a rasentare le armature. Sfiorarono tutti e cinque la prima armatura, le zampe toccarono il super-grasso e tutti insieme presero il via. Come sere prima, nel castello si sentì un miagolio di terrore. Durò per un po’. Dopo un altro attimo, seguì il tonfo che rompeva il vetro della finestra e ancora una volta quel miagolio. Passò poco tempo e, a differenza delle altre sere, non si sentì il tonfo dei gatti che si impinzavano nel carro, bensì si sentì uno ‘splash’ in lontananza. I gatti avevano superato le mura ed erano finiti tutti nel fossato dell’acqua. Il lucci, sempre in guardia, non persero tempo. Li raggiunsero mentre stavano per guadagnare la riva e a due di loro riuscirono a strappare la coda. Adesso erano tre del gruppo senza coda: Rigoletto e altri due, esclusi Cherry e Tito che si erano salvati anche quella sera. I due gatti con la coda mozzata, scapparono via per la discesa senza mai girarsi indietro. Avevano deciso, che finché ci fosse stato Cherry, non sarebbero tornati al castello.
Mentre scappavano facevano un pensiero collettivo: “Torna Heebum! Dove sei?”
Si fermarono quando l’alba era ormai quasi salita in cielo, doloranti ma allo stesso tempo felici di aver abbandonato quel posto. Uno dei tre fece all’altro: « Io mi metto a cercare Heebum e mi unirò a lui. »
Rispose il secondo: « Ma vai a sapere dov’è Heebum ora! Sicuramente avrà trovato un posto dove stare bene, sarà felice e non ci pensare neppure a tornare al castello. »
« Ti sbagli, io lo conosco! Lui c’è nato al castello ed è colui che ha veramente il diritto di viverci. Non credo che avrà trovato un altro posto. Io, in ogni caso, provo a cercarlo. Voglio fare il giro di tutta la collina, troverò sempre e di sicuro un posto migliore del castello. »
I due si divisero. Uno prese per la discesa che portava a valle, l’altro dolorante si fermò lì nei paraggi.
Finito il tramonto che li aveva lasciati affascinati, i due cuginetti si alzarono per andare a cena a casa di Penelope. Lei sempre più felice e vispa camminava a fianco del cugino, dandogli ogni tanto delle piccole spallate. Aveva voglia di riprendere tutto il tempo che aveva perso stando a sedere su una sedia a rotelle. Bussarono alla porta di casa di Penelope, aprì loro la madre.
« Salve, ragazzi. Entrate, venite a cena. Ho preparato uno stufato che vi farà leccare i baffi. Viene anche tuo padre, Raphaell. Ha accettato il nostro invito. »
« Grazie, zia. Ci andiamo a dare una lavata alle mani e al viso e veniamo a tavola. »
Così fecero. I due ragazzini entrarono, salutarono lo zio e padre di Penelope, poi andarono in bagno, Raphaell in quello vicino al soggiorno, Penelope in quello della sua stanza. Si lavarono e ritornarono nella sala, dove li aspettavano i genitori di Penelope e il padre di Raphaell. Mangiarono tutti tranquilli lo stufato, era buono. Il padre di Raphaell si complimentò con lui per il grande aiuto che stava dando
alla cugina. Aveva il viso rilassato e sotto quei grandi baffi sorrideva, sembrava avesse ritrovato la serenità.
« Raphaell, ti ho lasciato un bricco di latte della tua Barbetta nel frigo. Domani lo potrai bere, l’ho fatto bollire. »
« Grazie, papà. »
Quella sera suo padre non bevve oltre due bicchieri d’acqua. Si alzarono dal tavolo tutti sorridenti. Il padre di Raphaell mise il braccio intorno al collo del figlio e in quel modo rientrarono a casa insieme. Durante il tragitto non parlò molto ma ogni tanto lo stringeva a sé in segno di affetto. Raphaell era euforico. Arrivarono sulla veranda di casa.
« Papà, io vorrei restare qui ancora un po’ a rimirare il cielo e le stelle. Sai che faccio? Prendo Bugsy e mi faccio sbavare un po’ addosso mentre lo coccolo. Ti dò la buonanotte, papà. »
Il padre si allontanò, entrò in casa e lui corse all’ovile dove c’erano sia le pecore che Bugsy. Con il pensiero, senza aprire bocca, gli disse: « Vieni qua, bel sbavone. Vieni dal tuo padroncino. »
Il cane corse verso di lui sbavando da tutte le parti. Appena si appoggiò con le zampe sulle gambe di Raphaell seduto sulla sedia, gli fece il bagno. Raphaell rimase in compagnia di Bugsy per un bel po’. Mentre guardava il cielo lo accarezzava delicatamente. Il cane gli disse che gli mancava molto, ma anche che capiva che dovevano ancora uscire col padre di Raphaell perché sapeva benissimo che si stava occupando di Penelope.
« Ora che mi hai fatto il bagno posso andare, Bugsy, cagnolino mio. Vedrai che uno di questi giorni torneremo a lavorare insieme, appena finita l’estate. »
Accompagnò il cane di nuovo al suo posto. Girò per un lato la casa e arrivato davanti alla finestra della sua cameretta l’aprì con la forza della mente. La finestra si alzò da sola meglio di come avrebbe fatto con le mani di qualcuno. Raphaell, con uno scatto, poggiò i palmi sul davanzale e saltò all’interno della cameretta. Felicemente stanco, entrò nel suo letto senza neanche mettersi il pigiama. Quella notte dormì con soltanto mutande e canottiera addosso, del resto era estate. Era contento per sua cugina, che migliorava a vista d’occhio.
Tra sé pensò: “Conoscendola, domani mi chiederà di andare al pratone a corsa. Quindi sarà bene dormire, adesso.”
Prese sonno dietro a un sorriso, era passata la tristezza dal suo viso. Suo padre era cambiato, stava tornando l’uomo che era stato. Da quando era tornata Penelope in quel tratto di campagna, tutto era diventato più roseo. Si stava davvero bene. Altri venti giorni e si sarebbero riaperte le scuole. Raphaell decise di vivere al meglio gli ultimi venti giorni che gli restavano prima di rientrare al collegio, dove invece era sicuro che tutto sarebbe rimasto come lo aveva lasciato: grigio.
L’alba era salita e il giorno si stava riaccendendo. Il sole stava di nuovo colorando il cielo. I raggi che entrarono nella tana di Topisio svegliarono tutti quanti, gli ospiti e lui. Si avvicinarono alla tana anche Heebum e Tara, uno alla volta infilarono la testa dentro e salutarono.
heebum chiese a Topisio: « Un altro posto dove poter partecipare anche noi, non solo con la testa, proprio non ce l’hai. Eh? »
« Aspetta, aspetta…fammi pensare. Sì! Se possiamo perdere ancora un giorno o due potremmo andare a vedere se la tana della vecchia volpe, che sta poco più su di qui, è ancora vuota oppure se qualcuno l’ha già presa. Basterà portarsi dietro, oltre allo zaino con le erbe, anche le mezze candele e l’alambicco. E ti dirò di più, Heebum…perché aspettare? Andiamo! »
Heebum tirò fuori dalla tana la testa e subito i tre topi lo seguirono fuori. Quando furono di nuovo sulla strada, Topisio come al solito prima di partire, fece due o tre salti girando su se stesso e all’ultimo, come mise le zampe a terra, disse: « Per di qua! »
Dovevano tornare indietro ma questo non pesò a nessuno, tantomeno a Heebum. Voleva assistere alla preparazione della Topolass, sarebbe stata la loro preziosa arma da usare contro quel gatto perfido.
Cherry, come Tito, aveva ancora la coda ma sentiva che il resto della banda non gli stava più vicino. I due gatti senza coda erano scappati, disertori! Anche Rigoletto non si era più fatto vedere dopo che Tito lo aveva sbeffeggiato e mandato via. Il piano per l’abbattimento delle armature era riuscito una notte, la seconda no. In più si era reso conto che forse non era dipeso dall’inettitudine dei suoi fidi, ma proprio dalla sua incapacità di comandare e portare, anche se in micro, un esercito in guerra. Si stava rendendo sempre più conto che non ne azzeccava una. Forse quello era l’inizio della pazzia. In un attacco di superbia si scrollò di dosso quel pensiero e diede, naturalmente, la colpa a Heebum, che non c’era.
“Maledetto gatto nero, mi perseguiti anche senza esserci…questo posto è mio! Non potrai più appropriartene.” Mentre ripeteva tra sé quelle parole, un pensiero gli venne alla mente spontaneo: vide un gatto nero con un turbante blu in testa. Con il vezzo da re e l’imperativo, disse a quel pensiero: “Cosa vuoi? Sono io che comando qui!”
Inaspettatamente quel pensiero gli rispose: “Ancora per poco comanderai. Saranno dolori per te!”
E mentre il pensiero stava svanendo, Cherry fece mente locale e ricordò che l’immagine che aveva appena visto era nientemeno che Heebum. Rabbrividì, la coda gli si tese come una corda d’arco, le orecchie partirono in un balletto senza freni.
« Tito, corri con me! »
Era bene che si mettesse a fare qualcosa, altrimenti sarebbe impazzito davvero. Quel gatto arancione doveva scaricare la tensione che aveva accumulato fino a quel momento. Era stato devastante per lui vedere Heebum che lo perseguitava anche nei suoi pensieri intimi e non solo nei ricordi. Che si stesse
 
davvero organizzano? Gli ci volle un po’, ma alla fine si calmò. Tornò sopra al carro ad oziare. Quella mattina non aveva il coraggio di avvicinarsi al ponte levatoio.
Suo figlio gli si sdraiò accanto. « Che facciamo, padre? Questo posto sta diventando una noia! »
« Tito, fatti venire in mente qualcosa. Devo per forza dimostrare a quei due vecchietti che qui quello che comanda sono io. Dobbiamo disturbarli il più possibile o non se ne andranno mai. Intanto, io vado a fare un po’ di tortura psicologica a quell’impunito di Girolamo. Vado. »
Cherry si alzò, scese dal carro e si avviò baldanzoso verso le scale che portavano ai piani della cucina, dove c’era anche la tana di Girolamo. Andò subito a mettere l’occhio al buco per vedere cosa stesse facendo il topo nella tana. Girolamo era in fondo, davanti a lui, che gli voltava le spalle. Cherry vedeva nitidamente che Girolamo stava leggendo un libro, che teneva con una zampa mentre con l’altra sgranocchiava un pezzetto di pane.
« Girolamo! Sono venuto a farti la solita proposta. Perché non ti decidi a mettere la tua testolina nella mia bocca? Guarda che denti affilati, sono tutti per te. Ti assicuro che non ti farò sentire troppo dolore. Un morso e ‘zac’! La tua sarà una morte dignitosa. »
Girolamo lo lasciò parlare, si voltò e gli fece un pernacchia niente male. Si avvicinò un pochino e, come faceva sempre, gli ripeté: « Non mi fai paura, Cherry! Qui non ci manca nulla. Sappiamo dove prendere da mangiare, sappiamo a che ora uscire per non incontrati e ti devo dire che la notte è piacevolissimo sentire i vostri miagolii di terrore quando slittate sul super-grasso e non fate altro che incassare grandi sconfitte. Per noi quelle sono gioie. Sono sempre più sicuro che farai lo sbruffone in questo castello ancora per poco. Miguel e Carlos torneranno presto con chi ci potrà aiutare definitivamente. Me lo sento! »
Come al solito Girolamo fece innervosire Cherry con quelle parole, che quando le sentiva ogni volta era come se un pugnale gli si rigirasse nella piaga. Rantolò un miagolio, come se si stesse strozzando.
« Me la pagherai cara per questo! »
Girolamo non dava più peso a quelle parole, quel gatto non gli faceva più paura. Era estremamente facile tenerlo a bada. Era gonfio di superbia come un pallone, ma era anche leggero. E poi loro ci stavano veramente bene in quella tana, riuscivano a fare tutto quello che aveva detto a Cherry. Il cibo non gli mancava, perché in cucina per loro c’era sempre qualche avanzo da portare nella tana e mangiarlo. Alla faccia di quel gatto arancione che chissà chi si credeva d’essere.
Raphaell con uno sbadiglio aprì gli occhi e si svegliò contento. Era ancora presto. Guardò l’orologio attaccato alla parte e vide che erano solo le sei e mezza del mattino. Si alzò ugualmente, andò nel bagno che aveva in camera, fece una doccia a modo suo: il sapone gli si strusciò sulla pelle senza che lui lo toccasse. Da dentro il bagno stesso, iniziò a sfare il letto e rifarlo. Poi fece uscire la scopa, lo spazzolone, riempì il secchio che vibrava in aria sotto la doccia e poi li lasciò andare per la stanza a pulire. Rimesso tutto in ordine, uscì anche lui. Tutto profumava. Sempre con lo stesso sistema, gli
 
attrezzi si riposero nel bagno. Uscì dalla stanza, andò nella sala e dal frigo prese il bricco che il padre gli aveva detto la sera prima d’avergli lasciato. Tagliò una fetta di pane dalla pagnotta e lo inzuppò nello squisito latte della sua Barbetta. Era carico di energie.
« Buon giorno, papà. »
« Buongiorno, Raphaell. Ascolta figliolo, spiegami una cosa. Ho sentito che mentre ti facevi la doccia sembrava ci fosse qualcuno che puliva la tua stanza. Cos’è successo? »
« Niente, papà. Mi sono alzato e mi sono fatto una doccia, non è successo altro. Alla camera gli ho dato una pulita molto veloce, ma non mi sembra di aver fatto molto rumore. Forse stavi sognando. »
« Forse sì. Ho passato una bellissima serata ieri sera, figlio. Vedrai che d’ora in poi andremo sempre meglio, ce la faremo anche da soli. » Quella mattina fu il ragazzino che si alzò dalla sedia e andò ad abbracciare il padre. « Dai Raphaell, sbrigati. Vai da tua cugina, che ti aspetta. Sei una delle sue medicine, sei l’arricchimento di voglia di vivere che già ha. »
Raphaell salutò suo padre, uscì dalla porta, si fermò sulla veranda a respirare per un attimo a pieni polmoni l’aria che era ancora freschetta, poi attraversò il piazzaletto e salì sulla veranda di casa di suo zio. Bussò, aprì la zia, contenta di vederlo.
« Entra Raphaell, buongiorno. Hai già fatto colazione o mangi un pezzo di dolce insieme a Penelope? »
« Zia, se è un dolce che hai fatto tu un pezzo insieme a mia cugina me lo mangio molto volentieri. Tanto dopo usciamo e andiamo a camminare. »
« Buongiorno, cuginetto! Dai, facciamo colazione e usciamo. Vediamo se ci riesce di fare quello che non siamo riusciti a fare ieri. »
Mangiarono il dolce fatto dalla zia e bevvero il latte, per Raphaell era già il secondo bicchierone. Sarebbe stato a posto per tutto il giorno e se quel giorno il loro piano fosse riuscito sarebbe stato a posto anche per la sera. Sempre se non avesse ricevuto altri inviti dalla zia, che cucinava benissimo e a cui non si poteva dire di no. I ragazzini uscirono da casa che il sole era già alto, il caldo si faceva sentire, ma non di certo per loro. Arrivati al ruscello si fermarono per bere e raccogliere l’acqua nella borraccia. Raphaell col pensiero la raccolse e Penelope si tolse scarpe, calze e approfittò per bagnarsi i piedi nel ruscello. Era da tanto che sognava di farlo e finalmente il momento era arrivato. Penelope appoggiò i piedi nell’acqua fresca che scendeva dalla collina. Raphaell era dietro di lei, sempre pronto a sorreggerla nel caso che scivolasse. Ma l’equilibrio di Penelope era ottimo e sui ciottoli del ruscello, pieni di erbetta, ci sapeva camminare benissimo. Uscì dal ruscello, con un passo era di nuovo sulla riva.
« Ci rivestiamo e vogliamo andare, Raphaell? »
« Ti aspetto, cuginetta. Me li sono già asciugati i piedi. »
« Aiutami, Raphaell. » Penelope gli aveva allungato la mano per farsi aiutare a sedersi. Anche lei si asciugò i piedi con il calore del sole e i ciottoli della riva, che erano già belli caldi. Si rimise le calze e le scarpe ed erano pronti. « Andiamo Raphaell, passiamo dal pratone e salutiamo Bugsy.»
Arrivati al pratone videro le tre pecore, la capra, il padre di Raphaell e Bugsy. Si avvicinarono all’uomo e al cane.
« Ciao, papà. Come va? »
« Bene. Dove state andando? »
« Porto Penelope fino alla rimessa dei formaggi del fattore. Voglio farle vedere il boschetto. »
« Ok, Raphaell. Portate con voi Bugsy, il nostro piccolo gregge è vicino a me e ce la faccio a guardarlo senza bisogno del cane. Sarà più utile a voi nel boschetto. »
I ragazzi lo salutarono e si incamminarono verso il boschetto. Bugsy era al fianco di Raphaell e gli diceva: “Raphaell, padroncino, dove state andando?”
“Alla rimessa dei formaggi, Bugsy. Vorrei far assaggiare un pezzettino di quel buon formaggio a Penelope. Ci accompagni?”
“Ti starò al fianco, Raphaell, ma non mi sembra una buona idea. Sento il loro odore nell’aria.”
I due ragazzi continuarono, anche solamente fare un giro nel bosco era piacevole. Si arrampicarono per il primo tratto della collina. Penelope camminava sempre meglio, i suoi muscoli si rinforzavano di giorno in giorno.
Bugsy a un trattò li fermò: “Fidati, Raphaell. Il fattore e suo nipote sono alla rimessa e sento aria di rabbia. Non li andate a sfidare, non mi sembra il caso. Anche il formaggio delle tre pecore è buono, tuo padre è bravo a farlo. Lo potrete assaggiare quando tornate.”
I ragazzi si fidarono del fiuto di Bugsy e decisero che anche quel giorno non avrebbero attuato il loro piano. Comunque non si fermarono, continuarono la loro passeggiata risalendo la collina nel bosco. Non sentivano nessuna fatica, andavano spediti. Erano intenzionati ad arrivare il più in alto possibile, chissà magari potevano addirittura arrivare al castello.
Girolamo, nella tana, oltre a leggere si ingegnava a costruire marchingegni. L’ultimo che aveva creato, durante le sue uscite quando sapeva che non c’erano i gatti, era un carretto dove sopra aveva fissato un lungo bastoncino. Aveva provato più volte a farlo passare attraverso il buco di ingresso della tana e ci era passato alla perfezione. Nella parte del carretto dove iniziava il bastoncino, su di esso aveva incastonato un pezzetto di piombo, residuo di una staffa della sella del vecchio conte che c’era prima al castello. Il carretto col bastoncino erano diventati un piccolo ariete, in quel modo. Girolamo sapeva bene a cosa gli sarebbe servito. Si rimise a leggere il suo libro dimenticandosi del resto.
Cherry all’improvviso lo chiamò, come faceva sempre: « Miao! Girolamo! Sono qui e sono venuto per farti la solita proposta. Non aspettare che la mia ira verso di te diventi sempre più grande.
Approfittane, fatti dare un morso in testa oggi. » Intanto che gli parlava teneva il muso attaccato al buco della tana.
Girolamo in lontananza vedeva i denti affilati di Cherry e il suo occhione verde. Mentre Cherry continuava a cercare di intimorire il topo, Girolamo si alzò e chiamò silenzioso gli altri che erano con lui.
Tutti si avvicinarono a Girolamo, che spiegò loro: « Come avrete notato, sull’asta incastonata nel carro ho piantato dei pioli da destra a sinistra. Lentamente ogni di noi si posizioni da una parte, o a destra o a sinistra. Poi tiriamo il carro indietro. Puntando precisi verso l’uscita al mio via iniziamo a correre finché non prendiamo in pieno muso Cherry. »
Così organizzati, i topi impugnarono l’asta del carretto ed eseguirono alla perfezione ciò che Girolamo gli aveva detto. Mentre Cherry continuava a sprecare parole al vento, cercando di intimorire chi era lì al carretto, loro puntarono precisi l’uscita e al via presero a correre come stabilito. Il carretto, di nuova costruzione, non fece rumore, le ruote giravano che era una bellezza. La testa dell’ariete si infilò perfettamente nel buco e andò a colpire Cherry nel muso. Il gatto rimase un attimo intontito e poi scappò via urlando dal dolore.
« Girolamo, maledetto mi hai cecato miaooo! Ti ucciderò! »
« Cherry prova a cambiare disco. Sei monotono, dici sempre le stesse cose. Che mi ammazzerai e mi mangerai me lo dirai almeno tre volte al giorno. Non hai ancora capito che non mi fai paura? Posso tenerti a bada tranquillamente, non sei poi così intelligente come dici di essere. E sono sicuro che tra non molto verrà di nuovo al castello chi te la farà pagare. »
In lontananza si sentì: « Miao, che dolore! »
Era Cherry che come al solito era andato a rifugiarsi sotto al carro abbandonato nel piazzale. Non ce la faceva a leccarsi vicino all’occhio, dove aveva ricevuto la botta. Rimase intontito per tutto il giorno, inconcludente e incapace di ragionare.
Il figlio gli chiese: « Padre, cosa è successo? Che hai fatto al muso che sei tutto gonfio? »
Cherry si vergognava ad ammettere che era stato il topo a ridurlo così con un colpo del suo ariete. Era troppo presuntuoso per essere sincero anche con Tito. Cherry era talmente convinto della sua invincibilità che a volte mentiva a se stesso quando si rifletteva in qualche pozza o in qualche altra parte dove si poteva specchiare. Si auto-rassicurava, anche se ormai intorno a lui c’era rimasto solo Tito. Gli altri gatti partecipavano alle sue scorrerie solo se obbligati e ogni volta maledivano averlo fatto.
Topisio, Heebum e gli altri arrivarono alla tana abbandonata della vecchia volpe, che era andata a morire all’aperto lontano da lì. Era tanto vecchia, non poteva più mangiare e aveva fatto l’unica scelta che gli rimaneva da fare: tipico della sua razza, si era allontanata dalla sua tana per restare all’aperto e
aspettare che gli spiriti del bosco la accompagnassero all’altro mondo. La tana che aveva lasciato era impolverata, ma tutta in ordine. Dovevano soltanto iniziare a preparare le loro cose sul tavolo che una volta era stato della volpe. Per sicurezza Topisio, il più esperto di tutti in questo campo, con l’aiuto di Carlos e Miguel cercò i punti dove la tana sfiatava all’esterno. Era importantissimo che fossero perfettamente liberi e che il ricambio fosse continuo e veloce. Ne trovarono uno proprio sopra dove la volpe aveva scelto di mettere la sua camera. Tirarono via il sasso che faceva da tappo e immediatamente sentirono la corrente andare verso l’alto. Un altro punto era proprio sopra le loro teste e ci pensò Heebum a togliere il tappo. Una ventata di corrente tirò verso l’alto, capirono subito che gli sfiatatoi funzionavano alla perfezione. Topisio preparò tutto: l’alambicco, le ampolle, i fornellini dove avrebbero fatto bollire la pozione. Topisio e Miguel uscirono fuori e con una lente, approfittando del bel sole che c’era, fecero prender fuoco a delle pagliuzze con cui accesero una delle mezze candele e la piazzarono sopra il braciere. La mezza ampolla d’acqua puzzolente andò a riempire la base dell’alambicco poi, un po’ alla volta, ci bollirono le foglie che avevano raccolto. Quando l’acqua iniziò a bollire cominciò a mischiarsi con il succo delle foglie. Alla quarta mezza candela l’acqua aveva già cambiato colore, era già diventata blu e tendeva al verde. La pozione sarebbe stata pronta quando l’acqua fosse diventata tutta verde. Alla sesta mezza candela, quando anche il Trifoglio Rosso fu bollito, l’acqua verdognola iniziò ad emanare vapore. Il vapore e un po’ di condensa d’acqua salirono attraverso le curve dell’alambicco e finirono, tramite il beccuccio, nell’ampolla che avevano posizionato sotto. Dovevano soltanto far bollire un altro po’ l’acqua nell’ampolla e aspettare che evaporasse un attimo per mettergli il tappo. Quella era la parte più difficile e più pericolosa. Indossarono le maschere antigas per effettuare quell’operazione. Ci pensò Miguel: come Topisio gli disse di farlo, Miguel mise il tappo all’ampolla. I gas fuoriusciti dall’evaporazione salirono verso l’alto, fortunatamente non rimase niente nella tana. Uscirono direttamente dagli sfiatatoi senza stagnare all’interno.
A farne le spese per primo fu un serpente mangia-topi che li aveva individuati e che stava arrivando allora passando da sopra. Stava tentando di entrare da uno sfiatatoio. Appena infilata la testa per passare, la vampata dolciastra della Topolass gli entrò nelle narici.
Tra sé il serpente sibilò: « Che buon odore! Come ss-sono dolciass-stri quess-sti topini! Ora sss-scendo e me mi mangio. Asss-spettatemi, arrivo! »
Il serpente scivolò fin sotto, dove erano loro. Ebbe modo di vederli, si arrotolò su se stesso. Con gli occhi fissi e neri iniziò il suo rito di ipnosi verso i topini, che rimasero tutti immobilizzati. Anche i gatti rimasero pietrificati.
« Sss-salve! Sss-sono venuto a pranzo. Gradirò molto. »
Gli occhi del serpente iniziarono a dilatarsi. Ebbe uno scotolone su un tratto di pancia, vicino alla cloaca. Da fuori si sentì un rumore come se dentro la pancia del serpente stessero rotolando sassi e pezzi di vetro. Il serpente alzò giusto la testa da terra e disse, prima di scappare: « Sss-cuss-sate tanto, torno più tardi! Esss-sco un attimo. »
Il serpente scappò via dalla tana tra un peto e l’altro, che quasi lo rialzarono da terra. Da dentro, loro sentirono soltanto gridare: « Aiuto! » Il serpente aveva iniziato a cagare tutto quello che aveva e di più. Lo fece per tutto il giorno. Alla sera il suo corpo era sceso parecchio di volume, era diventato un
serpentello. Man mano che passava la notte, i sintomi gastrointestinali del serpente diminuirono, in compenso si presentarono quelli che poi sarebbero stati i peggiori: gli incubi e i deliri. Vedeva topi con denti forti e grossi che lo inseguivano e gli dicevano che se lo sarebbero mangiato. Nei suoi incubi non era più lui a mettere paura, si era capovolta la situazione, era lui che scappava e veniva inseguito per essere mangiato. Trovò un buco e ci si infilò, nessuno lo vide più per molto tempo.
Soddisfatti, i membri del gruppo si congratularono l’uno con l’altro. Ce l’avevano fatta, erano riusciti a creare un’ampolla piena di Topolass. Ora potevano pensare a tornare al castello e a trovare un sistema per farla bere a Cherry e ai suoi fidi. Se il piano riusciva, erano sicuri che Cherry non si sarebbe più fatto vedere da quelle parti. Topisio, aiutato da Miguel, si assicurò che la Topolass fosse tappata bene e consigliò ai suoi amici di abbandonare quella tana. Preferirono lasciare l’alambicco e tutto quello che era servito per la preparazione su quel tavolo, sarebbe stato troppo pericoloso continuare ad armeggiare con quella roba. Non valeva la pena di provare l’esperienza di assorbire la Topolass, non era stata creata per loro. Né tantomeno valeva la pena provarne gli effetti su loro stessi. Uscirono orgogliosi dalla tana della vecchia volpe e, prima di riprendere il cammino, si crogiolarono lì al sole. Misero la Topolass nello zaino, non l’avrebbero più portata Miguel e Carlos: l’aveva presa in consegna direttamente Heebum.
 
I due cuginetti scesero di nuovo dalla collina. Avevano dato retta al cane Bugsy, era stata troppo convincente. Raphaell sapeva bene fin dove arrivasse il fiuto di quel cane. Infatti dall’odore che aveva sentito, aveva percepito anche che l’aria era più cattiva del solito riguardo al fattore e al nipote. Raphaell e Penelope, scesi al pratone, si fermarono su una delle dune di terra e erba.
Arrivati sopra la duna, Penelope si affiancò a Raphaell e gli disse: « Ti devo molto, cugino. Grazie a te ora posso sedermi da sola. »
La forza nelle gambe era tale che la ragazza si accucciò e si sedette senza l’aiuto di nessuno. « Aaah, che bello! »
Raphaell con la forza della sua mente strappò uno stelo d’erba e lo presentò alla cugina. « Succhialo, è dolce. Mangeremo steli d’erba anche oggi. Sono buoni, no? »
« Dissetano anche! Però ora un sorso d’acqua, se me lo dai, lo prendo volentieri. »
Raphaell le fece lo stesso scherzetto: con la telecinesi sollevò la borraccia che teneva a tracollo, la svitò e la fece arrivare proprio davanti alle labbra di Penelope. La ragazzina agguantò con le mani la borraccia e diede due sorsi.
« Sei gentile, Raphaell. Quant’è buona l’acqua del ruscello! Sarà pure la stessa acqua che arriva a casa, ma bevuta dalla tua borraccia è ancora più buona. Mi pare più dolce, va’ giù liscia. »
« Bevine quanta ne vuoi, Penelope. Non ci vuole niente ad andare a riprenderla. Bevi, bevi. »
La ragazzina prese fiato e mandò giù altri due sorsi, poi passò la borraccia a Raphaell, che la rimise a tracolla. Si sdraiarono entrambi nell’erba a guardare in alto il cielo. Quel giorno era limpido, giusto in alto qualche velatura di bianco, piccole nuvole sfilacciate da un vento che non volava basso e che aveva pulito il cielo alla perfezione. Era profondo e trasparente, si poteva immaginare un ipotetico infinito.
« Sai, Raphaell, ora che sono sdraiata a rivedere il cielo, come ho sempre fatto perché amo farlo, ti dico un altro mio pensiero segreto. Ora, così come sono, vorrei fare un salto in quel profondo e tornare. Non sarebbe bellissimo? »
« Sì, sarebbe bello Penelope. Fino a dieci giorni fa ti avrei risposto che sarebbe stato ancora meglio saltare e non tornare. Oggi ti dico di no, ho ritrovato mio padre. »
« Sono contenta per te, Raphaell. Te lo meriti. »
I due ragazzini, tra una chiacchiera e altra, si addormentarono sull’erba, al sole. Li svegliò poco più tardi il padre di Raphaell: « Sveglia ragazzi, sveglia! Guardate che vi do. »
Il padre di Raphaell tirò fuori dal suo zaino una forma di formaggio fresco e con il suo coltello tagliò prima due fette dalla forma di formaggio e poi due fette dalla pagnotta, poi le passò a Raphaell.
« Tenete. Il nostro formaggio è buono come quello del fattore, se non di più! Raphaell, ho intenzione di comprare altre due pecore. Ingrandiamo il nostro gregge, così potremo fare il formaggio. Però a te chiedo di non fermarti con gli studi. »
« Non ti preoccupare, papà. Ci tengo troppo ai miei studi. Casomai, in seguitò diventerò un pastore con la laurea. A fine estate torno al collegio, vorrà dire che questa volta quando i ragazzini verranno a darmi noia farò conoscere loro chi sono. »
Scoppiarono in una risata generale. Il padre salutò i ragazzi e tornò di nuovo dove aveva lasciato il micro-gregge. Anche i ragazzini si alzarono, continuando a mangiare il formaggio e il pane e si allontanarono da lì. Lentamente iniziarono a dirigersi verso casa, avrebbero voluto andare a guardarsi un altro tramonto dalla porta del fienile.
Oscar, preso dai crampi della fame, uscì dal ponte levatoio. Camminò per un certo tempo sulla discesa che portava a valle, ma non riuscì a trovare nessuna tana, né di topi né di nessun altro animaletto. La fame lo attanagliava, non voleva tornare al piazzale del castello con quei crampi alla pancia. Lo spirito di sopravvivenza lo portò a spostarsi dalla strada per andare sull’erba. Sull’erba fece due o tre saliti da fermo, senza sapere il perché. Erano i crampi che lo guidavano. Dopo iniziò a scavare nel terreno alla ricerca di qualcosa. Man mano che scavava trovava qualche verme. Il primo lo schiacciò con la zampa, senza degnarlo di uno sguardo. Il secondo lo annusò. Quando il terzo mise fuori la testa da un buco, senza pensarci lo azzannò e lo mandò giù.
“Miaooo, mi sono ridotto a mangiare i vermi! Io, il re del castello! Che brutta fine che ho fatto, Manca soltanto che ora si presenti Heebum, magari diventato più forte di me.”
Rise sguaiato e dopo aver mangiato un altro verme ancora ritornò sui suoi passi. I vermi che aveva mangiato gli avevano sistemato temporaneamente i crampi alla pancia. Superbo come prima, cominciò a trotterellare, si affacciò alla riva del fossato senza però avvicinarsi più di tanto. Sapeva bene che per i lucci non ci sarebbe stata differenza tra testa e coda, per loro un morso qua o un morso là sarebbe stata la stessa cosa e lui avrebbe fatto una brutta fine. Quei grandi lucci non guardavano in faccia a nessuno, a loro non importava che lui fosse il re. E poi, ormai, questo importava a pochi o più. Rigoletto e gli altri due gatti se ne erano andati, erano rimasti lui e Tito. Era arrivato il momento di cambiare strategia, almeno lui doveva ritrovare fiducia in se stesso se voleva ricominciare a cacciare topi come era sua vera attitudine. Sarebbe stato umiliante chiedere al figlio Tito di fare il gioco di squadra, casomai per cacciare in due un topo. Non si sarebbe mai abbassato a così tanto, il suo ego glielo impediva. Decise di salire fino al piano della cucina. Non ci pensò minimamente ad andare a vedere dal buco cosa stesse facendo Girolamo, gli era bastata la botta della mattina. Cercò di arruffianarsi ai guardiani in cucina, con la speranza di rimediare qualcosa da mangiare. Entrò con passo felino e vide i due vecchietti di fronte al camino. Amilcare girava col mestolo il liquido nella pentola, Bastiano stava con la mano appoggiata al camino. Come lo videro, sorrisero.
Bastiano gli disse: « Cherry, proprio non ce la fai più…eh, gatto arancione? Ti manca poco. » Il vecchietto sogghignava con una risatella disegnata sulle labbra.
Cherry si avvicinò in cerca di qualche boccone avanzato e si avvicinò a Bastiano. Il vecchio non aspettava altro che il gatto si avvicinasse per dare una spintarella alla scopa poggiata accanto a lui. Il gatto, preso dalla fame che aveva in collo, non notò il manico in legno della scopa che stava cadendo addosso a lui.
« Miaooooo! »
Cherry dopo la botta della mattina, senza dover fare tanti sforzi ne beccò un’altra la sera stessa. Tutto rintronato scappò di nuovo nel piazzale. Andò da Tito: « Quei maledetti guardiani mi hanno preso alla sprovvista, mi hanno colpito con un bastone! Non ne posso più di questa vita Tito, devo fargliela pagare. E poi quei topi nella tana si burlano di me…ti rendi conto? Del re! Non è più vita questa. E anche tu mi hai deluso, non sei riuscito a trovare quel gatto nero, che sento sta architettando qualcosa contro di me. »
« Padre, hai paura? »
« Chi, io? Sono il re, non ho paura di nessuno! Figurati…io paura di un gatto nero. Non sia mai! Se tante volte proverà a tornare al castello, ci troverà pronti. Da domani inizieremo degli allenamenti di rafforzamento, andremo a correre e a rifarci un po’ i muscoli. Mi prenderò qualche giorno di riposo nel creare disturbo ai guardiani e a dare la caccia a quel topo nella tana. Prima o poi lo prenderò, non sarà di certo lui che farà del male a me. Sono io il gatto e lui è il topo, è lui che deve aver timore di me. E non solo perché sono il re. Gli avevo offerto una morte dignitosa. Non l’ha accettata quel topastro. »
« Sediamoci, Penelope. Vieni vicino a me, guarda il sole ormai com’è rosso. Tra poco il tramonto sarà finito. Mi hai fatto passare un’altra bellissima giornata. »
« Tu mi hai fatto passare una bellissima giornata! E quanto era buono il formaggio che ci ha dato tuo padre! »
« È vero, abbiamo solo tre pecore, ma fanno dell’ottimo latte anche perché l’erba del pratone è buona. »
« Ragazzi! Venite a casa, è ora di mangiare » li richiamò la mamma di Penelope.
I ragazzi si avviarono a casa di Penelope. Anche quella sera si lavarono prima di mettersi a sedere. Al tavolo quella sera c’era anche il padre di Raphaell, era il fratello del padre di Penelope. I genitori della ragazza avevano deciso che per la sera la mamma avrebbe fatto da mangiare per tutti, almeno finché non avessero riaperto le scuole. Mangiarono sereni, dopo aver scambiato qualche chiacchiera Raphaell e suo padre rientrarono a casa. Si fermarono a parlare un attimo, prima di andare a letto. Progettarono di ampliare il loro gregge con i soldi che il padre aveva messo da parte in quegli anni. Sicuramente dall’allevatore avrebbe potuto comprare altre quattro o cinque pecore.
« Raphaell, da domani per qualche giorno tu e Penelope mi dovrete aiutare. Ho intenzione di costruire un recinto qui vicino alla stalla. Non molto grande, faremo presto. Mi basterà anche che voi mi facciate compagnia. Giorno per giorno, ho già preparato gran parte dei pali che mi serviranno per crearlo. Voi mi guarderete mentre io eseguo il lavoro, così tua cugina starà all’aria aperta e farà movimento lo stesso, visto che starete in piedi a guardarmi e a giocare. Per domani le nostre pecore e Barbetta mangeranno l’erba tutta intorno alle nostre case. »
« Ottima idea, papà. Buonanotte. »
Il padre gli si avvicinò, lo abbracciò e lo strinse forte. « Buonanotte, Raphaell. »
Il ragazzino entrò nella sua stanza. Prima di andare a letto si affacciò alla finestra. Fuori, nel buio più totale, il cielo era pieno di stelle. Rimase affascinato, appoggiato al davanzale, a contemplarlo per un po’. Quando si infilò nel letto, stanco e contento, prese immediatamente sonno. Quella notte, in uno dei sogni che fece, rivide il conte che usciva dall’armadio, con la testa sotto il braccio. In effetti un po’ gli mancava, era una compagnia diversa. Strana, ma simpatica. Lui ci si era abituato subito alla presenza del conte appena arrivato. Ora non era più triste come in quei giorni, Raphaell aveva ritrovato la pace con il padre e aveva aiutato la cugina a rimettersi in piedi e la stava ancora aiutando a migliorare. Non che lei non fosse in grado di farlo da sola, ma a lui faceva estremamente piacere stare ogni giorno con la cuginetta, incitarla a raggiungere obiettivi più alti e diversi. Quella mattina avrebbero avuto da fare con suo padre. Di buon ora Raphaell andò a chiamare a casa sua cugina, fece colazione per la seconda volta in compagnia di Penelope, assaggiando di nuovo l’ennesimo fragrante dolce che la zia aveva fatto.
« Dove mi porti oggi, Raphaell? Andiamo a scoprire nuovi orizzonti? »
« Oggi, Penelope, dobbiamo lavorare. Faremo compagnia a mio padre che vuole costruire un nuovo piccolo recinto. Ha intenzione di acquistare nuove pecore, ingrandiremo il nostro gregge. Sai, vogliamo diventare produttori di formaggi a tutti gli effetti, ne abbiamo parlato ieri sera prima di andare a letto. Il pensare di vivere tutta la mia vita all’aria aperta mi allieta. »
« Ti capisco, Raphaell. Piacerebbe anche a me, però finita l’estate tornerò in collegio per continuare gli studi. »
« Quello anch’io, Penelope. Però ho giurato a me stesso che quest’anno nessuno di quei balordi con cui frequento il collegio mi darà più fastidio. Ho deciso di farmi sentire e non stare più a guardare, a subire e basta. »
« Mi raccomando abbi cura di te, non fare cose di cui potresti pentirti. »
« Spero di no. Anzi, spero proprio che quei ragazzi siano cresciuti e abbiano cambiato il loro modo di essere. Amo la pace. Ma ora andiamo, Penelope. Sei sempre così lenta! »
« Ma sono una donna! Dovrò pettinarmi i capelli. »
« Ho capito, allora vado ad avvisare mio padre che saremo con lui per oggi pomeriggio. »
« Ho fatto, ho fatto! Oggi non me li pettino, uscirò tutta arruffata. Però andiamo, non ho voglia di fare aspettare tanto lo zio. »
« Grazie, Penelope. »
I ragazzini uscirono da casa con il sole che era già alto, erano più delle nove. Il padre di Raphaell aveva già piantato un bel po’ di paletti. Aveva già costruito due lati del perimetro del nuovo recinto.
« Cosa possiamo fare per te, papà? »
« Raphaell, per prima cosa andate a fare un giro dietro le case e andate a vedere dove sono le nostre pecore con Barbetta e il cane. »
« Andiamo subito. Vieni Penelope. »
I due ragazzini fecero prima il giro della casa di Raphaell e non c’era animale vivo in giro. Si diressero dietro la casa di penelope e anche lì niente. Raphaell dopo un attimo di silenzio disse a sua cugina: « So dove sono. La mia cagnetta bavosa, sempre con tanta voglia di lavorare, le ha portate al pratone. Lo so. Andiamo a riprenderle, così beviamo anche un po’ di acqua. Riempiamo la borraccia, ce ne restiamo un po’ lì’ e poi torniamo. Intanto avviso mio padre. »
Raphaell corse da suo padre ad avvisarlo. Il padre diede il suo benestare, più che felice, e i due ragazzini si avviarono verso il pratone. L’estate ormai era piena, il caldo si faceva sentire.
« Guarda, mi sono attrezzata. Mi sono messa il costume. Tu ce l’hai? »
« Sì, l’ho messo anch’io » rispose Raphaell. « Allora oggi ci faremo un bel bagno. Ti aiuterò io, non temere. Non ti farò scivolare, non ti succederà nulla. » Raphaell condusse la cuginetta dove il ruscello
si allargava e dove la velocità dell’acqua diventava quasi inesistente. Era il punto ideale dove fare un bagno fresco.
« Vieni Penelope, vieni. È questo il posto. »
Si girò a guardarla, la cugina correva verso di lui. Gli brillarono gli occhi, in una settimana la cugina aveva anche riiniziato a correre. Era felicissimo, fece due passi verso di lei e l’abbracciò. Risero contenti. L’acqua era fredda, effettivamente, ma i due ragazzini non si spaventarono per niente. Il caldo che faceva fuori compensava perfettamente. I due ragazzini si spogliarono. Raphaell, come prima cosa, coi suoi poteri si tolse la borraccia da tracollo, la riempì d’acqua, la passò a Penelope che ne bevve un sorso.
« Aaah, buona! Niente è buono come l’acqua. »
« Hai ragione » confermò Raphaell.
Prese per mano sua cugina e lentamente la condusse nell’acqua del ruscello. La corrente era pochissima, l’acqua era quasi ferma. Arrivarono a immergersi fin sopra le gambe, con le mani si bagnarono i corpi. « Lasciati andare. Sdraiati nell’acqua, ti tengo io. »
Penelope, che ormai aveva piena fiducia nel cugino, si lasciò andare. L’acqua era fredda, ma era stupenda, tonificante. Raphaell aiutò la cugina a rimettersi in piedi e poi fece un bagno anche lui, vicino a lei. Rimasero lì per più di un quarto d’ora, quando l’acqua li fece uscire fredda com’era. Avevano già la pelle aggrinzita. Si misero a sedere sui ciottoli della riva del ruscello a riscaldarsi e a prendere il sole.
« Penelope, domani ti farò vedere una cosa ancora più bella. Ci alziamo presto, almeno un’ora prima di quando usciamo di solito, e poi ce ne andiamo vicino al castello dove c’è una piccola cascata. Sarà come farci una doccia all’aria aperta con dell’acqua pulitissima, cristallina e fresca. Porteremo con noi Bugsy. Ora andiamo a cercarli. Li sento, sono qui. »
Si rimisero i vestiti e si avviarono verso il pratone, che era a due passi ormai. Quando furono al centro della distesa d’erba verde, Raphaell con la forza della sua mente chiamò Bugsy.
Lei gli rispose subito: « Aspettaci al ruscello, porto io le pecore. Non dovevamo venire qui oggi, ma sai, il richiamo di quest’erba così buona le ha fatte rivenire qui e io sono venuta a controllarle. Sei al ruscello? Ti vedo. Arriviamo. »
Raphaell finì di mettersi le scarpe e sentì non molto lontano già i belati delle due pecore. « Bello il mio sbavone! Sei arrivato, con tutte le pecore e anche la mia Barbetta. Barbetta, fatti carezzare. »
La capretta gli si avvicinò e gli si strusciò alle gambe come fosse un gatto. « Ciao Raphaell! » lo salutò Barbetta e dopo lo fecero anche le pecore in coro.
Ce l’avevano fatta, avevano ritrovato il micro-gregge e ora, come aveva detto a suo padre, sarebbero rimasti al pascolo nel pratone e sarebbero rientrati nel pomeriggio. Per non sentirsi in colpa, visto che la strada non era molta, Raphaell decise di tornare ad avvisare suo padre definitivamente. Però, ripensandoci, non voleva lasciare sola Penelope lì al ruscello. Provò a fare una cosa che non aveva
mai fatto: provò a raggiungere suo padre con la forza del pensiero. Non ricevette nessuna risposta lì per lì. La ricevette nel momento i cui stavano per ripartire. Era la prima volta che suo padre gli rispondeva telepaticamente, non essendo abituato aveva portato un po’ di ritardo nella risposta. Risposta che fu affermativa: suo padre gli disse che potevano andare a far pascolare le pecore tranquillamente, che la mamma di Penelope avrebbe fatto per lui un panino per il pranzo e che quando fossero rientrati nel pomeriggio tardi avrebbero trovato il recinto pronto. Anzi, si raccomandò di collaudarlo con il loro piccolo gregge: quella sera non doveva fare entrare il gregge nella stalla ma doveva farlo entrare nel recinto, che sarebbe stata la loro nuova dimora. Lo aveva costruito per una decina di animali.
I ragazzini con il micro-gregge si allontanarono verso il pratone. Bugsy, al fianco di Raphaell, annusava l’aria. Quando il terreno iniziò a non essere più in piano, Bugsy disse a Raphaell: « Non sento alcun odore del fattore e di suo nipote. Facciamo iniziare il pascolo al gregge e poi saliamo fino alla rimessa, così farai assaggiare un pezzo di formaggio a Penelope. »
« Ottima idea, Bugsy. Vieni qui, sbavami un pochino addosso. »
Il cane si avvicinò tra le gambe di Raphaell e, contenta come sempre quando lui la coccolava, iniziò a scrollarsi. Gli sbavò addosso come le aveva richiesto scherzando. A lei non costava nulla, ne produceva in continuazione di bava, era la sua essenza.
« Ok, andiamo allora » disse Raphaell a Penelope e Bugsy.
I tre si avviarono verso la casetta e la rimessa. Quel giorno non c‘era effettivamente nessuno. Arrivati nel piazzaletto, ben curato e pieno di fiori, si diressero immediatamente verso la rimessa in legno. Entrarono senza far rumore. All’interno non c’era nessuno. Topinto era da giorni che non entrava nella rimessa, aveva rischiato più di una volta di finire su una trappola. Come gli accadeva di rischiare la vita, si prendeva qualche giorno di pausa e se ne andava nella tana vicina al ruscello a ricaricarsi. Il profumo di formaggio era inebriante. Si percepiva la bravura del fattore nel fare formaggi. I ragazzini non persero tempo, ne assaggiarono subito un pezzetto di un tipo e un pezzetto di un altro. Non esagerarono, non erano lì né per rubare né per fare danno. Avevano soltanto mangiato un pezzetto di formaggio.
« Perfetto Bugsy, andiamocene. »
« Sono d’accordo con te, capo. »
I due ragazzi e il cane uscirono dalla rimessa. Bugsy consigliò di passare dalla parte più interna del boschetto, dove iniziava il fosso. Non voleva rischiare, era andato tutto liscio, i ragazzi avevano assaggiato i formaggi e non si voleva trovare davanti il fattore e il nipote che risalivano per tornare a casa. Costeggiarono il fosso, che d’inverno diventava quasi un fiume. L’esperienza fu piacevole anche per Penelope, le sembrò più un’avventura che un rientro a casa. Infatti doveva stare attenta a non scivolare, nella discesa spesso trovarono tratti in cui il muschio era così tanto che camminarci sopra era pericoloso. Dovevano stare molto attenti. Lei comunque si sentiva sempre più forte e più sicura. E quel bagno rinfrescante e tonificante di poco prima le aveva fatto benissimo.
Il serpente, in uno degli incubi notturni dove si vedeva spinto alla sua fine dai topi giganti, preso dalla paura annodò la coda e rimase prigioniero dentro la sua stessa tana. In preda agli incubi. Fortuna sua, i serpenti possono stare mesi senza mangiare. Ci mise parecchio tempo a risciogliere la coda.
I cinque ripresero lo stradello usciti dalla tana. Si erano riposati abbastanza. Il castello era sempre più vicino, ma non avevano bisogno di correre. Andavano piano perché intanto dovevano riflettere. Si fermarono nei pressi della cascatella. Lì c’era il terreno ideale per cercare vermiciattoli e larve. Decisero di mangiare. Heebum e Tara si allontanarono non molto dai topi e lui si mise a raspare il terreno, che era morbido. Si rialzò e in poco trovò parecchie larve, oltre a qualche vermiciattolo, ottimi per lui e Tara. Anche Miguel, Carlos e Topisio provarono ad assaggiare le larve più piccole. Gli piacquero. Quel giorno mangiarono tutti lo stesso cibo.
Heebum  si sentì chiamare: era Rigoletto, che dopo aver corso per giorni si era fermato anche lui alla cascatella. « Finalmente ci rivediamo. »
« Dimmi tutto, Rigoletto. Ti fa ancora male la testa? »
« No, la tua è stata una lezione molto importante. Mi ha fatto capire, miao! Dolore fisico non ne ho, è che dopo aver donato tempo della mia vita e la mia fedeltà a quell’ingrato di Cherry mi hanno cacciato. Sono un gatto obbligato all’esilio, non mi devo far più vedere al castello. Pena, la mia morte. Tutti i gatti della banda non ce la fanno più a sopportare quel superbo, arrogante di un dittatore. Tutti sperano di rivederti al più presto. »
« Immagino anche Cherry. »
« Il dittatore minimizza, dice che non tornerai più e che non ha assolutamente paura di un gatto nero. Ma leggendogli tra le righe, invece si denota una grande paura del tuo ritorno. E non so se ne ha più lui o più suo figlio. Sai Heebum, ho sentito anche i guardiani parlare tra di loro. Gli manchi, a loro faceva piacere vederti nel castello, passeggiare sulle mura, andare a trovarli in cucina senza mai disturbare più di tanto. Ti conquistavano con due carezze e quando mangiavi gli avanzi non sporcavi mai. Hanno solo buoni ricordi di te, non vedono l’ora che tu faccia ritorno. E così anche per tutti gli altri gatti, Heebum. Abbiamo bisogno che tu ritorni, sei l’unico che può tener testa a quel gatto arancione brutto e cattivo. Siamo sicuri che con te al castello ritornerebbe la pace che non esiste più. »
« Rigoletto, cercherò di fare del mio meglio. Sto studiando un piano per fare ritorno. Poi, prendo spunto anche dai miei consiglieri. »
Rigoletto rimase per un attimo sbalordito nel vedere quei topi ancora al suo fianco e gli chiese: « I tuoi consiglieri sono sempre topi? »
« Sì Rigoletto, sono loro. Quelli che ti volevi mangiare e il grande Topisio, farmacista e noto chimico nell’ambiente dei topi. »
« Scusa, Heebum, ma tu di cosa ti cibi? Vai a caccia di uccelletti? »
« No, Rigoletto. Dalla mia amica Tara ho imparato che non per forza bisogna sempre cacciare. Basta saper scavare. È già da un po’ che mi sono abituato e devo dire che mi trovo molto bene con una dieta a base di larve e vermiciattoli. Sono saporite e nutrono alla perfezione. Guarda il mio pelo! »
Rigoletto lo guardò e dopo aver pensato un attimo esclamò: « Cavoli, hai ragione! Hai un pelo nero molto lucido. Si intona bene coi tuoi occhi gialli, si vede che sei in forma. »
« Non direi che per te sia la stessa cosa » gli rispose Heebum.
Rigoletto aveva il pelo opaco, l’occhio spento e solo un pezzettino di coda, che teneva teso orizzontalmente al corpo. « È vero, Heebum. Sono giorni che non mangio e mi sento parecchio depresso. Non riesco a dormire mai. Sono felice di averti incontrato di nuovo e in pace. Insegnami, fammi vedere la tua dieta. È possibile? » chiese Rigoletto sincero.
« Guarda, basta che vieni qui Rigoletto. Anzi, guarda cosa ti offro. » Rigoletto si avvicinò e Heebum tirò fuori dal terreno una larva bella grassa e la offrì a Rigoletto. « Tieni, assaggiala. È buona, senti che sapore. »
Rigoletto la mangiò e disse: « Mmmh, buona! Hai ragione, Heebum. Posso prenderne ancora? »
« Sì, resta a pranzo con noi. Fatti da una parte, scava e quello che trovi è tuo. Imparerai che non serve dover per forza andare continuamente a caccia per cibarsi e stare bene. In un ambiente grande come la collina potremmo vivere tutti in pace, topi, gatti e tutti gli altri. Ci sono tante altre possibilità, questa è una. E poi ricordati, Rigoletto, l’importante è stare bene con se stessi. Non credere, anch’io ci ho messo un po’ a ritrovarmi. Grazie a quel gatto arancione avevo perso la mia dignità. Grazie al Gattun l’ho ritrovata. Sono più forte adesso, mi sento molto più sicuro di me e guardo la vita con altri occhi. So di essere importante, come lo sei tu del resto. Devi solo scoprirlo. »
« Grazie Heebum, grazie! Mi hai illuminato. Posso rimanere un po’ di tempo con voi? Giuro che non toccherò assolutamente i tuoi amici topi. Farò in modo che diventino anche miei amici, che ne pensi? »
« Penso che sia possibile. Sì, rientrerai al castello con noi. Presentati agli altri e fallo in modo da non mettergli paura, fai che si possano fidare di te. »
Rigoletto con tranquillità si presentò davanti ai topi e fece capire loro che non li avrebbe mangiati. « Tranquillo, gatto grigio » gli disse Topisio, « a noi basta sapere che sei amico del capo. I suoi amici sono anche i nostri. »
Rimasero lì per quasi tutto il primo pomeriggio. Fu Topisio che, prima che iniziasse il tramonto, ricordò a Heebum che prima di lasciare definitivamente la tana della volpe avrebbe voluto sintetizzare la Topolass e produrne un po’ anche in polvere.
« In effetti, Topisio, non abbiamo tutta questa fretta. Ormai ci siamo. Torniamo indietro e creiamo anche un po’ d Topolass in polvere, avremo più armi a nostra disposizione. »
Tutti, compreso Rigoletto, fecero ritorno alla tana della vecchia Volpe. Si fermarono nella tana, i topi più all’interno mentre i tre gatti rimasero vicino all’uscita. Heebum, fianco a fianco a Tara, e Rigoletto, al lato sinistro di Heebum, con i corpi nella tana e le teste che guardavano fuori. Goderono di un tramonto prima e di una notte di luna piena dopo. Rigoletto, non più nel castello, aveva perso immediatamente tutto lo stress. Incredibilmente accanto a Heebum riuscì a dormire per tutta la notte senza avere incubi né scatti nervosi.
Cherry quella notte, in compagnia di Tito, si aggirò sulle mura del castello. Insieme guardarono all’orizzonte se ci fosse qualcosa di strano. Tutto era tranquillo.
« Tito, siamo rimasti soli…cosa vogliamo fare? Vogliamo provare a veder di buttare giù qualche armatura? Quella grande sul cavallo, che è vicina alle scale, se la fortuna ci venisse incontro potrebbe rotolare giù e arrivare fino in fondo. Farebbe un baccano tale che arriverebbe fino a valle. E tuo padre si riprenderebbe la rivincita su quei guardiani e sugli altri maledetti gatti che l’hanno tradito .»
« Ok, padre. Vado in perlustrazione, non te ne andare, aspettami qui. Vedrò se sarà possibile attaccare le armature e farle cadere .»
Tito sparì per qualche minuto e ritornò dopo un po’ davanti a Cherry, saltellante. « Ho controllato. Se ci fosse stato Rigoletto o un altro gatto sarebbe stato ancor più facile, ma penso che ce la potremmo fare anche da soli. Non prendiamo la solita rincorsa a sfiorare le armature, non ci interessa. Spingeremo il cavallo di ferro verso le scale e poi lo butteremo giù. Niente di più facile, è sicuro che questa volta saremo noi a gioire e a saltare nel loro letto saranno i due balordi. Quando sei pronto, possiamo andare. Non ho visto nessun tipo di grasso per terra e tutto mi sembra pronto per essere attaccato. »
Quatti tornarono indietro, verso il portone che gli permetteva di rientrare al piano superiore del castello. Rasentarono beffardi le armature, fino ad arrivare alla più grande, quella a cavallo. Era un grande pezzo di ferro, se fossero riusciti nel loro intento come credevano avrebbero creato un macello infernale. Si misero entrambi a spingere il cavallo in ferro dalle zampe anteriori. In realtà non erano poi dei gatti così furbi. Non fecero assolutamente caso al fatto che in due fossero riusciti a spostare così facilmente un’armatura tanto grande. In realtà in grasso c’era ancora. Presi dalla loro foga, con gli artigli riuscirono ad aderire al terreno. Il problema fu che l’armatura a cavallo, grande e grossa, scivolando sul grasso non creava alcun attrito. Quando si resero conto della loro ennesima cavolata ormai era troppo tardi. La spinsero fino il ciglio delle scale e lì presero consapevolezza del danno che avevano fatto a se stessi. L’armatura rimase per un secondo in bilico, in un equilibrio precario. Bastò il respiro affaticato del gatto più vicino a farla precipitare. La sfiga volle che nel precipitare gli artigli delle loro zampe non facevano più presa sul pavimento e schizzarono entrambi davanti alla pesante armatura, che rovinò per le scale appena a mezzo metro dietro di loro. Atterrarono per primi all’angolo del pianerottolo e l’armatura, con un sinistro venticello gli piombò addosso. Ancora oggi si posso vedere nitide le due stampe dei gatti sciagurati, con su impresse l’ultima smorfia di paura e dolore. Rimasero appiccicati a quel muro per tutta la notte in uno stato
 
simile al coma. La mattina presto scivolarono di nuovo sul pavimento, distaccandosi finalmente dal muro. Il primo a vederli fu Amilcare, mentre saliva le scale per andare al piano di sopra a spengere le torce come faceva tutte le mattine.
Il vecchietto scavalcò lentamente le zampe posteriori del cavallo in ferro e disse: « Ma guarda un po’ chi si vede. Cherry e il suo figlio prediletto! Vi vedo bene, immagino stanotte avrete fatto un buon lavoro. È pesante l’armatura? »
Si levò un flebile miagolio e poi più niente. I due gatti erano di nuovo svenuti. Quando si ripresero, barcollanti ridiscesero dal pianerottolo. Ebbero un brivido di paura quando, arrivati al piano della cucina, videro la tana di Girolamo in lontananza. Cherry non ci pensò minimamente ad avvicinarsi a quel buco, tremante fece segno con la testa a Tito di continuare. Quella non era proprio giornata. Non maledì nessuno. Scesero fino a sotto il carro, per riprendersi e leccarsi le ferite. Stava diventando sempre più difficile disturbare i guardiani. Se ne rese conto anche Cherry, ogni suo tentativo di disturbo diventava un boomerang che gli si ritorceva contro arrecandogli ogni volta dolore e umiliazioni.
La mattina presto Heebum invitò la sua compagna e amica Tara a fare un giretto a respirare un po’ di aria fresca, mentre aspettavano che tutti gli altri si svegliassero. Camminarono per poco. Col fine udito da gatto, sentirono non molto distante il sibilo del serpente che per primo aveva annusato e provato gli effetti della Topolass di ultima generazione. Sentivano i suoi lamenti provenire da un buco che stava dietro una roccia alla loro sinistra. Era un lamento veramente debole, evidentemente quel povero serpente stava davvero malissimo. Lo capivano dalle poche e flebili “Ssss” che emetteva.
Gli sentivano soltanto ripetere in continuazione: « Sss-scioglietemi il nodo! Sss-scioglietemi il nodo vi prego! »
Il serpente, durante le allucinazioni e gli incubi causati dalla Topolass nella notte, si era legato la coda da solo e non riusciva neanche a uscire più dal buco. Stava dimagrendo a vista d’occhio. Se avesse perso un altro po’ di volume, sarebbe uscito con tutto il nodo. Sicuramente, sarebbe stato un serpente diverso, uno che la lezione l’aveva capita sicuramente. Quel serpente, una volta ripresosi, non sarebbe più andato a caccia di topi. La botta ricevuta era bastata a fargli cambiare filosofia di vita, aveva iniziato a vedere il mondo in maniera diversa. Nel suo futuro riusciva a vedersi mangiare solo frutta e bere acqua. Ogni volta che ripensava al sapore della carne, anche solo per sbaglio, lo assalivano conati di vomito, vertigini e gli incubi riprendevano più orrendi di prima. Solo quando si concentrava a cancellare ogni pensiero di vendetta o cattiveria, la Topolass allentava la presa e il serpente trovava un minimo di sollievo. Decise che una volta uscito da quel buco, se mai ce l’avesse fatta, si sarebbe trasferito in un frutteto e lì avrebbe creato la sua nuova dimora.
Girolamo quella mattina si era potuto permettere di fare un salto in cucina a recuperare del cibo, nei corridoi non vi era odore malsano di gatti. Lui e i suoi andarono in cucina, raccolsero gli avanzi che trovarono: un osso di pollo con ancora della carne attaccata, una patata lessa, diverse foglie d’insalata e le solite due mele. Avevano iniziato a pensare che i guardiani le lasciassero lì apposta per loro. In fin dei conti tra loro e i guardiani vi era una tacita convivenza. Da quando non c’erano più i conti, quella famiglia allargata di topi aveva capito che i nemici non erano i guardiani, con loro bastava non sporcare, essere puliti. L’ambiente era talmente grande che ognuno poteva vivere la sua vita senza disturbarsi l’un l’altro. Quella mattina si erano spinti anche fin sopra le mura. I più piccoli aiutarono Girolamo a salire tra le merlature che si affacciavano sul piazzale esterno. Girolamo si rese conto che i suoi acerrimi nemici, Cherry e Tito, erano ancora al tappeto sotto il carro abbandonato. Riusciva a vedere nitidamente le loro code arancioni. Quella di Cherryr era tesa come un fuso e ciò stava a significare che il gatto era in preda a una crisi nervosa colossale. Da lì non scorgeva le orecchie del gatto, ma sapeva che si stavano muovendo alternate avanti e indietro. Girolamo rimase lì per poco poi, in piena tranquillità, rientrò nella tana con i suoi familiari. A differenza di Cherry, la vita per loro stava diventando sempre più rosea.
« Miaooooo, per tutti i gatti che fanno miao! Mi stanno uccidendo. Sono io il re, lo volete capire? » urlava Cherry da sotto il carro con la voce tremante.
Poi si sdraiò di nuovo. Tito non stava messo meglio di lui. La notte prima si erano giocati altre tre vite, con le due che si erano bruciati in precedenza, ne rimanevano solo due. Era giunta l’ora di agire con le zampe di piombo e soltanto se l’impresa ne valeva la pena. Rimasero tutto il giorno a riprendersi sotto quel carro che ormai era diventato la loro casa.
 
Raphaell si svegliò col sorriso, senza sapere il perché. Sbadigliò e si stirò ben bene prima di scendere dal letto, le sue giovani ossa scrocchiarono ritornando perfettamente mobili. Ancora insonnolito andò ad aprire la finestra. Si sentiva allegro. Sbadigliò di nuovo al giorno che si era acceso con un sole stupendo. Allargò le braccia all’insù, verso l’aria aperta, si tolse la maglietta a maniche corte del pigiama e andò subito nel bagno a prepararsi per uscire. Fece la doccia dirigendo come un maestro d’orchestra la spugna e i saponi con cui si lavava. Effettivamente, quando si lavava sembrava che quegli attrezzi ballassero magicamente intorno a lui e lo pulissero. Si sciacquò ben bene e, ormai sveglio, uscì dalla doccia. Quell’accenno di sorriso sulle labbra non lo mollava, era tornata davvero la serenità su quel ragazzino. Approfittò dei suoi poteri anche per pulire la sua camera. In poco, in un altro ballo scopa, spazzolone e panno per spolverare, fluttuando nell’aria, avevano pulito la stanza. C’erano rimasti, dentro quella camera, soltanto lui e il profumo dell’estate. Uscì e si recò nel soggiorno, dove al tavolo seduto a capotavola di spalle c’era il padre.
« Buon giorno papà, come hai dormito? »
« Meglio non potevo. Raphaell, siediti. Ti devo parlare. Il recinto l’ho terminato, poi ieri pomeriggio, prima del tramonto, mi sono ricordato una cosa importante che il mio malessere, durato fino a qualche giorno fa, aveva cancellato in me. Ieri ho visto l’immagine di te, di quando da piccolo ti
portavo a passeggio sul cavallo di un amico e di quanto eri bravo. Non ho resistito, mi sono alzato presto stamani e con la bicicletta ho fatto un salto alla fattoria di quel mio amico. Dopo che avrai fatto colazione insieme a tua cugina, fai un salto nella stalla. C’è una sorpresa per te. »
Raphaell uscì saltellando dalla porta e a corsetta arrivò all’altra parte del piazzale, dove si trovava la casa di sua cugina. Bussò alla porta, Penelope gli aprì.
« Buongiorno, cuginetto. Sei arrivato presto. Bene, faremo un’altra colazione insieme. Mia madre ha preparato una crostata di pesche buonissima, si può inzuppare anche nel latte fresco che ci ha portato tuo padre poco fa proprio per farci fare colazione. A casa non è mica come in collegio, qui cugino mio si ingrassa. Ma entra, non rimanere lì sulla porta. »
Raphaell dopo la testa, entrò con tutto il corpo. Anche sua cugina era già pronta, aveva fatto le sue cose in bagno, così si sederono e iniziarono a fare colazione. La zia tagliò per loro due belle fette di crostata. Raphaell, fidandosi di quello che aveva detto Penelope, ne inzuppò un pezzetto nel latte e si rese conto di quanto fosse buona. La mangiò tutta così: inzuppandone un pezzo e dandoci subito dopo un morso, prima che si ammorbidisse troppo. La cugina fece la stessa cosa. Mangiarono due pezzi di crostata per uno e bevvero anche due tazze di latte a testa. La madre di Penelope li guardava dalla cucina e sorrideva. Era felice di vedere sua figlia nuovamente in piedi e piena di energia e voglia di vivere.
« Penelope, prima di andare a fare le nostre cose , dobbiamo fare un salto alla stalla. Non so cosa abbia escogitato per me mio padre, ma mi ha detto che c’è una sorpresa che mi aspetta. Non voglio assolutamente rimandare questo appuntamento, passiamo prima dalla stalla e poi partiamo per la nostra gita. »
Finito di fare colazione i due cuginetti, ormai affiatatissimi, uscirono saltellanti di casa e si avviarono verso la stalla della casa di Raphaell. Raphaell sulla porta della stalla rimase per un attimo senza fiato, appoggiato sulla testa al muro c’era un cavallo nero, dal pelo lucido, non tanto corto e con un folto pelo sulle zampe poco sopra lo zoccolo. Non era certo un cavallo da corsa. Lentamente, visto che non li conosceva, lui e Penelope passarono dietro al cavallo e si presentarono alla sua destra, fino ad arrivargli vicino al muso. Lo accarezzarono uno alla volta, il cavallo non fece una piega. Con i suoi languidi occhi neri guardava la parete davanti a lui a cinque centimetri. Nitrì leggermente, fu quasi come un brontolio. Telepaticamente, senza perder tempo, Raphaell si presentò.
« Mi chiamo Raphaell, bel cavallo. »
« A me tutti mi chiamano Valentino » rispose il cavallo. « Sono il regalo del tuo compleanno. » Infatti, solo due giorni prima, Raphaell aveva compiuto i dodici anni. « Sei contento di avermi qui? Dovrai pensare a procurarmi da mangiare, pulire il posto dove sto e ti avverto che io mangio molto e faccio parecchia cacca. Ma sono sicuro che diventeremo amici. » E nitrì.
Il cavallo aveva già la cavezza, con cui era arrivato dalla fattoria dove il padre di Raphaell lo aveva preso. Raphaell, con la mano alla cavezza, tirò il cavallo verso l’uscita della stalla. E telepaticamente, piano, gli disse: « Quella è mia cugina, ci devi stare sempre attento. È stata malata, dobbiamo trattarla sempre bene. Mi raccomando. »
Il cavallo gli rispose: « Non ti preoccupare, so come si trattano le femmine. Un passo un pochino più lento, un trotto senza sballottamenti. Poi il mio galoppo è quello che è. Mi sono dovuto abituare a diventare un cavallo da sella, ma in realtà io sono un cavallo da lavoro. Sono abituato alle fatiche, tu sapessi quanti carri in salita ho portato io prima che mi scoprissero come cavallo da sella! Penso che il mio fisico possente parli per me. »
« Certo, lo vedo, sei tutto un muscolo. Che ne pensi, Valentino, se vieni con me al pratone? Ora portiamo il nostro micro-gregge al pascolo. Dimmi che mi posso fidare a portarti con la cavezza e che non scappi da nessuna parte. »
« Fidati » rispose il cavallo annuendo con la testa.
Era molto bello vedere la criniera folta del cavallo che, quando muoveva la testa, svolazzava su e giù. Valentino era davvero un cavallo di bell’aspetto e così su due piedi sembrava avesse anche un buon carattere. Poi era il suo cavallo, avrebbe avuto tanto tempo per conoscerlo. L’inizio era stato promettente. I due ragazzini e il cavallo uscirono dalla stalla. Con quel passo lento si avviarono come facevano tutti i giorni da un po’ di tempo verso il pratone. Passarono al ruscello a riempire la borraccia. Fecero bere il cavallo, che ne approfittò e si riempì ben bene d’acqua. Con quella bevuta ci avrebbe fatto tutto il giorno, parole sue, era abituato a bere grandi quantità una volta al giorno.
« Raphaell, già che ci sono se a voi no dispiace io darei una rinfrescata anche alle mie zampe e al mio corpo. Vado !»
« Mi raccomando, torna Valentino. Non sparire. »
« Ti puoi fidare ragazzino, se volevo da ieri sera sarei potuto scappare almeno tre o quattro volte. Mi stai simpatico e mi sembri proprio un bravo ragazzo, tranquillo. Mi rinfresco e sono da voi. »
Il cavallo libero entrò nell’acqua fino alla pancia prima che gli zoccoli gli si staccassero dal fondo fatto di ciottoli più meno grandi. Rimase nell’acqua per qualche minuto a rinfrescarsi. Poi lentamente uscì. Tornò alla riva, dove erano rimasti Penelope e Raphaell, fermi a guardare i movimenti del cavallo. Era la prima volta che uscivano e tutti controllavano tutti. Fiduciosi, ma attenti.
« Ora possiamo andare al pratone » disse a voce alta il ragazzino.
Il cavallo gli andò vicino: « Raphaell, dove stiamo andando c’è della buona erba? »
« Buonissima, scherzi? Ci porto tutti i giorni il mio gregge, che poi ti farò conoscere. Ho tre pecore, una capra e un cane, il mio Bugsy, grande sbavatore e cacciatrice di gatti. Non li sopporta proprio, stai pur certo che dove c’è il mio Bugsy gatti non ce ne sono, scappano come sentono il suo odore e prima di assaggiare i suoi denti. È formidabile, è un Bull Dog e si comporta come un vero cane da pastore. Comunque oggi pensiamo a noi, conosciamoci meglio. Raccontami di te, cavallo nero. »
« Ti posso solo dire che ho sempre lavorato e mi sono sempre trovato bene con i miei padroni. Ho sette anni e sono un cavallo da tiro convertito per errore a cavallo da sella. Nel cambiamento ci ho trovato passione e mi sono abituato a portare le persone. È uno scherzo rispetto a trainare i pesi. Poi con la mia mole per me voi uomini siete leggeri, anche quelli più pesanti. Insomma, Raphaell, pensavo di andare in peggio quando mi misero per la prima volta una sella. Oggi mi reputo un cavallo
davvero fortunato e ora ho conosciuto anche te. Io di bambini sulla mia groppa ne ho portati tanti. E tutti sono sempre rimasti contenti. Tu ce l’hai una sella comoda e morbida? »
« Io, Valentino, non credo di avere una sella. Quando torneremo nel pomeriggio o domani butterò all’aria tutto il magazzino dove ci sono tutte le cose che non si usano e vedrò. Altrimenti? »
« Se non hai una sella sarò lieto di farti montare su di me a pelo, con i tuoi calzoncini e basta. Monterai a pelo, come dicono in gergo » e il cavallo ci rise su. « È anche più bello all’antica, come facevano gli indiani. A me piace. Quando proverai mi saprai dire. Sono morbido io. Hai ragione Raphaell, quest’erba è davvero ottima. Io inizio a mangiare. »
« Ne puoi mangiare quanta ne vuoi è tutta per voi erbivori. Io lo porto sempre qui il mio gregge, un po’ più in alto o un po’ più in basso, ma sempre qui. È un’erba garantita. Le mie pecore producono un latte e un formaggio che sono buonissimi. Te li farò assaggiare. A te piace il formaggio? »
« Diciamo che non ci vado matto, ma un pezzettino lo assaggio per sentire quanto è buono. Non penso mi faccia male. Caso mai un pezzetto arrotolato in un bel ciuffo d’erba fresca. »
« Affare fatto, domani ti farò assaggiare un pezzetto imbottito dentro un ciuffetto d’erba fresca, come vuoi tu » gli rispose il ragazzino soddisfatto.
I due cugini e il cavallo passarono una giornata stupenda al pratone, in quel disteso mare d’erba verde.
 
Heebum e Tara si riavvicinarono alla tana dove avevano creato la Topolass e riposato. I tre topi, che erano rimasti alla tana, erano tutti saltellanti e contenti. Topisio più degli altri, aveva ancora sul muso la maschera antigas. La tirò sopra gli occhi e disse concitato e felice: « Non entrate! Ci sono riuscito, ora abbiamo anche un sacchetto di polvere di Topolass. È un’esperienza bellissima. »
Tara gli si avvicinò e gli raccontò di essere passati davanti al buco dove si era andato a nascondere il serpente che aveva respirato la Topolass. Avevano sentito, da dentro il buco, la voce del serpente giurare a se stesso che se fosse riuscito a sciogliere il nodo della cola allora avrebbe cambiato vita e si sarebbe spostato in un frutteto, convertito alla frutta e all’acqua. Della carne non ne voleva sapere più niente, tantomeno quella dei topi.
Topisio a quelle parole fece due salti, girando su se stesso e mentre era in aria chiamò all’attenzione Miguel e Carlos. Come rimise le zampe a terra chiese a Tara se l’accompagnava al buco dove si trovava il serpente.
« Accompagnarti non è un problema. Che cosa hai in mente, Topisio? »
« Niente di che Tara, voglio solamente andare a conoscere il serpente, se possibile vorrei aiutarlo. So quali sono gli effetti della Topolass. Non avere timore, quel serpente mangia-topi a noi non farà più nulla. »
« Ok, Topisio. Seguitemi. »
I topi, dietro Tara e Heebum, furono accompagnati al buco da dove usciva il flebile e continuo lamento del serpente. Topisio in prima fila, seguito dagli altri due, si avvicinò. Insieme entrarono nel buco. Strisciarono per pochi centimetri, fino a quando il buco più sotto si allargò e poterono rialzarsi e camminare di nuovo. Entrava un unico raggio di sole, che illuminava l’ambiente. In fondo, dove il buco si allargava ancora di più, c’era il serpente tutto teso, come la corda di un violino, e la coda annodata. Non faceva nessun movimento, annusava l’aria con la lingua e continuava a ripetere in continuazione quanto riferito da Tara. Li vide e trasalì.
« Ancora topi! Non mi fate del male! » sibilò flebile. « Sss-sono un sss-serpente mangia-frutta. Aiutatemi, vi prego! Non uccidetemi! »
Topisio, resosi conto che il serpente non avrebbe potuto fare loro nulla, si avvicinò con gli altri.
Chiese al serpente: « Tu hai un nome? Come ti chiami? »
« Sss-Sirio. Liberatemi, per favore. »
« Ti aiuteremo. » Mentre lo diceva tirò sul muso la maschera antigas, ricoprendosi. Altrettanto fecero gli altri due topi. « Appena sarai libero, esci e vattene, Sirio. Altrimenti spruzzerò altra Topolass in polvere qui, nel tuo buco. Sono armato. »
Il serpente a quelle parole iniziò a tremare come una foglia. Topisio e gli altri due si avvicinarono alla coda del serpente per cercare di scioglierla. Rimasero stupiti: il forte tremore che aveva pervaso il corpo del serpente aveva fatto sì che il nodo si sciogliesse da solo. Sirio, a quel punto libero, si voltò a guardare i topi e con il corpo già in movimento disse: « Sss-saluti! Ci vediamo, io vado. Non sss-so a quanto disss-sti da qui il primo frutteto. Sss-state bene, grazie per avermi liberato! »
In realtà i topi non avevano fatto nulla. Videro il serpente uscire dal buco e allontanarsi nell’erba alta verso valle. Ora avevano tutto: la Topolass liquida era pronta e c’era anche un sacchetto della stessa sostanza in polvere. Il loro arsenale era pronto. Potevano veramente pensare di fare ritorno al castello. Con una spolverata di soffietto avrebbero potuto contaminare tre, quattro gatti insieme. L’importante per loro era tenersi sempre sottovento e a quello ci avrebbe dovuto pensare Heebum. Era stato eletto capo della banda e coordinatore proprio perché era il più esperto di tutti nella conoscenza del vento, riusciva a sentire anche i minimi spostamenti d’aria. Se avessero attaccato con il soffietto, sarebbe stato importantissimo sapere da dove veniva l’aria, per non trovarsi mai davanti alla spruzzata o si sarebbero intossicati.
Cherry, spaparanzato sul carro al sole, si era ridotto a cacciare scarafaggi introno al piazzale e Tito, suo figlio, lo seguiva. Aveva passato tutta la mattinata con suo figlio a ricordargli quanto era stato grande e come aveva fatto per diventarlo. Si lodava, si lodava, nutriva la sua boria. Aveva stancato anche Tito.
« Padre, ricordati però che non esisti solo tu su questa terra. »
Cherry gli rispose: « Capirai quando sarai più grande. » E si allontanò in cerca di altri scarafaggi. Mentre annusava gli angoli del piazzale alzò il muso al cielo. « Mia-aaaaah! » Vide Girolamo che lo guardava da una merlatura delle mura che si affacciavano sul piazzale. « Come ti permetti, topo maledetto? Ora vengo su e ti acchiappo! »
Cherry scattò talmente veloce che lasciò l’impronta dei cuscinetti delle zampe sul terreno. Salì le scale otto gradini alla volta, in un lampo fu sulle mura. Rimase come un fesso quando si rese conto che quello che aveva visto era stata solo una sua allucinazione. Sulla merlatura non c’era niente. Per essere ancora più sicuro si avvicinò alla merlatura dove, da sotto, gli era parso di vedere Girolamo. Annusò più volte quel punto, sicuro che Girolamo si era affacciato da lì e avesse lasciato l’impronta del suo odore. Aspirò più volte ma riconobbe soltanto un vecchio odore di piccione. Rabbrividì, forse stava diventando pazzo. Mogio e lento tornò indietro. Passando davanti alla cucina e alla tana del topo, diede un miagolio nervoso e niente più. Non ebbe la forza e il coraggio di presentarsi davanti al buco, tanto si sarebbe fatto soltanto prendere un’altra volta in giro da quel topo. Tutto gli si stava rivoltando contro. Prese e scese di nuovo nel piazzale. Andò dalla parte opposta dove stava Tito, si sentiva umiliato.
“Miao, per tutti i gatti che fanno miao! Tra un po’ sarò re senza regno, devo concentrarmi. Sono il migliore, questo è solo un momento. Non devo guardare quello che appare davanti ai miei occhi. Sono stressatissimo, mi sono ridotto a mangiare scarafaggi…che non sono neanche male. Ma non è certo il mio declino, è quel furbastro di un topo che si sta prendendo gioco di me. Cambierò sistema.”
Tornò immediatamente fuori alla tana di Girolamo, si affacciò al buco, guardò dentro e vide il topo che stava facendo qualcosa. Era girato di spalle, non riusciva a vedere cosa.
« Girolamo! Ti va’ di fare un salto nella mia bocca? »
« Aspettami lì, ci penso brutto gatto arancione. »
Cherry  rimase per parecchio tempo lì inchiodato a guardare con un occhio cosa stesse accadendo nella tana. Avrebbe voluto infilare anche la zampa per cercare di acchiappare qualcosa, ma gli tornò subito in mente il dolore che aveva provato l’ultima volta che aveva infilato la zampa. Tutto ad un tratto Girolamo, correndo sulle zampe posteriori, cominciò ad urlargli contro: « Ti chiappo! » Correva contro di lui. Cherry si impaurì talmente tanto che fece una capriola per scappare. Cosa era successo? Addirittura un topo gli correva incontro per acchiapparlo. Si rifugiò in cucina, Amilcare e Bastiano con la scopa gli fecero il verso di bastonarlo.
« Miaooo! »
Preso dal panico Cherry salì al piano di sopra e si andò a rintanare dentro all’unica armatura, che fece cadere. Si nascose in quel buio, per quel giorno non voleva più vedere nessuno. Tutti erano contro di lui. Doveva escogitare qualcosa.
Raphaell, il cavallo e la cuginetta rientrarono a casa passeggiando lenti. Raphaell, come aveva promesso al cavallo, appena arrivati lo condusse nella stalla.
« Ciao, Valentino. »
Poi si mise a frugare nel magazzino adiacente alla stalla. Con il potere della sua mente spostò tutto quello che vedeva da una parte e poi lo rimetteva a posto. Non trovò nessuna sella. Non c’era, se ci fosse stata l’avrebbe trovata. In compenso trovò una vecchia coperta colorata e molto bella. “Questa sarà la mia sella” pensò tra sé.
Uscì dal magazzino, tornò nella stalla e la poggiò sopra la groppa di Valentino. Il cavallo esclamò: « Delicata! Senti Raphaell, perché non mi togli la cavezza che inizia a darmi un po’ fastidio? Non mi muoverò di qui, fidati. »
Il ragazzino si avvicinò al cavallo e gli tolse la cavezza. Il cavallo lo agevolò abbassando la testa.
« Chi sei tu? » chiese il cavallo appena vide Bugsy.
« Piacere, Bugsy. » E intanto sbavava a ogni movimento che faceva con la testa.
Raphaell andò incontro al cane, se lo tirò su con le mani e lo abbracciò. Il cane appoggiò la testa sulla sua spalla e ci lasciò l’impronta con la bava. Raphaell c’era abituato, non gli faceva schifo la bava del suo Bugsys. Gli fece qualche complimento e poi la presentò ufficialmente al cavallo.
« Bugsy, lui è Valentino. È appena entrato a far parte della nostra famiglia. Me lo ha regalato papà per il mio compleanno. Siamo andati al pratone oggi, non vi abbiamo visto. »
« Certo che non ci hai visto, tuo padre ci ha lasciato qui intorno alle case. Preferisce che le pecore puliscano bene intorno a casa, dove ha costruito il nuovo recinto. Ho sentito che diceva a tuo zio che tra qualche giorno arriveranno altre pecore, che gli hai dato l’idea tu. Vuol provare a vedere di fare una produzione di formaggi anche da vendere e non solo da mangiare. È un uomo diverso, tuo padre. »
« Lo so, è vero. Si è ritrovato, Bugsy. Siamo di nuovo una famiglia. Tu cosa aspetti a creare la tua? »
« Eh, caro padroncino, sarebbe anche l’ora, hai ragione. Ma il lavoro, lo sai, non mi permette di allontanarmi più di tanto. Anche ieri sera sono stato con Fritz, il pastore tedesco della fattoria giù a valle. Abbiamo passeggiato, abbiamo giocato, ma è troppo alto, non potrà mai nascere nulla tra di noi. L’unico della mi razza è troppo nobile per me, è la cagna della contessa. Vive la sua vita perennemente in casa, di lei conosco i guaiti da cane viziata di quando vuole uscire. Dopo la passeggiatina il maggiordomo lo riporta dentro. È un cane da casa. Sono condannato a lavorare, in fin dei conti sono un bulldog pastore. Ho te come amico e le mie pecore e ora è qualche giorno che anche tuo padre mi carezza spesso. Sono un cane felice. »
Usciti dalla stalla, Raphaell e sua cugina prima di entrare in casa per la cena presero posto a sedere su una balla, sulla soglia della stalla. Quella sera il cielo era pulito, terso. Ci sarebbe stato un tramonto bellissimo, non se lo sarebbero perso. Rientrarono in casa soltanto quando la madre di Penelope li chiamò. Il tramonto era finito, la sera era arrivata ed era arrivato anche il buio.
« Venite, ragazzi » li chiamò la donna.
« Veniamo, veniamo. »
I ragazzi si alzarono dalla balla, mentre in campagna le prime lucciole facevano la loro comparsa insieme alle loro luci a intermittenza che abbellivano il piazzale. Mangiarono tranquilli e sereni, poi Raphaell e suo padre tornarono a casa per andare a dormire.
« Ti è piaciuto il tuo regalo? »
« Sì, papà. Tantissimo » e lo abbracciò. « Ci siamo conosciuti stamani e siamo andati insieme a fare una passeggiata con tanto di bagno e riposino per lui al pratone. Gli è piaciuta tantissimo l’erba di quel posto. Ho cercato una sella, ma al suo posto ho trovato una bellissima coperta. Userò quella come sella. »
« Sono sicuro che riuscirai ad usare quella coperta meglio di una sella. Sai, anch’io da ragazzino andavo a cavallo a pelo. È bello sentire i muscoli del cavallo sotto le cosce, che si muovono diversamente ad ogni andatura. Diventa un contatto fraterno, te lo assicuro, per te sarà stupendo. Credimi. »
« Ci credo, papà. Domani stesso proverò. Voglio farlo provare anche a Penelope. »
« Sempre senza farle rischiare nulla, mi raccomando. Ho fiducia in te, Raphaell. »
« Certo papà, sarò sempre vicino a lei. Non permetterò che le accada nulla. Ora buona notte, vado a letto che sono stanco. »
« Buonanotte, figlio. »
I due si salutarono davanti alle rispettive porte. Raphaell entrò nella sua stanza, si spogliò che praticamente già dormiva e si infilò nel letto. Avrebbe voluto pregare, ma il sonno lo portò via immediatamente. Fece tutta una tirata fino alle sei e mezza del mattino dopo, quando i primi raggi del sole gli carezzarono il viso e lo svegliarono. Si alzò contento e rilassato. Come tutte le mattine, dopo essersi stirato uscì dal letto. Uno, due sbadigli e corse alla finestra a vedere fuori come era il giorno. Non soffiava un alito di vento, era tutto calmo. Il frescolino di quell’ora lo invogliò a lavarsi subito e a rimettere a posto la sua camera, cosa che fece prima di andare a farsi la doccia. Si lavò e sistemò la camera col sistema di sempre, comandò in una danza gli attrezzi della pulizia per pavimenti mentre le lenzuola si sistemavano da sole. Rifece anche il cuscino, che andò a scuotersi fuori dalla finestra e poi rientrò e si rimise al suo posto. Uscito dalla stanza si recò nella sala.
« Buongiorno, Raphaell » lo salutò suo padre.
« Buongiorno, papà. Stamani la preparo io la colazione per tutti e due. »
Saltellante, dopo aver abbracciato il padre, si apprestò a preparare la colazione. Tostò del pane e ci spalmò sopra un filo di burro di propria produzione e un velo di marmellata, sempre fatta da loro. Riempì due tazze di latte, che aveva fatto prima bollire un po’. Quella del padre, addirittura la rimise in frigo, sapeva che a lui il latte al mattino piaceva freddo. Si mise al suo posto e quando suo padre arrivò in cucina fecero la prima colazione insieme.
« Ma quanto sarà buono, Raphaell, il latte delle nostre pecore? »
« Eh, papà, è tutto merito dell’erba del pratone. »
« Sono d’accordo con te Raphaell, è un pascolo stupendo. Non si ingrassano e producono del latte eccellente. Tra qualche giorno ti farò assaggiare l’ultima mandata di pecorino stagionato. Se passi dalla piccola rimessa, sentirai un profumo invitante. »
« Ci credo papà, non vedo l’ora di assaggiarlo. Ora scappo, vado da Penelope. »
Raphaell uscì da casa, andò alla stalla a salutare il suo cavallo. « Buongiorno, Valentino » disse al cavallo avvicinandoglisi all’orecchio.
Il cavallo nitrì leggermente, borbottando come aveva fatto la mattina prima. « Buongiorno a te, padroncino. Ti vedo già bello pimpante. »
« Vedi bene, Valentino. Ti lascio, vado a pendere mia cugina per invitarla a uscire. Torneremo insieme. Vorrei provare a montarti in groppa, se sei contento. »
« Ti aspetto » rispose il cavallo e nitrì di nuovo leggermente.
Raphaell attraversato il piazzale bussò alla porta della casa di Penelope. Gli aprì sua zia: « Buongiorno, Raphaell.»  
« Buongiorno, zia. Penelope è pronta? »
« Sì, Raphaell. Entra, ti aspetta al tavolo. Fate colazione e poi andate. »
« Ma zia, io l’ho già fatta con mio padre colazione. »
« Non ti va davvero una fetta di dolce e un’altra tazza di latte fresco? Poi Penelope ha anche una sorpresa per te. »
« È vero zia, come faccio a rinunciare al tuo dolce? »
« Allora entra, muoviti. »
Raphaell entrò e si andò a sedere al solito posto quando andava a casa di Penelope. Anche la ragazzina era già al suo posto. Due belle tazze di latte bianco e fresco erano davanti a loro e in mezzo al tavolo un dolce profumato abbelliva il tutto. La zia tagliò una fetta per ogni ragazzo e gliela porse.
« Grazie, mamma. »
« Grazie, zia. »
I ragazzini presero i pezzi di dolce e li inzupparono nel latte. « Fermo lì, Raphaell, non ti muovere. Papà, facciamogli vedere cosa abbiamo trovato ieri sera nel nostro magazzino. »
Lo zio di Raphaell si presentò con una sella di cuoio scuro, l’appoggiò in terra davanti alla porta d’ingresso. Si girò verso Raphaell e gli disse: « Questa è per te. Ieri sera l’abbiamo trovata e ho avuto
anche il tempo di ripulirla e passarci il grasso nelle parti dove tocca il cavallo. Era mia quando ero ragazzo. Te lo avevo detto che avevo un cavallo molto simile al tuo? »
« È vero zio, ce lo hai detto ieri quando ci hai visto rientrare. Ma non credevo che mi avresti fatto questo regalo. »
« E perché no? L’ho ritrovata, non potevo regalarla a nessun altro, se non al mio nipotino. »
« Grazie, zio. Che bel regalo! »
« Sei capace a sellare il cavallo? »
« Sì zio, ce la farò, ne sono sicuro. Se mai non ce la facessi porteremo Valentino a fare un’altra passeggiata con noi e basta. »
Quando uscirono Raphaell prese la sella con il braccio destro. Anche se era la prima volta che prendeva una sella in mano, l’afferrò nel verso giusto. A lui andava di afferrarla così. I due giovani arrivarono alla stalla.
Penelope sulla porta esclamò: « Bello che è il tuo cavallo! Nero e muscoloso, mi piace tanto. Mi piacerebbe tanto montarlo, anche solo per passeggiarci. »
« Cuginetta cara, oggi faremo questo. Arriveremo al pratone e poi, se Valentino sarà d’accordo, sarà lui a portarci a fare un giro. Tutti e due insieme o uno alla volta, lasceremo decidere a lui. »
La ragazzina si mise a ridere, poi incitò il cugino ad andare. Raphaell prese la cavezza e la mise al cavallo, che non oppose resistenza. Poi gli si avvicinò e parlando piano gli disse all’orecchio: « Valentino, mi hanno regalato questa sella. » Gliela fece vedere. « Ti piace? Pensi sia meglio della coperta che ti ho fatto vedere ieri pomeriggio? »
« Sì, Raphaell. È una buona sella. Andiamo, ho voglia di muovermi. »
Raphaell lo prese dalla cavezza e lo aiutò a girarsi per uscire. I tre si avviarono verso il pratone. I ragazzi cantavano e il cavallo li ascoltava. Arrivarono al ruscello, il cavallo entrò per primo nell’acqua con le zampe.
Quando Raphaell vide che si stava avviando a bagnarsi fino alla pancia, come aveva fatto il giorno prima, lo richiamò: « Valentino, non lo fare. Non arrivare alla pancia, hai la sella sopra di te! »
Il cavallo girò la testa a guardarlo e continuò: « È troppo bello, padroncino! La sella si asciugherà. »
Imperterrito arrivò fino a bagnarsi la pancia con l’acqua, appena prima che gli zoccoli perdessero contatto col fondale. Rimase in quel punto per qualche minuto, poi si voltò e tronò verso riva, dove c’erano Raphaell e Penelope.
Nitrì forte: « Mi ci voleva proprio, con questo caldo! Mi sono dato una bella rinfrescata. Voi non ne avete bisogno? »
Anche i ragazzi si spogliarono, rimasero in costume dopo essersi tolti le scarpe e le calze. Raphaell prese per mano la cugina e la invitò a seguirlo nell’acqua. Arrivarono anche loro nel punto dove era arrivato il cavallo, quasi all’altezza del loro petto.
« Brrrr » disse Penelope. « Torniamo indietro. »
« Rimaniamo un altro minuto e usciamo » ripose Raphaell.
Rimasero giusto quel paio di minuti e poi uscirono. Il cavallo si era scrollato l’acqua di dosso. Sembrava già asciutto. Loro rimasero sui ciottoli più grandi a prendere il sole e asciugarsi. Il cavallo si avvicinò loro col muso, in cerca di carezze che gli vennero fatte subito.
« Andiamo » li invitò ad alzarsi il cavallo.
Raphaell appena si alzò, con il suo solito sistema levò la borraccia da tracollo, la svitò e la mandò a riempirsi per poi farla tornare a tracollo. Riprese il cavallo per la cavezza e continuarono a camminare attraverso il pratone. Erano quasi arrivati.
Il cavallo, muovendo la testa, si rivolse a Raphaell: « Padroncino, stringi un pochino la sella e inizia a montare. Anzi, monta tu per primo e io mi avvicino a quel muretto fatti di sassi e lì sale anche tua cugina. Per me voi siete uno scherzo, sarei contento di avervi tutti e due in groppa. »
Raphaell riuscì a salire tranquillamente da sé. Una volta in groppa al cavallo, lo indirizzò attraverso la cavezza verso il muretto. Penelope, che era una ragazzina molto sveglia e aveva già capito, era già lì ad aspettarli.
« Vieni, Raphaell. Porta qui Valentino, salgo anch’io. »
« Valentino, fai salire anche Penelope ma, ti prego, non fare cose strane. Cammina e basta, facciamo in modo che non accada nulla di male a mia cugina. Cerchiamo di non cadere. »
Il cavallo nitrì leggermente: « Non ti preoccupare, padroncino. Starò attentissimo. Voi seguite i miei movimenti e, naturalmente, stringete le gambe. Io non ho le braccia per tenervi, mi dovete aiutare un minimo per rimanere in sella. Basta solo un po’ d’equilibrio. »
« Allora, Valentino, non ci saranno problemi. »
« Dove salgo? Mi metto dietro di te, così potrò tenermi al cavallo con le gambe e abbracciata a te. »
« Va bene Penelope, sali. »
Anche la ragazzina salì, dietro come aveva detto. Si strinse con le braccia al cugino e con le gambe al cavallo. Raphaell chiese a Valentino di partire e di continuare ad andare verso il pratone, di passeggiare e basta. Il cavallo a passo lento, tranquillo, si avviò verso quell’immenso mare d’erba. Al pratone, su incitamento di Raphaell e mentre continuava a passeggiare, il cavallo approfittò per brucare. Mentre il cavallo mangiava, il ragazzi in groppa avevano seguito alla lettera quello che il cavallo aveva detto a Raphaell e si erano messi in equilibrio. Quando il cavallo fu pronto, ripartirono al passo. Ci stavano proprio bene in groppa a Valentino e il cavallo faceva di tutto per mantenerli a loro agio: conduceva un passo lento e morbido. Si diressero verso la collina.
« Cos’è quell’affare scuro lassù, Raphaell? » chiese il cavallo.
« Come, non lo sai? Quello è il castello. »
« È la prima volta che lo vedo » gli rispose Valentino. « Potremmo andare a farci un giro. Con il mio passo, se partiamo la mattina presto, il pomeriggio sul tardi saremo di nuovo a casa. Che ne pensi? »
« Ottimo, Valentino. Prima che l’estate finisca, andiamo. »
Quel giorno arrivarono fino alla rimessa del fattore, passando per la strada più grande e non dal bosco. Come al solito, trovarono la casetta in muratura chiusa. Videro qualcuno che parlava dentro la rimessa in legno. Si avvicinarono di qualche metro senza arrivare proprio davanti all’entrata.
Era il nipote del fattore che, tutto contento, diceva al nonno: « Guarda nonno, guarda com’è stecchito! Ce l’abbiamo fatta! Erano giorni che davo la caccia a questo topo maledetto. Questo, nonno, il nostro formaggio non lo toccherà più. »
L’anziano si affacciò fuori dalla rimessa e come vide Raphaell, Penelope e il cavallo chiese loro: « State andando al castello? »
« Volevamo, ma ora che siamo arrivati qui ci siamo resi conto che stamattina siamo partiti troppo tardi. Giriamo e torniamo a bere alla fonte. »
« Ragazzi, venite qui. Vi faccio assaggiare un po’ del mio formaggio. E poi anche l’acqua della nostra fonte è ottima. »
Raphaell diresse il cavallo più vicino al fattore e poi lo fermò. Disse a sua cugina, dietro di lui: « Ora per scendere sarà un problema, ma ce la faremo. Per favore Penelope, lentamente cerca di spostarti più indietro possibile. Aiutati con le braccia tenendoti a me, spingiti indietro. »
La ragazzina, coi movimenti del bacino e tenendosi con le braccia come aveva detto Raphaell, si tirò parecchio più indietro. Lui ebbe così modo di poter far scivolare la gamba senza toccare la cugina. Tenendosi alla criniera di Valentino, scivolò di lato e smontò a terra. Si mise davanti a sua cugina e la invitò a smontare, l’avrebbe tenuta lui. Penelope fiduciosa si lasciò scivolare tra braccia di Raphaell, che la tenne saldamente e le fece toccare terra delicatamente.
« Grazie Raphaell per avermi aiutato! » gli disse abbracciandolo.
« Tenete, assaggiate questo pecorino. Ha più di sei mesi, dovrebbe essere proprio buono. »
I due misero un pezzetto di pecorino in bocca e lo lasciarono squagliare. Era buonissimo. Raphaell si avvicinò a Valentino, che era rimasto fermo dove erano scesi. « Non ti preoccupare, non mi sono dimenticato. Per te, quando rientriamo alla stalla, preparò un ciuffo d’erba con un altro pezzo di pecorino nostro, fatto da mio padre. »
Il cavallo nitrì leggermente e gli rispose: « Non vedo l’ora di assaggiarlo. Senti questo come profuma, deve essere squisito! »
Con una smorfia di piacere, Raphaell ingoiò il formaggio che aveva in bocca. Poi tirò giù la staffa che aveva sistemato e salì. Porse il braccio sinistro a sua cugina e le disse: « Vieni Penelope, ti aiuto. Tieniti a me che ti tiro su. Tu cerca di scavalcare il cavallo e montarlo. »
Penelope di resse al polso del cugino, che la tirò su. Con lo slancio della gamba salì a cavallo, non si accorse che Raphaell più che con il braccio l’aveva sollevata con la forza della mente. Quando fu in groppa gli chiese: « Cugino, mi è parso di sentire più che la forza del tuo braccio una spinta delicata che mi sollevava sul cavallo. Spiegami. »
« Mi hai scoperto! È vero, ti ho fatto salire con i miei poteri. Ti è dispiaciuto? »
« Assolutamente no. Volevo solo esserne sicura, perché anche se avevo capito non l’avevo visto coi miei occhi. Mi hai agguantato con la mente e mi hai sollevato da terra in un abbraccio invisibile. »
« Mia cara, è tutta energia. Non c’è materialità in queste cose. Bello, vero? »
« Sì, Raphaell, è stato bellissimo. Puoi sollevare e spostare anche pesi come il mio? »
« Penelope, io lo faccio sempre. Spesso tolgo le mie pecore dal ruscello quando si bagnano e le riposo a terra. Sai, non sono delle ottime nuotatrici, ho sempre l’ansia che mi possano morire affogate. E allora preferisco farle bagnare e poi riportarle io stesso a terra. Non ho limiti di peso. Un giorno di questi ti inviterò nella mia stanza e ti farò vedere come pulisco la mia cameretta. Non per vantarmi, ma è uno spettacolo. Tu hai mai visto danzare delle lenzuola? »
« No, ma se tu mi dici che è così ci credo. Sei il mio eroe, grazie a te ora sono a cavallo. »
« Via, Valentino! Torniamo indietro, avviamoci al pratone e poi torniamo a casa. »
Raphaell salutò il fattore che gli aveva regalato un pezzetto di formaggio. « La salutiamo, ora andiamo via. Ci rivedremo la prossima volta che ripassiamo di qui. »
« Ciao ragazzi, passate quando vi pare e se mi vedete qui non fate complimenti. Chiedetemi un pezzetto di formaggio, ve lo darò. A chi mi chiede do volentieri, voi non avete la faccia di quei balordi che invece me lo rubano. »
« Non si preoccupi! La salutiamo, arrivederci! » I due si allontanarono a cavallo. « Cuginetta cara, se quell’uomo sapesse quante volte sono passato di qui affamato e ho mangiato il suo formaggio a sbafo! E poi, se ti ricordi, qualche giorno fa avevo invitato anche te a banchettare col pecorino del fattore. Ti ricordi quando siamo dovuti andar via alla svelta perché Dolores ci aveva avvertito che stavano arrivando delle persone? Se fossimo rimasti lì avremmo conosciuto il fattore in altra maniera. Non sarebbe stato di certo gentile come oggi. Comunque è andata bene e chi se ne frega! Ora sappiamo però che il fattore è una persona gentile e odia chi gli ruba il formaggio. Speriamo che la prossima volta ci sia, di rubargli il formaggio adesso non se parla proprio più! »
Arrivati al pratone riscesero da cavallo, lasciarono che Valentino si abbuffasse di quell’ottima erba. Loro si sdraiarono su una delle dune di terra erbosa a guardare se vedevano il loro micro-gregge e il padre di Raphaell. Ma il micro-gregge era rimasto a ripulire l’erba intorno alle case.
Al castello le cose per Cherry continuavano a non andare bene. Aveva riprovato a far cadere le armature, con l’aiuto di suo figlio Tito, ma il piano era fallito ancora una volta e loro erano volati nuovamente giù dal piano sopra la cucina. Quello era stato un bel volo.
« Tito, figlio mio prediletto, con il brutto volo di stanotte sento che mi sono giocato l’ultima vita a disposizione. Adesso mi resta soltanto la mia, per tutti gatti che fanno miao! »
« Padre, sono nella tua stessa condizione. Non vorrai tirare i remi in barca? Mica vuoi che i guardiani diventino i signori del castello e quei topi i principi! »
« Questo no, mai! Piuttosto volo giù tutte le notti! Ma che i guardiani possano diventare i signori del castello non lo pensare proprio. Il re sono io e qui comando io. È il tempo che mi darà ragione. E se tu avessi trovato quel gatto nero e te ne fossi liberato una volta per tutte come ti avevo chiesto ora staremmo sicuramente meglio, cretino. »
Tito abbassò la testa quasi a toccare per terra e apparentemente mortificato si allontanò. Cherry rinvigorito dalle proprie illusioni, dopo aver mangiato altri scarafaggi, tornò all’attacco. Salì al piano della cucina. Si affacciò fugace, vide i guardiani davanti al camino, Amilcare che girava la minestra col mestolone e Bastiano appoggiato al marmo frontale del camino con la scopa in mano. Non era aria, meglio andare a torturare quel topo maledetto di Girolamo. Arrivato davanti alla tana, si affrettò a mettersi a guardare dal buco dell’entrata. Girolamo era seduto abbastanza vicino. Infilò svelto una zampa a cercare di afferrarlo. Ci sarebbe stato proprio bene un topo, dopo gli scarafaggi, anche solo per dare più sapore alla bocca. Alla prima zampata toccò soltanto l’aria, di topi non ne sentì. Girolamo si era spostato alla svelta, e a tempo, con un altro accanto unendo le forze, spinsero a terra la zampa di Cherry, su una tavoletta che avevano portato dentro. Era una di quelle che mettevano i guardiani per cacciare i topi nel piazzale. Era una tavoletta stretta e lunga, piena di super colla per topi. Una volta portata dentro la tana, stando attenti, l’avevano girata in maniera trasversale davanti al buco di entrata, sicuri che qualcuno ci sarebbe finito. Dovevano stare attenti soltanto a non finirci loro. E ci riuscirono bene, cosa che invece non riuscì a quel gatto arancione.
« Brutto topastro, cosa cavolo hai messo per terra? Aiuto! Non riesco a tirare via la mia zampa! Ti do tre secondi per liberarmi, miaoo! » urlò Oscar con la zampa incollata sulla tavoletta.
« Cherry, ti sei dimenticato di dirmi che mi mangerai. Quando? » lo zittì Girolamo.
Il gatto, pur di liberarsi, appoggiò la testa al muro e con tutta la forza che aveva, tirando riuscì a strappare il pelo dalla zampa e a liberarsi. In ritirata ancora una volta ebbe il coraggio di dire al topo: « Girolamo, quando sarai nella mia bocca le pagherai tutte! Ti mangerò lentamente, a farti sentire ogni mio dente. Non avrò un briciolo di compassione, parola di  Cherry! »
« Già me lo hai detto tante altre volte, brutto gatto » gli rispose il topo senza starlo ad ascoltare.
Con la zampa per metà spelata e con tutti gli artigli retratti, miagolante salì al piano di sopra a vedere come era la situazione nel corridoio delle armature. “Devo essere ancora più furbo e scaltro, se
voglio farmi valere e dimostrare a tutti chi comanda qui dentro. Non sono mica un gatto qualunque io!” rammentò tra sé.
Con un balzo, da terra saltò sul cavallo in ferro, dove c’era l’armatura più grande. Appoggiatosi con le zampe anteriori al petto dell’immobile cavaliere di acciaio, spinse forte verso il sedere del cavallo. L’armatura rovinò a terra. Era la più pesante. Nella cucina, che stava proprio sotto a punto dove era appena avvenuto l’impatto, i due guardiani trasalirono talmente forte che se non si fossero tenuti a un appoggio sarebbero di certo caduti.
« È Cherry che ha buttato giù un’armatura e penso anche di sapere quale » disse Amilcare.
«Sono sicuro, quella del conte a cavallo, la più grande» rispose Bastiano.
Avevano indovinato. Il rumore era stato così forte che il tavolo pareva avesse tremato come se ci fosse stata una scossa di terremoto. Anche Girolamo e gli altri nella tana si erano preoccupati. A malincuore, per dovere, i guardiani salirono al piano di sopra a sistemare l’armatura che era caduta . Mentre salivano passò loro vicino Oscar con un muso tutto soddisfatto, giubilante per ciò che aveva fatto. I guardiani non lo degnarono di uno sguardo.
“Bene! Brutti vecchiardi balordi, avete capito di che pasta sono fatto!” pensò tra sé Oscar mentre si allontanava svelto con passo felino. Scese di corsa nel piazzale a farsi grande con suo figlio. Unico gatto che gli era rimasto al fianco.
« Vieni qui, Tito, ti racconto. Avrai sentito che baccano infernale. Non era il tuono di un grande temporale sono stato io! Ho buttato giù il cavaliere da cavallo, sì quello di ferro. Hai sentito che botta? Dovevi vedere le facce dei guardiani, erano sbiancati, sembravano i cugini del conte senza testa! »
« Ottimo lavoro padre » lo incoraggiò Tito, che era falso più di un tarocco cinese e viscido più della migliore vasellina. Tito giurava fedeltà a Cherry suo padre e in tanto bramava per prenderne il posto.
Heebum e la sua combriccola si allontanarono un po’ dal buco del serpente.
« Topisio, penso che la cosa migliore sarebbe rimettere le maschere antigas e versare tutta la polvere del sacchetto nel soffietto, così avremo davvero un’arma in mano. Basterà togliere soltanto la sicura e pigiare per spruzzare nel muso di qualsiasi animale la nostra Topolass. »
« Ok, capo. Le sai proprio tutte, hai ragione » rispose affermativo Topisio.
Lui per primo si tirò giù la maschera antigas e così fecero anche Carlos e Miguel. Heebum, per non avere brutti scherzi, insieme Tara si spostò di una decina di metri più avanti rispetto a dove veniva quel soffio leggero di vento. La prudenza non era mai troppa in quei casi. I tre topi, con le maschere antigas sul muso, delicatamente versarono tutta la polvere del sacchetto nel soffietto, che teneva in mano Topisio. Ora erano veramente armati.
« Topi, dite al capo di aspettarci un po’ più su, ho un regalo pronto per lui. Dobbiamo ritornare alla tana dove abbiamo preparto la Topolass. »
Dissero a Heebu, che sarebbero tutti e tre tornati alla tana della vecchia volpe, perché dovevano prendere un regalo per lui. Heebum capì e disse: « Noi ci spostiamo qualche metro avanti per trovare un posto da scavare alla ricerca di qualche buona larva. »
« Ricevuto, capo. Vi raggiungiamo subito » gli rispose Miguel.
« Ci vediamo presto, allora » confermò Heebum, mentre faceva segno col muso a Tara di avviarsi.
La gatta bianca gli si avvicinò, aspettò un attimo e poi tutti e due insieme partirono per la salita. Arrivarono fin dietro una curva che girava a sinistra. Si fermarono sotto un ulivo che, mosso dalla brezza del mattino, mostrava una volta le sue foglie verdi, una volta la parte argentea delle stesse. Era uno spettacolo.
« Vieni, Tara. Sento che questo terriccio è abbastanza morbido per scavare. E il mio olfatto non mi tradisce. Subito sotto quest’erba così verde troveremo parecchie larve e anche qualche Heebum si mise a scavare da una parte e Tara da un’altra. L’erba morbida si tolse subito, il terreno sotto non era secco e arido, la pioggia dei giorni prima lo aveva ammorbidito. Con un po’ di raspate Heebum portò alla luce larve di formiche rosse e nere, belle grasse e saporite. Tara dalla sua parte trovò anche diversi vermiciattoli. Mangiarono in abbondanza. Approfittarono per fare anche un riposino, si allungano per terra posando le loro pance sul terreno riscaldato dal sole e tenendo le teste all’ombra, sotto l’ulivo. Ci scappò un piccolo sonnellino. Heebum sognò che dei cuccioli di gatto, due neri e due bianchi, volevano giocare con lui e lo chiamavano papà. Per una pura coincidenza anche Tara fece lo stesso sogno, solo che qui loro la chiamavano mamma.
« Che facciamo, Heebum? Vogliamo tornare indietro a vedere cosa stanno facendo i nostri amici? Non si sono fatti più vedere. »
« Hai ragione Tara. Non che io sia preoccupato, ma la strada è così breve che non ci costa nulla tornare alla tana. »
I gatti si avviarono e in breve, ridendo e scherzando tra loro, arrivarono alla tana. Si affacciarono. Il sole iniziava ad essere quello del primo pomeriggio, anche sempre alto all’orizzonte, riscaldava ancora parecchio.
« Ci siete? »
« Entrate » si sentirono rispondere.
I due gatti entrarono nella tana e trovarono i tre topi ancora al lavoro. Stavano finendo proprio allora di dare gli ultimi punti a quello che sarebbe stato un turbante.
« Vieni Heebum » disse Topisio. « Questo è per te. »
Poggiato sul tavolo da lavoro c’era un turbante blu. « Indossalo, Heebum » lo invitarono i topi.
Heebum  rimase un attimo in silenzio, poi si avvicinò al tavolo e indossò il turbante. « Contenti adesso? »
« Sì, siamo contenti » gli rispose Topisio. « Heebum, il Gattun! Ora, capo, andiamo. »
I gatti e i topi uscirono dalla tana e con passo meno lento del solito si avviarono a salire.
 
Il conte, con il solito sistema, vicino alla finestra della stanza dove risiedeva da anni, dopo averci fatto qualche palleggio diede il solito calcio alla testa, che volò via dalla finestra. Come faceva sempre, aspettò qualche minuto e poi la inseguì sentendone il profumo.
“Oh? Questo posto lo conosco, mi pare di esserci già stato. Sì, sì…riconosco anche l’odore di questi vestiti. Do un’occhiata, ma mi pare tanto che questo sia l’armadio di Raphaell.!
Il conte aprì l’anta dell’armadio, verificò che nella stanza non ci fosse nessuno e si richiuse dentro. Si contorse un attimino per prendere la testa e mettersela sotto il suo braccio. Poi si fece una passeggiatina nello scomparto dell’armadio e rimase ad aspettare.
Raphaell, Valentino e Penelope anche quel giorno arano arrivati fino alla rimessa del fattore. Vedendo che l’uomo e il nipote non c’erano non si permisero di entrare da soli. Dopo aver fatto due giri nel piazzale ridiscesero, si fermarono al pratone, salutarono il padre di Raphaell che era al pascolo col micro-gregge. Valentino si abbuffò d’erba. I ragazzi sdraiati nel prato rimasero a rimirare il cielo, bello anche quel giorno, completamente libero da nuvole. Rimasero per un po’ a prendere il sole. Quando si sentirono belli accaldati, si avviarono verso il ruscello. Spogliatisi e rimasti in costume, fecero un bagno pomeridiano anziché mattutino. Anche Valentino gli si avvicinò quando erano nell’acqua, stando attento a non schiacciare i loro piedi. Giocarono per diverso tempo nell’acqua, fu il cavallo che insisté con Raphaell per uscire. Sentiva più freddo dei ragazzi, che quell’acqua a loro non disturbava affatto.
Valentino disse a Raphaell, nitrendo leggermente: « Perché non salite e continuiamo a passeggiare? Basta stare nell’acqua! Andiamo a fare un giretto nel bosco. »
I ragazzini, contenti, uno alla volta salirono in groppa al cavallo. Fecero una lunga passeggiata, tra il pratone e metà bosco. Raphaell preferì tornare indietro quando si accorse che il sole stava iniziando a diventare più debole. Si fidava di Valentino, ma non si fidava a rientrare con il buio. Anche quella sera lui e suo padre mangiarono a casa della cuginetta: una cenetta niente male. Dopo il caffè rientrarono a casa, era già tardi. Il padre di Raphaell lo abbracciò, gli diede la buonanotte e se ne andò nella sua camera. Raphaell entrò nella sua. Fatto in bagno si spogliò e si mise a letto. Prima di spegnere la lucina sul comodino, appena finito di recitare le sue preghiere, un toc-toc leggerissimo gli fece voltare la testa in direzione dell’armadio. Raphaell sorrise, aveva immaginato che fosse tornato il conte. E difatti si aprì l’anta dell’armadio e ruzzolò fuori una testa. Era quella del conte.  
« Buonasera, Raphaell. Sono tornato a trovarti. Posso rimanere? »
« Certo, conte, che può rimanere. Per lei, quanto le pare. Non mangia, non beve, non dorme, non disturba mai perché parla sempre e solo con me, quindi può rimanere quanto vuole. Non da fastidio a nessuno. »
« Grazie, Raphaell. Sei gentile, ma penso di tornare presto al castello. Sento che sta arrivando l’ora del mio trapasso definitivo. A volte vedo una luce che sembra mi indichi la strada. Ma visto che anche in questa dimensione pago ancora le mie insicurezze, sono sempre indeciso se andare oltre o no. In fin dei conti mi sono abituato a questo stato. Non è poi così tanto che mi ci trovo, sono appena cento anni. Comunque ricordo anch’io i bei tempi di quando dal castello, con il mio cavallo, passeggiavo fino al prato dove arrivi tu. Sai, in questa dimensione anche se siamo parecchi, perché non ci sono solo io, non sono in molti ad avere i miei stessi interessi. È poca la gente di cultura. Devo dire che mi trovo meglio nel tuo armadio piuttosto che dove sono adesso. »
« Non scherzi, conte. Spero che lei stia meritando il Paradiso. »
Il conte ci fece una mezza risata e gli rispose: « Caro Raphaell, tuttalpiù con la mia vita meriterò il Purgatorio. Sai, non sono stato poi così bravo e buono durante la mia vita terrena. Ero un uomo insicuro e pieno di volti. Mi raccomando, non diventare così.»
« No, conte, non si preoccupi. Non ne avrei neanche il tempo. Tra una settimana andrà via anche mia cugina. Tornerà in collegio e così farò io. Che noia tornare a combattere con quei compagni che mi danno sempre fastidio! Mi sberleffano e io non voglio usare i miei poteri, perché ho paura di far male a qualcuno. »
« Sei proprio un bravo ragazzino. Però, visto che puoi, una piccola lezioncina ai tuoi compagni la dovresti dare. Non per far del male a loro, ma per fargli capire che forse non è giusto prendersi gioco di un compagno e sbeffeggiarlo continuamente. »
« La ringrazio del consiglio, conte. Ora non so lei cosa farà, ma io vorrei dormire. »
« Caro Raphaell, visto che la finestra è ancora aperta io approfitto. Dò un calcetto alla mia testa e la seguo. Ci rivediamo quanto prima. »
Il conte palleggiò con la testa due o tre volte, poi con il suo stile classico diede un calcio e la lanciò lontano. « Arrivederci…! » echeggiò la voce del conte, che fluttuando era partito.
Raphaell chiuse gli occhi e in quel momento stesso e cadde in un sonno più che profondo e sereno. La notte lo cullò fino al mattino. Furono i primi raggi del sole a svegliarlo. Gli carezzarono il viso, aprì gli occhi e dopo un primo sbadiglio stirò le braccia, come era suo solito fare.
« Aaah, che bello! Che dormita che mi sono fatto! »
Stirandosi ancora e dando un altro sbadiglio, si mise seduto a metà letto. Guardò la luce che entrava dalla sua finestra e come sua abitudine corse ad affacciarsi. L’aria fresca del mattino, non ancora calda, diede la spinta al suo risveglio definitivo. Da lì vedeva bene il recinto che il padre aveva costruito e che era ancora vuoto. Non vedeva l’ora che fosse pieno di pecore. Anche quella mattina,
 
prima di uscire sistemò la sua stanza facendo ballare tutti gli attrezzi. All’ora giusta uscì dalla stanza e si affrettò a fare colazione con il padre, che gli aveva preparato una fetta di pane con su spalmato del burro artigianale fatto da lui, con un poco di marmellata sopra.
« Buongiorno, Raphaell. »
« Buongiorno, papà. Hai dormito bene? »
« Sì, figlio mio. La pace mi ha abbracciato di nuovo. E tu? »
« Anche io, papà. La sera torno talmente stanco che invece di recitate le mie preghiere, dormo .»
« Fai bene, Raphaell. Sei un ragazzino, è giusto che tu esaurisca tutte le tue energie durante il giorno e la notte tu te la prenda tutta per riposarti. Dove hai intenzione di portare oggi tua cugina? »
« Oggi, papà, voglio fare presto perché vorrei sfruttare la potenza di Valentino per arrivare il più vicino possibile al castello. »
« Fai bene, Raphaell. Ora che hai un cavallo potrai arrivarci e nella stessa giornata tornare. Te lo consiglio, è uno spettacolo. Poi se davvero arrivi al castello, ti ricordo di presentarti ai guardiani. Li conosco bene, sono amici. Te lo faranno visitare, se lo vorrai. »
« Grazie, papà. Me lo ricorderò » disse Raphaell al padre, sorridente e felice.
Fatta colazione, il ragazzino uscì immediatamente di casa. Corse nella stalla, prima di attraversare il piazzale. Saltellante arrivò al lato destro di Valentino. Contento, lo abbracciò tra il collo e il garrese.
« Buongiorno, cavallo nero. Sono felice di vederti. »
« Sono contento anch’io » gli rispose il cavallo. « Sei arrivato di buon’ora, ho capito cosa mi vuoi dire. Sono d’accordo con te. Vai a dire a tua cugina di fare presto, ché partiamo subito. Vi porterò il più vicino possibile al castello. E se lo riterrò giusto e possibile, ci arriveremo. Ci sono già stato un paio di volte con il mio vecchio padrone, si è sempre divertito e lo ha trovato meraviglioso. Così mi diceva di solito quando rientravamo. Ma non aveva i tuoi stessi poteri, non potevamo comunicare. Anche se capivo quello che mi diceva, lui non captava i miei pensieri. In ogni caso, era un amico. Ci ho passato insieme dei begli anni. »
« Aspettami, non ti muovere. Vado a vedere Penelope a che punto è. La inciterò a fare presto. »
Raphaell sciolse l’abbraccio al cavallo e corse via dalla stalla. Attraversò il piazzale di corsa, saltò i tre scalini della veranda, bussò alla svelta e come sua zia aprì fu lui a dirle: « Buongiorno, zia! Sono venuto a prendere Penelope. So che dobbiamo fare colazione e fare alla svelta. Che dolce hai fatto? »
« C’è una crostata alle more, nipote mio. »
« Sento il profumo » le rispose Raphaell mentre stava entrando. « Buongiorno Penelope » le disse quando era già seduto al tavolo.
La cuginetta gli sorrise e contraccambiò il saluto. « Che dobbiamo fare che sei così eccitato e di fretta? »
« Ricordi? Te lo avevo detto, dovevamo andare ad avvicinarci il più possibile al castello. Valentino è d’accordo. »
« Sì, dai. Mangiamo e usciamo » rispose la cugina.
E la zia: « Raphaell, chi è Valentino? »
« È il mio cavallo. »
« Il tuo cavallo ti ha detto che è d’accordo? »
« Sì, zia. Me lo ha fatto capire. È poco che stiamo insieme ma ci capiamo. Quando gli faccio le domande, lui risponde sì o no con la testa. »
« Ma davvero? Allora è un cavallo eccezionale! »
« Sì, zia, è un cavallo nero eccezionale. E poi è tanto potente, possiamo restargli in groppa tutti e due senza che neanche se ne accorga. »
I ragazzi bevvero l’ultimo sorso di latte e uscirono. Si avviarono veloci alla stalla, mentre un camioncino stava arrivando al piazzale, davanti casa di Raphaell.
Il padre uscì e gli disse: « Raphaell! Aspettate un attimo! So che andate di corsa, ma vi prego, dedicatemi qualche minuto. Giusto il tempo di far entrare le nostre nuove pecore nel recinto, poi farò da me. »
« Va bene papà. Porto Valentino con me qui. »
« Muoviti, figliolo. »
L’autista del camioncino inquadrò dove era l’entrata del recinto, fece la manovra e si avvicinò all’entrata con la parte posteriore. Il padre di Raphaell aprì il cancello e chiese all’autista se poteva fare entrare un pezzo di camion nel recinto. L’autista, che aveva capito, entrò con un quarto di camion in retromarcia. Quando si fermò era arrivato anche Raphaell con il suo cavallo. Il padre firmò la bolla all’autista, che immediatamente si apprestò ad abbattere la pedana per far sì di aprire la parte posteriore del camion. Dai belati delle pecore, dovevano essere sicuramente più di dieci.
L’autista e il padre di Raphaell si strinsero la mano e il primo disse al secondo: « Ci ha visto bene. Ha saputo comprare, sono tutti animali di prima qualità. Gli darò un’ultima occhiata ora, quando scendono. »
Anche bugsy era lì insieme a loro, pronta a seguire le nuove pecore nel recinto. Dopo cinque minuti erano scese cinquanta pecore dal camion, che si erano andate tutte a rifugiare nell’angolo in fondo al recinto, dalla parte opposta alla loro.
Fu a Raphaell che venne in mente di dire al padre: « Papà, noi oggi possiamo anche non andare al castello. Ma ti ricordo una cosa. Visto che ho capito che le nuove arrivate sono parecchio impaurite, sai cosa faccio? Prendo e porto qua le nostre tre pecore e Barbetta. »
Raphaell si avviò nella stalla con Bugsy al suo fianco, e disse al cane: « Mi raccomando, Bugsy, pensaci tu. Porta dentro le tre pecore e Barbetta e fate in modo che le nuove arrivate si fidino al più presto di voi. Sarei contento se per la prossima uscita che faremo insieme potessimo andare tutti al pratone. Oggi non ho tempo, ma domani lo troverò per presentarmi a tutte. Gli spiegherò che la maggior parte delle volte sarò io a mungere il loro latte, almeno tutte le volte che sarò a casa. »
Il cane  abbaiò due volte, facendo uscire parecchi schizzi di bava dalla sua bocca. E gli rispose: « Fratellone, farò del mio meglio. Non penso che sarà poi così tanto difficile. O tre o cinquanta per me non cambia, so qual è l mio mestiere. Sono un pastore atipico, ma lo faccio con tutto il mio cuore. Ho un gran feeling con le pecore, basta che vicino a me non ci siano gatti. Gli altri animali li amo. »
Le pecore lasciarono che Bugsy si avvicinasse, poi si sparpagliarono un po’: non erano più agitate come quando erano arrivate. Il padre di Raphaell per estrema sicurezza, chiuse immediatamente il cancello del recinto. Lo riaprì per far uscire il camion.
Salutato il trasportatore, fu il padre stesso che disse a Raphaell: « Avete fatto anche troppo, andate. Non perdete tempo, ve ne ho rubato anche troppo. »
« Ma che dici, papà? Ci andremo domani al castello, non è un problema. Ora però ti salutiamo »
Salì per primo in groppa a Valentino, poi tendendo il braccio alla cugina aiutò a salire anche lei. Con uno slancio e l’aiuto della forza della mente di Raphaell, in un secondo fu sopra.
« Andiamo, Valentino. »
Il cavallo, senza dover aspettar comandi, girò e con la richiesta mentale di Raphaell si avviò. Con il suo passo, né troppo veloce né troppo lento, in poco tempo arrivarono al ruscello. Quella mattina si bagnò le zampe giusto il cavallo. Raphaell indirizzò la borraccia a riempirsi senza scendere da Valentino. Non era tardi per niente, faceva caldo ma non era afoso.
« Ragazzi si parte! » avvertì Valentino. Il cavallo prese ad andare verso la strada bianca, direzione castello.
« Valentino non mi dire che ce la faremo ad arrivare al castello? »
« Arrivare al castello non ne sono sicuro, ma di certo arriveremo parecchio in alto. Vi piacerà. Ora saliamo. »
Iniziarono la salita che in poco si fece più ripida, ma era una strada ben pulita. Il loro cammino era accompagnato dal volo delle aquile e dei falchi che stavano cacciando. In quel posto così verde e con un tetto di un azzurro trasparente che non finiva mai, quella mattina il cielo era limpido, non c’era neanche una nuvola a interrompere la continuità del blu. Mentre salivano videro anche altri uccelli, un paio di lepri e una volpe che inseguiva un coniglio selvatico. Raphaell captò le grida di aiuto del coniglio che stava scappando. La volpe lo stava inseguendo, ma non per giocare. Se lo avesse acchiappato sarebbe diventato il suo pranzo. Era tutto normale in natura. Raphaell non fece altro che spostare il coniglio parecchi metri più avanti, regalandogli così un po’ di vantaggio. Non sarebbe stato giusto agevolare troppo il coniglio, doveva riuscire a cavarsela da solo. Se le riusciva, doveva mangiare anche la volpe. Non molto lontano sentì un tonfo, era la volpe che aveva acchiappato il
coniglio, quella mattina aveva trovato da mangiare carne fresca. Il povero coniglio aveva trovato invece dei denti affilati in cui sarebbe stato meglio non cadere. Con quel passo arrivarono in un punto non molto distante dal castello che era di una bellezza unica. Valentino girò a sinistra ed entrò nel bosco solo per poco. Riuscirono in uno spiazzo, davanti a un masso alto ed enorme. Dal quale, al centro, in mezzo alla vegetazione, usciva un getto d’acqua che cadeva dentro una piscina naturale molto grande. Da lì nasceva il ruscello, che passava vicino alle loro case e che portava l’acqua e regalava la vita a chi viveva da lì fino a fondo valle.
« Il mio fiuto e il mio udito non mi ingannano. Molto vicino a noi ci sono altri animali. Sento distintamente l’odore di due gatti e tre topi. Me lo ricordo chiaramente, ho vissuto con diversi topi nella penultima stalla dove ho abitato. Sono animali simpatici, un po’ troppo furbetti, ma simpatici. »
« Se lo dici tu! » gli rispose Raphaell.
Il cavallo, con i due ragazzi in groppa, lasciò la bellissima piscina naturale con la cascatella. Girò trecentosessanta gradi su se stesso e iniziò a camminare con il suo passo, puntando a una seconda uscita un po’ più in alto. Entrarono nel bosco che ancora l’ombra non era cupa, la luce era quella del mattino e riusciva a filtrare tra le fronde degli alberi.
« Ehi! Chi siete? Cosa volete? Attenti che siamo armati! »
« Siamo turisti » rispose Valentino. « Vorremmo arrivare al castello, se possibile. Voi cosa fate qua? »
« È top secret! Siamo in missione. Voi non sapete niente di quello che succede al castello. »
Valentino, guardando il topo dalla sua altezza, si avvicinò. « Io sono Valentino, loro sono i miei padroncini. Qualche tempo fa ho avuto una convivenza niente male con due topi, nella stalla dove vivevo. Un po’ troppo curiosi, ma due animaletti a modo. Il mio padroncino biondo si chiama Raphaell e riesce a comunicare con gli animali. O perlomeno con me. »
Raphaell sorrise e guardando il topo si presentò telepaticamente: « Io sono Raphaell. Con mia cugina vivo ai piedi della collina. Con Valentino, che è il mio amico cavallo, siamo partiti per arrivare in cima alla collina a visitare il castello. Mi ha detto mio padre che se arrivo al castello mi posso presentare ai guardiani, che sono suoi amici e ce lo faranno visitare. Mi ha detto anche che è molto bello. »
« Sì, il castello è molto bello, squit! Il problema è che da qualche tempo a questa parte ci vive un gatto arancione di nome Cherry, che è un dittatore e un tiranno. Noi dobbiamo liberare una famiglia di topi, che è la famiglia dei nostri cari amici Miguel e Carlos qui presenti, e dare di nuovo a chi ne ha diritto le chiavi del castello. E cioè al nostro capo, Heebum.»
Heebum era accucciato qualche metro più indietro, con il suo turbante in testa.
« Bello! Un gatto nero con gli occhi gialli e un turbante blu in testa! » Guardando Heebum, il ragazzino si presentò: « Piacere, io sono Raphaell. »
« Io sono Heebum. Io e i miei amici la faremo pagare a quel gattaccio arancione. Quando saremo arrivati al castello e ce lo troveremo faccia a faccia, maledirà per sempre di averci rincontrato. A te lo posso dire: Topisio, il nostro scienziato genio, ha creato un’arma micidiale, la Topolass. Ti spiego. Ce
l’abbiamo sia in polvere che liquida ed è un composto che non lascia scampo a chi la ingerisce. È un miscuglio di erbe che dà inizialmente grandissimi problemi gastrointestinali, e poi porta a gravi stati di allucinazione e paure di qualsiasi tipo, tutte correlate al proprio carattere. Più un animale è cattivo, più grandi saranno le sue paure, più a lungo dureranno. Il primo a provarla, per errore, è stato un serpente mangia-topi che voleva entrare nella tana dove eravamo andati a preparare il composto. Ha respirato un po’ della vapore del miscuglio appena finito di preparare. Eh, ragazzo mio, ti posso soltanto dire che quel serpente non mangia più topi, è diventato un mangia-frutta. E vedessi anche com’è diventato buono! L’ultima volta che l’abbiamo visto stava cercando un frutteto per farlo diventare la sua dimora. »
« Avete intenzione di arrivare al castello e di far ingerire il vostro micidiale miscuglio anche a quel gatto arancione? »
« Se fosse possibile sia a lui che a tutti quelli della sua banda. Così il castello rientrerebbe in mano al nostro capo, che è anche il nostro salvatore e amico più grande. Viva Heebum! »
« Che strano, cavallo mio…è la prima volta che vedo dei topi ammirare così tanto un gatto. »
Heebum, avendo captato i suoi pensieri, gli rispose da dov’era: « In effetti non è cosa da tutti i giorni che due gatti e tre topi convivano così perfettamente in equilibrio. Sarà perché non rientrano nella mia dieta. Sai, io sono un gatto che per star bene con la sua amica Tara ha deciso di passare ad altra dieta. Oggi, senza vergognarmi, vado alla ricerca di terreni morbidi e parecchio umidi, scavo e sono diventato un bravo cercatore di larve. Devo dire che sono buone e molto nutrienti. Non mi interessano più i topi, le piccole rane e altri animaletti. Loro sono diventati i miei amici fraterni e con loro voglio condividere in pace il castello quando me ne sarò riappropriato. E vedrai che accadrà molto presto, penso che entro domani saremo in cima alla collina. »
« Tito, figlio mio, ho fatto un brutto sogno. Ma di quelli proprio brutti, eh! »
« Cos’hai sognato, padre? »
« Che stava arrivando al castello Heebum, accompagnato da una gatta bianca e niente popò di meno che tre topi. Erano armati fino ai denti, pronti a combattere contro di me, ora che siamo solo in due. »
« È solo un sogno, padre. Se mai dovesse accadere, venderemo cara la nostra pelle. Io ti starò sempre al fianco. »
Tito finì di parlare, poi si allontanò. Uscì dal ponte levatoio. Senza ben sapere dove volesse andare, si avviò lungo lo stradello che portava a valle. Camminava lento, alla ricerca di qualcosa da mangiare. Cherry rimase solo nel castello. Dopo un po’ anche lui si tirò sulle zampe, salì le scale con passo felpato, da ladro, arrivò alla cucina. Si affacciò all’interno, come faceva di solito e, quando vide i due guardiani intenti a cucinare davanti al pentolone nel camino, con la scopa vicina, ne pensò un’altra. Andò a trovare Girolamo, si mise con l’occhio attaccato al buco per vedere dove fosse il topo. Mise a bene a fuoco e non vide nessuno nella tana.
« Brutto gattaccio arancione! Sei venuto a trovarmi per sparare le tue solite cavolate? »
Cherry, nel trovarsi tutto d’un tratto davanti agli occhi Girolamo, trasalì. Gli si rizzò il pelo, gli si tese la coda e le orecchie iniziarono a fare il balletto. Impaurito, scappò come un fulmine. Scese saltando a piè pari tutte le scale che collegano i due piani e si andò a nascondere sotto il carro abbandonato, come era sua abitudine ormai fare. Non gliene andava più bene una. Lui, Cherry il temerario Cherry, era scappato davanti a un topo. Se non era la fine quella! Cosa doveva accadere ancora? Quella mattina non ebbe più coraggio di tornare a fare torture psicologiche a Girolamo. Rimase lì sotto tutta la mattina.
Tito era sceso qualche centinaio di metri dal castello. Vide piante belle verdi, tutte cariche di frutti. Pensò di andare a caccia tra quegli alberi. Acquattato iniziò a girare tra gli alberi in cerca di una possibile preda. L’acquolina in bocca andava di pari passo con il crampi di fame alla pancia. Era da diversi giorni che non metteva niente sotto i denti, suo padre aveva fatto fuori tutti gli scarafaggi del castello, non gliene aveva lasciato da mangiare neanche uno. Cherry era un egoista anche con lui. Ad un tratto vide un topino impaurito muovere verso una tana. Con uno scatto cercò di raggiungerlo, Se la cavava bene con la corsa quel topino, Tito gli corse parecchio dietro ma alla fine il topo riuscì a infilarsi dentro un buco e lui rimase per l’ennesima volta a bocca asciutta. Si accontentò di un lombricone rosso che trovò vicino a un albero. Non lo masticò neanche, lo ingoiò tutto intero tanta era la fame. Imprecò verso quel topo che gli era scappato e poi si mise a riposarsi sotto l’ombra di un albero, tanto per recuperare le energie che aveva speso inutilmente a inseguire il topino che l’aveva fatta franca. All’ombra si stava benissimo, i crampi alla pancia erano diminuiti. Mangiò un altro verme che aveva trovato lì vicino. Questa volta lo masticò e ne gustò il sapore.
Tra sé pensò: “Però! Niente male questo verme. Ma chi se frega del topo che mi è sfuggito! So dove acchiapparli i topi, per ora mi basta così.”
Era lì a trastullarsi quando vicino si sentì dire: « Sss-salve! Sss-sono Sss-Sirio, come va? »
« Bene, serpentello. Ti vedo parecchio magro, mi sembri moribondo. »
« Tu sss-sapesss-si quello che ho passs-sato io! E per fortuna sss-sono ancora qui. Ci sss-sei tu? »
« Ah! Non sai chi sono io? Sono Tito, il viceré del castello. E tu, serpentello fortunato, perché ho finito di mangiare proprio adesso? »
« Ti ripeto, sss-sono Sss-Sirio, un mangia-topi passs-sato a mangia-frutta. Non fare il furbo, sss-se sss-sono cosss-sì magro c’è un motivo. Prima non ero mica cosss-sì io! Ti avverto, sss-stanno arrivando! Voi al casss-stello, tu e il tuo re non sss-sapete quello che sss-sta per accadere. »
« Cosa ci potrà mai accadere, serpentello? »
« Sss-se hai pazienza ti racconto. Qualche tempo fa, una mattina, sss-stavo sss-strisss-sciando a caccia di topi e quant’altro di digeribile per me. Arrivato a un certo punto, sss-sentii il nitido odore di topi. Erano dentro una tana. Pensss-sai tra me: ‘Piatto ricco, mi ci ficco’. Grazie al mio sss-sofisss-sticato olfatto riuscii a individuare il buco sss-superiore di quella tana. Avrei potuto fare una gran bella sss-sorpresss-sa ai topini e mangiarmene un paio. La sss-sorpre-sss-sa riuscì, dentro la tana c’erano tre  
 
topi e due gatti. Incredibile, ma vero! Uno dei tre topi aveva un camice bianco e armeggiava davanti a un banco tutto pieno di ampolle che bollivano. Mi pre-sss-sentai per impaurirli e attaccarli, non avrei mai pensss-sato a quello che poi mi sss-sarebbe sss-successo. I topi avevano finito allora di preparare la loro arma micidiale, un misss-scuglio di erbe e acqua putrida. Il vapore mi arrivò al nasss-so, era dolciasss-stro, e lo ressss-spirai involontariamente. Neanche qualche sss-secondo e nel mio sss-stomaco e nella mia pancia sss-sentii come rotolare sss-sas-sss-si e pezzi di vetro. In quel momento capii perché i topi e i gatti avevano indosss-sato le masss-schere antigasss. All’us-sss-scita dalla tana, già mi ero sss-svuotato dalla quantità di cacca che feci. Durò cosss-sì per tutto il giorno, fino alla notte, credevo di impazzire. Ma non è finita qui, la cosss-sa più brutta fu, quando finito l’effetto gasss-stro intesss-stinale, l’inizio dei sss-intomi di panico e terrore. Ne sss-sono sss-stato vittima per giorni, vedevo in continuazione topi enormi che mi volevano mangiare. Mi insss-seguivano, mi lasss-sciavano andare e poi mi riacchiappavano. Che brutto! Alla fine ho capito che non potevo andare avanti cosss-sì, sss-se fosss-sse durato ancora altri giorni, sss-sarei morto. Una mattina, dopo una notte passs-ssata in preda alla paura, dopo che mi ero annodato anche la coda, furono i topini che mi avevano ridotto in quesss-sto sss-stato ad aiutarmi. Entrarono nel buco dov’ero e mi sss-si pararono davanti. Con la paura che mi fecero e col tremore che ne sss-seguì riuscii a liberarmi dal nodo. In quel momento sss-stesss-sso decisss-si che avrei sss-smesss-sso di mangiare topi e che sss-sarei diventato vegetariano. Ecco perché tu mi hai trovato qui. Lo vuoi un consss-siglio? Torna al casss-stello e avvisss-sa il tuo re che quando sss-saranno arrivati quei topi e quel gatto nero per voi sss-sarà la fine. Allora visss-sto che sss-siete ancora in tempo abbandonate il casss-stello e sss-scappate il più lontano posss-ssibile. Fosss-ssi in voi mi rifugerei due colline più avanti. Sss-scusss-sa, mi arrampico sss-su quesss-sta bellisss-ssima pianta, vado a risss-scaldarmi un po’. »
Tito lì per lì non si rese conto. Mentre il tempo passava iniziarono a ronzargli in testa brutti pensieri. Cominciò a vedere immagini di topi parecchio più grossi di lui che lo avevano messo al muro, vedeva Heebum con denti giganti e affilatissimi che gli si avvicinava e se stesso che implorava di essere lasciato in pace, promettendo che se ne sarebbe andato insieme suo padre, nelle sue visioni più impaurito di lui. Riuscì a superare quell’attimo e quei pensieri. Scosso, si alzò e si allontanò dal frutteto. Non proseguì verso valle, tremante si avviò di nuovo verso il castello. Quel momento che gli aveva fatto così paura, sentiva che si stava avvicinando: era arrivato il momento di trovare dei rimedi. Doveva tornare da suo padre ad avvisarlo e sentire cosa voleva fare. Arrivato al castello cercò immediatamente suo padre, che era ancora sotto il carro a smaltire lo stress della paura che gli aveva messo addosso Girolamo.
« Padre! Padre, miaoo! »
« Perché mi disturbi, figlio ingrato? Non vedi che sto riposando? »
« Ti disturbo perché è bene che tu sappia a cosa stiamo andando incontro. Ascoltami, padre. Ero in un frutteto non molto distante da qui. Preso dai crampi della fame, ero andato alla ricerca di qualcosa da mangiare in quel frutteto. Ho mangiato un lombricone e un verme che mi hanno saziato. Ho conosciuto un serpente mangia-topi distrutto. Era talmente smagrito che sembrava una piccola biscia. Sai, mi ha raccontato chi e cosa lo ha ridotto così. Tu non puoi immaginare! A fargli fare quella fine sono stati Heebum e i suoi amici topi. Mi ha anche detto che stanno venendo per scacciarci. »
Cherry inizialmente si lasciò andare alla sua superbia e disse: « Cosa potrà farci mai un gatto nero e dei topi? Tuttalpiù ce li mangeremo. »
Dopo quell’uscita ingloriosa, Tito gli raccontò tutto quello che gli aveva riferito il serpente. Come egli fosse stato due volte più grande e aggressivo prima di incontrare i topi e quel gatto e prima di respirare il loro miscuglio velenoso, che lo aveva ridotto nelle condizioni pietose attuali. Il serpente, continuò Tito, si era raccomandato di prendere provvedimenti al più presto, prima che il gruppo arrivasse al castello. Addirittura di scappare al più presto.
« Mai, per tutti i gatti che fanno miao! Io non scapperò mai da questo castello. Tito, corri a cercare qualche gatto che voglia arruolarsi nel mio esercito. Dobbiamo prepararci, se così dev’essere affronteremo quel gatto nero e i topi suoi compagni. » Fece un sogghigno leccandosi le labbra: « Buoni i tre topi da mangiare, direttamente qui nel piazzale! Belli freschi. Figlio mio, non ti preoccupare. Ho tutto sotto controllo, sono il re del castello e rimarrò tale ancora per molto. »
Tito lo guardò con aria di sufficienza, non disse più nulla. Lui aveva udito direttamente dalla bocca del serpente cos’era la potenza di quel miscuglio e i suoi effetti. « Padre, io non mi farò trovare al castello quando arriveranno. Ho visto con i miei occhi un mangia-topi adulto ridotto come una piccola biscia d’acqua dolce. Mi vengono già i brividi al solo pensiero di Heebum e dei suoi amici che attraversano il ponte e si mettono a spruzzare il loro veleno nel piazzale. Non voglio neanche pensare di respirare anche una sola volta quella trovata infernale. Ti saluto, io parto. Vado a cercare fortuna altrove, caso mai dove non c’è da buttare giù armature e combattere coi guardiani per poter avere un posto dove vivere.»
« Ma che dici, Tito? Qui dopo di me ci sarai tu, non devi andartene. »
« Tu qui, padre, resterai ancora per poco e ti ricordo che il primo effetto della miscela velenosa è diarrea e gravi disturbi gastro-intestinali. Ma il peggio viene dopo, quando attacca la parte psicologica di chi l’ha ingerita o inalata, potenziando a dismisura le paure già presenti nella vittima, che aumentano di pari passo al suo caratteraccio. »
Tito scappò via dal castello a zampe levate, si girò soltanto una volta a guardare indietro suo padre, il re. Cherry come sempre, inizialmente sbruffone, disse tra sé: “Miao, per tutti i gatti che fanno miao! Non penso proprio che Heebum avrà il coraggio di arrivare fin quassù. Tra l’altro non sa neanche che sono rimasto io soltanto. Non lo temo.”
Mentre si rammentava quelle cose, tremava inconsciamente. Dopo qualche istante se ne rese conto, anche se la sua superbia gli impediva di pensare che quel tremore fosse dovuto alla paura di rivedere Heebum. Scrollò il suo pelo arancione e saltellante si avviò ai piani superiori. La prima visita la fece alla tana di Girolamo. Sbirciò con l’occhio e vide Girolamo in un angolo della tana che stava leggendo, come al solito. Non gli disse nulla, rimase lì qualche secondo e se ne andò. Non aveva avuto il coraggio. Si avvicinò alla porta della cucina, che era aperta. Si affacciò e vide i due guardiani. Uno lavorava la verdura sul tavolo con un coltello, l’altro girava col mestolo il pentolone al fuoco sul camino.
Bastiano, che lo vide, gli tirò un pezzettino di pesce avanzato dalla sera prima e gli disse: « Mangia, Cherry,  questa è la tua ultima cena qui al castello. Lo sento. »
Il gatto miagolò ruffiano e falso, ingollò in fretta quel boccone di pesce e si allontanò. Salì al piano delle armature, voleva combinare lo scherzo ai guardiani da solo, sicuro che tutto fosse a posto come lo era stato l’ultima volta che le aveva fatte cadere. Non si degnò di controllare che ci fosse il super-grasso o qualche altro cambiamento. Che in realtà c’era stato. I due guardiani, stufi di sentire in continuazione il fracasso delle armature che cadevano, si erano dati da fare e avevano messo tutte le armature, compresa quella a cavallo, chiuse dentro delle gabbie in ferro che erano fissate a terra con grosse viti. Inoltre c’era anche la strisciata di super-grasso, che sul pavimento pulito ovviamente non era possibile vedere. Cherry, sempre più preso dalla sua boria, annusò l’aria e zampettante corse fino in fondo al corridoio. Sicuro che il gioco gli sarebbe riuscito, correva il più veloce possibile verso le armature, incurante di tutto. Tirò dritto verso la prima. Come appoggiò le zampe sul super-grasso una scarica d’adrenalina lo colpì. Capì immediatamente quale sarebbe stata la sua fine. Il grasso aumentò la sua velocità a dismisura, senza che lui avesse il controllo della sua direzione. Cherry si andò a infilare tra la gabbia e l’armatura, con testa ammaccò lo stivale in ferro lasciandoci l’impronta. I guardiani, sotto in cucina, capirono che Cherry era arrivato alle armature.
Amilcare sorridente disse a Bastiano: « Ti è piaciuta la botta? È stato Cherry che è piombato addosso alle armature dove doveva arrivare. Il nostro piano è riuscito perfettamente. È facile con quel gatto. »
« Vieni qua, vecchio mio! Dammi il cinque! »
« Ok » gli rispose Amilcare e dopo essersi dati lo scambio tornarono al loro lavoro, fregandosene di Cherry. Non avrebbe avuto più ragione con loro, ora sapevano come fare per tenerlo a bada. I due vecchietti avevano iniziato a dargli pan per focaccia. Si fecero una risata quando non lo videro uscire dalla finestra di cucina che dava sul piazzale. Ebbero la conferma, con quello, che era rimasto impinzato tra la gabbia e l’armatura. Ma a nessuno dei due venne la voglia di andare a liberarlo.
Anzi, Bastiano fece ad Amilcare: « Se ci riesce, che si liberi da solo! »
« Ci siamo, amici. Continuiamo a camminare lenti che domani mattina, dopo che il sole sarà alzato, faremo il nostro ingresso al castello. »
« Ok, capo, siamo tutti con te » gli risposero i topi.
Tutto il gruppetto si mise a cercare da mangiare sotto un albero di fianco allo stradello. Heebum raschiò nell’erba morbida alla ricerca di larve e vermi per sé e per chiunque volesse unirsi a lui su quel grande vassoio naturale. Lo raggiunse Tara immediatamente e si mise a mangiare al suo fianco. C’erano larve e piccoli vermi in abbondanza. Parteciparono anche i tre topi, che si divorarono tutti i vermetti piccoli che uscivano da quel terreno. In non molto tempo erano tutti sazi.
Heebum disse agli altri: « Ora riposiamoci, domani saremo ancora più in forze. Sarà sicuramente una giornata emozionante. Se tutto andrà come penso io, riabbraccerete i vostri cari e potrete scegliervi la tana che più preferite nel castello. »
« Grazie, Heebum » fecero in coro i tre topi.
« Visto che non lascio niente di particolare, ho deciso che verrò anch’io con voi, sempre se mi accetterete » aggiunse Topisio.
« Certo che ti accettiamo! Ormai sei dei nostri » disse Miguel. « Anzi, ho una cugina che è ancora zitella e sta diventando grande. Potresti conoscerla, forse diventeremo anche parenti. Farà comodo uno scienziato al castello, anche se c’è già Girolamo che di cose ne sa tante. »
Cherry riuscì dopo ore a liberarsi da dove era andato a finire. Traballante, fece soltanto la prima rampa di scale per scendere al piano dove erano la cucina, la tana e anche l’uscita per andare sulle mura. Cherry, ancora tutto rintronato, preferì uscire sulle mura per passare la notte. Si mise sdraiato tra una merlatura e l’altra, sempre dalla parte che guardava il piazzale. Da lì vedeva anche il fossato, il ponte levatoio e lo stradello che portava a valle. Rimase appoggiato alla merlatura a guardare finché la stanchezza non lo portò via. Nutriva la speranza di veder tornare Tito con altri gatti a garantirgli un’eventuale battaglia contro Heebum e i suoi. Ma non vide arrivare nessuno. Si raccontò più volte che era il più forte, che era il migliore e che non c’era nessuno che lo potesse attaccare. Con quella litania di pensieri riuscì a prendere sonno. Ebbe più di un incubo, addirittura sognò che uscivano i lucci dal fossato e lo rincorrevano. Non era stato ancora investito dalla Topolass e già stavano uscendogli fuori le sue più grandi paure. Dopo l’ultimo incubo rimase con gli occhi sgranati ad aspettare che arrivasse il giorno, appoggiato con le zampe anteriori alla merlatura e la testa tra zampe.
« Tara, l’alba sta iniziando. È arrivato il mio e il vostro momento. Riprendiamoci il castello. Bella gatta, tu porta Miguel, io caricherò su Topisio e Carlos. »
La gatta gli passò il turbante, lui se lo mise e fece salire in groppa Carlos e Topisio. Topisio aveva in una mano un’ampolla piena di liquido di Topolass e a tracollo sulla spalla opposta portava il soffietto carico di Topolass in polvere. Effettivamente erano pochi, ma erano armati fino ai denti e avevano anche una certa sicurezza. Si incamminarono lenti, gli mancava di fare gli ultimi cento metri. Prima che il giorno fosse stato tutto illuminato dal sole avrebbero fatto la loro comparsa al castello.
Cherry continuava la sua litania per darsi coraggio e forza. Dentro di sé sentiva che il peggio sarebbe arrivato. Guardando lungo lo stradello che portava a valle, non vide arrivare nessun amico, tantomeno suo figlio. Rimase ancora lì finché il sole non cominciò a comparire del tutto in cielo. Quando la luce prese possesso del giorno, ahimè, la saliva gli si strozzò in gola. Non riusciva più a deglutire. Sullo stradello, alla sinistra del ponte levatoio, vide quello che inconsciamente non avrebbe mai voluto vedere. Heebum stava facendo gli ultimi metri della salitella che l’avrebbe portato all’entrata
del castello con due topi in groppa. Uno dei topi aveva un’ampollina in mano e un soffietto nell’altra. Fu preso da conati di vomito e furono conati incredibili. Li guardò fare qualche passo ancora poi, vigliacco com’era, disse tra sé: “È arrivata la mia ora. Vado. Miao, per tutti i gatti che fanno miao!”
A corsa tornò all’interno del castello dalle mura. Davanti alla tana di Girolamo urlò: « Un giorno tornerò a mangiarti, maledetto topo! »
Affacciato alla tana, Girolamo gli fece una pernacchia di quelle veramente rumorose.
« Si salvi chi può! » urlò Cherry.
Cominciò a correre senza mai più voltarsi indietro. Uscì dal ponte levatoio lasciando dietro di sé una nuvoletta di polvere. Mentre correva, gridava: « Aiuto! » Non si è più visto neanche nei dintorni del castello.
   
 
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