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Autore: G K S    09/08/2015    1 recensioni
Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia, agyrofobia.
Queste sono tutte le facce di Kell, tutti i suoi demoni, tutte le sue fobie.
L’unica cosa che ha sempre potuto fare è resistere, contro ogni convinzione e anche contro il suo stesso volere, ha quasi diciassette anni e l’unica cosa che vorrebbe fare è vivere.
E dove finisce? Beh, il Quattrocentoventisette è un istituto correttivo per ragazzi affetti da fobie, proprio come lei. Troverà Cecely, Victor e anche Jeh, il fantasma del suo passato, il ragazzo sfigurato con l’occhio di vetro che non ha mai dimenticato e le cose per lei non sembrano andare troppo male...
Solo che le cose non sono esattamente come sembrano, anzi, le cose in realtà sono ancora più complicate di quelle che sono...
Genere: Introspettivo, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- minuscolo spazo autrice -
sconcertanti rivelazioni e colpi di scena in questo capitolo 
*musichetta da televendita televisiva*
novità soprattutto sul fronte Kell e Jeh, preparatevi psicologicamente
e sarei super felice di sapere cosa ne pensate xoxo 







20. Ingiustizia 


Era in piedi, appoggiata al suo albero preferito del giardino, guardava Emeric e Nikki. Rientravano perfettamente nel suo campo visivo ma erano a distanza; senza qualcuno vicino che le tenesse il braccio era difficile per lei non far accelerare il battito cardiaco, soprattutto se i suoi due interlocutori si imbeccavano nel modo in cui stavano facendo.
«E’ tutta colpa tua.» Sussurrò Emeric guardano la ragazza disgustato: «Se non fosse stato per te niente di tutto questo sarebbe successo…»
«Tante storie perché ho detto che la tua preziosa Catherine marcirà sicuramente all’Inferno, davvero Em? Sta tranquillo con un po’ di fortuna alla fine la raggiungerai anche tu.»
«Sei tu l’unica che merita di marcirci, e lo sai benissimo razza di subdola piccola…» «Ragazzi.» Lo frenò Kell senza servirsi di altri mezzi oltre la propria voce: «Non è il momento di litigare per queste scemenze.»
«Ti sembrano scemenze Kell?» Emeric la guardò contrito.
«A me sembra che tutto stia andando secondo i piani, non dovremmo più incontrarci in segreto come dei ricercati, qualcuno potrebbe capire che c’è qualcosa che non va.» Sussurrò a Nikki di rimando rimboccandosi una ciocca di capelli rossi tinti dietro l’orecchio sinistro.
«Voglio solamente sapere se siamo d’accordo sulla versione da dare se eventualmente le cose dovessero rovesciarsi e… andare male.»
«Certo.» Disse Nikki sorridendo: «La verità, Emeric ha spinto Catherine di sotto.»
«Perfetto.» Annuì Kell, si guardò le scarpe, di pelle, nere, in mezzo all’erba verde smeraldo, si sentiva in imbarazzo: «Allora siamo d’accordo.»
Girò sui tacchi, stava già camminando, si era già appoggiata a un altro albero per darsi sostegno ma non era completamente assorta, sentì Nikki pronunciare distintamente le parole: «Sta tranquillo,  a me toccherà lo stesso, tu e quella strega non sarete gli unici a bruciare all’inferno.» Kell sentì Emeric ridere, non capiva il loro rapporto, ogni giorno davanti ai suoi occhi era sempre più assurdo, più strano, sospetto.
E poi sentì le parole di risposta del ragazzo: «Mi prenderei la colpa al posto tuo se le cose dovessero andare male solo perché la colpa peggiore è la mia, non ho capito subito che razza di persona sei…»
Si era allontanata, ma non abbastanza da non distinguere le parole del ragazzo. 
A Kell si bloccarono le ginocchia.
Pensò che probabilmente non avrebbe più mosso un altro passo.
Rimase ferma, immobile, in mezzo al prato.
Si sentì aprire bocca, dire una parola, ma nessuno sentirla.
Presa da uno slancio di forza di volontà riuscì lentamente a girarsi verso i ragazzi:
«E’ stata Nikki?»
Vide Nikki sorridere: «Tu rispetterai il volere di Emeric.»
Il ragazzo abbassò lo sguardo al prato: «Lo farà, lo faremo tutti, vero?»


L’aula di terapia di esposizione di Cecely e Victor era identica alla loro; la professoressa Dorles li osservava guardinga annotando un paio di cose su un taccuino. 
Stavano aspettando tutti e quattro che il resto della classe finisse l’esercizio, mantenere il contatto fisico con un compagno per più di venti minuti; stranamente Cecely e Victor avevano appena battuto l’ultimo record, si sorridevano tranquillamente, come se la cosa in se fosse perfettamente normale.
Forse era proprio quello il trucco, si disse Kell, fingere che fosse normale.
«Sembri assorta.» Jeh si piegò leggermente in avanti. 
Lo scrutò smettendo di guardare due compagne di classe intente a tenersi le mani: «Lo sono.»
«Novità?»
Lo osservò, guardando negli occhi la scelta che aveva preso e che non aveva alcuna intenzione di spezzare. 
Scosse la testa silenziosamente, sorrise, tornò a guardare le due ragazze.
Forse Jeh stava per dire altro, Victor lo interruppe in ogni caso: «Ho proprio voglia di smettere di pensare a queste cose per un po’.» Vide Cecely aggrottare le sopracciglia a quelle parole; si stava aggiustando le stringe degli stivali di pelle, persino quel momento era familiare nella sua piccola vastità.
«Alle fobie o a tu sai cosa.»
«Tu sai cosa; dimenticare le fobie non ha molto senso a questo punto.» Il ragazzo con i capelli biondi porse una mano all’amica dalla parte del palmo, Cecely non sembrò stupita, la prese con calma, nient’affatto tremante, nient’affatto schiacciata da quel gesto.
Era qualcosa che non provava con Jeh, solitamente era impossibile che almeno all’inizio di ogni momento non cominciassero a tremargli le mani, la calma non era un concetto reale nella sua realtà, c’era la calma tempestosa ma quella non è autentica…
La vera calma la trovava nel secondo piano, in quello nascosto per il bene altrui, nella verità che aveva scoperto.
Emeric amava Catherine, non avrebbe mai ucciso la persona che amava ma Nikki, Nikki aveva ucciso per vendetta, dolore, gelosia, per ferire e lei la stava coprendo perché la chiusura dell’istituto era un fine superiore e… Jeh alzò gli occhi al cielo, a una battuta di Victor che lei non aveva sentito, sorrise anche lei; non si sentiva ne tremante ne in colpa, si sentiva nel giusto, si sentiva di proteggere, Kell sorrise abbassando la testa.
Si stava cacciando in qualcosa più grande di lei ma aveva quella strana sensazione addosso, la sensazione insinuava nella sua mente il dubbio che sapendo che il colpevole non era Rang gli altri avrebbero voluto far pagare il vero colpevole, Cecely per prima tanto attaccata all’idea moralmente giusta che l’aveva convinta ad unirsi a loro.
Emeric meritava di rifarsi una vita autonomamente combattendo da solo contro l’incubo che doveva essere Nikki. 
Quanto a Nikki, viveva comunque in un istituto psichiatrico e Kell le aveva letto negli occhi quanto l’idea di fare del male a qualcun altro fosse completamente distante dalla sua mente visto il male che si era procurata; Nikki stessa sentiva di non stare bene mentalmente parlando e questo era chiaro a tutti.
Forse cercava solo di giustificarsi.
Forse le sue azioni erano talmente ingiustificabili che l’unica cosa che poteva fare era cercare giustificazioni.
Quando uscirono si sentì tirare via da Jeh, stava andando a sbattere contro la porta, era talmente presa dai suoi pensieri che si stava addirittura dimenticando di essere insieme alle persone a cui stava nascondendo tutto. 
I suoi amici, gli unici amici che avesse mai avuto.
Kell non si comprendeva, non fino in fondo, ma ormai, si ripeté per la trentesima volta si era spinta troppo oltre e il bene superiore lo vedeva ancora e anche molto nitidamente, e forse era quello il lato peggiore, che il fatto di mentire agli altri, sapere di doverlo fare, rendersi conto della verità: non importava.
L’unica cosa importante era incastrare il vero colpevole di tutto, scosse la testa cercando di non pensare alle altre cose che in quel momento turbavano la sua mente.
«Kellan? Hall, stai dormendo a occhi aperti?» La predica della professoressa Soan la costrinse a tornare alla realtà, si ritrovò a guardare scocciata il suo stesso quaderno di matematica, alzò lo sguardo verso la professoressa: «Mi scusi.» Borbottò.
Da entrambi i lati Cecely e Jeh si girarono di sottecchi a guardarla interrogativi.
«Che ne dici di venire alla lavagna?» 
Mentre si alzava in piedi sentì le ginocchia tremare sensibilmente, come la sua mano mentre premeva il pennarello sulla lavagna bianca, sporadicamente fece qualche segno più storto del dovuto, ma tutto sommato se la cavò bene.
Quando tornò a posto fece un respiro profondo, prese la mano che Jeh le porgeva: «Tutto bene.» Disse.
«Lo vedo.» Sussurrò Jeh sorridendo.
Stava meglio, se stava meglio era soprattutto merito suo, gli sorrise a sua volta.
Jeh aveva scandito due tempi della sua vita.


Compose il numero della Urlink, chiusa in bagno a chiave, erano circa le quattro e mezzo di notte, nel pomeriggio erano corse voci all’interno del Quattrocentoventisette, voci non esattamente propizie.
Anluan e Itsuko erano arrivati correndo al loro tavolo, dicendo loro di aver parlato con genitori che con un inequivocabile chiarezza avevano loro comunicato che Rang aveva accusato Nikki e Emeric di aver mentito e non solo, li aveva anche accusati dell’omicidio di Catherine, niente di strano Kell si aspettava che avrebbe cercato di scolpevolizzarsi, come biasimarlo, non era direttamente il colpevole.
Ma aveva bisogno di certezze, per se stessa e per gli altri così sentire la voce della Urlik tentare di rassicurarla era tutto ciò di cui avesse bisogno in quel momento.
«Kellan?»
«Sì sono io.»
«Perché hai chiamato?»
«Per informarmi di Rang… si dice che abbia detto che sono stati Nikki e Emeric a uccidere Catherine.»
«E’ vero, l’ha fatto, niente di nuovo, insomma… c’era da aspettarselo, ovviamente entrambi i ragazzi verranno interrogati nuovamente e sta tranquilla, se non nascondono niente non avranno da temere, la loro storia regge.»
«Ha anche dei punti bui.»
«Ne ha, ma di rado nelle verità giudiziarie più semplici non restano punti oscuri.»
«Molto rassicurante.»
«Kellan… se nascondono qualcosa, qualsiasi cosa che non li porti a essere incriminati allora possono tenersela per se, per noi non è necessario sapere ogni cosa, i nostri criminologi troveranno da soli ciò che deve essere trovato, mi segui?»
«Ti seguo.»
«Non è affar nostro cos’è accaduto tra Nikki e Emeric se non c’entra con l’omicidio, è chiaro?»
«Chiaro.»
Però con l’omicidio centrava eccome, Kell riattaccò, si alzò in piedi, afferrò la maniglia della porta del bagno, fredda esattamente come quando due minuti prima l’aveva abbassata per entrare.
Era il momento di tirare le fila, si disse mentre metteva in ordine i libri da portare il giorno dopo a lezione, era la resa dei conti, sarebbero dovuti quadrare, a farli quadrare doveva essere anche lei o soprattutto lei a seconda di come volevano vedere i fatti gli altri.
Si infilò nel letto, il lenzuolo era freddo, non c’era Jeh, probabilmente non ci sarebbe più stato; respinse quell’idea come si respinge un insetto che ci si è fatto troppo vicino. Non poteva realmente aver pensato che sarebbe stato facile convincerlo a fidarsi di lei, buttò il cuscino a terra e si abbandonò mollemente sul materasso rigido, Jeh preferiva dormire senza cuscino, si mise a pancia in giù, per la maggiore a Jeh piaceva dormire a pancia in giù, si sentiva stupida, si sentiva come una ragazzina, una bambina, con un ossessione immotivata per qualcuno.
Ma la sua per quanto ossessiva non era semplicemente un ossessione; non lo era mai stata, probabilmente neanche in principio.
Non aveva sonno, mentre lui ora dormiva, era felice che dormisse, purché Jeh fosse felice stava macchinando un folle piano vendicativo; l’unica cosa che avesse senso fare era cercare di renderlo felice. 
Raccolse i cuscino dal pavimento e se lo mise sopra la testa, lei l’aveva visto subito, fin dall’inizio, con la testa china, lo sguardo perso nel vuoto, le braccia bianche, lunghe per la sua età pendere come steli di un fiore e gli occhi, entrambi grigi che sembravano volerti inchiodare all’asfalto di una strada.
Non era cambiato quasi niente pensò Kell, soltanto una cosa, e per lei non aveva mai avuto grande importanza.
Invece le cose tra loro erano cambiate, in meglio e non riusciva a descrivere come fosse felice di poterlo abbracciare, toccare, guardare, senza sentirsi in imbarazzo, almeno non del tutto, ma ora sapeva, ora lo sentiva con una rassegnazione e una consapevolezza nuovi.
Lei aveva visto lui, dal primo istante, in modo lampante, ovvio, totalizzante, e non aveva più visto nessuno dopo di lui. Era forse triste ammetterlo ma per tutti questi anni non aveva fatto altro che cercare negli occhi degli altri quella stessa cupezza rassegnata di chi sta aspettando. 
Magari me, magari…
Ma lui era rimasto com’era, migliorando, sorridendo, ma non l’aveva mai vista, e non l’avrebbe mai vista dopo; Kell conficcò un paio di dita nel materasso; tutto quello che aveva fatto l’aveva fatto per lui e lui non l’avrebbe mai ricambiata perché Jeh non era fatto per entrare in quei rapporti con le persone, spinse le dita un po’ più a fondo nel materasso, era quella la verità, perché scappare.
Poteva amare ciò che c’era, ed era poco, ed era vano, ed era niente forse, ma era pur sempre qualcosa e a lei non importava avere di più se l’alternativa era avere niente, come non importava a lui.


«E quindi è così.»
Cecely ora bisbigliava: «Sì.» Salirono una rampa di scale quasi correndo, si fermarono verso la terza quasi piegate in due dallo sforzo: «La Patricks…» Kell scosse la testa ripetendosi mentalmente ciò che la sua amica le aveva detto un paio di minuti prima: «Ammette di aver mentito.»
«Era ovvio Kell, era assolutamente ovvio.»
Kell si aggrappò al corrimano di legno, fresco e al tempo stesso già caldo a contatto con la sua pelle: «Ciò porterà a delle conseguenze, conseguenze gravi.»
«Cioè?» Ripresero a salire le scale, ormai col fiatone.
«Per la Patricks ammettere di non aver visto Nikki da nessuna parte… significa ammettere di aver mentito alla polizia per una ragione.»
Sul volto di Cecely si accese come una specie di lampadina: «Sì, è quello che mi ha detto mia madre: ha dichiarato che Rang l’ha convinta a dire che Nikki era sotto con Emeric perché a suo dire avrebbe creato delle sgradevoli pubblicità al Quattrocentoventisette e un’esposizione mediatica da cui voleva scappare fin dal principio, ti ricordi no?» Si fermò, la prese per un braccio, lasciarono passare un paio di persone; Kell annuì a se stessa: «Nikki, la ragazza amica stretta di Catherine…» Cecely assentì: «La ragazza che sul suo fascicolo ha evidenziati i principi di isteria e instabilità mentale, l’aveva coperta ma ora smentisce tutto, è chiaro, ora conviene a Rang ora vogliono accusarla.»
«Perfetto.» Kell ricominciò a camminare: «Mi aspetto un monologo della Strins dei suoi.»
Cecely sospirò: «E io della Dorles.»
Attraversarono il corridoio in fretta, Cecely in ritardo quanto lei la superò fiondandosi nella sua classe di terapia di esposizione e Kell fece lo stesso, limitandosi ad abbassare la testa e cercare di non guardare Jeh.
«Bene bene bene.» Esordì la Strins vedendola sedersi sulla sua sedia nera proprio di fianco a lei.
«Ma chi si rivede, la maggiore attentatrice alla sicurezza di questo posto stregato, dico bene?»
Qualcuno rise; gli occhi caddero inevitabilmente su Jeh, la stava guardando anche lui, per due secondi sentì l’idea dell’esistenza della Strins scivolarle completamente addosso: «Può essere.» Rispose forse con eccessiva sicurezza.
La Strins rise, la bombetta nera le ricadde sopra la testa arrivando a sfiorare gli occhiali, doveva essersi rasata i capelli da poco, erano ancora più corti del solito.
«Ma a chi vogliono darla a bere…» 
Sorprendentemente, Alice, supportata da una Bernadette intenta a applaudirle mentalmente davanti al naso aveva parlato.
«Cosa vuoi dire cara?» La Strins si vece docile.
«Non può essere stato Rang, è ridicolo, è stata Nikki, penso di averlo sempre saputo, è chiaro che lei è l’unica che aveva delle  buone ragioni per volerla morta.»
«E cioè?» Sussurrò Kell esitante: «Dubito che possano esistere “buone ragioni” per uccidere una persona.»
Alice rispose con un alzata di spalle e poi con una frecciatina spudorata disse: «Emeric non la voleva e lei voleva Emeric,   sappiamo perfettamente come gli amori non corrisposti per lungo tempo ignorati distruggano rapporti, persone e vite. Nikki è una pazza, qualcuno avrebbe dovuto aspettarselo.»
Alice lanciò a Kell uno sguardo eloquente e poi trafisse Jeh con un sorriso ironico, qualcuno nel cerchio di sedie rise di loro.
«Attenta a ciò che dici Alice.» La Strins sembrò gonfiarsi come un pavone per la propria acutezza, anche un idiota si sarebbe reso conto che Alice stava velatamente accennando a Kell e Jeh e lei stessa.
«Potresti essere facilmente incriminata in un futuro non troppo lontano.»
«Non ne dubito.»
Jeh teneva lo sguardo basso.
La travolse un ondata di disgusto in tutto il corpo.
Si sentiva la testa pesantissima, il peso dell’oppressione era difficile da contenere.
Ho bisogno di parlargli riuscì a pensare.
«Nikki deve marcire in prigione.»
«O in riformatorio.»
Tutta la classe scoppiò in una fragorosa risata.
Kell non capì, non rise, non ci trovò assolutamente niente di divertente, sapeva che ora la situazione era più difficile che mai e si sentiva oppressa dall’idea che la verità fosse sempre stata così ovvia.


Nikki e i suoi capelli tinti, con tanto di leggera ricrescita castano scuro, troneggiavano in sala da pranzo, Emeric al suo fianco a braccia conserte la guardava con l’aria di chi sta guardando un condannato a morte farsi largo tra la folla.
«Tutto ciò mi sta danneggiando il cervello.» Jeh chiuse il libro di letteratura e la scosse per un braccio, intenzionato a farle smettere di guardare Emeric e Nikki.
«Torno subito.» Il braccio di Jeh ricadde sulle sue ginocchia, lo sentì lasciarsi sfuggire un sospiro contrito; si allontanò in fretta.
Forse era ora di rendersi conto per lei che doveva smettere di pensare tanto a Jeh, non ce n’era davvero motivo, significava solo farsi del male all’interno della sua incapacità di vederla davvero; si sedette insieme ai ragazzi, non voleva essere come Nikki, disperata, annullata dal suo stesso desiderio.
Chiuse gli occhi strizzandoli con forza: «Ti incrimineranno Nikki.» La ragazza con i capelli rossi annì: «Lo so.»
«E?» 
«E? Ho Emeric, potrei lasciargli prendersi la colpa fin da subito, già da domani, ma voglio dare una chance a voi due di incastrare Rang, è la cosa più giusta.» 
Forse no. 
Kell assentì: «Sai cosa dire e cosa fare, quando verranno a prenderti, non dire niente e aspetta il tuo avvocato, ne hai uno vero? I tuoi ne hanno…» «Naturalmente.» Nikki annuì: «Costato un patrimonio, vedrai, riuscirò a tirarmene fuori, me l’aspettavo.»
Kell sfregò le mani sul tavolo.
«Perfetto.» Si alzò in piedi, realizzando che Emeric non aveva detto una parola, lo guardò, i suoi occhi verde smeraldo lo scrutarono pensierosi: «Vieni Em? Io ho quasi finito di studiare e…» «Sì.» Era chiaro che non vedesse l’ora di uscire da quella situazione e dallo sguardo della colpevole.
Nikki si dileguò un minuto dopo: «Io vado da Sibille.» Disse.
Emeric la guardò: «Quante persone credano che sia stato io?»
Kell si alzò finalmente dalla sedia del tavolo: «Poche.»
«Non voglio salvarla, ma devo.»
«Non devi.» Kell scosse la testa: «Se vuoi farlo è perché non hai potuto salvare Catherine.»


Vederla mentre veniva portata via fu un duro colpo per Emeric, Kell non riusciva a spiegarsene il motivo, al suo posto sarebbe stata sollevata, la fonte di tutti i suoi problemi fuori dal raggio d’azione, poteva finalmente dire addio, almeno per un po’ alle conversazioni tanto odiate in cui doveva sottoscrivere la sua colpa, fino a credersi colpevole. Se avesse protetto Catherine, se avesse capito prima che lei non l’avrebbe mai tradito ne usato, se avesse guardato Nikki con occhi diffidenti, se non si fosse fidato.
«Lui si fida troppo delle persone.» Le disse Cecely mentre aiutava Jeh a mettere a posto dei fogli nell’aula di arte con quel suo modo sempre molto eloquente di dire il giusto senza dire troppo: «Persino di te, sei la persona di cui si fida di più tra noi, non dovrebbe fidarsi di te fino a questo punto.»
Kell annuì: «Concordo.» «Già.» Sussurrò Jeh, le lanciò un sorriso ironico: «E la cosa va a nostro vantaggio.»
«Come al solito.»
Cecely scosse la testa, i fogli erano in ordine, era ora di fare un salto in camera e cambiarsi per la lezione di educazione fisica. «Con Nikki indagata le carte in gioco cambiano.»
«Senti…» Disse Kell a Cecely: «Me l’aspettavo, per quanto possa sembrarti un discorso astruso sia io che Emeric avevamo già pensato che Rang potesse servirsi della testimonianza della Patricks, le ha fatto dire che Nikki era sotto quando non c’era, siamo andati a denunciare la cosa persino noi, se fossi stata il suo avvocato avrei usato la cosa a loro favore.»
«Lo è già.» Commentò Jeh: «Non c’è alcun dubbio su questo, è vero che la Patricks ha mentito su dove si trovasse Nikki, è vero che l’ha fatto per coprirla e coprire l’istituto da qualsiasi brutta pubblicità.»
Era stufa di parlarne, non si sentiva neanche più sotto accusa, spudoratamente osservava la situazione con calma.
Lo scrutò indagatrice e poi disse: «In ogni caso ciò che possiamo fare è attenerci al nostro ruolo e stare a guardare, sono più che certa che la parte della storia in cui muoviamo le fila è pressoché finita.»
«Non ci giurerei.» Cecely chiuse a chiave l’armadietto con i fogli la guardò come se non credesse a una sola parola.


Correre intorno alla scuola era estenuante, soprattutto sull’erba curata da giardinieri che lei mai aveva visto, cercò di riprendersi da un momento di incertezza, per un attimo aveva creduto che si sarebbe fermata, cercava di raggiungere Jeh e quasi ci era riuscita. Ma ad un tratto lui sentendola arrivare con il respiro affannoso di un animale stremato aveva deciso di aiutarla andando più lentamente.
«Se ti fermi tu mi fermo anch’io.»
Sentendo le sue parole Kell aveva sorriso.
La professoressa disse loro di continuare a camminare ma poterono riposarsi tranquillamente mentre gli altri se ne stavano a sgobbare sotto il sole.
«Prima o poi la primavera dovrà arrivare non ti pare?»
«Si beh, non è ancora finito marzo, dai tempo al tempo.»
Jeh alzò gli occhi al cielo, entrambi, quello vivo e quello morto, quello grigio e quello bianco mentre la cicatrice tesa dallo sforzo spariva sotto la maglietta, Kell osservò la linea del tessuto, schiacciato contro il petto di Jeh, era possibile distinguere un impercettibile increspatura e non poté evitare di guardare; tempo addietro si sarebbe trattenuta, vergognandosi, ma ora no.
L’erba era umida e soffice, sfiancati dalla fatica ma dalla ritrovata pace dalla fine della corsa si guardavano lanciando sguardi al suolo e al cielo.
Senza nessuna ragione plausibile o giustificabile Kell si spostò proprio davanti a lui, gli prese una mano e poi l’altra, camminare al contrario guardandolo non la disturbava.
Se rimase stupito non lo diede a vedere, non accennò neanche a staccarsi e non sembrava minimamente infastidito.
Le sue mani erano belle, bianche, lunghe, affusolate, senza imperfezioni, perfino le unghie non erano mangiucchiate, ne si vedevano pellicine, mentre camminava al contrario guardandolo ogni tanto in viso Kell le stringeva.
C’erano cose che non poteva avere se si comportava come faceva, le diceva sempre sua madre prima del Quattrocentoventisette, prima che tutto accadesse, era un avvertimento ancora valido. Quello che aveva davanti, Jeh, le sue mani che esitanti stringevano le sue e ciò che bramava più di quanto bramasse giustizia per la morte di Catherine e dell’istituto non poteva essere suo, per programma, ovviamente, giustamente, come se fosse stato possibile il contrario, come se Kell avesse mai pensato davvero di potersi comportare come le altre ragazze.
Ma Jeh non era come gli altri ragazzi, da nessun punto di vista, era normale che non lo fosse neanche lei normale, sebbene riuscisse a coglierne l’idea perversa ora sapeva di quanto si era illusa in passato, e cioè più o meno al cento per cento.
Non si può possedere ciò che non è possedibile.
Kell sorrise.
«Io mi ricordo di te.»
«Che cosa?» Alzò gli occhi verso di lui, il suo collo, come quello di un giovane cigno battagliero si tese.
«C’era una ragazzina, durante la ricreazione andava sotto un salice piangente, l’unico nel cortile della scuola, da sola, non l’ho mai vista con nessuno, mai vista rivolgere la parola a un essere vivente, mai vista muoversi davvero; non so perché non riuscivo a dirtelo.» Strinse le sue mani, Jeh le strinse con più foga, tirandola un po’ e avvicinandola leggermente a se: «Ma non ho dubbi sul fatto che non potresti che essere tu.»
Avrebbe voluto abbracciarlo, ne sentiva il bisogno fisico, si limitò a stingergli le mani, se l’avesse abbracciato forse sarebbe crollata.
«Ero io.» 
Era confusa, non era programmato, ne scritto, ne deciso, ne ovvio che lui avrebbe detto questo, lo guardò, scavando nei pozzi senza fondo dei suoi occhi, le sue labbra sorrisero.
«Sono io.»


  
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