Note:
- Questa storia è stata fortemente ispirata dalla canzone Ghost Town di Madonna.
- Immagino questo AU ambientato in un setting simile a quello dell’Est Europa durante un imprecisato dopoguerra della prima metà del secolo.
- Per
quanto riguarda la Konoha dell'AU, è una
città piccola e isolata dai
monti, ma sufficientemente vicina alla capitale per essere stata
bersaglio di numerosi e devastanti bombardamenti nel corso del
conflitto. Come spesso succedeva per le città di scarsa
importanza
economica o politica, se distrutte da qualche cataclisma esse venivano
lentamente abbandonate anziché dispendiosamente ricostruite.
Fu il caso
di numerose città americane durante gli anni venti ed
è anche il caso
di Konoha.
- Per
quanto riguarda la voce narrante, si sovrappone spesso e volentieri a
Sasuke, soprattutto nell’ultima parte. Su di lui mi sono
sforzata di
essere più IC possibile, pur tenendo conto del diverso
passato del
Sasuke dell’anime e di quello di questa storia. Qui, Sasuke
non perde
tutta la sua famiglia per colpa di sua fratello, né
è ossessionato
dall’idea di ucciderlo o di diventare più forte;
la sua famiglia muore
per motivi legati alla guerra, per questo lo vedo più
malinconico e
meno propenso all’ira e alla vendetta. È un tipo
di morte che, pur
facendolo soffrire, è in grado di accettare. Allo stesso
modo, questo
suo carattere meno ostile ha fatto sì che, pur restando
tendenzialmente
asociale per via dei suoi lutti, abbia avuto qualche amico durante
l’infanzia. Ho anche aumentato la differenza di
età fra lui e Itachi.
Inoltre, anche se non strettamente necessario ai fini della trama, mi
immagino Sasuke leggermente Aclufobico.
- La
vicenda si svolge nel corso di almeno una ventina d’anni.
- La “citazione scopiazzata da qualche libro” a cui accenna Sasuke è effettivamente una citazione da Augusto (quando Svetonio gli fece dire “vi restituisco in marmo quello che mi avete fatto trovare in mattoni” riferendosi a Roma).
Per chi avesse già letto qualcuna delle mie storie, la qui presente shot può sembrare l'equivalente di un pantalone di flanella a una prima dell'opera, infatti, essendo 'monofandom' fino alla nausea, la qui presente autrice ha pubblicato solo e soltanto fanfiction su YGO. Ma c'è sempre una prima volta, no?
Buona lettura!
Promesse
Se
ne erano andati tutti.
Dapprima
le nuove generazioni.
Il
richiamo di opportunità e vite lontane dagli spettri del
passato era stato sufficientemente allettante perché i
giovani voltassero le spalle alla città che li aveva visti
nascere e crescere.
Portandosi
dietro i fratelli e le sorelle minori, avevano fatto fagotto tutti
quanti. Sasuke era rimasto a guardarli da lontano, mentre svanivano uno
dopo l’altro.
Aveva
guardato con invidia le dita dei bambini strette a quelle delle sorelle
e dei fratelli maggiori. Piccole mani riposte al sicuro in palmi
più grandi, sogni e speranze rinchiusi tra quelle dita come
in una cassaforte destinata all’infanzia.
Nessun
bambino fa caso al gesto di tenersi per mano, perché quando
comincia a farci caso è arrivato il momento in cui smette di
essere bambino. Solo i bambini che nessuno tiene mai per mano si
rendono conto che quella stretta, brusca, dolce, affettuosa che sia,
è importante. Vuol dire qualcosa perché
senza, sentono un vuoto dentro, proprio come il vuoto che
c’è attorno alle loro piccole dita; ma solo quando
i bambini che nessuno ha tenuto per mano diventano finalmente grandi,
riescono a dare un nome a quel vuoto.
Sasuke
era troppo piccolo per riuscire ancora a dare un nome al suo di vuoto,
ma sapeva perfettamente che quella che provava era invidia quando i
suoi amici scomparvero dietro le porte arrugginite del treno e il treno
scomparve inghiottito dalla galleria, la stessa galleria che Sasuke
aveva provato più volte ad attraversare insieme a quegli
stessi bambini, nei giorni in cui il villaggio rideva ancora, per poi
tornare a casa sporchi di fango e affrontare gli sguardi severi di
genitori e fratelli.
Se
li ricordava tutti i fratelli che erano scomparsi oltre la galleria in
quei giorni. Erano pochi, non ce n’era stato nemmeno uno che
fosse più grande di Itachi, ma come tutti gli altri, Sasuke
non sprecava il suo tempo a chiedersi perché. Fosse stato
per lui, avrebbe risposto che era troppo occupato a guardare con odio i
suoi amici che si allontanavano per chiederselo, ma fosse stata qualche
altra persona, magari un nonno rimasto senza nipoti, avrebbe detto che
era perché di tutti i giovani del villaggio che avevano
compiuto vent’anni prima della fine della guerra non ne era
tornato quasi nessuno. Per Sasuke non faceva differenza. Suo fratello
avrebbe continuato a fare parte di loro.
Qualche
anno dopo era stato il turno delle famiglie. Quelle ancora intere. Le
altre erano partite molto prima, insieme ai giovani.
I
bambini più piccoli erano cresciuti ormai e i padri e le
madri non erano più in grado di provvedere a loro restando a
Konoha. Né i piccoli né i grandi avrebbero avuto
futuro lì e, con la primavera, le poche case rimaste ancora
in piedi cominciarono di nuovo a svuotarsi. Una, due, tre…
una migrazione che avvolse la città nel silenzio. Lo stesso
silenzio gelido, malgrado la stagione, che aveva riempito le pareti
della casa di Sasuke dal giorno in cui gli dissero che suo fratello non
sarebbe tornato. Solo le pareti. Il tetto era crollato l’anno
prima, sotto l’impatto delle bombe.
Con
le famiglie, partirono anche tutti gli altri amici che gli erano
rimasti. Un numero esiguo in verità.
Partirono
i suoi vecchi compagni di classe, vecchi perché ormai la
scuola non esisteva più ed essendo in grado di leggere e
scrivere, Sasuke era stato esonerato dalle lezioni sempre
più deserte che il maestro Iruka teneva ogni mattino nel
cortile del municipio. Forse, partendo, i suoi amici sarebbero riusciti
a prendere un diploma, magari perfino una laurea. Sakura era brava
negli studi. Invece Sasuke ricordava a mala pena di aver terminato le
elementari. Quando l’avesse fatto era difficile dirlo, le
giornate a Konoha scorrevano lente nella loro desolata monotonia e gli
anni della sua infanzia erano come ricoperti di nebbia. Nebbia e
silenzio.
Quando
le porte del treno, ancora più arrugginite
dell’ultima volta, si richiusero catturando le prime
famiglie, Sasuke era finalmente in grado di dare un nome al proprio
vuoto e ricordava, distintamente, che, mentre il treno sferragliava
tremolante oltre il nero della galleria, aveva pensato che ora che non
gli restava più nessuno al mondo non avrebbe mai potuto
sentirsi più solo di così. E ricordava anche di
come, proprio in quel momento, l’unica persona che gli
restava al mondo gli avesse poggiato una mano sulla spalla,
stringendola come lui si ostinava sempre a fare, sempre alla ricerca di
contatto fisico non richiesto eppure, nonostante tutto, piacevole. Non
era la mano di Itachi, perché Sasuke l’avrebbe
stretta volentieri anche se non era più un bambino, ma come
sempre quella mano era proprio lì, a contraddirlo, a
correggerlo, a dimostrargli che aveva torto perché lui non era da
solo.
Sasuke
ricordava distintamente anche di averla scacciata via con una spallata,
più per abitudine che per altro, ma in quel momento, almeno
per una volta, gli aveva fatto piacere sbagliarsi.
Quando
cominciarono ad andarsene anche i vecchi, Sasuke non andò
alla stazione a salutarli con lo sguardo come aveva sempre fatto. La
vecchia galleria gli faceva più paura ora di quando era
bambino perché si rendeva conto che tutti quelli che aveva
visto sparire all’interno del nero non erano più
tornati. Invece, quando l’ultimo treno partì,
andò ad affrontare Naruto e gli chiese cosa desiderasse fare.
Seppur
ingenuo, il suo amico non era sciocco e aveva sicuramente compreso che
di Konoha ormai non sarebbe rimasto più niente,
probabilmente neanche qualche topo con cui fare conversazione.
Ma
anche se non sciocco, Naruto era testardo, più testardo
perfino di Sasuke, e dopo poche parole cominciarono a urlarsi contro a
vicenda perché Konoha era morta e quell’idiota si
rifiutava di lasciarsi dietro le spalle quelle strade in putrefazione,
dove l’asfalto colava liquido e consunto di pioggia come pus
da una ferita infetta. Konoha era la sua casa, diceva invece, il suo
passato, la cassaforte dove aveva custodito tutti i suoi sogni, e lui
non l’avrebbe lasciata.
Era
follia, pure, semplice follia. Eppure Sasuke rimase a Konoha con lui.
Non aveva più nessuno, la galleria lo fissava minacciosa
come un ciclope con quel suo unico occhio nero, e lui non voleva
attraversarla da solo. Non sarebbe potuto andare da nessuna parte senza
Naruto: la solitudine scorreva ancora nelle sue vene, gelida, sibilando
come un serpente ogni volta che varcava la soglia di casa, e la
consapevolezza che, senza la risata irritante di Naruto, quel silenzio
sarebbe potuto diventare ancora più assoluto lo terrorizzava.
Rinunciò
a partire e si forzò a rivivere i suoi ricordi ogni giorno,
si costrinse ad affrontarli e quando il silenzio divenne troppo freddo
persino per lui, afferrò l’ultima delle foto di
Itachi e si trasferì a casa di Naruto. Se non poteva
costringerlo ad andarsene allora sarebbe rimasto, ma a una condizione.
Gli
fece promettere che Naruto non se ne sarebbe mai andato, che non
l’avrebbe mai lasciato, che sarebbero stati sempre insieme.
Sempre. Stretti proprio come le mani dei bambini erano strette a quelle
dei loro fratelli. Loro due, da soli, in mezzo alle rovine. Contro il
buio e il silenzio.
Si
fece ripetere la promessa ancora e ancora, settimana dopo settimana,
“non ti lascerò mai”,
facendosi prendere in giro, facendo di quelle parole un mantra e poi
uno slogan, un ritornello che Naruto canticchiava ogni volta che doveva
allontanarsi, anche solo per pochi minuti. A Sasuke non importava. Gli
bastava che quel giuramento non venisse mai infranto.
Glielo
fece promettere di nuovo il giorno in cui pensò per la prima
volta che quelle parole avevano un bel suono quando erano pronunciate
da Naruto. Ancora una volta la notte in cui capì di essersi
innamorato perché, qualunque cosa fosse successa da quel
momento in poi, qualunque cazzata avesse fatto, Sasuke aveva bisogno di
sapere che lui non poteva andarsene.
La
prima cazzata fu baciarlo, anche se a conti fatti fu forse la seconda,
perché la prima era stata non rendersi conto che, nonostante
la risata irritante e le prese in giro, il suo ultimo amico ricambiava.
Ricordava ancora il sapore delle sue parole, non
ti lascerò mai, sussurrate metà sulla
sua bocca, metà dentro. Sempre le stesse. Non si sarebbe mai
annoiato di sentirle.
Vennero
altre cazzate: baciarlo ancora, accettare di essere innamorato, confessare di
essere innamorato, baciarlo, baciarlo di nuovo, finire a dormire nello
stesso letto, fare l’amore. Farsi tenere per mano. Nessuno lo
aveva mai tenuto per mano da quando era morto Itachi. Sasuke si era
sempre rifiutato di farsi prendere per mano dagli amici, dai loro
genitori, dagli insegnanti. Tanto che la gente finiva per strattonarlo
o afferrargli il braccio. Non gli importava, sempre meglio che invadere
quello spazio che nella sua memoria doveva appartenere solo a suo
fratello.
Naruto
lo sapeva, a quanto pare amava impicciarsi della vita di Sasuke quindi
non poteva non saperlo, e doveva aver studiato attentamente il momento
e il modo giusto per mettere in atto il suo infido piano
perché, per magia, Sasuke non sentì
l’impulso di strattonare via la mano quando le dita di Naruto
la sfiorarono, sussurrando ancora la sua promessa.
Non
era la stretta di Itachi, eppure in qualche modo riusciva a colmare il
vuoto, un’altra magia forse, o un altro modo di Naruto di
dimostrare a Sasuke che aveva torto a pensare che solo suo fratello
avrebbe mai potuto sciogliere la solitudine.
Carte
alla mano, Sasuke si era sbagliato spesso negli ultimi anni. Quando
aveva creduto di non avere più nulla da perdere, era stato
contento di vedersi contraddetto. Quando aveva creduto di non avere
più un futuro a Konoha, non gli era dispiaciuto trovarsi in
errore ancora una volta.
Naruto
aveva grandi ambizioni: avrebbe ricostruito la città. Lui e
Sasuke insieme. Solo Naruto se Sasuke si fosse rifiutato. Non gli
importava quanto ci sarebbe voluto: considerava l’intera
Konoha la propria eredità e aveva intenzione di lasciarla ai
posteri splendente come marmo.
Una
citazione scopiazzata da qualche libro probabilmente: Sasuke dubitava
che Naruto conoscesse perfino il significato della
parola posteri. E poi di quali posteri parlava? Erano in due e basta,
le uniche anime ancora vive di una città fantasma. Ma, in
fondo, cosa aveva di meglio da fare? E fu così che per un
po’ di mesi si improvvisarono carpentieri. Naruto lo aveva
persino rimproverato perché un giorno lo aveva trovato a sorridere.
E
poi, quando la guerra sembrava finalmente solo un ricordo lontano,
quando si era abituato a far finta che tutta quella distruzione fosse
colpa di un terremoto e che suo fratello non fosse morto
perché qualche soldato nemico gli aveva fatto saltare il
cervello con un proiettile, quello stronzo del karma decise di
dimostrare a Sasuke che si era sbagliato ancora. Che la guerra
c’era stata, che non aveva ancora finito di soffrire, che
c’era ancora qualcosa che valeva la pena non perdere e che
tutte le promesse che si era fatto dire negli ultimi anni, tutti i
“non ti lascerò mai”,
potevano essere infranti. E il karma li infranse come
un’automobile uscita fuori strada infrangerebbe i vetri di
una cristalleria. In migliaia, milioni di pezzi, troppo piccoli per
sperare di poterli mai incollare fra loro.
Quanti
anni erano passati dall’ultimo bombardamento? Dieci? Venti?
Eppure quando sentì quel suono, quel boato cavernoso che non
poteva che provenire dalle bocche più maledette
dell’inferno, Sasuke si sentì di nuovo bambino, di
nuovo come quel giorno di tanti anni fa quando suo fratello lo aveva
trascinato in cantina urlando durante il primo bombardamento.
Tutti
i mobili della cucina avevano cominciato a tremare quel giorno, proprio
come durante un terremoto, ma Itachi lo aveva tirato fuori dalla camera
prima che Sasuke potesse mettere la testa sotto il tavolo come gli
aveva insegnato il maestro. Per anni passò più
tempo in quella cantina che nella sua vera stanza, in genere al buio e
in silenzio perché sua madre aveva il terrore di attirare
gli aerei.
Questa
volta il boato era stato uno solo. Più forte di tutti gli
altri per via dell’eco che rimbalzava da casa a casa nel
silenzio di tomba della città. Prima di rendersene conto,
Sasuke stava già correndo, dove di
preciso non lo sapeva neanche lui, ma confidava che prima o poi le
gambe o l’istinto l’avrebbero portato nel posto
giusto. Le parole ‘no, no, no, nonononono’
rimbombavano disperate nella sua testa. Ma non avrebbe pianto, non
ancora. Probabilmente quell’idiota se l’era cavata,
come la solito.
Quando
arrivò sul posto la polvere stava ancora raggiugendo le
nuvole in dense spire grigie. La puzza di muffa e bruciato, fin troppo
familiare, appestava l’aria e brandelli di mattoni
ruzzolavano ancora giù dall’edificio.
Sasuke
si coprì il volto con la maglietta per provare a respirare.
Il secondo e il terzo piano dell’alimentari che Naruto aveva
cominciato a risistemare quel giorno erano crollati, inondando il piano
terra di macerie. Fuori, mezza sepolta dai detriti, c’era
ancora la sua macchina.
Idiota.
Idiota. Idiota. Lui e i suoi sogni, idioti quanto lui.
Avrebbero dovuto andarsene finché erano ancora in tempo, e
adesso quell’idiota aveva rovinato tutto.
Perché
quella dannata bomba aveva deciso di esplodere solo adesso? Che cazzo
aveva fatto Naruto per farla esplodere? Sasuke lo avrebbe abbracciato e
poi ucciso di botte non appena lo avesse tirato fuori.
Il
tessuto stretto sul volto, si avventò sui brandelli di
edificio. Ne tirò via uno, due, cento, mille. Le unghie e le
braccia gli sanguinavano e le ferite erano piene di intonaco
sbriciolato. Mille, duemila, tremila. Non
azzardarti a morire. Non azzardarti a morire, Naruto. Quattromila
ed era già notte ma il cumulo di macerie non sembrava
diminuire e Sasuke era stremato, il sudore gli colava giù a
rivoli lungo la schiena, infangandolo di umido e calce. Si
alzò in piedi, a osservare la devastazione che gli si parava
davanti e si sentì piccolo, infinitamente piccolo di fronte
al silenzio che aveva fatto seguito al grande boato. Il fumo si era
ormai diradato e rimanevano solo le macerie del vecchio negozio,
tonnellate e tonnellate di macerie che non sarebbe mai riuscito a
smuovere. Non da solo.
L’epifania
lo colpì con la violenza di un dardo, di una freccia portava
persino lo stesso dolore. Lo fece cadere in ginocchio sui cocci
taglienti dei foratini, schiacciandolo col peso della verità
e, lentamente, mentre le lacrime scendevano una dopo l’altra
come una cascata, la polvere sotto di lui si fece umida. Era solo
adesso. Completamente, totalmente solo.
Se
ne erano andati tutti.
Passarono
giorni prima che Sasuke riuscisse a rimuovere anche l’ultimo
pezzo di cemento dal luogo dell’esplosione. Il corpo di
Naruto era irriconoscibile, sfregiato dal crollo e dal tempo passato
sotto le macerie, e Sasuke per poco non vomitò. Non solo si
era azzardato a morire, ma lo aveva fatto senza neppure dargli la
possibilità di salutarlo come si deve, di proteggerlo...
Decise che non gli avrebbe mai perdonato il fatto di essersi rimangiato
la sua promessa e decise anche che lo avrebbe raggiunto presto, per
poterglielo dire in faccia. Se ne erano andati tutti in fondo, tanto
valeva che se ne andasse anche lui.
Ma
i fratelli, le famiglie, gli anziani se ne erano tutti andati via in gruppo.
L’idea di dover partire da solo lo terrorizzava: non aveva
più nessuno che potesse accompagnarlo.
Quella
notte stava passeggiando su e giù per i binari della vecchia
stazione, in cui l’ultimo treno in transito era passato non
meno di due anni prima. Il vento sibilava fra le panchine arrugginite e
si andava a rifugiare nella bocca nera della montagna portando con se
un’eco di esplosioni e grida, spingendola lontano, oltre la
galleria, in luoghi che Sasuke non avrebbe mai visto.
Il
freddo di dicembre sgretolava a ogni suo passo i binari ghiacciati,
fragili come capelli, e lo minacciava artigliandogli i piedi. Ma Sasuke
era da tempo immune a quel tipo di freddo: ne sentiva costantemente uno
ben peggiore, dentro, nelle sue ossa, nel suo corpo, un’altra
eco che rimbombava sorda contro le pareti del suo cuore.
Non
voleva vedere un’altra alba in quella città
fantasma, non aveva più lacrime da piangere. Voleva
raggiungere Naruto e farlo pentire di averlo preso in giro,
schiaffeggiarlo magari, e poi abbracciarlo. Riusciva ancora a sentire
le parole della vecchia promessa echeggiargli vuote nella testa: anche
la sua immaginazione si prendeva gioco di lui.
Quella
notte sentiva che l’avrebbe fatto davvero, anche se aveva
paura, perché il freddo era troppo intenso e la
città continuava a fissarlo attraverso i vetri fracassati
delle finestre, migliaia di occhi guerci puntati su di lui mentre
rincasava. Sarebbe impazzito se fosse rimasto anche solo un giorno di
più in quel cimitero di edifici. E fu proprio
l’ipotesi di aver completamente perso il lume della ragione a
fermarlo sul più bello, sulla soglia della cucina.
Fu
il trovare il coraggio e l’umiltà di girarsi
quando sentì un fruscio alle sue spalle e il buon senso, o
forse cattivo senso,
di non scappare quando le parole non
ti lascerò mai ricominciarono
ad echeggiare per la stanza. I suoi occhi non riuscirono a vedere
nulla, la sua testa continuava a ripetergli che era solo il frutto
della sua immaginazione, ma qualcosa gli sussurrò di fidarsi
e Sasuke decise di mettere giù il coltello.
La
voce lo seguiva ovunque, a volte scherzosa, a volte più
seria, quasi straziata, una volta perfino rotta dal pianto di rimorso
per aver infranto la propria promessa. Era irritante, esattamente come
Naruto, ma era sempre lì, non lo lasciava mai, e invece di
impazzire, Sasuke si sentì come se avesse ritrovato la
ragione. Non
ti lascerò mai, non ti lascerò mai, non ti
lascerò mai. Poteva essere una minaccia o una
maledizione, ma lui vi si aggrappò come si era aggrappato
alla mano di Itachi quando suo fratello lo aveva trascinato in cantina
per la prima volta: con cieca fiducia. Forse perché ne aveva
bisogno e basta, forse perché si fidava ancora di Naruto e
della sua promessa. Forse perché era davvero pazzo.
Quanto
durano le illusioni? Un secondo, due al massimo. I miraggi poco di
più. Ma la voce lo seguì ogni giorno per mesi,
più intensa ogni volta che Sasuke ripensava di togliersi la
vita. Lo seguiva ancora adesso. Ancora una volta gli dimostrava che si
era sbagliato, perché Naruto non era un bugiardo: sarebbe
rimasto al suo fianco fino all’ultimo dei suoi giorni, senza
rimangiarsi le proprie parole neanche dopo essere morto.
Per
colpa di quella voce, dovette rinunciare all’idea di
raggiungere Naruto. Questo non toglieva però che fosse
ancora arrabbiato: aveva sempre nutrito una certa passione per le liti,
specialmente se riguardavano il suo ultimo amico. Che fosse
un’illusione o un fantasma non aveva più
importanza ormai e quello che era certo era che un Naruto ectoplasma
non era come un Naruto vivo, e un’eco logorroica non era come
una vera voce. Almeno però, non era ancora da solo in quella
città e col passare degli anni cominciò ad
abituarsi alla presenza di quella voce, accanto a lui. Se si
concentrava, a volte riusciva persino a sentire qualcosa intorno alla
sua mano: calore, formicolio, come se qualcuno avesse provato a
sfiorarla.
Oggi,
la galleria sembrava meno minacciosa di quella notte di tante settimane
fa, quando era stato a un tanto così dal raggiungere tutti
gli altri che se ne erano andati. Era ancora nera, ancora spalancata e
pronta a inghiottirlo, il vento ululava ancora, ma Sasuke le
voltò le spalle. La città era la sua eredità
adesso e gli occhi con cui lo fissava non erano più
così minacciosi, ma disperati e imploranti. Era folle,
ancora una volta, ma la voce di Naruto gli venne dietro mentre prendeva
la sua decisione.
Aveva
un dovere verso Konoha, e uno più profondo, verso Naruto.
Sarebbe stato l’unico a non andarsene.