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Autore: Kuruccha    16/08/2015    2 recensioni
«Ritorni indietro con gli spiriti dei morti e fai finta che tutto sia come prima. Sembra un’altra delle illusioni dell’Obon.»
Genere: Generale, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Sakamoto Tatsuma
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Le doverose precisazioni iniziali che da qualche storia a questa parte stanno diventando una tradizione:
  • Questa fanfiction contiene alcuni piccoli spoiler sul background di Sakamoto e di Mutsu; principalmente sono dettagli che si vengono a sapere durante la saga del Kaientai, nei capitoli 477-480 del manga. Si tratta di particolari minimi rispetto alla mole della storia, ma preferisco avvisarvi comunque.
  • Delle origini di Sakamoto in realtà non sappiamo quasi niente; Sorachi ci ha detto solo che arriva da Tosa e che proviene da una famiglia di mercanti. Tutto quello che troverete qui dentro riguardo la suddetta famiglia è perciò inventato di sana pianta.


 
 
Mukaebi
迎え火

 


 
«… E perciò quest’anno pensavo di tornare, ahahahah!»
La risata di Sakamoto rimbomba contro le pareti metalliche della cabina e Mutsu avverte distintamente il mal di testa salire dalla base del cranio alle tempie.
«Sulla Terra» gli risponde, senza nemmeno sollevare lo sguardo dai fogli sulla scrivania.
«A Tosa!»
Mutsu non ha idea di dove si trovi quel posto; non sa nemmeno se sia nella stessa zona del Giappone in cui fanno sbarco di solito, o se magari sia in montagna, o su un’altra isola. La Terra le è sempre parsa troppo piccola e troppo affollata, quindi s’immagina che la distanza non sia comunque un gran problema.
«Fa’ come vuoi. Non hai certo bisogno del mio permesso» gli risponde alla fine. «Di solito sparisci e basta. Immagino che ti ritroveremo da Oryou» completa, tracciando un segno orizzontale sulle ultime righe del documento su cui sta lavorando.
«Vorrei che venissi con me.»
La richiesta la lascia perplessa.
«E la flotta?»
«Scendiamo al porto. Faremo manutenzione.»
«Impossibile. Le navi della terza e della quinta divisione sono quasi a destinazione e la settima è già pronta a partire.»
«E allora lasciale andare, ahahahah!»
Mutsu si porta la mano alla fronte; il pulsare del mal di testa si fa sempre più insistente. Traccia un altro segno orizzontale sul foglio, e con irritazione nota che non è perfettamente parallelo all’altro.
«È un momento delicato, Sakamoto. Non è il fine settimana più adatto alle tue gite fuori programma. Se magari rimandassi tutto al mese prossimo, allora avremmo il tempo di...»
«Ma l’Obon è in questi giorni, non tra un mese.»
«L’Obon? La festa dei morti?» chiede. Ricorda di averne sentito parlare da alcuni dei membri del Kaientai, nel corso degli anni, ma le sue conoscenze vanno poco oltre il significato del termine. «Sono certa che è una scusa bella e buona. L’anno scorso non sei tornato a casa per l’Obon.»
«Ma fino all’anno scorso mio padre era ancora vivo, ahahahah!»
La rivelazione la coglie così alla sprovvista che quasi si dimentica del mal di testa e delle scartoffie e di tutto il resto. «Tuo padre?»
«Già.»
Lo guarda dritto in viso - ha ancora stampato in faccia il suo solito sorriso irritante, quasi come se quella faccenda non lo toccasse nemmeno un po’ - e non può fare a meno di chiedersi se lui sia andato alla cerimonia funebre, e se l’abbia nascosto di proposito o meno, e quando sia successo. In quale delle mille volte in cui sono scesi a recuperarlo allo Snack Smile, o all’agenzia di quel Gintoki, senza sapere, senza immaginare.
«Scusa» gli dice allora. «È ovvio che puoi andare. Rimarrò io qui a mandare avanti le cose.»
«Vorrei che venissi con me» le ripete, e Mutsu lo conosce abbastanza bene da capire che dietro quella richiesta ci dev’essere una ragione. O che, se anche una ragione non ci fosse, lui insisterà comunque fino a quando non l’avrà persuasa.
Abbassa lo sguardo sulla scrivania; studia la pila di fogli ammucchiati alla sua destra, poi quella sulla sinistra. Scarabocchia qualcosa sul blocco note.
«Va bene» concede infine. «Vedrò cosa posso fare.»
 
*
 
Nella flotta nessuno fa domande riguardo quella gita sulla Terra - o per lo meno nessuno le fa a lei direttamente; Mutsu ha raccontato tutto quanto solo alla nonnina, la quale si è limitata ad annuire come se capisse e a chiederle qualcosa di buono da mangiare come souvenir.
Gli uomini sono addestrati a mandare avanti la compagnia anche senza di loro, ma è la prima volta che Mutsu li lascia per così tanto tempo; non ha dubbi sulle loro abilità, eppure non può fare a meno di mandar giù il groppo di preoccupazione che le chiude la gola. Molte navi sono in viaggio; le altre sono ormeggiate al porto della base di Yokohama, in attesa del loro ritorno. La nonna la saluta dal ponte di prua della nave ammiraglia; agita la mano e Mutsu la osserva immobile da sotto la cupola del cappello, sperando che non succeda niente a nessuno di loro.
Sakamoto arriva di corsa, già in ritardo, dopo aver mercanteggiato sul prezzo dell’ormeggio. La sua espressione è un po’ più tirata del solito; le rughe nascoste dagli occhiali da sole tradiscono la sua preoccupazione. A quanto pare neppure lui viaggerà a cuor leggero.
 
Prendono il treno e Sakamoto vomita per tutto il tempo: è alla toilette così spesso che a Mutsu sembra quasi di viaggiare da sola. Osserva gli edifici moderni di Edo cedere il passo a case più basse; il marrone del legno è intervallato dal verde delle risaie, dal bianco delle statue dei Buddha intagliate nelle montagne, dal celeste del mare. È un paesaggio che ha visto mille volte dall’alto e ben poche da terra; tutto scorre velocemente, scomparendo oltre i finestrini del vagone poco dopo essere apparso. Chissà perché Sakamoto ha voluto prendere il treno, poi; con una delle navi avrebbero di certo fatto prima.
Il vagone curva impercettibilmente verso ovest e il riflesso dei raggi sull’acqua fa capolino attraverso il vetro. Mutsu decide che di quel Giappone ha visto abbastanza e tira la tenda. Proprio in quel momento Sakamoto fa ritorno dal bagno e si lascia cadere pesantemente sul sedile di fianco a lei.
«Quanto manca ancora?» le chiede, massaggiandosi lo stomaco. Mutsu risponde con una scrollata di spalle.
«Sei tu quello che sa dove stiamo andando.»
«Ahahahah!»
Mutsu si rilassa contro lo schienale. Le macchie luminose sfuggite allo schermo della tenda le danzano addosso, vagando incerte sulla stoffa dei pantaloni. Il suo sguardo si ferma sul portabagagli sospeso, dove ha caricato valigie e cappello.
«Non so bene come funzioni.»
«Eh?» chiede lui. «Come funzioni cosa? L’Obon?»
Scuote la testa. «Ho preso dei dolci. Forse avrei dovuto portare anche dei regali.»
«I regali!» esclama lui. «Me ne sono dimenticato!»
Mutsu sospira. «Speriamo che quei dolci bastino, allora.»
«Chi lo sa, ahahahah!» le risponde, grattandosi la testa. «Non so precisamente chi ci sarà.»
«Spero non siano tutti grandi e grossi come te.»
Sakamoto ride, ma questa volta la sua risata è diversa; meno forzata, forse. Un po’ più a cuor leggero.
«Sei stata gentile» le dice. «Miho ne sarà felice.»
Conosce quel nome; è la sorella che Sakamoto nomina ogni tanto, quando è ubriaco e senza troppe preoccupazioni. Se l’è sempre immaginata come una bambina, perché è così che lui l’ha sempre descritta.
«Ora credo che farò un altro giretto al bagno, ahah- ah-»
Corre via ancor prima di ottenere risposta e Mutsu rimane di nuovo da sola. Il riflesso del sole sembra essersi fatto meno forte, ma il paesaggio rimane nascosto dietro la stoffa pesante della tenda del finestrino. Approfitta di quell’attimo di calma per tirare fuori dalla valigia le scartoffie che ha portato con sé, poi ricomincia a lavorare.
 
*
 
Arrivano a Tosa nel tardo pomeriggio. Una volta scesi, Sakamoto ha bisogno di rimanere seduto per più di mezz’ora prima di essere in grado di muoversi; Mutsu decide arbitrariamente che al ritorno non prenderanno il treno.
Sakamoto ingurgita tre diverse bevande energetiche e il sole comincia la sua discesa verso l’orizzonte. La stazione non è molto diversa dalle altre che Mutsu ha visto scorrere lungo il viaggio; è piccola e pulita, e i binari sono delimitati da alte mura ricoperte d’edera verde. Due chioschi vendono cibi pronti e souvenir. Hanno tolto cappotto e mantello già da un po’; l’aria salmastra è calda e umida e le fa appiccicare addosso i vestiti.
«Da che parte?» gli chiede, quando finalmente mettono piede fuori. Sono lì da talmente tanto tempo che il capostazione li saluta con la mano nel vederli andar via.
«Di là» dice Sakamoto senza indugio, puntando il dito in direzione di una bassa collina. Inspira a pieni polmoni e il suo sguardo si fa di nuovo limpido. «Per di là.»
È l’imbrunire, ma gli ultimi raggi del sole sono ancora abbastanza forti da bruciarle sulla pelle delle dita strette ai manici delle valigie; Sakamoto cammina tre passi avanti a lei e blatera su questo o quell’argomento, raccontandole chissà cosa. È nervoso, e Mutsu non fatica a notarlo, ma non gli dice nulla.
 
Il sole è definitivamente calato quando vedono il primo fuoco.
È solo una fiammella o poco più, persa nel verde più scuro della collina che stanno costeggiando; Mutsu pensa a un principio d’incendio, ma poi sente il vociare allegro dei bambini e vede la fiamma muoversi a mezz’aria senza mai espandersi.
«Ma sono già di ritorno, ahahahah!» ride Sakamoto, e alla fiamma se ne aggiunge un’altra, e poi un’altra ancora; proseguono in fila scendendo dalla cima, come se si trattasse di una processione. Qualcuno canta, qualcuno recita un sutra con il frinire delle cicale a fare da sottofondo; la strada si popola di persone e d’improvviso non sono più soli.
«Sbrighiamoci» dice, e di nuovo ha in viso quel sorriso luminoso. Le prende di mano la valigia e per sbaglio se la lascia cadere sul piede. Mutsu la raccoglie, s’incammina e lascia che lui la insegua.
 
*
 
Sakamoto si ferma di fronte a un alto cancello; su una delle colonne portanti sono intarsiati gli ideogrammi del nome della sua famiglia, ed è così che Mutsu sa per certo che sono giunti a destinazione. La sua espressione dietro le lenti scure è tornata ad essere indecifrabile.
«Entriamo?» gli chiede allora.
Lui si riscuote ed annuisce con decisione.
Anche vicino alla porta principale di quella grande casa è stato acceso un falò; sulla base c’è legna a sufficienza per farlo bruciare a lungo. Dall’interno dell’edificio arriva l’eco distante dei sutra, intervallato dal rintocco greve di una campana.
«Aspettiamo qui» le dice. «Sarebbe irrispettoso entrare adesso.»
Il concetto di irrispettoso le pare del tutto estraneo al Sakamoto che conosce; non può quindi fare a meno di chiedersi che cosa gli stia succedendo.
«Desiderate?» domanda loro una signora, emergendo da uno dei corridoi interni nascosti dagli shoji. C’è qualcosa di lei che fa capire a Mutsu che si tratta di un’inserviente, ma non comprende se sia l’abbigliamento, il comportamento, oppure il fatto che non ha riconosciuto Sakamoto.
«Cercavo Miho» gli risponde lui. «Sono Tatsuma.»
Una scintilla di consapevolezza brilla negli occhi dell’interviente, come se all’improvviso si fosse resa conto di chi ha davanti. La vede chinare la testa e uscire dalla stanza camminando all’indietro, senza aggiungere un’altra parola.
Nell’accomodarsi sui tatami, Mutsu si slaccia il cappello e lo posa sulle ginocchia. Guarda Sakamoto sfilarsi gli occhiali da sole; è incredibile come potesse ancora vedere qualcosa in quella penombra, ma ha imparato a non stupirsi più. Il loro sguardo, poi, si fissa sul pannello scorrevole oltre il quale è scomparsa la signora.
Aspettano appena qualche minuto, giusto il tempo necessario per studiare gli arredi eleganti della stanza, prima che una sagoma faccia capolino da dietro la carta spessa degli shoji. Vista la cerimoniosità dell’inserviente, Mutsu si era immaginata che tutti gli abitanti di quella casa avrebbero avuto quel genere di comportamento; invece la nuova arrivata sposta i pannelli con movimento tutt’altro che studiato, sporgendosi in avanti per entrare ancora prima di annunciarsi.
«Tatsuma» chiama, e guarda Mutsu dritta in viso. Con la coda dell’occhio, Mutsu riesce a vedere Sakamoto sorridere. «Tatsuma!» chiama lei di nuovo, e questa volta individua la persona giusta.
«Ciao, Miho! Ahahahah!»
«Santo cielo, sei proprio tu» commenta, precipitandosi ad abbracciarlo. È così piccina, e lui è così grande pur da seduto, che le sue mani sembrano quasi quelle di una bambina.
Sakamoto ride ancora fragorosamente e sembra non saper bene come reagire a quella manifestazione d’affetto. «Dove sei stato? Saranno tutti così felici di rivederti! Oh, se solo…» dice, e poi cambia discorso. «Ma quanto resterai? Fino a quando ti fermi?»
«Solo qualche giorno» le risponde, «Fino a dopodomani, alla fine dell’Obon.»
«E perciò sei tornato per l’Obon? Oh, mamma ne sarà così felice!»
Mutsu ascolta quella conversazione senza tentare d’intervenire; poi si ricorda dei dolci che ha portato in dono e decide che è il momento giusto per offrirli, proprio come in ogni trattativa commerciale che si rispetti. «Questi sono per voi» dice, porgendo la scatola decorata a Miho nel primo attimo di silenzio.
Miho la guarda senza dire niente; le sorride accettando il pacchetto e poi lo posa sui tatami vicino a sé, sporgendosi verso Mutsu per vederla più da vicino.
«Ma com’è carina!» commenta, rivolta a Sakamoto, prendendole il viso tra le mani. «Sei proprio carina, lo sai?»
Lui sorride soddisfatto. «Vero?» dice alla sorella, come se il merito fosse tutto suo. Mutsu, nonostante le piccole mani di Miho ancora le tengano fermo il viso, non perde l’occasione per sferrargli un pugno così forte da farlo cadere di lato.
«Forza, venite avanti, venite!» li invita poi, liberando le guance di Mutsu dalla presa delle dita. «La celebrazione è ancora in corso.»
«Non è il caso, Miho» replica Sakamoto, «Aspetteremo qui. Non è un problema.»
«Non dire sciocchezze, sei pur sempre parte della famiglia. Hai gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri. E ora su» ordina, perentoria, rimettendosi in piedi, «che oramai dovremmo essere quasi alla fine.»
Come volesse darle ragione, la campana rintocca un nuovo colpo greve; Miho fa scorrere lo shoji e rivela un corridoio lungo e ben illuminato.
«Avanti, Tatsuma. E...»
«Mutsu. Mi chiamo Mutsu.»
«Mutsu. Prego, di qua.»
Miho li conduce attraverso ale diverse di quell’enorme casa; passano per il cortile fino a raggiungere un altro edificio. Sakamoto conversa con sua sorella e nel frattempo tiene d’occhio Mutsu. Lei li segue in silenzio.
Alla fine Miho zittisce Sakamoto posandosi un dito sulle labbra. Il recitare dei sutra ora si è fatto più intenso; le voci sono più forti, e le vibrazioni dei rintocchi della campana risuonano attraverso il pavimento fino alle piante dei piedi nudi di Mutsu.
Si chinano sulle ginocchia sul patio, ancor prima di entrare, poi scivolano sul legno lucido dietro la folla già radunata; si tratta principalmente di donne e bambini, oltre che di altri inservienti più o meno giovani.
Sakamoto ha lo sguardo dritto in avanti. Mutsu ne segue il percorso e fissa il proprio sui gesti dell’uomo davanti a tutti gli altri; dal suo armeggiare deduce sia il celebrante o qualcosa di molto simile.
«Quello è mio marito» bisbiglia Miho a suo fratello, e lui trasale; probabilmente non era al corrente della notizia delle nozze.
L’uomo si inginocchia davanti all’altare addossato alla parete di fondo; quando solleva la testa, la recita dei sutra si interrompe e la campana si fa muta.
«Bentornati» dice poi, «A nome di questa famiglia, vi do il benvenuto. Bentornati a casa.»
Mutsu s’immagina che quella sia parte della celebrazione, e che quelli che l’uomo sta salutando siano gli spiriti degli antenati o qualcosa di simile, ma ora capisce che se Miho ha insistito per farli venire fin lì è stato proprio per far sentire a Sakamoto quelle parole. Le dita intrecciate dei due fratelli sembrano dargliene conferma.
 
*
 
«Devi subito andare dalla mamma, Tatsuma» dice Miho alla fine della cerimonia, invitandoli ad uscire prima di tutti gli altri. «Il resto può aspettare. Vi accompagno subito fino alla sua stanza, così sarete già lì quando rientra.»
Mentre percorrono gli ampi corridoi esterni verso l’ala opposta della casa - Miho di fianco a lei che le illustra questa o quella storia, Sakamoto che con lo sguardo studia ogni stanza come se non l’avesse mai vista prima d’allora - Mutsu non può fare a meno di paragonarne la dimensione con quella della loro nave ammiraglia. Ha sempre vissuto in spazi organizzati al centimetro, in camere in cui ogni angolo ha la sua funzione; quella casa enorme, invece, le sembra ostentare un vuoto ingiustificato.
Anche la stanza della madre di Sakamoto è ampia, ma al contrario di tutte le altre che ha visto è riccamente decorata con miriadi di mobili e cianfrusaglie. Miho li fa accomodare di fronte ad un basso tavolino; gli shoji leggermente aperti lasciano intravedere lo scorcio di un giardino interno.
«Aspettate qui» dice loro. «Io le andrò incontro. Avete un alloggio per la notte?»
«A dire la verità no, ahahahah!»
Il mal di testa di Mutsu torna a pulsare. «Vuoi dire che non li avevi avvertiti?»
Sakamoto ride invece di rispondere e lei gli molla un altro pugno.
«Non c’è problema, non c’è problema, la casa è così grande!» esclama Miho. «Chiederò di farvi preparare dei futon, allora.»
Esce dalla stanza bisbigliando qualcosa di incomprensibile tra sé e sé. Rimangono di nuovo soli, e al primo tintinnare del fuurin appeso al soffitto del patio Sakamoto si lascia cadere disteso sulla schiena.
«Mi viene da vomitare» si lamenta, ad occhi chiusi, tenendosi la mano sullo stomaco.
«Per il ritorno faremo venire una delle navi, sia chiaro» gli risponde, pur sapendo che non è il treno la causa di quella nausea.
«Forse andrò in bagno.»
«Non dire sciocchezze.»
«Forse vomiterò in giardino» continua, trascinandosi verso gli shoji. Mutsu lo afferra per una caviglia e lo tira all’indietro.
È ancora lì disteso a terra quando i pannelli esterni scorrono sulle corsie e dal patio emerge la figura di una donna. Indossa un kimono nero decorato sul fondo con un motivo di pesci ricamati ed è così alta che sotto l’obi non si intravede nemmeno la stoffa ripiegata.
Sakamoto la guarda dal basso e subito cerca di alzarsi, ma la donna gli posa la mano sulla testa e lo spinge di nuovo all’ingiù. Punta lo sguardo su Mutsu e si siede di fronte a lei, all’altro capo del tavolino.
«Hai riportato fin qui questo mio stupido figlio» le dice. «Immagino che dovrei ringraziarti.»
«Ricordo di aver portato solo dei dolci, a dire il vero. Il resto è successo di conseguenza.»
«Sei sua moglie?»
«Assolutamente no. Non lo sposerei mai» risponde candidamente.
«Mutsu, sei crudele!» protesta Sakamoto, staccando finalmente gli occhi dal pavimento. Quando si rimette a sedere di fianco a Mutsu, di nuovo sua madre gli preme la testa all’ingiù.
«È identico a suo padre. Cervello svelto solo sugli affari e nessun rispetto per chi deve sottostare alle sue decisioni.»
«È anche un donnaiolo.»
«Tutto suo padre anche in quello.»
«Anche tu sei rimasta identica, mamma» interviene lui. La guarda con la testa ancora china, sollevando solamente lo sguardo.
«Questa ragazza mi sembra mille volte più intelligente di te.»
«Lo è, ahahahah!»
Mutsu rimane impassibile nel sentire la sua risata. «È anche molto rumoroso, signora.»
«Come suo padre.»
Vengono interrotti da dei passi nel corridoio interno; gli shoji si aprono e di nuovo Miho entra di tutta fretta.
«Che guaio, sei già qui!» protesta, come fosse una bambina capricciosa. «Avrei voluto dirtelo io per prima!»
«Miho, mi sottovaluti. Vi avevo visti già prima, alla celebrazione.»
«Ahahahah, scusa per il ritardo, mamma!» s’intromette lui, il viso finalmente rivolto verso la donna. Si studiano per un lungo momento, senza aggiungere altro.
«Ritorni indietro con gli spiriti dei morti e fai finta che tutto sia come prima» dice lei alla fine. «Sembra un’altra delle illusioni dell’Obon.»
Per la prima volta da quando hanno messo piede lì dentro, Sakamoto sorride.
«Penso tu abbia parecchie cose da raccontarmi» gli dice.
 
*
 
Quella non è una visita d’affari, perciò Mutsu sente di non aver nessun dovere - e, ancor più, nessun diritto - di rimanere ad ascoltare quella conversazione. Probabilmente Miho capisce al volo i suoi pensieri, perché insiste per accompagnarla fino alla stanza che ha fatto preparare dagli inservienti.
«Qui è rimasto tutto uguale a com’era una volta» le dice, facendola accomodare. La camera non è grande come quella della madre di Sakamoto ma è comunque di dimensioni notevoli, divisa all’interno da pannelli scorrevoli più sottili degli altri. Uno dei lati dà sullo stesso cortile interno che ha visto prima dal patio. C’è, lì dentro, un’aria di familiarità che Mutsu non riesce a spiegare; è tutto molto meno impersonale delle altre stanze della casa che ha visto.
Miho la saluta rimanendo nel corridoio e le indica il cibo che ha fatto preparare; si è immaginata che non avessero ancora mangiato, visto l’orario in cui sono arrivati lì. Mutsu non ha poi molta fame, ma la ringrazia con riconoscenza.
Rimane sola e non sa bene cosa fare; non ha molta voglia di tirare fuori di nuovo le scartoffie, visto che non c’è niente di urgente da sistemare. Non le capita spesso di avere momenti liberi quando è a bordo delle navi del Kaientai, e a riempire i buchi ci hanno sempre pensato le preoccupazioni per questa o quell’altra faccenda di lavoro o per le scappatelle di Sakamoto. (E in alternativa, se lui non è fuori, è sempre e comunque troppo occupata ad ignorare le sue continue chiacchiere.)
Mutsu indossa dei vestiti puliti e assaggia un po’ di tutto quello che c’è nei piatti; non c’è niente che non le piaccia, ma è abituata a sapori più decisi. Seduta al tavolo, nota che dall’altra parte della stanza qualcuno ha portato le loro valigie e disteso i futon, uno per lei e uno per Sakamoto, mettendoli vicini. Trova naturale che Miho abbia frainteso; in fondo, l’unica ad aver chiesto loro qualcosa in merito è stata sua madre.
Quando ha finito di mangiare separa i futon lasciando tra l’uno e l’altro lo spazio per il camminamento, poi si distende su quello più lontano dal giardino. Oltre gli shoji accostati, dietro la carta di riso, l’alone luminoso della luna piena rischiara le pareti e il soffitto. Mutsu chiude gli occhi.
 

 

 
Si risveglia che fuori è già chiaro, quando i primi raggi del sole entrano dalla fessura tra i pannelli e le colpiscono il viso. Prova inutilmente a girarsi dall’altra parte, ma alla fine cede e si alza per chiudere gli shoji; li fa scorrere in silenzio sulle corsie fino a quando i bordi non cozzano l’uno sull’altro con un suono lieve, legno contro legno. La luce ancora debole le fa capire che è molto presto; la casa è immersa nel totale silenzio.
Sakamoto dorme sul suo futon, ancora più lontano rispetto a dove l’aveva spostato lei, le braccia e le gambe che sporgono oltre il bordo del materasso. Non è la prima volta che lo vede addormentato, ma col passare degli anni si fa sempre più scomposto; per lo meno quella volta non ha la bocca aperta. Nota che ha addosso uno degli yukata leggeri che erano stati lasciati sopra il comò; quello per lei è ancora ordinatamente ripiegato poco distante dal futon.
Il sonno è ormai passato, perciò si siede lì vicino a Sakamoto. Le piace molto di più quando è così silenzioso; dovrà ricordarsi di dirglielo, presto o tardi, così lui le risponderà che è crudele e la lascerà in pace per un po’.
Allunga la mano per sistemargli la stoffa ammucchiata sul collo e lo sente stiracchiarsi sotto il suo tocco, il sorriso che si fa strada dopo il primo sbadiglio.
«Buongiorno» le dice, rompendo l’incanto del silenzio. «Hai dormito bene?»
Mutsu annuisce senza cambiare espressione. «Miho è stata molto gentile, ieri.»
«Le chiederò di prepararti un’altra stanza per stanotte» le dice. «Non credevo ti avesse portata qui. Sarei andato a dormire da un’altra parte, ma quando sono rientrato non c’era già più nessuno in giro a cui chiedere, ahahahah!»
Scrolla le spalle. «Non importa. Qui si sta comodi.»
«È la mia camera, sai. Non credevo ci fosse ancora, e invece mamma l’ha fatta tenere.»
I tratti del viso di Mutsu si distendono in uno dei suoi rari sorrisi. «Avete fatto pace?»
«È ancora molto arrabbiata.»
«Ne ha tutte le ragioni, a quanto ho capito» gli dice, e di nuovo allunga la mano per sistemare le pieghe sul colletto dello yukata. «Da quanto non tornavi?»
«Dieci anni.»
«E il funerale di tuo padre?»
Sakamoto non risponde, perciò Mutsu s’immagina sia una di quelle cose che sarebbe stato meglio non chiedergli affatto. Così cambia discorso. «Hai già incontrato altre persone? Oltre a Miho e a tua madre, intendo.»
Lui scuote la testa. «Kazuhiro è a Kobe, e Yuichi a Sapporo, ma le loro famiglie sono qui. Peccato che io non le conosca, ahahahah!»
«Non dire le cose a metà. Sono tuoi parenti?»
«I miei fratelli.»
«Non sapevo avessi anche dei fratelli. Non ne parli mai.»
«È perché Miho è la mia preferita.»
Non sa se sia una bugia o meno, ma decide di fargliela passare per buona. Capisce che nemmeno quel discorso porterà a nulla - e un po’ si sente stupida a tentare di cambiare continuamente argomento, proprio lei che di solito non parla mai.
«Certo che fa caldo, però» dice alla fine, e non è affatto una frase di circostanza; la luce che passa attraverso la carta di riso ha già scaldato la paglia dei tatami.
«Già. Non sono più abituato nemmeno io» risponde, grattandosi la spalla e scombinando di nuovo il colletto.
Rimangono in silenzio. Sakamoto si stiracchia di nuovo allungando le braccia oltre il cuscino e rimane lì disteso, il viso al soffitto, perso in chissà quali pensieri.
«Scusate il disturbo» sussurra una voce sottile oltre gli shoji che danno sul corridoio. «Scusate il disturbo.»
Lo ripete più volte, senza mai entrare, finché Sakamoto non si mette a sedere e le dà conferma con un «Prego.»
Dal dietro il pannello emerge la figura minuta di una giovane ragazza. Oltrepassando il confine invisibile della stanza solo con le braccia, con il capo sempre chino, posa sui tatami un voluminoso involto di stoffa. «La Signora ha fatto preparare dei vestiti per voi.»
«Ah. Ma non era necessario, ahahahah!»
Le spalle della ragazzina sussultano leggermente al rombo di quella risata, e il mal di testa di Mutsu rinasce all’altezza delle tempie. «Scusate il disturbo» sussurra di nuovo l’inserviente, chiudendo gli shoji con un movimento perfettamente calibrato.
Fissano entrambi l’involto fino a quando Sakamoto non si alza per andarlo a recuperare; scioglie i nodi della stoffa rivelando degli abiti dai colori chiari.
«Ahahahah» ride di nuovo. «Ahahah-»
«Che c’è?»
«Immagino voglia che li indossiamo, ahahahah!»
«È ovvio. Non li avrebbe fatti portare, altrimenti.»
«Però… ecco...» le risponde, stendendo i lembi dello yukata preparato per lui, «Come dire… è terribile, Mutsu.»
Lei non sa come dargli torto: la stoffa di cui è intessuto il vestito è rigida, grezza; sembra quella usata per i sacchi di granaglie che capita loro di trasportare ogni tanto. «Tua madre ha un cervello brillante» commenta.
«Sei crudele. Lo dici solo perché non tocca a te.»
«Io non ho fatto niente per offenderla.»
Sakamoto sospira e le porge l’altro yukata ripiegato. «Tieni. Non lo devi mettere per forza.»
«Lo dici solo perché se non lo faccio sarà arrabbiata anche con me.»
Sakamoto ride di nuovo e Mutsu si copre le orecchie. Studia in silenzio la fantasia di linee curve con cui è decorato lo yukata; in alto, all’altezza del seno, sono ricamati dei complicati ideogrammi racchiusi in una cornice rotonda.
«È lo stemma della famiglia» le spiega, intercettando il suo sguardo.
«Potrò tenere il cappello?»
«Nessuno dirà niente.»
«Lo metto» decide allora. «Ma poi dovrai aiutarmi ad allacciare l’obi.»
Sakamoto sorride.
 
*
 
«Avanti, prendine un altro po’, non fare complimenti» le dice Miho, porgendole la terza ciotola di riso. Quella mattina l’appetito si fa sentire, perciò Mutsu la accetta senza fiatare.
Seduto di fianco a lei, Sakamoto trascorre la maggior parte del tempo della colazione grattandosi le braccia e le gambe sotto la stoffa ruvida dello yukata.
«Avete già degli impegni per oggi?» chiede loro. «C’è qualcosa che volete fare?»
«A dire il vero non avevo pensato a niente, ahahahah!»
«Sarebbe il caso di chiamare la nonnina e di sentire se ci sono stati problemi con le navi di ritorno.»
Sakamoto annuisce. «Sì. Ci vorrà poco, ma sarà bene farlo.»
Miho sorride. «Ne sono felice. Vuol dire che per il resto potremo rimanere tutti insieme.»
Mutsu coglie un movimento alla propria destra; da sotto il rialzo del patio emerge la testa di un bambino. Deve avere sei o sette anni; i suoi occhi curiosi li studiano in silenzio fino a quando Miho non si accorge della sua presenza.
«Daiki, non sta bene sbirciare» lo sgrida, e la testa del bambino scompare. «È il secondo figlio di Kazuhiro» spiega poi, rivolta a Sakamoto. «Oltre a lui ci sono una sorella più grande e un altro fratello più piccolo. Di certo li vedrai più tardi.»
«Sono tre» commenta lui, stupito.
«Yuichi di figli ne ha già quattro.»
«Quindi in tutto sono… sette? Ahahahah!»
«La moglie di Yuichi è molto bella» continua poi lei. «Non ha perso neppure un briciolo dello splendore che aveva da ragazza. Ma forse te la ricordi, è Eiko, la figlia maggiore dei Takenaka del villaggio.»
«La mia Eiko! Me l’ha rubata!»
Miho ride coprendosi la bocca con la mano, come se quella risposta l’avesse sinceramente divertita. Mutsu si infila in bocca un altro boccone di riso.
«E tu, Mutsu» le chiede poi, «Da dove provieni? Mi viene da pensare che tu sia delle nostre parti, visto che il tuo accento è così familiare.»
«No, quello l’ho preso da lui» risponde.
«Oh, com’è romantico! Perciò dovete essere sposati da moltissimo.»
«Non siamo sposati,» interviene Sakamoto prima che possa farlo lei. «Mutsu, perché tutti pensano che siamo sposati?»
«Non siete sposati?»
«Forse è perché non ti sei preso la briga di spiegar loro un bel niente.»
«Non siete sposati?» chiede ancora Miho, sempre più pallida in viso. «Oh, santo cielo. Ma i futon che ho fatto preparare...»
Il rossore le colora subito le guance, e Miho scatta in piedi. «Sono immensamente dispiaciuta, Mutsu. Avevo pensato che...»
«Non importa» taglia corto lei. «Non è un problema, credimi.»
«È stato molto inopportuno da parte mia saltare subito alle conclusioni.»
«Non avrebbe comunque osato allungare le mani.»
Sakamoto nasconde l’imbarazzo affondando la faccia nella ciotola del riso, continuando a ridere spargendo chicchi dappertutto. «Miho, ma per chi mi hai preso? Ahahahah!»
«E perciò... vi conoscete da molto tempo?» continua lei, poi china la testa. «Scusate, non vorrei essere inopportuna.»
«Siamo compagni di viaggio» spiega Sakamoto, cercando lo sguardo di Mutsu. «E anche soci in affari. Il Kaientai è tanto mio quanto di Mutsu.»
Le sue parole la stupiscono; per la prima volta dopo un tempo lunghissimo, Mutsu arrossisce.
«Com’è emozionante!» commenta Miho. «E anche Mutsu proviene da una famiglia di mercanti?»
«Sì, più o meno. Immagino si possa dire così» dice lui, annuendo.
«Ah, ma che sciocca che sono, quasi l’avevo scordato» s’interrompe poi, e si alza in piedi per recuperare qualcosa dalla cima di uno dei mobili. Mutsu riconosce la scatola dei dolci che ha portato in dono. «Li avevo messi quassù per salvarli dai bambini. Vi va di portarli con me all’altare?»
Sakamoto annuisce grattandosi il collo. «Sì, certo. Mutsu, vieni anche tu?»
Posa la ciotola del riso e dà loro conferma.
 
*
 
La stanza dell’altare nell’edificio secondario pullula di persone, così tante da far quasi pensare che la celebrazione di ieri sia andata avanti per tutta la notte senza mai concludersi. Mutsu si immagina che anche quella sia un’altra delle strane usanze per la festa dei morti.
Davanti all’altare è ordinatamente disposta una miriade di piatti differenti, tutti colmi di una gran varietà di cibi diversi; riconosce tra le portate sia quello che ha mangiato il giorno prima per cena che le leccornie della colazione. Nella stanza c’è un gran vociare; l’atmosfera che regna lì dentro non è affatto cupa come se l’era immaginata.
Dopo aver acceso un bastoncino d’incenso, Miho libera dalla carta la scatola dei dolci e li studia uno ad uno, come se stesse cercando il migliore.
«Papà preferiva quelli al cioccolato, non è vero?» interviene Sakamoto.
Miho annuisce. «Ha sempre avuto dei gusti così strani. Chissà se piaceranno anche agli altri antenati.» La sua piccola mano dispone con cura il più grosso dei dolci su uno dei piattini liberi, poi lo posa vicino all’altare. «Buon appetito» dice.
«Buon appetito» le fa eco Sakamoto, e lo stesso ripete anche Mutsu.
 
Miho li conduce in una stanza silenziosa, arredata come fosse un ufficio o uno studio, completa di telefono e di tutto il necessario per lavorare. Senza averlo preventivato, trascorrono il resto della mattinata prima cercando di comunicare con la flotta e poi, una volta stabilito il contatto, sistemando i mille problemi che sembrano essere emersi in quell’unica giornata di assenza. Nessuna delle navi in servizio ha subito danni, ma uno dei clienti si è detto insoddisfatto e mediare le cose da lontano è ancora più complicato di quanto Mutsu avesse preventivato.
Sakamoto si gratta, ride sguaiatamente, si gratta ancora, di nuovo ride e ogni tanto (ma solo ogni tanto) dice qualcosa che potrebbe risultare utile. La temperatura sale sempre di più al trascorrere delle ore, ma la stoffa dello yukata di Mutsu è fresca sulla pelle e i raggi del sole sono ben schermati dagli shoji serrati.
Quando finalmente la faccenda sembra risolta, e quando anche le navi della settimana divisione sono partite per la loro consegna, è ormai ora di pranzo. La pelle di Sakamoto è irrimediabilmente paonazza in tutti i punti a diretto contatto con la tela grezza del suo yukata e il poveretto è sull’orlo di una crisi di nervi.
Miho li viene a chiamare quando è già pronto in tavola. Pranzano insieme a tutto il resto della famiglia; è un numero sorprendentemente grande di persone e Mutsu ancora una volta si interroga sulle reali dimensioni di quella casa, e si chiede come abbiano fatto a non incontrare nessuno fino ad allora.
La madre di Sakamoto vede il figlio entrare nella sala e subito un’espressione compiaciuta le si stampa in viso; saluta Mutsu con un cenno del capo e li invita a sedersi insieme a tutti gli altri.
Dall’altro lato del tavolo un gruppo di bambini li studia con occhi curiosi; tra loro riconosce Daiki, il nipote di Sakamoto che li stava spiando quella mattina.
«È vero che guidi una navicella spaziale?» chiede alla fine un altro dei bambini, il più coraggioso, facendo sfoggio del proprio ruolo di cugino maggiore.
«Ma certo, ahahahah!» si pavoneggia subito Sakamoto, scattando in piedi con le mani posate sui fianchi. «E non solo una!»
Una delle donne ride nel sentirlo, e osservandone il viso elegante Mutsu la riconosce come Eiko, la nuora di cui Miho parlava quella mattina.
«Sta’ seduto, Tatsuma» lo rimprovera la signora, «E non agitare i bambini.»
«Scusa, nonna» dice il bambino, «Sono stato inopportuno.»
«Immagino sia il caso di fare le dovute presentazioni, anche se sembra che sappiate già tutto» continua la madre di Sakamoto. «Eiko, Rie, bambini. Quello è Tatsuma, il mio stupido figlio minore.»
«La nonna ha detto stupido» ridacchia una delle bimbe più piccole.
«E lei è Mutsu, ed è ospite di Tatsuma. Trattatela con riguardo.»
«Tanto piacere» dice con gentilezza una delle donne sedute vicino alla signora. Probabilmente è la moglie dell’altro fratello di Sakamoto, la Rie che è stata nominata poco prima. «Spero che vi troverete bene.»
«Vi ringrazio» risponde Mutsu, chinando leggermente la testa.
La signora riprende poi la parola. «E ora su, mangiamo. Buon appetito a tutti quanti.»
«Buon appetito!» ripetono i bambini in coro, affrettandosi nel raccogliere le bacchette.
«Ah, Tatsuma» aggiunge poi la signora, incrociando lo sguardo con quello del figlio. «Ora puoi andare a cambiarti, se lo vuoi.»
 
*
 
«Siete stati davvero crudeli a mangiarvi tutto quanto» le dice Sakamoto, disteso ad occhi chiusi sui tatami della camera. Ha addosso uno yukata di stoffa ricamata a maglie strette, semplice e senza decorazioni. «E io che pensavo che per una volta la mamma fosse stata gentile.»
Mutsu, seduta lì vicino, scorre con lo sguardo i fogli con gli appunti presi al mattino durante le telefonate; li sta confrontando con gli altri documenti che ha portato con sé.
«Sento che da tua madre potrei imparare un sacco di cose.»
«Ti prego, non lo fare» mugugna, rotolando fino a sdraiarsi sulla pancia. Contorce il braccio e ricomincia a grattarsi il collo. «Non passerà mai!»
«Se ne andrebbe più velocemente se la piantassi di toccarti.»
«È impossibile, non ci riesco.»
Mutsu sospira, poi gli afferra il polso e lo schiaccia sul tatami. «Devi solo provarci.»
Di tutta risposta, lui prende a grattarsi con l’altra mano, e lei sospira di nuovo prima di bloccare anche quella intrappolandola sotto il ginocchio.
«Ma prude tantissimo, Mutsu» si lamenta, agitando le gambe.
«Su, avanti, ce la puoi fare.»
Sakamoto mugugna con così tanta convinzione che leggere diventa assolutamente impossibile; quel rumore ha la stessa capacità della sua risata di farle salire il mal di testa, così alla fine lo lascia andare e lui ricomincia a grattarsi.
«Miho ci ha chiesto di darle una mano oggi pomeriggio» gli dice poi. «Andrà in paese a comprare della frutta per questa sera e le serve qualcuno per portarla fino a qui.»
«Non c’è problema» le risponde, rotolando avanti e indietro sui tatami. «Vieni anche tu o hai da fare?» chiede, indicando le carte.
«Come preferisci.»
«Vieni anche tu.»
«Allora dovrò finire in fretta» commenta. «Perciò cerca di stare zitto.»
«Sei crudele, Mutsu» protesta lui, ma alla fine si ferma pancia all’aria, le braccia allacciate sotto la testa.
Finalmente cala il silenzio; per qualche minuto l’unico suono ad interrompere la quiete del primo pomeriggio è il tintinnio acuto del fuurin appeso al soffitto nel patio, oltre gli shoji. Sakamoto sembrerebbe quasi addormentato, se solo non fosse così composto.
«Mutsu» la chiama infatti, quando lei ha appena finito anche l’ultimo conteggio. Alza lo sguardo dai fogli; lo vede grattarsi di nuovo il collo prima di continuare, ma il suo viso è voltato dall’altra parte. «Credi che mi perdonerà, prima o poi?»
Mutsu gli sistema di nuovo il colletto scombinato dello yukata. Lascia scivolare la mano sotto la stoffa, grattando le chiazze rosse al posto suo.
«Lo sta già facendo» risponde, ed è sincera.
 
*
 
«Angurie!» esclama Miho. «Delle belle angurie grosse. Ce ne serviranno almeno cinque o sei!»
Il sole è nascosto dietro le cime degli alberi, ma l’intensità dei raggi rende l’aria soffocante; il frinire delle cicale sembra crescere d’intensità di minuto in minuto. Mutsu indossa i guanti sotto le maniche ampie dello yukata e ha i piedi nascosti dai tabi. Da sotto la cupola del cappello osserva il volto pieno di entusiasmo di Miho e calcola mentalmente che, per un peso così limitato come quello di qualche anguria, sarebbe anche bastata solamente lei. Non la biasima per aver messo in discussione la sua forza; non ha idea della sua vera natura, visto che è un’altra di quelle informazioni non necessarie che hanno omesso senza secondi fini.
«E perché non sette o otto, ahahahah!» grida Sakamoto.
«Non esagerare» lo rimprovera bonariamente la sorella. «In fondo stasera c’è la festa. Probabilmente si terranno tutti lo spazio per il cibo delle bancarelle.»
«Una festa?»
«Sì» le risponde Miho, voltandosi verso di lei. «Per l’Obon. Non è tradizione, nel tuo villaggio?»
Scuote piano la testa. A dire il vero le pare ben strano festeggiare così allegramente per della gente morta, e che quindi tanto felice non è, ma tiene il pensiero per sé. «No, non l’avevo mai visto fare.»
«Zia, aspettaci!» chiama una voce acuta.
Una delle bambine che hanno visto prima a tavola corre nella loro direzione, immediatamente seguita da un’altra di poco più piccola. Appena oltrepassano il cancello d’ingresso alla casa altri tre maschietti arrivano all’inseguimento. «Veniamo anche noi!»
Si slanciano tutti in direzione di Miho, evitando accuratamente di passare accanto a lei o a Sakamoto; forse sono intimiditi dall’indecifrabilità del suo sguardo dietro gli occhiali da sole, o forse dalla faccia seria di Mutsu, o forse ancora dall’aria di estraneità che ancora conservano. La più piccola - avrà due anni o poco più - rimane indietro, ma riesce a raggiungerli con grande impegno. «Avete avvertito le vostre mamme?» chiede Miho al più grande del gruppo.
Lui annuisce e sorride. «Vi aiutiamo!»
Il gruppo si fa d’improvviso numeroso. I bambini parlano del più e del meno, raccontando a Miho ogni genere di cose, da quelle insignificanti a quelle più importanti, spesso senza seguire una logica: dalla torta mangiata la sera prima passano chissà come a parlare dei pesci rossi pescati alla festa dell’anno precedente, e poi del cane di casa e della sua presunta intelligenza. Uno dei maschietti cade, spinto da un altro, e comincia a piangere per il ginocchio graffiato; Miho lo prende in braccio e gli altri bambini per consolarlo intonano una canzone imparata chissà dove, e il loro tono è così forte da coprire perfino il frinire delle cicale. Sakamoto, che era rimasto quieto fino ad allora, mormora a bassa voce le parole di quella canzone seguendone il ritmo; ogni tanto ne dimentica qualcuna, ma ricorda la successione delle strofe dalla prima all’ultima, perfino quando il ritornello cambia ritmo e sembra quasi seguire un’altra melodia.
Sono quasi arrivati al villaggio e Miho è accaldata e stanca per il peso del bambino, così Mutsu si offre di portarlo al posto suo. Lui non sembra affatto soddisfatto della proposta, ma cambia idea quando scopre che l’alternativa è quella di camminare per il resto della strada.
La bambina più piccola si aggrappa alla stoffa dello yukata di Sakamoto e la tira per attirare la sua attenzione; lui si immobilizza senza saper bene cosa fare, cercando lo sguardo di Mutsu in un’evidente richiesta di aiuto.
«Prendila in braccio» gli dice, e quasi si sente stupida, vista l’evidenza dell’intera situazione.
Sakamoto indietreggia leggermente; le mani della bambina sono ancora artigliate alla stoffa, perciò lei lo segue con pochi passi brevi; lo guarda senza capire e senza osare dir nulla, probabilmente avvertendo la sua tensione.
«Vieni qui da me, Akie» la chiama Miho, «Ti porto io.»
La bambina lascia andare la presa, ma il suo sguardo mentre indietreggia verso la zia è fisso su Sakamoto. «Scusa, Akie, ahahahah!» le dice, ma la sua risata è quasi imbarazzata.
«Non sarà sempre per quella faccenda di Yuichi, vero?» chiede Miho, chinandosi per recuperare la bambina.
«Ma no, certo che no, ahahahah» le risponde lui, evasivo, e fino a destinazione cammina tre passi avanti a tutti loro.
 
«Non sono affatto bravo coi bambini piccoli, eh? Ahahahah» dice a Mutsu quando sono di nuovo a casa, seduti nel salone, in attesa del ritorno di Miho dalle cucine.
«Non devi certo giustificarti con me.»
«È perché sono così piccoli
«È ovvio, sono bambini» risponde, sentendosi stupida un’altra volta.
«No, cioè...» prova a spiegarle. «Non ti sembra di poterli schiacciare per sbaglio?»
Mutsu vorrebbe rispondergli che sarebbe benissimo in grado di schiacciare per sbaglio anche lui, e che un bambino in confronto è ben poca cosa, ma non è convinta che sia la cosa giusta da dire in un momento come quello. «Basta stare attenti» commenta quindi.
«Anche papà era piccolo. Piccolo almeno quanto Miho. Davvero un tappo, ahahahah!» dice, e il suo sguardo si perde oltre il confine del patio, nella vasca delle carpe koi. «Però non si è mai rotto, neppure una volta. Anche perché lui era furbo, e faceva tutto col cervello, senza dover passare mai alle mani.»
«Non siete poi così simili come dice tua madre, allora.»
«Mutsu, sei crudele!»
«Parlo per esperienza. E Yuichi, invece? È lui quello che hai schiacciato?»
«Ahahahah, hai indovinato» le risponde. «Ma è successo per sbaglio. Devo averlo tirato con un po’ troppa forza, o qualcosa del genere. Il braccio poi si è sistemato senza problemi, ma lui non me l’ha mai perdonato. Perché aveva otto anni più di me e io lo superavo già di dieci centimetri in altezza, ahahahah!»
«Non fatico a crederlo, se anche lui è grande quanto Miho.»
Si ferma un attimo a pensarci. «Giusto mezza spanna in più. All’incirca come te la prima volta che ti ho vista» commenta, e con la mano davanti al petto cerca di indicarle all’incirca la misura. «Tu però non mi sei mai sembrata una facile da schiacciare.»
«Vorrei ben vedere.»
Le sorride soddisfatto; finalmente le sue spalle si rilassano. Poi Miho ritorna dalle cucine accompagnata da sua madre e Sakamoto si fa muto, perciò si alzano senza dire altro.
 
*
 
«Quanto chiasso.»
Sakamoto ride a voce alta nel sentire il suo commento e Mutsu si copre le orecchie con  le mani. Anche così, però, il suono dei taiko è così forte e profondo da scuoterle i timpani e rimbombarle nel cranio come uno dei suoi soliti mal di testa.
L’aria della sera è fresca e carica di odori di buon cibo, ma negli attimi in cui il vento smette di soffiare il caldo torna a farsi sentire; la grande quantità di persone che affolla i corridoi di passaggio tra le bancarelle rende l’ambiente ancora più soffocante. Le lanterne sospese illuminano i bracieri su cui cuociono la carne e il pesce; un venditore di maschere invita i clienti ad entrare per vedere la sua mercanzia. In fondo alla strada, oltre il Torii laccato di rosso, una lunga scalinata sale verso il tempio principale del villaggio.
«Cosa vuoi fare?» le chiede Sakamoto, grattandosi per l’ennesima volta la pelle sotto il colletto. Non ha più lo stesso yukata semplice di prima; ora ne indossa uno scuro tracciato con una fantasia di foglie e canne di bambù, anche questo preparato da sua madre. Hanno fatto cambiare anche lei: ora porta uno yukata di una stoffa così sottile da essere quasi impalpabile, decorato in tutta lunghezza da un complicato intreccio di fiori di camelia. (Questa volta è stata Miho ad aiutarla a prepararsi; Mutsu ha dovuto rinunciare ai guanti e ai tabi, ma è per lo meno riuscita ad opporsi alle sue strane proposte di acconciature dei capelli.)
«Non lo so» risponde sinceramente. «Che si fa a questo genere di feste?»
«Beh, per prima cosa si mangia, ahahahah!»
«Hanno anche quei dolci a forma di pesce?»
«Ma certo! Credo che il figlio del vecchio Yamaguchi...»
I battiti del taiko coprono le sue parole; dalla folla si alza un gran vociare. Altri strumenti si aggiungono ai tamburi; nel grande spiazzo di fronte al tempio le persone si radunano attorno ad un palco rialzato, battendo le mani al ritmo dei colpi.
«Andiamo anche noi!» la chiama Sakamoto, tirandole la manica dello yukata poco sotto il polso. Mutsu studia la scena mentre si avvicinano: sembra che quella gente stia ballando, ma la sequenza di movimenti che i loro corpi compiono le pare a dir poco ridicola.
«Non credo proprio» gli risponde quando lui le chiede di partecipare.
Dalla folla dei danzatori emergono le figure di Miho e di due dei bambini di quel pomeriggio; anche loro stanno eseguendo quella strana serie di mosse. «Mutsu!» la chiama Miho dopo aver parlottato con Sakamoto, «Vuoi che ti insegni?»
«Vi guarderò da qui» risponde. Miho annuisce e poi sorride in direzione del fratello.
Vengono inghiottiti tutti e quattro dalla marea delle persone. Mutsu li vede riemergere solo ogni tanto, tutti intenti a gesticolare in maniera sempre più strana; ad un certo punto sembra addirittura stiano mimando qualcosa. Ci mette un po’ a rendersi conto che Sakamoto pare quasi scavare per terra con un badile immaginario; Miho invece lancia e poi ritira delle reti da pesca su una barca invisibile, aiutata da una miriade di altre donne. È uno spettacolo strano, e per l’ennesima volta da quando è lì a Tosa Mutsu non ne capisce il senso, ma è tutto così ridicolo che decide che non vale nemmeno la pena di crucciarsi a riguardo. Immerso in quella gran baraonda di suoni e persone, Sakamoto ride sguaiatamente e Mutsu lo vede sereno per la prima volta dopo giorni, perciò non c’è proprio niente che non vada.
 
*
 
«Siamo arrivati» le dice, ansimando, e si posa le mani sulle ginocchia per prendere fiato.
Mutsu percorre lentamente gli ultimi gradini della scalinata. Anche lei ha faticato per salire fin lì; non tanto per la lunghezza del tragitto, quanto piuttosto perché lo yukata che le fascia le gambe è troppo stretto per permetterle di muoversi agilmente.
«Cos’è questo posto?»
«Oh, è un santuario minore» le risponde. «Una volta venivo qui a fare le offerte.»
L’edificio del tempio è illuminato solo dal braciere posto accanto ai tavoli delle offerte; è praticamente deserto, fatta eccezione per i bonzi che recitano i sutra nella sala oltre le griglie degli oracoli e per le anziane signore che, poco distanti da loro, pregano inginocchiate sui cuscini.
«Vieni, per di qua.»
Lo segue fino alla scalinata dal lato opposto della collina, ancora più ripida di quella da cui sono arrivati; Mutsu si sta già chiedendo dove abbia intenzione di portarla quando lo vede sedersi sul primo gradino e tirare fuori qualcosa dalla manica dello yukata.
«Tieni, per te.» Dall’involto tira fuori dei taiyaki, i dolci a forma di pesce di cui avevano parlato prima. «Puoi scegliere tra fagioli rossi e patate dolci.»
«Fagioli rossi» decide senza esitazione. Si mette a sedere due gradini più in basso,  vicino al suo piede.
Sbocconcellano i taiyaki in silenzio; da lì il panorama permette di vedere buona parte del villaggio addobbato a festa con le lanterne. I fuochi per i morti ardono all’esterno di ogni casa, segnando un tragitto che percorre tutte le vie, dalle principali alle più secondarie. Le cicale cantano meno intensamente che nel pomeriggio; l’aria, che già prima era più fresca, porta il profumo del mare poco distante.
«È bello da qui.»
«Vuoi rimanere?» gli chiede.
La domanda lo stupisce; esita un attimo prima di prendere un altro boccone del taiyaki. «No. Certo che no.»
«Puoi fermarti qualche altro giorno. Tua madre ne sarebbe felice, e anche Miho. Manderò avanti io il Kaientai finché non ci sei.»
«Lo fai già» sorride lui. «No, Mutsu. Anche perché non sono sicuro che riuscirei a restare qui da solo.»
Cerca di vederlo in viso, ma il suo sguardo è perso lontano, fisso sul cielo pieno di stelle. «Ci ho già provato l’anno scorso.»
«Per il funerale.»
«Sì. Sono stato alla celebrazione al tempio» le dice, in un sussurro, «Ma rientrare a casa è tutta un’altra cosa.»
«Non mi stupisco che tua madre sia così arrabbiata.»
«Ahahahah, speravo non mi avesse visto! Ma quella ha gli occhi anche dietro la testa» risponde.
Rimangono in silenzio. Lontano, in un villaggio oltre il fiume, ricomincia il battito regolare dei tamburi.
«Sai, Mutsu» la chiama poi. «Ho sempre voluto andare nello spazio. È grazie a Kintoki che sono partito, però. Perché è stato Kintoki a dirmi che, se fossi caduto giù, ci sarebbe stato lui pronto a recuperarmi e farmi ripartire.» Le sorride. «È un bel discorso, no? E la parte più bella è che lui lo farebbe sul serio.»
Annuisce. «Ne sono convinta anch’io.»
«Qui, invece, nessuno mi ha mai detto niente del genere. Yuichi e Kazuhiro hanno sempre lavorato con papà, e tutti si aspettavano che anch’io avrei fatto lo stesso. Ti immagini? Tre figli maschi, tre nuove filiali, la compagnia che cresce sempre di più. È per questo che non l’hanno presa bene. È per questo che alla fine ho pensato: non tornerò, perché qui non c’è nessuno che voglia prendermi e lanciarmi di nuovo lassù.»
Lo guarda perdersi di nuovo tra le stelle. «Solo adesso inizio a credere che in realtà sia vero proprio il contrario.»
Mutsu cerca la sua mano e la stringe nel buio. Dalle stanze del santuario arriva il suono distante del mormorio dei sutra.
«Sei proprio uno stupido figlio» gli risponde.
Sakamoto ride.
 

 

 
Si sveglia con il braccio di Sakamoto posato di traverso sulla pancia, sopra la stoffa morbida dello yukata da notte. Quando sono rientrati hanno ritrovato i futon nell’esatta posizione in cui li avevano lasciati la mattina precedente, ben distanti l’uno dall’altro; Mutsu conclude quindi che lui si sia di nuovo mosso nel sonno. Il peso del braccio non le dà nessun fastidio, perciò decide che non c’è motivo di spostarlo di lì.
«Così quieto sembri quasi un’altra persona» gli sussurra, e ricorda di averlo pensato anche il giorno prima. Non è più sicura di preferirlo in questa versione.
Sakamoto continua a dormire e Mutsu chiude di nuovo gli occhi.
 
Sono ancora distesi vicini quando li riapre per la seconda volta; ora però Sakamoto è sveglio e la sta guardando, e il suo braccio è ancora posato di traverso sulla pancia.
«Buongiorno!» le dice tutto contento appena la scopre cosciente. «Hai dormito bene?»
«Non lo so. Credo che qualcuno mi sia stato un po’ troppo appiccicato.»
Sakamoto ride e in tutta risposta si avvicina ancora di più, tirandosela addosso di proposito per affondare la faccia nella piega del suo collo. Il pugno di Mutsu parte quasi in automatico, ma lui ci è così abituato che sembra quasi non risentirne l’effetto.
«Come sei morbida» commenta, e Mutsu diventa paonazza, e non può fare altro che aggrapparsi ai suoi capelli e tirare con tutta la forza che ha in corpo. Ma Sakamoto ride sguaiatamente come al suo solito e le dice «Grazie, Mutsu», e quella strana lotta si trasforma in una specie di abbraccio riconoscente e lei non sa più molto bene cosa dovrebbe o non dovrebbe fare. Perciò rimane lì, e nemmeno quell’abbraccio è poi così spiacevole, proprio come il braccio sulla pancia poco prima; e proprio per la stessa ragione pensa che forse non c’è nemmeno un vero motivo per sfuggire, e il suo corpo si fa meno teso.
«Sakamoto» dice, e trova il coraggio solo nella certezza che lui non possa vederla in viso. «Penso che dovresti dirlo anche a loro. A Miho e a tua madre. Tutto quello che hai raccontato a me ieri sera.» Si sente stupida e inopportuna, perché non è mai stata brava a dare né giudizi né consigli; anche dopo averlo detto continua a chiedersi se sia stato giusto suggerirgli una cosa così, proprio lei che non ne avrebbe nessun diritto.
Sakamoto annuisce e i suoi capelli le solleticano il viso. La sua guancia è liscia e inaspettatamente fresca contro il collo di Mutsu.
«Lo farò.»
 
*
 
Sakamoto esce dalla stanza prima della colazione, senza nemmeno cambiarsi lo yukata da notte, e Mutsu rimane sola. Nonostante sia già passata metà della mattinata, i raggi del sole sono meno intensi rispetto al giorno prima; il vento che soffia tra le fronde degli alberi increspa leggermente l’acqua nel laghetto delle carpe koi e fa vibrare gli shoji sulle corsie.
Un’inserviente le porta un vassoio direttamente in camera; Mutsu mangia in silenzio il riso bianco e il pesce alla griglia e poi tira di nuovo fuori le sue scartoffie, con tutta l’intenzione di sistemare per bene tabelle e statistiche. Non vede più nessuno fino all’ora di pranzo, ma è troppo assorbita dal lavoro per accorgersene.
A riscuoterla è il vociare dei bambini nel corridoio; solleva lo sguardo dal quaderno contabile quando qualcuno ripete «Scusi il disturbo, scusi il disturbo.»
«Prego» dice loro. Li sente discutere su chi debba aprire gli shoji; a perdere alla morra cinese è Daiki, il nipote di Sakamoto che li sbirciava il mattino precedente, che perciò entra per primo.
«Signorina Mutsu» dice allora. «Se si sente sola possiamo tenerle compagnia.»
Non sa se li abbia mandati qualcuno o se abbiano deciso tutto da soli, ma anche se ha ancora molto lavoro da sbrigare non le va di rifiutare il loro invito. Ripensa alla nonnina e ai souvenir che ha promesso di portarle.
«Mi accompagnereste fino al villaggio?» chiede, chiudendo il quaderno per riporlo vicino al futon insieme agli altri fogli.
Daiki si consulta con il maggiore dei bambini - Mutsu non sa se sia suo fratello o suo cugino, ma s’immagina che non abbia poi così tanta importanza in una famiglia come quella - e poi le sorride. «Non c’è problema. Possiamo andare anche subito.»
 
Durante il tragitto i bambini la tempestano di domande su una miriade di argomenti differenti: le navi, lo spazio, le cose strane che ha visto durante i viaggi con la flotta, gli Amanto; soprattutto gli Amanto, in effetti, che lì a Tosa sembrano essere arrivati in maniera ancora del tutto marginale. Quando in tutta tranquillità ammette di essere lei stessa un Amanto - e della razza più pericolosa dell’universo, per giunta - nessuno le crede, e il discorso si perde in una risata generale davanti al primo chiosco dei dolci del paese.
Da qualche parte lungo il tragitto si fermano per mangiare gli onigiri del pranzo al sacco preparato dalle loro madri; ce ne sono un paio anche per Mutsu, poco più grandi degli altri, che lei mangia con genuino appetito. Dopo che hanno finito compra il gelato per tutti e da lì in poi i bambini la considerano una di loro.
Una volta scelti i dolci per la nonnina, il gruppo torna indietro sotto un sole cocente. Mutsu è ben riparata dal cappello e dagli strati di vestiti, ma i bambini non lo sono altrettanto, e perciò li costringe a fare più di una pausa all’ombra degli aceri. Seiji, uno dei più piccoli, le porta in dono il guscio vuoto di una cicala e lei sta attenta a non schiacciarlo fino a quando non sono arrivati alla villa. Viene scortata fino alla camera da un chiassoso corteo.
«Ahahahah, Mutsu, bentornata!» è la frase che la accoglie appena aperti gli shoji. Sakamoto è seduto sul pavimento con addosso lo stesso yukata da notte con cui se n’era andato, e sparsi attorno a lui ci sono i fogli dei grafici che lei aveva riordinato giusto quella mattina.
«Cosa stai facendo?» gli chiede, e il suo tono è tutt’altro che amichevole.
«Volevo lavorare un po’, ma pare che io non ci capisca niente, ahahahah!»
Le basta un’unica occhiata. «Bambini» dice, «All’attacco.»
Non se lo fanno ripetere due volte e partono ululando.
 
*
 
«Mutsu, sei crudele» le dice per l’ennesima volta, massaggiandosi le gambe; i pizzicotti dei bambini le hanno lasciate piene di macchie rosse.
Lei non lo guarda nemmeno, troppo occupata a studiare i documenti e rimetterli al loro posto. «Hai scombinato ore intere di lavoro.»
«Cercavo di essere utile, ahahahah!»
Sa bene che è così, ma è troppo seccata per accettare le sue buone intenzioni come giustificazione. Brontola un altro po’ prima di riuscire a mettere da parte l’arrabbiatura per domandargli come sia andata con sua madre quella mattina.
«Le ho chiesto scusa» dice, «E Miho ha pianto per tutto il tempo, ahahahah!»
Mutsu s’immagina vada bene così.
«Scusate il disturbo!» li chiama dal corridoio la voce di Daiki. Poi, proprio come sua zia, si precipita oltre gli shoji accostati senza nemmeno aspettare la loro risposta. Porge un involto a Sakamoto. «La nonna ha detto di darti questo» dice, prima di sparire veloce com’è arrivato, richiamato dalla voce degli altri bambini.
«Forse non mi ha perdonato per niente, ahahahah» lo sente mormorare mentre soppesa tra le mani il pacchetto. Sakamoto scioglie i nodi che lo tengono chiuso e poi rimane immobile, i lembi ancora stretti tra le dita.
«Ahahahah» dice, «Ahahahah.»
La sua risata ha un tono strano, così Mutsu gli si avvicina per sbirciare il contenuto dell’involto. È uno yukata blu scuro, e quando lo dispiega nota che non ha altre decorazioni oltre a quelle sul petto: dei complicati ideogrammi racchiusi in una cornice rotonda.
Mutsu sorride nel vedere gli occhi lucidi di Sakamoto.
«Penso che lo dovresti indossare» gli dice.
 
*
 
Quella sera cenano nel grande spiazzo davanti alla gradinata del tempio insieme a tutti gli altri abitanti del villaggio. Sakamoto le spiega che anche quella è un’altra delle usanze dell’Obon: è un banchetto aperto a tutti, e a cui possono perciò partecipare anche i morti dimenticati o senza discendenza. Tra le tradizioni di cui è stata testimone in quei giorni Mutsu la trova la più triste ma anche la più bella.
I bambini di casa, così come Sakamoto, indossano tutti quanti lo yukata con gli stemmi di famiglia; l’ha messo anche lei, spinta tanto da lui quanto da Miho, e non si sente affatto inadeguata come temeva. La madre di Sakamoto li guarda tutti con orgoglio mentre distribuisce loro il cibo da portare ai tavoli del banchetto. Mutsu la vede ridere e nelle sue espressioni ritrova finalmente alcuni tratti di suo figlio.
È una festa felice; il continuo viavai dei bambini dal tavolo delle offerte a quello di famiglia non fa altro che movimentare ancor di più il banchetto. Lo spiazzo si spopola progressivamente; anche loro, seguendo quietamente la signora e il marito di Miho, alla fine si incamminano di nuovo verso la villa. La folla si raduna nuovamente nella grande sala dell’altare nell’edificio secondario, la stessa in cui sono cominciate le celebrazioni del primo giorno; oltre ai membri della famiglia ci sono di nuovo gli inservienti e il personale della casa.
Il marito di Miho, proprio come l’altra volta, si inchina profondamente nel fumo dell’incenso acceso. «Vi ringraziamo per la vostra visita» dice, rivolto agli antenati. «È tempo di fare ritorno.»
Tutti chinano la testa alle sue parole. «Sarete i benvenuti anche il prossimo anno» completa la Signora. «Tornate a farci visita.»
I bambini sono i primi ad alzarsi di nuovo in piedi. Li vede dirigersi nuovamente verso l’ingresso; ognuno di loro accende dal braciere la torcia che tiene stretta in mano.
Una nuova processione comincia; Mutsu s’immagina stiamo andando tutti insieme al tempio sulla collina, ma quando oltrepassano la gradinata capisce che la destinazione dev’essere un’altra. Sakamoto, lo sguardo concentrato sulla fiamma della sua torcia, è silenzioso quanto tutti gli altri nel corteo.
Si fermano quando arrivano sulle sponde del fiume che hanno visto la sera prima dall’alto del santuario. Le fiamme si fanno più tenui; a rischiarare l’ambiente non sono più le fiaccole ma delle piccole lanterne di carta, completamente identiche l’una all’altra se non per gli ideogrammi tracciati sulla superficie con l’inchiostro nero. Su molte riconosce i caratteri del cognome di Sakamoto seguiti da altri che non riesce a decifrare. Dai discorsi dei bambini comprende che devono essere i nomi degli antenati della famiglia; li sente parlare profusamente di quelli che hanno conosciuto e interrogarsi su quelli mai visti prima d’allora; alla fine stringono tra le dita una lanterna ciascuno.
Scendono sulla riva e le lasciano andare tutte insieme; alcune lanterne cozzano tra loro e poi rimangono vicine, compiendo insieme quel viaggio di ritorno. Anche Sakamoto, sotto lo sguardo attento di sua madre, libera una lanterna sul pelo dell’acqua; la guardano insieme mentre si allontana con tutte le altre.
Le fiammelle sfilano nel buio della notte e poi si perdono lontano, trasportate chissà dove dalla corrente.
 
*
 
Il cielo si riempie di luce allo scoppio del primo fuoco d’artificio.
I bambini più piccoli gridano spaventati, ma subito i loro occhi sono rivolti all’insù: le esplosioni colorano il nero del cielo e del fiume, nascondendo la debole luminosità delle stelle. Oltre le nubi chiare, in alto sopra Tosa, Mutsu individua il pulsare artificiale della nave ammiraglia del Kaientai.
 
«E così noi ce ne andiamo, ahahahah!» dice Sakamoto a sua madre, indicando la navicella più piccola con la quale sono scesi a prenderli. Le valigie sono già state caricate a bordo. In piedi sotto il portellone d’ingresso li aspetta la nonnina.
L’intera famiglia si è radunata per dar loro l’addio; l’attenzione dei bambini è tutta sulla navicella, ma la Signora ha vietato loro di avvicinarsi per vederla meglio.
«E proprio come un fantasma riparti appena finito l’Obon, eh, Tatsuma?» la sente bisbigliare. Miho ha già gli occhi lucidi, ma lei no; il suo sguardo è deciso e puntato sul viso del figlio.
«Ahahahah, solo che io non sono morto!» le risponde, e alla sua risata il mal di testa di Mutsu torna a farsi sentire, di nuovo acuto come prima che tutta quella storia cominciasse.
Lo sguardo della madre di Sakamoto si fissa poi su di lei, ma la signora rimane in silenzio. Così è Mutsu a prendere la parola.
«Tornerà» le dice. «A costo di costringerlo a forza.»
La signora le sorride e poi torna a rivolgersi al figlio. «Immagino che dovrei ringraziarti per aver portato fin qui questa ragazza, Tatsuma.»
Sakamoto ride di nuovo sguaiatamente e perciò non la sente rivolgersi a Mutsu e dirle piano, «Tienilo d’occhio.» Proprio per questo non capisce il senso della breve risposta di Mutsu.
«Lo faccio già.»
 




 

 
16.08.2015
Il Mukaebi che dà il titolo a questa storia è il fuoco di benvenuto per il ritorno degli spiriti, quello che in questa fanfiction viene acceso nel tempio sulla collina.
Sono anni che ad agosto vengo presa da questa necessità impellente di scrivere del Giappone in estate; temo che in questa fic si veda molto più del solito. Per descrivere come si deve le varie cerimonie dell’Obon mi sono rifatta ad uno dei miei testi universitari, Itinerari nel sacro. Purtroppo non ho mai avuto l’occasione di partecipare dal vivo ad una di queste feste; vi prego di perdonarmi eventuali imprecisioni (soprattutto a livello di successione temporale degli eventi). Ho cercato di fare del mio meglio /o/
Questa è a tutti gli effetti la one-shot più lunga che sia mai uscita dalla mia penna; l’ho scritta sotto la guida di un’ispirazione folle e, nonostante la mole, l’ho completata in una settimana esatta. Era un bel po’ che una mia storia non mi prendeva a questo modo, e perciò ho finito per amarla in maniera esagerata. Spero vi sia piaciuto leggerla almeno un briciolo di quanto è piaciuto a me scriverla.
Grazie davvero per essere arrivati fino a qui. :)
Kuruccha
 
   
 
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