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Autore: nettie    11/08/2015    1 recensioni
L’odore della pioggia ancora non aveva abbandonato del tutto l’aria, c’era tanta umidità e l’aria era diventata ormai irrespirabile. Ivan era immerso nei suoi pensieri, fino a quando qualcuno non attirò la sua completa attenzione.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Storie brevi scritte in un lasso di tempo breve. '
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“I’d give my everything to you, follow you through the garden of oblivion.

If only I could tell you everything: the little things you’ll never dare to ask me.”

 

L’odore della pioggia ancora non aveva abbandonato del tutto l’aria, c’era tanta umidità e l’aria era diventata ormai irrespirabile. Ivan stringeva fa due dita l’ultimo mozzicone di sigaretta rimasto, in attesa di poter fare un ultimo tiro prima di abbandonarlo per le strade della sua città. Gli occhi scavati, le iridi azzurro chiaro, le pupille a puntare fermamente il suolo. Qualche nuvola faceva compagnia al sole alto nel cielo, era da poco arrivato mezzogiorno e lui già girava bevuto per le strade della sua città, la vista offuscata e la mente piena di pensieri. Camminava con passo lento e trascinato, un po’ barcollante ma pur sempre stabile, piede dopo piede, passo dopo passo sul ciglio del marciapiede. Era immerso nei suoi pensieri, nei suoi futili pensieri - oserei aggiungere, fino a quando qualcuno non attirò la sua completa attenzione.

Una donna, una donna dai tratti meridionali così familiari, una donna dagli occhi scuri come pozzi di petrolio, dai capelli mori, voluminosi e ricci, di quel riccio che ti verrebbe da affondarci le mani dentro. Un sorriso da far perdere il fiato, quelle labbra così carnose e quei denti così bianchi, quel naso così piccolo e perfetto fecero nuovamente breccia nel cuore consumato di Ivan. E lui, che cercava di mettere a fuoco quell’angelo sceso in terra, combattendo l’alcool e l’acido che stavano scorrendo nelle sue vene proprio in quel momento. Quelle clavicole, poi, e tutto il resto del suo corpo coperto da un pesante soprabito per proteggersi dall’arrivo dell’Inverno, solo le balze della gonna spuntavano da sotto la stoffa pesante blu notte. Le caviglie sottili e le gambe perfette, quella pelle così candida, e le scarpe dal tacco alto che calzava ai piedi gli sembrava di averle viste già fin troppe volte. Teneva le mani sul ventre, su un dolce rigonfiamento forse accentuato dal soprabito importante che indossava proprio in quel momento, i bottoni che a stento stavano insieme. Era in dolce attesa, inevitabile dirlo: in quel grembo stava lentamente crescendo una nuova vita, e chissà quale uomo sarà mai stato il padre. Quel viso così familiare fu come una lama che lo colpì in pieno petto: era lei, come poteva averla dimenticata per tutto quel tempo? Era lei, la stessa ragazza di sempre con dieci anni in più, quella con cui fece l’amore per la prima volta, nella sua prima macchina, quella alla quale promise amore eterno e quella che poi lasciò senza pensarci due volte per una scopata con un’altra. E ora, ora? Lei passò avanti e neanche lo degnò di uno sguardo, continuò a camminare con le mani sul ventre e il sorriso sulle labbra, non si accorse della sua presenza, o forse non lo riconobbe, forse era troppo impegnata a gioire per la nuova vita che stava accudendo dentro di lei. Magari, magari lo vide anche lei, vide quell’uomo e le condizioni nel quale si era ridotto, riuscì a scorgere nei suoi occhi azzurro chiaro la stessa luce della sua prima fiamma, magari ci mise solo un momento e preferì voltarsi spaventata, preferì andare via e scordare, ricordare tutto come un sogno. Lui preferì semplicemente fermarsi sul ciglio di quel marciapiede e voltarsi, con le parole mozzate nella gola - con niente da dire in più. Parlare non sarebbe comunque servito a molto, ma quel viso così diverso ma allo stesso tempo così uguale aprì nuovamente quella cicatrice che aveva curato con la cenere del fumo, quella cicatrice che credeva ormai scomparsa.
 

Lui preferì semplicemente fermarsi sul ciglio di quel marciapiede e voltarsi, guardando una vita mai vissuta.

 

Solo quando lei sparì all’orizzonte si decise a voltarsi e continuare per la propria strada, con il cuore in gola e lo stomaco stretto in una morsa che non riusciva a sopportare. Strinse i pugni, si fece coraggio e trattenne le lacrime: un vero uomo non piange, non dopo aver distrutto la sua stessa vita. Continuò semplicemente a camminare, il passo più esitante di prima e il cuore che faceva male, di quel male che si sente una sola volta nella vita. Lo sguardo basso, gli occhi stretti, le mani in tasca, inevitabile sentire il bisogno di asciugarsi il naso ogni tanto - sembrava sempre colare. Fece un ultimo tiro, e abbondonò come previsto tempo prima il mozzicone a terra, schiacciandolo con la suola delle scarpe un po’ consumata. Camminò il più velocemente possibile fino ad arrivare a casa sua, sentendosi osservato dagli occhi indiscreti della gente, sentendosi sbagliato, giudicato, una persona che purtroppo non si può migliorare, non più. Tirò fuori un mazzo di chiavi dalla tasca, e con il loro solito rumore metallico ne portò una, più piccola delle altre, alla serratura del portone. La girò ed entrò nell’atrio, le scale da salire sembravano infinite, quindi optò per prendere lo squallido ascensore che salvava la vita a decine di sfaticati ogni giorno. Si avvicinò alla porta in metallo e spinse il pulsante accanto, aspettando il suo arrivo. Quando si aprì, venne svelata con poco piacere da parte di Ivan una felice famigliola, madre, padre, figli. Erano felici, sorridevano, e la loro felicità colpì non poco il giovane uomo che giorno dopo giorno si sentiva sempre più vicino al termine della sua vita. Era un macigno pesante che Ivan non riusciva a sopportare quasi più, e al solo pensiero che, se solo fosse stato più giudizioso, sarebbe potuto essere lui il padre di una qualsiasi creatura, si sentiva sprofondare trascinato giù da rimpianti e rimorsi. Abbassò lo sguardo con fare schifato ancora una volta e non li salutò, anzi, si affrettò a chiudere le porte dell’ascensore per mettere fine a quella triste visione. Minuto dopo minuto, il suo mondo era sempre un po’ più grigio e lui stava iniziando a rendersene conto.  Arrivò al settimo piano in meno di un minuto, le porte si aprirono e lui si fiondò nella direzione del suo appartamento, non volendo più sentire né vedere niente e nessuno, chiedendo solo quella pace che non aveva mai potuto avere, ma che non aveva neanche mai cercato. Si mise a sedere su quel divano rovinato appoggiato alla parete di quella casa così piccola e così mal tenuta, il portacenere sul tavolino davanti lui straripava di mozziconi spenti e ricordi, e nella penombra osservava ciò che gli si mostrava davanti: niente.

Niente, niente, il nulla. Avrebbe potuto anche avere tutto l’oro del mondo, ma alla fine non gli sarebbe mai rimasto niente. Un involucro vuoto, rovinato dalle sue stesse tentazioni, dai suoi stessi piaceri. Allungò pigramente una mano al tavolino, prese una sigaretta dal pacchetto poggiato accanto al portacenere, e con l’accendino che tirò fuori dalla tasca l’accese. Se la portò alle labbra, e fece l’ennesimo tiro, amareggiato.

L’odore della pioggia ancora non aveva abbandonato del tutto l’aria, c’era tanta umidità e l’aria era diventata ormai irrespirabile.

“Do you really know me? I might be a God. Can you see my blood when I’m bleeding?”

 
   
 
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