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Autore: aturiel    09/08/2015    1 recensioni
Una storia è più semplice iniziarla dalla fine, dal punto in cui tutto si conclude. Ed è così che questa storia va avanti, o meglio indietro, come le vite di Aloïs, Rémy, Stéphane e Maurice.
Le loro vite s'intrecciano con legami diversi, si scontrano e si allontanano, e tutto per trovare la loro felicità nella grande e romantica città di Parigi.
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Terza classificata al contest "Lunghe, anzi... lunghissime!" indetto da Ili91 sul forum di EFP.
Sesta classificata al contest "I only write free!" indetto da MissChiara sul forum di EFP.
Partecipa al contest "Uno sguardo vale più di mille parole" indetto da Himeko Kuroba sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Haruka Nanase, Makoto Tachibana, Rin Matsuoka, Sosuke Yamazaki
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mille anni, poi altri cento'
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La parte più difficile di una storia è iniziarla. Come si può afferrare con esattezza l’origine di tutto? Esiste davvero un “c’era una volta” in un racconto di vita reale? Io non credo: si dovrebbe prima parlare della nascita dell’individuo in questione, per poi passare alla storia di genitori, nonni e antenati – giusto per dare un’idea generale –, poi raccontare brevemente dell’infanzia, dell’adolescenza e della maturità del suddetto, accennare magari a qualche episodio che lo ha segnato particolarmente, che lo ha formato, poi chiarire qual è il reale scopo per cui si sta scrivendo proprio di lui e non di un altro e infine concludere con un “the end” dal gusto un po’ retrò. Ma basta tutto ciò? No, a mio parere per racchiudere davvero l’incipit di ogni cosa, si dovrebbe partire dall’origine dell’universo e io non ho né tempo né, tanto meno, voglia di farlo, per cui inizierò a narrare ciò che voglio dalla fine – almeno quella è certa -, e poi risalirò il corso degli eventi fino a giungere al punto in cui le mie dita e la mia mente saranno esauste o, semplicemente, finché mi garba.
Ed ecco a voi come la storia si concluse…



****


 
Giorno 0, Parigi
È proprio vero che le cose si apprezzano meglio in certi momenti della vita, piuttosto che in altri.
Stéphane se ne stava sdraiato su un divano a tre posti, con una sigaretta accesa in mezzo alle labbra e un disco in vinile messo nel suo bravo giradischi. Non sapeva perché, ma in quel pomeriggio qualsiasi la musica classica gli piaceva più di quanto non lo facesse in un pomeriggio qualsiasi del mese prima. Era forse dovuto a tutto ciò che era successo? Ne dubitava. Si alzò dal divano e incominciò a girare per la stanza, senza uno scopo preciso eppure con l’intenzione di trovarne uno. Si affacciò quindi alla finestra e lasciò vagare lo sguardo per la città che circondava come un abbraccio sgradito la sua abitazione, soffermandosi di tanto in tanto su un viso particolare o un colore piuttosto acceso che, tra il grigiore generale, poteva essere anche un banalissimo verde oliva.
Non gli mancava per niente o, almeno, non gli mancava come avrebbe dovuto, non lui. Era una cosa strana da pensare dopo ben due anni di relazione, ma era la verità e non aveva intenzione di rinnegarla. Chissà cosa faceva la gente normale quando troncava in modo simile un rapporto; probabilmente avrebbe seguito i famosi Six degrees of separation (1) descritti in quella - noiosa - canzone dei The Script, partendo quindi da un first, you think the worst is a broken heart, passando poi alla seconda parte che avrebbe dovuto ucciderti, e poi al terzo punto, con is when your world splits down the middle, eccetera eccetera. Però lui non era una persona normale, o così gli altri avevano sempre pensato di lui.
E dunque era rinchiuso in quella carina – ma solamente dal suo punto di vista, poiché era piena di muffa e cattivo odore – stanza di un appartamento in affitto che fino a poco tempo prima non era frequentato solo da lui, ma anche da qualcun altro e ascoltava musica classica su un disco in vinile, fumava una sigaretta accesa in mezzo alle labbra e non aveva nessun rimpianto.
Era un po’ come una diva di Hollywood - una alla Marylin Monroe -, oppure come una donna vissuta, una bella e irraggiungibile femme fatale alle prese con la fine di una delle sue tante e tormentate storie d’amore. Stéphane, in quel momento – ma non solo –, appariva proprio come quel ragazzo insensibile e stronzo che tutti disegnavano, senza un minimo di cuore e senza qualcosa che assomigliasse vagamente al calore.
Camminava per la stanza, con gli occhi che pesavano per l'assenza di rimpianti, di rimorsi o di qualsiasi vero e reale sentimento comune: l'unica cosa che sognava, ora, era la sensazione del viscido grasso per motori tra le dita e del secco sapore delle sigarette nella gola.
Forse sì, un po’ di nostalgia la provava, un po’ di rabbia per ciò che lui aveva fatto, un po’ di rimpianto, ma comunque non abbastanza da fargli alzare la cornetta di quello stupido telefono e chiamarlo per perdonarlo o anche solo per mandarlo a quel paese. Era sempre stato una persona orgogliosa e l’unica volta in cui aveva abbandonto quell’estrema difesa tutto il marciume da cui, fino a quel momento, lo aveva protetto, si era riversato contro di lui, investendolo in pieno e lasciandolo agonizzante. Insomma, non ci sarebbe più cascato, neppure per due anni di relazione.
Ormai la sua sigaretta era finita, quindi la spense, la posò nel posacenere e rovistò nelle tasche finché non trovò un pacchetto di Marlboro rosse tutto schiacciato e irrimediabilmente vuoto.
«Ma porca puttana».
Il ragazzo si alzò dal divano, si infilò le scarpe, afferrò le chiavi e uscì di casa sbattendo la porta, il vinile ancora che ruotava nel giradischi.
Non tornò più in quell’appartamento in affitto. C’è chi dice che sia morto, chi suggerisce che sia tornato dai genitori, chi invece insinua che abbia avuto paura di restare in quel luogo pieno zeppo di ricordi. A me personalmente piace credere che abbia finalmente coronato il suo sogno: raggiungere in barca a vela le coste dell'Australia, percorrendo mezzo mondo e, una volta arrivato nel Paese dei canguri – come lo chiamava sempre lui –, rimanerci.
Ma sono supposizioni: d’altronde, quel viaggio, non avrebbe voluto compierlo da solo.

 
****

Era assurdo come le cose più belle finissero sempre nel peggiore dei modi: il motivo per cui Maurice se ne stava seduto sul divano come se non vibrasse nemmeno un briciolo di vita nelle sue membra era che una delle sue preziose “cose belle” si era conclusa e, lo sapeva, per sempre. Due anni della sua vita andati in fumo, così, tutti a un tratto. E il bello era che aveva deciso proprio lui di scrivere le ultime tre lettere, fin, “fine”.
C'est fini, pensava, et à cause de moi (2). Non provava nessun senso di liberazione, nessun sollievo per essersi finalmente liberato di una persona che, ormai, gli causava solo del male. Eppure, un po' come quelli che dipendono da una sostanza che sta rovinando loro la vita, provano ancora più dolore quando non ne fanno più uso, tutte le sensazioni negative degli ultimi mesi gli sembravano piccolezze rispetto alla tristezza totalizzante che albergava ora nel suo cuore. Il colmo, davvero.
Era finito tutto così in fretta, con una sola parola: basta. Aveva detto basta alle litigate, alle bugie, alla tristezza, ai pianti di entrambi, ma aveva detto basta anche alle uscite romantiche, o ai film sul divano, aveva detto basta ai baci e al sesso, agli sguardi lunghi e intensi, ai silenzi e alle parole, a così tante cose che probabilmente solo elencarle avrebbe fatto correre Maurice da quello che era stato il suo pètit ami (3) e dirgli che aveva sbagliato a lasciarlo e che sì, voleva disperatamente tornare insieme a lui. Ma non poteva farlo perché... beh, lo amava ancora, come si ama un pezzo del proprio cuore; aveva preso in mano la situazione e aveva deciso di fare ciò che l'altro, per paura e vigliaccheria, si era rifiutato di compiere. L'aveva detta lui la parola “basta” e adesso doveva subirne le conseguenze, le stupide conseguenze del suo stupido amore.
Ora l'unica cosa che gli restava da fare era ritornare alla sua routine, riprendere in mano la sua vita come se gli ultimi due anni non fossero esistiti e ricominciare a sorridere come sempre. Aveva un solo giorno a disposizione per portare a termine tutti questi compiti e solo un giorno per riprendersi dal dolore della perdita: l'indomani sarebbe dovuto andare a scuola e i bambini capiscono meglio di chiunque altro se sei felice davvero o se stai solo fingendo; chissà se il piccolo Nathan avrebbe spalancato quei suoi occhioni che tendevano pericolosamente al viola e gli avrebbe chiesto se ci fosse qualcosa che non andava, chissà se lui sarebbe riuscito a sorridere e a dirgli che no, tutto andava bene, e chissà se il bambino ci avrebbe creduto.
A Maurice non piaceva mentire ai suoi bambini, tuttavia desiderava ancor meno farli preoccupare e, certamente, dire che il proprio cuore in quel momento aveva le sembianze di una statuetta di porcellana che era stata lanciata con violenza dall'ultimo piano di un palazzo e che si era schiantata, poi, sul cemento non era esattamente il modo perfetto per evitare che una creaturina di otto anni facesse domande. Solo in quel momento il ragazzo capì perché fare l'insegnante di una scuola elementare era così complicato: non era per il perenne rumore che ventidue bambini potevano causare, non era nemmeno sentire il peso enorme della responsabilità che lui, Maurice, aveva sulle loro vite e sulla loro istruzione e neanche l'impegno costante che dovevi impiegare per far sì che i piccoli studenti non si annoiassero troppo alle lezioni, ma era essere sempre allegro, sorridere e ridere anche quando non si aveva voglia di farlo... e mentire.
Ma guarda, pure dopo che ci siamo lasciati mi insegni qualcosa di nuovo. Accidenti a te, stupido.
Il ragazzo si passò una mano fra i capelli castani e si asciugò le lacrime anche se inutilmente, visto che altre continuavano a scendere, inesorabili.
Forse domani è meglio che prenda un giorno di permesso.
E, pensato ciò, alzò la cornetta.

 
****

Aloïs era chiuso in bagno da tempo, convinto che la sua vita facesse schifo. L'acqua lambiva leggera la sua pelle e la bruciava un poco per la sua elevata temperatura. Non si capacitava del fatto che lui lo avesse lasciato, che avesse sussurrato poche parole e che queste fossero bastate per farlo stare zitto come sempre e uscire di casa. Non sapeva perché l'avesse fatto, sarebbe dovuto essere lui stesso a lasciarlo, non lui: così non aveva proprio senso.
Certo, da una parte era meglio che fosse finita in quel modo, finalmente si sentiva libre, libero, ma non era la sensazione che si era immaginato: era libero da ormeggi, libero da ancore o da qualsiasi altra cosa che lo legasse alla terraferma, ma ora era anche in completa balia dell'acqua e dei suoi capricci e si stava fondendo con essa, stava perdendo la cognizione di sé. La sua ancora l'aveva abbandonato e, nonostante avesse sognato giorno e notte che questo accadesse, ora si sentiva semplicemente una persona insensibile e inutile: aveva permesso che il suo, ormai, ex pètit ami lo lasciasse al posto suo e, soprattutto, aveva desiderato che lo facesse per non sentirsi in colpa per ciò che aveva fatto. D'altronde gliel'avevano sempre detto che era un ragazzo insensibile e, in fin dei conti, cattivo: non doveva stupirsi, quindi, di ciò che provava e la confusione che infuriava nella sua mente era del tutto meritata.
Ora che finalmente aveva il via libera per fare ciò che voleva, aveva paura di aprire la porta del bagno e toccare chi per mesi aveva bramato di avere totalmente per sé senza doversi preoccupare di altri. Aveva bisogno del suo tempo per scusare sé stesso e per mettere a tacere il “basta” che continuava a rimbombare nella sua testa, come una cantilena di cattivo gusto; così facendo stava però ferendo di nuovo qualcuno che amava e da cui era amato: ma tanto lui era così, una mauvaise personne (4), e niente l'avrebbe mai cambiato.
Solo l'acqua lo capiva, solo lei lo accoglieva come un figlio con tutti i suoi difetti e solo lei poteva dargli sollievo; vi affondò completamente il suo corpo, chiuse gli occhi e sperò di addormentarsi per sempre, anche se sapeva che, naturalmente, non sarebbe accaduto: c'era qualcuno dietro a quella porta che lo aspettava e lui, per questa volta, avrebbe tentato di non deluderlo.
Uscì quindi dalla vasca e aprì l'ingresso del bagno, senza curarsi minimamente delle gocce che colavano lungo il suo corpo atletico e che bagnavano il pavimento.
Due occhi lo incontrarono e sorrisero. Era a casa.

 
****

Perché si fosse rinchiuso nel bagno proprio non lo capiva: ora potevano stare insieme, potevano avere la vita che da sempre avevano desiderato e lui era dentro quel cazzo di bagno da circa centrotrentasei minuti. Troppo tempo certamente per fare un bagno, ma abbastanza per commettere qualche stupidaggine. Rémy non aveva idea di cosa stesse facendo il suo garçon bien-aimé (5) in quelle quattro mura, ma aveva la sensazione che non stesse accadendo nulla di piacevole, non per loro almeno.
Aveva lottato mesi per liberare le sue ali, troppo sporche di fango per prendere il volo, e aveva lottato mesi perché lo spirito naturalmente libero di Aloïs prendesse il largo e si allontanasse dalla persona che lo aveva ancorato a terra per anni... eppure, da quando finalmente il suo scopo era stato raggiunto, nemmeno un contatto fisico era avvenuto tra i due, nemmeno un singolo sguardo. Che non si amassero davvero? Che fosse tutta un'illusione, una mera passione fisica scattata per il gusto del proibito, una sensazione di nostalgia senza senso? Ma no, non era possibile, non era assolutamente pensabile che fosse solo quello, che tutto quel tempo trascorso a sognare di essere liberi e di poter stare insieme fosse solo un capriccio.
Ma Rémy era certo questa volta, era sicuro di aver fatto la scelta giusta. E se quello stronzo insensibile di Aloïs non l'avesse capito, ci avrebbe pensato lui a spiegargli ogni cosa, a farlo ragionare: si perdeva in un bicchier d'acqua, quel ragazzo, e vi ci affogava, nonostante fosse un campione del nuoto.
Ammetteva che tutto quello che aveva fatto non era stato solo per Aloïs, però: la presenza soffocante di lui lo aveva quasi distrutto e, ora che era riuscito a inserire la parola “fine” a tutto ciò che erano stati, poteva finalmente prendere un respiro e andare oltre, superando quel legame al limite del morboso che li aveva uniti. Nonostante ciò, tuttavia, lo amava ancora e questo suo sentimento era – ne era certo - ricambiato... ma adesso non gli interessava: non si cancella un amore, mai. Lo si supera con un altro e si va avanti.
Proprio mentre Rémy stava per perdere definitivamente la pazienza e andare a bussare con insistenza alla dannata porta del bagno, ne uscì Aloïs. I suoi capelli neri erano incollati al viso, tra le lunghe ciglia si erano incastonate gocce d'acqua e ogni centimetro della sua pelle era bagnato fradicio. Ed era nudo, come un ver (6) avrebbe detto qualcuno, come une statue (7) pensava invece lui. Faticava a capacitarsi del fatto che quel corpo che tante volte aveva preso all'insaputa di tutti ora fosse suo anche agli occhi degli altri, tuttavia il pensiero che ora, finalmente, c'era riuscito lo fece sorridere; Aloïs era suo e lo sarebbe stato per tanto, tanto tempo.
Si avvicinò al ragazzo e gli afferrò le mani; inizialmente gli parve che Aloïs volesse allontanarsi, ma doveva essere stata solo un'illusione perché, pochi secondi dopo, strinse le sue lunghe dita alle sue e alzò gli occhi a guardarlo. A volte gli accadeva di perdersi nel suo sguardo cristallino, trasparente come una lama di ghiaccio e altrettanto imperturbabile, ma in quell'istante non accadde: semplicemente vi si specchiò e lo riempì dell'immagine di sé, quindi lo baciò.
Ti amo, Aloïs, e non ti lascerò andare via da me.






 

Note:
1 → canzone dei The script che potete trovare, con testo e traduzione, qui.
2 → è finita, e a causa mia.
3 → fidanzato.
4 → persona malvagia, malevola.
5 → ragazzo molto amato.
6 → un verme.
7 → una statua.

Come al solito ho adattato i nomi dei protagonisti al luogo e al tempo in cui sono stati “proiettati”.
Aloïs → Haruka
Maurice → Makoto
Stéphane → Sousuke
Rémy → Rin
Nathan → Nagisa

La prima parte, quella in corsivo, è una piccola introduzione alla storia, per far capire meglio lo svolgersi della narrazione che procederà a ritroso per la maggior parte della storia, ma in alcuni punti andrà per il “verso giusto” per far capire meglio i vari avvenimenti e la loro collocazione nel tempo. Inoltre, le indicazioni di tempo a inizio di ogni capitolo/paragrafo (in questo caso “giorno 0”) indicano quanto manca al momento in cui Aloïs e Rémy riescono a stare insieme. In ogni capitolo ci sono quattro POV: quello di Stéphane, quello di Maurice, quello di Aloïs e quello di Rémy.
La storia è ambientata nella Parigi di oggi ma premetto che, anche se ho cercato di inserire indicazioni spaziali ben precise, non ci sono mai stata, quindi mi sono basata semplicemente su Google Maps xD.
Vorrei dire inoltre che questo primo capitolo in realtà è stato liberamente tratto – nel senso che ho mantenuto praticamente invariato solamente la prima parte, quella di Stéphane – dal primo capitolo di una mia long che avevo iniziato a scrivere e pubblicare tempo fa ma che, per miei motivi personali, non ero riuscita a portare avanti e quindi ho eliminato dal sito. In realtà si trattava di una long originale, con tutti altri personaggi e con tutt'altra trama, ma la struttura narrativa che va all'indietro l'ho mantenuta.
Infine consiglio di utilizzare la canzone che ho messo sotto il titolo come colonna sonora della fic. Non ha un ruolo centrale, inizialmente, ma più si va avanti, più diventa comprensibile la sua funzione. Poi la trovo davvero bella e i suoni dolci e malinconici, a mio parere, sono molto in sintonia con i temi della storia!

Questo capitolo, come anche i seguenti, è stato betato da IseyZ, che ringrazio infinitamente per il suo lavoro!

Aturiel

 
   
 
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