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Autore: Un_Known    12/08/2015    0 recensioni
«Io e Sam tra un po’ ripartiremo, andremo di nuovo a caccia. Se ti va, puoi venire con noi»
[...]
«Ho deciso di accettare la tua offerta, Dean: verrò a caccia con voi»

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E se il duo Winchester fosse stato un trio? Cosa sarebbe successo? Ecco un volo in un universo parallelo in cui un Cacciatore in più trova spazio nella trama della storia, in parte rivoluzionandola.
Alle già conosciute avventure di Sam e Dean si aggiunge la sedicenne Liz, che si farà spazio nel legame che unisce i due fratelli, ma senza prepotenza. Tra alti e bassi, quanto riuscirà a farsi accettare?
Genere: Azione, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più stagioni
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Capitolo 1  
LIZ

 

Volavo sulle strade di Mitchell diretta verso casa come se avessi il Diavolo alle costole. E più o meno era così: la telefonata con Drake mi aveva messa in allarme e il panico mi aveva fatta correre al volante della Mustang nera di papà, sgomitando tra gli studenti per uscire dal liceo. “Tranquilla, arriva con calma” mi aveva detto “e mi raccomando: ricordati la muta da sub”. Quelle parole mi avevano fatto trattenere il respiro. “Fai in fretta, ci sono problemi. Ho a che fare con un Mutaforma”. Ecco cosa mio fratello voleva dire in realtà. Da solo a casa doveva vedersela con quell’essere. Non che non fosse in grado di farlo, ormai lui cacciava da solo da anni, ma il fatto che il mostro si fosse presentato nel covo del nemico faceva pensare che avesse qualche asso nella manica per uscire vincitore dallo scontro.
Il cuore mi batteva a mille mentre la strada sembrava non finire mai, e più schiacciavo sul pedale dell’acceleratore, più le distanze parevano dilatarsi. “Più veloce! Avanti, vai più veloce!” imprecai a denti stretti contro il veicolo. Era come se il tempo non scorresse, come se io rimanessi sempre ferma nello stesso punto.
Finalmente, dopo quelle che erano parse ore, sulla destra apparve casa mia. Fermai l’auto vicino all’abitazione, presi la pistola dal cruscotto – una Colt .45 con già un po’ di esperienza sul campo – e corsi verso la porta d’ingresso. Una volta dentro, notai una devastazione che mi mozzò il fiato: il tavolo della cucina era rovesciato, una sedia era in pezzi, alcune fotografie erano a terra, il vetro della cornice in frantumi; in un muro c’era il foro di un proiettile e il pavimento era macchiato da una considerevole quantità di sangue. Il cuore mi balzò in gola. «Drake?» chiamai, la voce tremante. Silenzio. Avanzai con l’arma in pugno, a passi silenziosi, e aggirai la pozza rossa a terra per avvicinarmi cautamente alle scale. «Drake?» ripetei, guardando verso l’alto. Ancora nessuna risposta. La mia mente iniziò a galoppare verso gli scenari peggiori e il battito cardiaco accelerò. Perché mio fratello non rispondeva? Dove si era cacciato? Stava così male da non poter emettere neanche un suono?
Un rumore alle mie spalle mi fece voltare di scatto, la Colt spianata davanti a me.
«Liz» Drake si stagliava sulla porta sul retro con la pistola in pugno, coperto di sangue, gli abiti stracciati, ma all’apparenza illeso. Tirai un forte sospiro di sollievo e abbassai l’arma. Se mio fratello camminava con le sue gambe, allora andava tutto bene. Aveva ucciso il Mutaforma prima del mio arrivo, seppur distruggendo mezza casa. Mi avvicinai a lui e lo abbracciai stretto, felice di trovarlo vivo e vegeto. «Cosa è successo?» gli domandai, sciogliendomi dalla presa.
«È arrivato qui qualcuno con le tue sembianze» iniziò a raccontare. «L’auto però non c’era, così non è stato difficile fare due più due. Quando poi ho ricevuto la tua chiamata sul cellulare mentre ti osservavo mangiare i biscotti, ne ho avuto la conferma».
«L’importante è che tu stia bene» gli dissi, sollevata che la lotta si fosse conclusa per il meglio.
«Sì, a parte qualche graffio sto bene» assentì Drake, passandosi una mano sulla gamba con un mezzo sorriso. Solo allora mi accorsi del taglio sulla coscia destra. «Drake, devi medicartelo subito!» iniziai a dirgli, ma non ebbi il tempo di preoccuparmi ulteriormente che un rumore proveniente dallo studiolo catturò la nostra attenzione. “Aveva dei rinforzi” fu la sola cosa che pensai, riferendomi al Mutaforma.
«Rimani qui» mi disse mio fratello, intimandomi con un gesto della mano di non muovermi e di fare silenzio; puntò la pistola e fece qualche passo in quella direzione. Fu una delle rare volte in cui ascoltai il suo consiglio e non agii di testa mia, rimanendo ferma a guardarlo avanzare, la mia calibro .45 puntata verso lo studiolo. Però… c’era qualcosa che stonava, in quella scena. Drake stava allungando la mano sinistra verso la maniglia della porta, tenendo la pistola ben salda nella destra… la destra... Drake non avrebbe mai usato la destra per impugnare un’arma: era mancino! Un moto di paura e rabbia mi fece assottigliare gli occhi e girare la testa per un attimo; mi ripresi giusto in tempo per vedere il Mutaforma aprire la porta. Prima che potesse fare altro, gli avevo puntato contro la Colt .45. «Maledetto bastardo!» sibilai e, nello stesso momento, gli sparai un colpo dritto nella tempia. Il suo cadavere non aveva ancora toccato terra quando mi precipitai nello studiolo, incurante di aver appena ucciso la copia esatta di Drake.
Varcata la soglia, il cuore mi scoppiò nel petto e poi mi sprofondò nello stomaco: mio fratello, il mio vero fratello, era disteso in una pozza rosso scuro al centro della stanza, con una mano premuta su una ferita all’altezza dello stomaco da cui non riusciva ad arginare la fuoriuscita di sangue. «Drake!» quasi urlai, prima di correre e inginocchiarmi accanto a lui. Mio fratello era cinereo in volto, con gli occhi lucidi e un’espressione a metà tra il dolore e la stanchezza. Sembrava che anche solo respirare gli costasse un’enorme fatica. «Drake» ripetei. Avevo lo stomaco attorcigliato e il cuore che batteva al doppio della velocità normale. Gli spostai la mano dalla ferita e dovetti soffocare un conato. «Oh mio dio» mormorai tra me, sconvolta, trattenendo il fiato: il taglio gli trapassava lo stomaco da fianco a fianco ed era molto profondo. Troppo. Una consapevolezza ineluttabile mi attraversò la mente, e all’improvviso sentii freddo. “Sta morendo”. Mio fratello provò a parlare, ma dalle sue labbra uscì solo un gorgoglio e un rivolo di sangue. Trattenendomi dallo scoppiare a piangere, gli riposizionai la mano sul ventre e lo guardai negli occhi. «Shhh, non parlare. Andrà tutto bene» mentii, mentre gli accarezzavo il viso con mano tremante. Dalla sua espressione, capii che Drake non mi aveva creduto per niente. Conosceva le condizioni del suo stomaco, sapeva che gli mancava poco. «Adesso ti tampono la ferita… dovrai solo resistere fino all’arrivo dell’ambulanza…» continuai. Le tempie mi pulsavano, i bordi del mio campo visivo erano contornati da un alone bianco. Lo sconforto stava lasciando posto alla frenesia: dovevo salvare Drake… almeno lui… non potevo permettere all’ultimo membro della mia famiglia di lasciarmi da sola. «Vedrai, ce la farai… devi solo stringere i denti…». Stavo per allungarmi per prendere il copri divano da premergli sul taglio, ma mio fratello mi afferrò il polso e me lo impedì. «No, Liz… è inutile…» mormorò con un filo di voce. Tossì, sputando altro sangue. «No, non è vero!» esclamai, quasi isterica. Afferrai il telo e lo pigiai con forza sulla ferita «Se blocco l’emorragia ti salverai, Drake. L’ambulanza sarà qui in pochi minuti. Ti ricuciranno e tu starai meglio. Devi solo…» stavo parlando a raffica, agitata, con gli occhi lucidi e brividi lungo il corpo. Drake mi attirò a sé e mi cinse le spalle col braccio libero. «Starai meglio» ripetei in un soffio, la voce tutt’altro che ferma. Non ci credevo nemmeno io. «Ti giuro che starai meglio» cercai inutilmente di auto convincermi. Nel giro di qualche secondo mi ero arresa all’idea di veder morire anche l’ultimo dei miei fratelli, e una calma glaciale mi stava pian piano invadendo le membra. L’unica cosa che potevo fare per lui era continuare a parlargli e non piangere sotto il suo sguardo sempre più vitreo. Chiusi gli occhi e mi lasciai cullare dal suo abbraccio, cercando inutilmente di ridurre il tremore del mio corpo. «Andrà tutto bene». La mano di Drake mi scivolò un po’ lungo la spalla. Gli abbracciai il collo, stringendo forte le dita tra i suoi capelli. Non volevo lasciarlo andare. Non potevo! «Non ti preoccupare». Avevo un groppo in gola che mi impediva di respirare. Mio fratello cercò di accarezzarmi il braccio nudo, invano. «Ti voglio bene, Drake». Il mio cuore aumentava gradualmente i battiti, mentre il suo si andava spegnendo. Mi posò goffamente le labbra sulla fronte in un ultimo bacio. Ci stavamo dicendo addio. Strinsi i denti per non piangere e inspirai dal naso. «Drake…» la mano di mio fratello scivolò lentamente a terra.
 
Aprii gli occhi di scatto, la luce del tardo pomeriggio che filtrava attraverso le persiane della finestra. Mi misi a sedere sul letto e mi passai una mano sul volto bagnato di lacrime. Avevo fatto ancora quel sogno, lo stesso sogno che mi tormentava da due settimane, riportandomi indietro nel tempo al giorno in cui mio fratello Drake era morto. Mi presi il viso tra le mani, i gomiti sulle ginocchia, e attesi che il nodo allo stomaco si sciogliesse e mi passassero i conati di vomito. Mi era ancora difficile credere che se ne fosse andato. Dopo che mio padre e mio fratello Jason erano venuti a mancare, pensavo che il destino mi avrebbe permesso di godere almeno della presenza di Drake; invece mi aveva sottratto anche lui, e adesso ero completamente sola. La consolazione che i carnefici di quella mattanza fossero morti non mi serviva a granché per andare avanti. L’averli uccisi non li aveva fatti tornare indietro.
Feci un respiro profondo e uscii da sotto le lenzuola, avviandomi verso la porta della stanza che Bobby mi aveva riservato per la mia permanenza lì. Nonostante il suo fare da orso, era molto buono con le persone che gli stavano a cuore. Non ci aveva pensato due secondi ad accorrere in mio soccorso quando lo avevo chiamato in seguito alla morte di Drake.
Dopo che mio fratello era morto, ero rimasta sdraiata accanto al suo corpo per ore, prima di trovare la forza di alzarmi e fare ciò che andava fatto: avevo chiamato Bobby e lo aveva avvisato dell’accaduto. Un’ora dopo, lui era lì. Nel frattempo io avevo lavato via tutto il sangue dal corpo di Drake e, con fatica, ero riuscita ad avvolgerlo in un lenzuolo. Non avevo provato niente, nel farlo. Solo un profondo vuoto all’altezza del petto. Successivamente, avevo eretto una pira funebre sullo spiazzo di terra davanti casa con i pezzi di legno raccolti nel boschetto sul retro. Quando Bobby era arrivato, mi aveva trovata seduta sul pavimento accanto al corpo di Drake, le gambe strette al petto, il viso inespressivo. Avevo alzato gli occhi su di lui e gli avevo parlato in tono piatto. «È troppo pesante, non sono riuscita a sollevarlo». Erano state le uniche parole che gli avevo rivolto. Lui mi aveva aiutata a portare il corpo in giardino e a posizionarlo sulla pira; poi, senza dire una parola, mi aveva guardata accendere il fuoco con gesti meccanici e prendere posto sugli scalini d’ingresso dopo che le fiamme erano divampate. Sempre in silenzio, mi si era seduto accanto. Io tremavo e battevo i denti per la tensione, così lui mi aveva abbracciata e tenuta stretta. Solo allora mi ero lasciata andare al pianto. In seguito, quando il fuoco si era ormai spento del tutto, Bobby mi aveva dato una mano a raccogliere le mie cose, dai vestiti ai libri sull’occulto, e mi aveva portata a casa con sé. Tempo dopo era tornato a Mitchell per recuperare la Mustang.
Adesso erano quindici giorni che occupavo quella stanza, lasciandola di tanto in tanto per scendere in cucina o andare in bagno, camminando silenziosa come un fantasma. E proprio in bagno mi stavo dirigendo ora, con tutta l’intenzione di infilarmi sotto la doccia e non uscirne per un bel pezzo.
 
DEAN
 
Sam ed io ci trovavamo nella cucina di Bobby a sorseggiare birra. Gli stavamo raccontando del caso di Demoni appena terminato lì in South Dakota, di come Sam aveva rischiato di distruggere l’Impala facendomi andare fuori strada, quando, dal piano superiore, giunsero i rumori di due porte aperte e poi chiuse, intervallati dal lieve suono di passi sul pavimento di legno. Istintivamente, ci voltammo tutti e tre verso le scale.
«Si è svegliata» osservò Bobby, lo sguardo pensieroso, prima di portarsi nuovamente la bottiglia alle labbra. Lo guardai: mio fratello ed io avevamo saputo della morte di Drake Carter e della presenza di Liz in quella casa da Bobby stesso, pochi giorni dopo l’accaduto. Lui non si era profuso in troppe spiegazioni, accennando solo a un Mutaforma che aveva attaccato il ragazzo nella sua abitazione – ci aveva spiegato poi che anche lui non ne sapeva molto di più: a Liz non andava ancora di parlare di quel giorno, e lui non voleva insistere. La notizia ci aveva colpiti entrambi, sebbene non conoscessimo molto bene Drake: i Carter erano stati come una seconda famiglia, per noi, specie negli anni delle prime cacce di papà. Ashlyn Carter era la migliore amica di mia madre e, dopo il matrimonio – avvenuto pochi mesi dopo quello dei miei genitori -, lei e suo marito Tom avevano preso casa accanto alla nostra; quando mia madre morì, i due ci ospitarono per parecchio tempo, almeno finché mio padre non decise di iniziare a cacciare. Conservavo parecchi ricordi dei giorni trascorsi da loro a giocare con Jason, un anno più piccolo di me (non potevo dire che fosse il mio migliore amico, ma stavo bene in sua compagnia e, negli anni seguenti, andai più volte a caccia da solo con lui) e, immaginando come avrebbe potuto comportarsi mia madre con me e Sam, prendevo spunto dalla dolcezza che Ashlyn ci riservava. Quando lei morì, pochi giorni dopo la nascita di Liz, avevo tredici anni e per me fu come perdere mia madre una seconda volta. In seguito, incontrammo i Carter poche volte; perlopiù, io e mio padre incrociammo la via di Tom e Jason durante le loro cacce. Drake e Liz non li vedemmo praticamente mai.
«Come sta?» domandò Sam rivolto al nostro amico, riferendosi alla ragazza. Bobby sospirò, posando la birra sul tavolo. «È come se non ci fosse. La vedo solo quando scende per mangiare – se scende per mangiare – e non parla molto. Passa la maggior parte del tempo nella sua stanza». Riportò lo sguardo sulle scale per qualche secondo.
«Bisogna darle tempo» riprese Sam, col suo solito fare buono e pacato. «Nel giro di due anni ha perso l’intera famiglia, è comprensibile che non abbia voglia di stare con nessuno. Avrà solo bisogno di un po’ di tranquillità e normalità».
“Due anni” pensai. Erano già trascorsi due anni da quando anche io e mio fratello avevamo perso tutta la nostra famiglia. L’unica differenza era noi, quantomeno, potevamo continuare a contare l’uno sull’appoggio dell’altro; Liz, al contrario, non aveva altri parenti. Suo padre era morto lo stesso giorno in cui era morto il nostro, ucciso per mano dello stesso Demone, per il medesimo motivo; l’anno dopo, pochi giorni prima di Natale, suo fratello Jason aveva perso la vita a causa di un Vampiro. E adesso anche Drake era stato cremato.
«Quanti anni aveva Drake?» chiesi a Bobby «Diciannove? Venti?» non lo ricordavo bene, ma sapevo che lui e Liz avevano circa la stessa differenza di età che intercorreva tra me e Sam.
L’uomo annuì. «Ne avrebbe compiuti venti domani» mi rispose.
“Neanche vent’anni e già tre metri sotto terra” pensai, scuotendo lievemente la testa.
Sam parve leggermi nel pensiero. «Portare avanti le tradizioni di famiglia a volte non porta altro che guai» disse cupo, lanciandomi una chiara frecciatina.
Lo guardai in tralice. Sapevo bene a cosa si stesse riferendo: mi mancavano poco più di due mesi da vivere perché, quasi un anno prima, avevo venduto la mia anima per riportarlo in vita e, se non avessimo trovato una scappatoia ed io fossi morto davvero, Sam non me lo avrebbe mai perdonato. Non che ora le cose fossero più facili, a mio fratello quella situazione non andava giù per niente, ma io ero convinto che avremmo trovato una soluzione. Inoltre, se la mia morte equivaleva alla vita di Sam, ero ben contento di aver scelto quella strada, e glielo avevo detto apertamente. Non volevo morire, quello no, ma preferivo che vivesse lui, e non il contrario.
«I guai colpiscono anche gli ignari» gli risposi, pacato. “Se non erro, tu non volevi saperne nulla della caccia, eppure ti sei trovato nell’occhio del ciclone, con Azazel”. Sam colse l’allusione e rimase in silenzio. «Io ho fame» dissi d’un tratto, battendo una mano sul tavolo. «Pizza?».
«Sono quattro giorni che andiamo avanti a pizza!» si lamentò mio fratello.
«E allora? Nessuno è mai morto per averne mangiata troppa» ribattei con un sorrisone.
«Diventerai grasso come un bue» mi preso in giro.
«Grasso e felice!»
Stavamo ancora scherzando e battibeccando sul cosa mangiare per cena quando udimmo dei passi sulle scale. Io, seduto di spalle, mi voltai: Elizabeth Carter era una ragazzina di sedici anni, minuta, con un viso tondo contornato da lunghi capelli castani, ora raccolti in una coda, e un’espressione tranquilla. Tutti i suoi tratti davano un’idea di piccolezza: il naso era piccolo e tondo, le labbra sottili. Solo gli occhi nocciola erano grandi, forse un po’ troppo per quel viso delicato, ma la luce di tristezza che vi albergava smorzava quell’effetto. Era molto cambiata dall’ultima volta che l’avevo vista, dieci mesi prima. Sembrava più grande. O forse quella era solo una mia sensazione dovuta al sapere cosa lei avesse passato in quel poco tempo: la sfida tra i prescelti di Azazel, la morte di Jason e, recentemente, quella di Drake.
«Ciao Sam. Ciao Dean» ci salutò pacata, attraversando il soggiorno e raggiungendoci in cucina. Ammiccò un sorriso.
«Ciao Liz» rispose Sam, ricambiando il sorriso. Mio fratello mi diede l’impressione di star camminando sulle uova, come se non sapesse bene che tipo di tono utilizzare con lei. Era lo stesso che adoperava con me quando temeva che potessi esplodere da un momento all’altro.
«Ho riconosciuto le vostre voci dal piano di sopra» disse la ragazza, tentando di sembrare normale. Si fermò sotto l’arco della cucina, come se avesse paura di qualcosa. «Di cosa stavate parlando?»
«Stavamo decidendo che pizza mangiare» le risposi fingendo entusiasmo, ma cercando di mostrarmi più a mio agio di Sam. Lui mi guardò come a dire “non è vero che abbiamo optato per la pizza!”, ma lo ignorai e proseguii. «Tu come la vuoi?».
Liz si strinse nelle spalle. «Non lo so. È uguale».
«Io la prendo alla cipolla» intervenne Bobby dopo un istante di silenzio. Dal suo sguardo capii che stava reggendomi il gioco per far sentire a proprio agio la ragazzina, dando una parvenza di normalità.
«Alla cipolla?» domandò retoricamente Sam, atteggiando il viso ad un’espressione quasi di disgusto.
«Che c’è? Non devo mica baciarti, Sam» rispose l’uomo, burbero come suo solito. Io e mio fratello ridemmo; Liz accennò un sorriso. Bobby aveva ragione nel dire che non parlava molto. Non vi badai. Tracannai in un sorso la mia birra e mi alzai.
«Tu come la preferisci, Sammy?» chiesi a mio fratello. Lui sospirò.
«Senza condimento, solo pomodoro».
Alzai gli occhi al cielo, esasperando un’espressione incredula e scuotendo la testa, come se le sue parole stessero gettando disonore sulla nostra famiglia. Mi voltai verso Liz, ancora ferma in piedi sotto l’arco della cucina. Non si era mossa di un millimetro e non aveva parlato se non lo stretto necessario. Era come se si fosse rinchiusa nel suo mondo privato e non volesse uscirne. «Sicura di voler far decidere a me la tua pizza?» le domandai in tono scherzoso, avviandomi verso la porta.
«No, io…» iniziò, guardandomi senza vedermi realmente; si interruppe un attimo, quasi cercando le parole giuste «Posso venire con te?» chiese cauta.
Quella richiesta stupì piacevolmente tutti. Bobby ci aveva appena detto che erano settimane che Liz non abbandonava la sua camera, e adesso mi chiedeva di accompagnarmi in città.
«Certo!» risposi, ma senza metterci troppa enfasi. Le feci cenno di precedermi e uscimmo.
Il sole del tramonto colorava tutto di arancione e il caldo dei primi di luglio aveva riscaldato l’abitacolo dell’Impala. Quando misi in moto, lo stereo sputò le parole di una canzone degli AC/DC a tutto volume. Dovetti fermarmi a riflettere per allungare una mano e abbassarlo.
«No, lascia» mi fermò Liz con un gesto della mano. «Non mi da fastidio».
«Ti piace il rock?» le domandai, giusto per fare conversazione, tornando con la mano sul volante.
«Non saprei. Diciamo che ascolto un po’ di tutto. Perlopiù ascolto le canzoni: se mi piacciono, di qualsiasi genere siano, le aggiungo alla lista».
Sorrisi, ma poi lasciai che fosse la musica a occupare il silenzio.
«Sai, sei stato più bravo di Sam a fingere normalità» osservò di punto in bianco, con cupa ironia. La guardai fingendo di non capire. «Quando sono scesa, Sam non sapeva come prendermi. Era a disagio. Tu invece no. Questa è la parte che odio di più, dopo un lutto: la gente ha sempre paura di essere normale o mostrarsi felice per non ferirti perché tu hai appena perso qualcuno. Mi è capitata la stessa cosa a scuola dopo la morte di papà e Jason: tutti cercavano di essere gentili e carini, ed è una cosa che detesto. È vero, sto male, ma non sono un vaso che rischia di rompersi al primo soffio di vento!» man mano che parlava, aveva volto lo sguardo fuori dal finestrino e il suo tono si era fatto più deciso. Tale forza mi sorprese: a casa di Bobby mi era parsa una ragazzina indifesa e sul punto di crollare, bisognosa di protezione. Mi ero sbagliato. «Io ho bisogno di normalità» continuò «e tu me l’hai data. Cioè, il tuo tono scherzoso. Di solito gente ti tratta con i guanti».
«A me ha sempre infastidito questo atteggiamento» le dissi, condividendo le sue idee. «La vita continua, lo si deve accettare. Gli altri non possono farci niente, ma chi non lo ha vissuto non può capire» continuai. E probabilmente non mi riferivo neanche più alla morte di Drake, o alla morte di altri. In quel momento stavo pensando a me, a cosa avrei fatto quando sarebbe giunto il mio momento; o, meglio, a cosa avrebbe fatto Sam dopo che me ne fossi andato per sempre. Ero quasi certo che avrebbe tentato di tutto per farmi tornare indietro, ma a me non importava molto. “La vita continua, lo si deve accettare”.
«Io e Sam tra un po’ ripartiremo, andremo di nuovo a caccia. Se ti va, puoi venire con noi». Non sapevo cosa mi avesse spinto a farle tale proposta, forse le sue parole di aver bisogno di normalità. Una volta Jason mi aveva detto che, di tanto in tanto, Liz andava a caccia con loro. Era normale che lo facesse. Un altro viaggetto di quel tipo magari l’avrebbe aiutata.
Liz mi guardò, ammutolita. «Ci devo pensare» mi rispose dopo un po’, tornando a guardare oltre il finestrino.
Rimase in silenzio per tutto il tragitto fino al take-away, e anche lì non parlò molto se non per ordinare la propria pizza – salsiccia con doppia mozzarella.
«La cena è servita!» annunciai, aprendo la porta di casa di Bobby. Posai sul tavolo due delle quattro pizze e la confezione da sei di bottiglie di birra fresche. «Queste mettile in frigo, Sammy» mi rivolsi a mio fratello, porgendogli le tre birre che avevo lasciato nel cartone dopo averne estratto l’altra metà. Poi aiutai Bobby a spostare il tavolo dal muro per ricavare un altro posto, mentre Liz attendeva con le pizze restanti in mano; infine ci sedemmo.
«Mia adorata ai peperoni, arrivo!» esclamai, sfregandomi le mani prima di aprire il cartone.
Sam, seduto alla mia destra, tra me e Bobby, mi guardò disgustato. «Sei un pozzo senza fondo».
«Meglio questo che rimanere stecco come te!» ribattei e mi fiondai sul primo pezzo. «Oh, sì!» dissi a bocca piena, come se stessi gustando il cibo più buono del mondo.
Dopo aver terminato la prima fetta di pizza, Sam parve notare il silenzio di Liz, che mangiava con sguardo assorto e pensieroso. Io, sapendo cosa le stesse passando per la mente, l’avevo lasciato in pace, ma lo stesso non poté dirsi di mio fratello, che le chiese cosa avesse, se fosse tutto ok.
Liz parve ridestarsi. «Sì, tutto a posto» rispose «Stavo solo pensando…» fece una pausa, poi si rivolse a me. «Ho deciso di accettare la tua offerta, Dean: verrò a caccia con voi».
Io le sorrisi e le risposi a bocca piena. «Bene!»
Non mi ero accorto del silenzio che invece, adesso, veniva dal Bobby e mio fratello.
«Dean, ti devo parlare» mi disse quest’ultimo, alzandosi.
«Come, adesso? Ma sto mangiando!» protestai, indicandogli la pizza che avevo in mano.
«Sì, adesso!» rispose lui tra i denti, un fintissimo sorriso sulle labbra.
Con uno sbuffo mi alzai e lo seguii vicino le scale. «Che c’è?» domandai.
«Che c’è?! Dean, hai appena invitato una ragazzina a cacciare con noi! Sei completamente impazzito?!»
«Lei caccia, quindi l’ho invitata. Ha bisogno di normalità, lo hai detto anche tu!»
«Ma ha sedici anni! Non possiamo farle da baby-sitter!» continuò mio fratello.
«Viene da una famiglia di cacciatori, se la saprà cavare» risposi, con un tono che voleva mettere fine alla discussione. Sam non si arrese.
«Dean, sai bene a cosa andiamo incontro noi nelle nostre cacce. Lei non è preparata!» osservò, cercando di tenere basso il tono di voce nonostante l’enfasi che metteva in quelle parole.
«Neanche noi lo eravamo!» gli feci notare. «Eppure…»
«Noi non avevamo la sua età quando siamo finiti in questo pasticcio!».
«Va bene. Non la vuoi? Allora valle a dire che non può accompagnarci. Valle a dire che deve continuare a rimanere in questa casa, chiusa in camera di Bobby, a non fare niente tutto il tempo!» anche io avevo alzato la voce, ma non tanto da farla arrivare al tavolo in cucina, alle orecchie di Liz e Bobby che ci guardavano cercando di capire cosa stesse succedendo. Sam mi guardò in silenzio, soppesando le parole che gli avevo appena rivolto. Dalla sua faccia avevo capito che si era convinto. Sospirai. «Non sarà per molto, solo per l’estate. Poi lei tornerà a scuola, no?».
Mio fratello rimase in silenzio ancora per qualche attimo, spostando lo sguardo da me a Liz e viceversa; io non gli staccai gli occhi di dosso, studiando ogni cambiamento di espressione del suo viso: lo avevo convinto a portare Liz con noi, ma lui stava ancora pensando a cosa sarebbe potuto accadere.
«Ok. Starà con noi fino a settembre» decise alla fine.
«Bravo Sammy!» gli dissi, dandogli un pugno amichevole sulla spalla. Lui alzò gli occhi al cielo, fingendosi esasperato, ma non riuscendo a nascondere il sorriso divertito. «E adesso torniamo a mangiare!»
Il giorno dopo, Liz caricò il suo borsone assieme ai nostri nel bagagliaio dell’Impala, aggiungendo un paio di armi al nostro arsenale. Bobby non si era espresso, in sua presenza, su quella decisione di partire, ma a noi aveva confessato di essere contento di quella scelta: preferiva saperla in azione a uccidere mostri piuttosto che chiusa tutto il giorno in una stanza, rintanata sotto le coperte. «Sono certo che le farà bene» ci aveva detto «Però tenetela d’occhio: potrebbe cacciarsi nei guai pensando di non avere più niente da perdere».
«Tranquillo, Bobby: Sam gli farà da badante» scherzai, ma senza prendere sotto gamba l’avvertimento. Non avevo pensato a quell’eventualità, ma speravo che Liz non fosse tanto disperata da tentare azioni sconsiderate.
Salutammo il nostro amico e, dopo che Liz lo ebbe abbracciato e ringraziato per l’ospitalità, promettendogli che si sarebbero rivisti a settembre, misi in moto e partimmo.
  
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