Il tamburino sardo
Luke
aspettò che tutti i bambini del Campo si fossero seduti attorno al fuoco, prima
di iniziare a raccontare. Annabeth, accanto a lui, gli sorrise appena,
facendogli segno di cominciare. Il figlio di Hermes prese fiato, facendo vagare
lo sguardo tra i semidei –miracolosamente attenti e silenziosi- che aveva
intorno, tutti seduti impazienti, con gli occhi che lo fissavano con grande
curiosità.
«Che cosa ci racconti, stasera?» domandò una voce squillante e piena di
trepidazione, Connor gli puntò i suoi grandi occhioni azzurri addosso, esortandolo a iniziare quella
stramaledetta fiaba. Luke gli sorrise, pazientando ancora qualche secondo.
Amava vedere tutti quei visi entusiasti e sentire le fiamme del falò che
crepitavano alle sue spalle, era l’unico momento in cui riusciva a riunire
tutte le cabine e farle stare buone buone.
Quando Grover aveva trovato lui, Thalia
ed Annabeth a vagare tra le strade d’America, alla mercé dei mostri, e li aveva
pregati di seguirlo al Campo Mezzosangue, Luke non avrebbe mai immaginato che
si sarebbe trovato a raccontare storielle a quella che somigliava molto ad una
classe della scuola materna, o ad una ciurma di boyscout.
«Allora» prese la parola, muovendosi di qualche passo «qualcuno di voi ha idea
di quale storia io vi stia per raccontare?» chiese, fissandoli uno per uno. I
bambini della casa di Atena cominciarono a ragionare, richiamando alla mente
tutte le fiabe che aveva già raccontato e quelle che conoscevano.
«Raperonzolo?» domandò Katie, con la sua vocina speranzosa. Indossava un
abitino leggero, rivestito di fiori di lillà e una coroncina di margherite che
le decorava i lunghi capelli castani. Luke negò con la testa.
«Peter Pan!» urlò uno dei suoi fratellastri, le iridi celesti che sbrilluccicavano dall’emozione. Luke ridacchiò, voltandosi
nella sua direzione «Te l’ho già raccontata ieri sera, Travis» gli scompigliò i
capelli e sul volto del fanciullo si dipinse un piccolo broncio. «Ma agli altri
non gliel’hai raccontata» esclamò, voltandosi verso il fratellino. Connor si mordicchiava il bordo della manica, i ricciolini
color cioccolato che svolazzavano per la brezza serale. «Non mangiarti la
felpa» lo riprese Luke, anche se sapeva che avrebbe ricominciato dopo qualche
minuto.
«Vi do un indizio» alzò un dito il più anziano del Campo, sorridendo, divertito
«è una storia vera.»
«Una storia vera?» ripeterono all’unisono tutti i bambini, allungando l’ultima
vocale in un modo che fece sorridere il ragazzo che avevano di fronte. «E parla
di un semidio?» chiese il piccolo Lee Fletcher, i capelli racchiusi in un
berretto arancione.
«Oh, no. Parla di un ragazzo un po’ più giovane di me» spiegò il
quattordicenne, beandosi del fuoco che li riscaldava. Era una fredda notte di
inverno e Natale era ormai alle porte, ciononostante Luke aveva convenuto che
quello fosse il giorno adatto per raccontargli la vita di quello sventurato e
coraggioso ragazzino.
«E lo conosciamo?» domandò uno dei figli di Efesto,
aggrottando le sopracciglia.
«No che non lo conosciamo, stupido. È una storia, chissà quanti anni avrà
adesso» gli rispose di rimando una delle bimbe della cabina 8, dimostrando per
l’ennesima volta quanto fossero svegli.
«Ma è di qui?» domandò qualcun altro, in mezzo alla folla, timidamente. Luke
sorrise al bambino biondo che sedeva calmo accanto a Micheal
Yew. «No, Will. Era un bambino italiano, sardo per la
precisione.»
«Sordo? Poverino» esclamò la piccola Silena, le
labbra che già cominciano a tremare dal dispiacere.
«… ma tu sei sorda, ha detto sardo!» la riprese sgarbatamente la sorella, gli
occhi a mandorla che la fissavano con aria da sufficienza.
Luke cercò di non farci caso, tornando al racconto.
«Era il 1848 ed era estate tra le verdi colline di Custoza
…»
«Che cos’è Cuccozza?» lo interruppe Connor, storcendo il naso. Il nome gli sembrava uno di quei
frutti di mare che tanto detestava.
«Custoza» ripeté pazientemente Luke «è una città in
provincia di Verona» avrebbe voluto pavoneggiarsi dicendo che conosceva la
geografia come le sue tasche, ma la verità era che si era fatto una ricerca
approfondita tempo addietro, quando la maestra Marika gli aveva letto la
storia.
«C’era il sole a Verona?» chiese Lee, che tentava sempre di collegare ogni
minima fiaba a suo padre. Luke annuì «sì, era una giornata calda e soleggiata,
non tirava un filo di vento e, nel bel mezzo della campagna, si ergeva una
vecchia casa dalle mura sgretolate e una scala che portava dritta alla stalla.
I casolari stavano montando sul carretto proprio in quel momento, dopo aver
finito di imbrigliare i cavalli.» continuò, mentre Annabeth proiettava delle
ombre cinesi improvvisate, grazie alla torcia che lui stesso le aveva procurato
qualche ora prima.
«Dalla soglia di casa, però, un ragazzetto dalla pelle olivastra e con due
occhietti neri e profondi, li osservava partire, appoggiato con la spalla allo
stipite della porta, proprio in cima alle gradinate.»
«Stavano andando a fare un picnic?» chiese Travis, facendo dondolare la gamba.
«Uh, sì! Facciamo un picnic!» esclamò Connor,
muovendosi agitato sul posto. Luke scoppiò a ridere.
«Va bene, Con. Domani, che ne dici?»
«Sì!» gridò, felice come una pasqua.
«Bene, allora … come stavo dicendo, la guerra si stava avvicinando e la
famiglia aveva appena abbandonato l’abitazione, in cerca di riparo.»
«Perché non è andato con loro?» alzò un sopracciglio, Malcom,
che al freddo della luna era diventato tutto pallido.
«Basta, fatela finita!» sbottò Katie Gardner, fissandoli severa «continua,
Luke» gli fece segno di proseguire e il figlio di Hermes sospirò, quella si
stava rivelando una brutta serata per raccontare una storia. Aprì la bocca,
mentre la sua mente si riempiva delle immagini di quel lontano 24 luglio …
Li guardò allontanarsi fino a quando non furono altro che
lontane ombre tra le colline -ora così spente- di campagna, il sole splendeva
alto nel cielo e sarebbe rimasto lì a fissarlo, fino al tramonto. Un rumore
poco distante attrasse la sua attenzione, si voltò a guardare tra gli alberi alla
sua destra e scorse delle figure indistinte che avanzavano verso di lui,
precise e coordinate come la banda che -ahimè poche volte- aveva visto marciare
nella piazza della bella città, risuonando nelle case della gente come un inno
alla speranza.
A poco a poco, qualche decina di soldati con la divisa italiana arrivò proprio
dinnanzi alla casa, era un reggimento della fanteria dell’esercito piemontese,
sotto il controllo dei Savoia.
Il bambino si precipitò giù per le scale, muovendosi rapido
tra gli uomini in divisa e i fucili che stringevano in spalla, fino ad arrivare
davanti al Capitano, che lo soppesò attentamente con lo sguardo. Aveva il petto
rivestito di medaglie al valore, due baffi scuri che lo facevano apparire molto
simile a come il ragazzo se l’era immaginato e uno sguardo fiero e altero, che
non poté che infondergli una grinta sproporzionata per la sua tenera età.
«Perché non sei fuggito con la tua famiglia?» domandò l’ufficiale, una volta
costatato che non potesse essere di alcun pericolo.
«Io non ho famiglia» esclamò il ragazzo, la schiena dritta come se stesse
facendo rapporto al suo comandante «sono un trovatello, lavoro per chi mi pare.
Sono rimasto per vedere la guerra.» spiegò concitatamente, e un lampo
d’orgoglio gli illuminò gli occhi.
«Bravo! Sarai la nostra mascotte.» si complimentò il Comandante, dando una
pacca sulla spalla del giovanotto. Non era la prima volta che si trovava di
fronte un intrepido adolescente, desideroso di divenire uomo prima del dovuto.
Non passarono neanche pochi minuti, che le truppe avversarie
giunsero a poche centinaia di metri da loro. Un soldato diede l’allarme appena
in tempo e il Capitano di ritrovò costretto ad occupare la casa stessa, in
cerca di un rifugio. Ben presto, la guerra si presentò agli occhi del piccolo
avventuriero; i soldati austriaci circondarono l’edificio, sparando colpi su
colpi. L’aria era ormai impregnata dalla polvere e dalle urla del Capitano, che
lanciava ordini su ordini. I suoi sottoposti correvano da una parte all’altra
della casa, molti giacevano sul pavimento, feriti, la vita che lentamente
abbandonava i loro volti sudati.
Il ragazzo –nonostante l’esile corporatura e la sua giovine età- seppe subito
rendersi utile, caricando i fucili dei soldati con cui si era appartato e cambiando
le fasciature di quelli che, per quanto si fosse sforzato di aiutare, sarebbero
morti di lì a breve.
Il Sergente gli regalò un tamburo, per intrattenere i morenti nei loro ultimi
attimi, per ricordare loro per cosa si erano sacrificati e per cosa avevano
così valorosamente combattuto. Il ragazzo prese a suonare, divenne la melodia
di una morte cruda e violenta, e risollevò il morale di chi ancora rimaneva in
piedi, con la canna in mano e lo sguardo di chi ha visto troppo.
Un grido squarciò l’aria. Il bambino girò la testa di
scatto, mentre il Capitano tirava un pugno al muro, frustrato.
«Che è successo?» chiese, ma la sua fievole voce di bimbo si confuse nella
mischia degli uomini armati che riempivano la stanza. Fu uno sei soldati
anonimi che gli sedeva accanto a rispondergli, era un ragazzo sui vent’anni,
con i capelli brizzolati e il viso sporco di fuliggine. Il tamburino alzò il
volto per guardarlo negli occhi e in quelle iridi, gli sembrò di vedere un
enorme rammarico.
«Lo stendardo» indicò col mento fuori dalla finestra «è caduto. Non è un buon
presagio.» mormorò, cupo.
Il bambino appoggiò il tamburo accanto al muro, gli occhi pieni di un qualcosa
di indefinito, scivolando fuori dalla porta. Si affacciò appena all’uscita, gli
austriaci erano a qualche metro di distanza, i fucili puntati sulle finestre
della casa. Scese cautamente i gradini delle scale, attento a non farsi
scoprire e afferrò il telo disteso sull’erba secca del giardino. Rientrò
frettolosamente in casa, correndo verso il Capitano.
«Ho recuperato il tricolore …» lo avvertì, mostrandogli lo stemma della nobile
famiglia dei Savoia, ricamato sopra lo stendardo.
«Coprine quel soldato» gli ordinò l’ufficiale, continuando a comandare ai suoi
uomini di rispondere all’attacco. Il ragazzo accorse accanto alla barella,
appoggiando il tricolore sul cadavere immobile dell’uomo di mezz’età che aveva
servito il suo Paese con così grande coraggio. Il tamburino guardò il corpo
freddo ai suoi piedi e pensò che avrebbe voluto essere come lui, avrebbe voluto
che gli altri lo guardassero con ammirazione e che, alla sua morte, ne
lodassero la memoria. Si riempì i polmoni di orgoglio e si ripromise che
sarebbe stato lui ad onorare i caduti, che ne avrebbe raccontato le impavide
gesta a chiunque avesse incontrato e che non avrebbe dimenticato quel giorno
d’estate.
«Arrendetevi! Siete circondati!» urlò il sergente nemico,
con un italiano strascicato. Il Sergente e il Capitano discutevano animatamente
su una possibile strategia «Laggiù c’è il grosso delle nostre truppe» bisbigliò
il Capitano, sembrava spazientito, si passò una mano tra i capelli, muovendosi
nervoso. Poi il Sergente ebbe un’idea e si avvicinò al ragazzino sardo, che
aveva ripreso a tamburellare sul suo strumento e regalava alle truppe
quell’ultimo sorriso che li avrebbe accompagnati nell’oblio della morte.
«Sei un buon patriota?» gli chiese il Sergente, afferrandogli una spalla.
«Sì, Sergente. Certo.» rispose il bambino, deciso ad aiutare in ogni modo
possibile.
Il Sergente annuì, scortandolo verso il Capitano, che lanciava sguardi
impensieriti ai nemici e aldilà della valle.
«Sei piccolo» disse il Sergente, cercando forse di rassicurare sia lui che il
Capitano «puoi attraversare le linee nemiche senza essere visto.» tirò fuori
dalla tasca un rotolo di carta legato in uno spago e glielo porse «Consegna
questo messaggio al primo ufficiale italiano che incontri …» sembrava riporre
così tanta fiducia in lui, che il tamburino non se la sentì di deluderlo.
«Sì, Signore.» annuì, stringendo il messaggio tra le dita fini e magre e lasciò
che un soldato lo legasse con una fune, sotto l’esplicito segnale del
Comandante.
Prima che potessero calarlo dalla finestra sul retro, il Capitano lo guardò
serio negli occhi «Stai attento» e ordinò di procedere.
Una volta posato i piedi sul prato, si levò l’imbracatura e
cominciò a correre veloce tra le rocce, deciso a portare a termine
quell’incarico di così vitale importanza. Udì degli spari che alzavano la terra
e gli sfioravano i vestiti logori e trasandati che portava.
«Corri! Corri!» lo incitava il Sergente, mentre il Capitano tratteneva la
stizza. «Sparano anche sui fanciulli, quei maledetti!» sputò, disgustato, ma i
suoi occhi seguivano i passi del ragazzo che, imperterrito, continuava ad
avanzare.
Un colpo. Il bambino cadde a terra, le mani che stringevano ancora saldamente
il rotolo di carta.
«L’hanno preso!» esclamò il Capitano e gli sfuggì un’orribile imprecazione. Ma
il bimbo si rialzò, il sangue che gli scorreva giù per la gamba e macchiava il
terreno. Trattenne il fiato per qualche secondo, e zoppicò in avanti, perse
l’equilibrio un’altra volta e un’altra ancora, ma continuò a correre. Non si
voltò mai indietro a guardare con occhi feriti i due uomini che l’avevano
mandato a morire, strinse i denti e corse, corse più veloce che poteva, superò
i primi alberi del boschetto in cui andava sempre a passeggiare, si lasciò alle
spalle la prima collinetta d’erba ingiallita e sfidò la forza di gravità e il
sole stesso, che lo fissava troneggiante dall’alto. “Ti diverti a guardarmi
soffrire?” urlava nella sua stessa mente e la sua voce appariva straziata
dall’agonia che, con così tanto impegno, sopportava “Scendi da quel cielo
immortale, oh sole indegno, affrontami a viso aperto, toglimi il respiro con i
tuoi perfidi artigli” lo scongiurava, sporcandosi le vesti di quell’arido
terreno di guerra “Ti senti così grande? Guardami, guardami mentre le
afflizioni mi tormentano il viso e dimmi: è forse giusto?” sputò quel sapore
amaro e ferroso che gli riempiva la bocca, la pelle che assumeva piano piano il
colore dell’avorio “Mostrami la tua onnipotenza” lo pregò, abbandonando per
qualche istante il rancore, gli occhi che si riempivano di liquide preghiere “Che
ne sa un bambino della tua immensa grandezza? Tu, che ci guardi morire
dall’alto e risorgi ogni giorno, sempre più fiero, più potente e più infame” le
labbra gli si seccarono, ma continuò a rimproverare quell’astro immobile e
splendente, ormai unico spettatore di tutti i suoi mali “Sono forse un ingrato
a parlar di te così gravemente? È forse superbia, quella che mi spinge ad
ergermi portavoce di un popolo che muore sotto i tuoi occhi eterni?” chiese, il
vento che lo faceva tremare nel torrido pomeriggio di luglio. Aveva la fronte
imperlata di sudore, la camicia ormai ridotta ai limiti della decorosità di un
trovatello come lui, ma negli occhi luccicava ancora quella grinta che non
conosceva battaglia. “Uccidimi, allora. Maledicimi di una sorte infausta,
abbandona quella misericordia che mai hai provato, e dannami. Danna un bambino
per aver osato sfidarti.”
Luke
scrutò gli sguardi di tutti i bambini del Campo, si erano ammutoliti tutti ad
ascoltare quel grido straziato, ma Luke sapeva che fossero troppo piccoli per
comprendere. Amava quella storia proprio perché gli ricordava in modo
inquietante la sua vita, proprio perché quel sole richiamava alla mente gli dei
e il modo in cui rimanevano a guardare, mentre gli umani e i loro stessi figli
si sporcavano le mani di sangue, di lacrime, di preghiere che non sarebbero mai
state ascoltate. Luke trattenne la propria frustrazione, cercando di riprendere
il racconto interrotto.
«E poi?» domandò una corpulenta ragazzina dai capelli castani, guardandolo
rabbuiata. Stringeva i pugni, irritata dalla sua pausa.
«È morto?» si precipitò a domandare il piccolo Lee Fletcher, incatenando i suoi
occhi limpidi a quelli del figlio di Hermes.
Luke sorrise, mettendo da parte i propri pensieri «L’esercito austriaco
continuò a sparare sulla vecchia casa di campagna, gridando a gran voce “Per
l’ultima volta: arrendetevi!”, ma il reggimento italiano, seppur esausto dalla
battaglia e ampliamente decimato, resistette fino all’ultima cartuccia, poi …»
«Arrivano i soccorsi!» urlò il Sergente, ringraziando Dio
per non avergli fatto perdere la speranza. «Coraggio!» gridò il Capitano,
animando i pochi soldati rimasti illesi. Le assi in legno della stanza erano
ricoperte di corpi doloranti, uomini deceduti già da ore e sottoposti esausti
che caricavano gli ultimi colpi.
Il Sergente si voltò verso il Comandante, un luccichio di gratitudine negli
occhi «Ce l’ha fatta» disse solo, il petto che si gonfiava d’orgoglio
patriottico.
Il giorno dopo, all’ospedale del campo …
Il Capitano camminava altero tra le barelle dei feriti,
osservando le teste fasciate e i soldati malridotti che riposavano su di esse,
alcuni respiravano affannosamente, altri erano già sprofondati in un sonno
profondo. Stava quasi per andarsene, quando un gracile corpicino in lontananza,
accanto alla finestra, attirò la sua attenzione. Richiamò il Sergente e
cominciò ad avvicinarsi al letto bianco su cui era sdraiato quel bambino -ora
pallido e febbricitante- che era stato il fulcro della loro vittoria.
«Ha sforzato troppo la gamba, non abbiamo potuto fare niente per …» cercò di
spiegargli il dottore, mentre l’infermiera li seguiva silenziosamente, ma le
sue parole divennero poco più che sussurri ad ogni passo, fino a spegnersi del
tutto. Il Comandante alzò un sopracciglio, poi tornò ad osservare il fanciullo,
che aveva stancamente alzato gli occhi su di lui.
«Sono arrivati i rinforzi?» chiese, con voce sforzata. Il Sergente annuì,
fissandolo amareggiato.
«Ma lei è ferito.» mormorò il piccolo, indicando il braccio fasciato del
Capitano, che si affrettò a rassicurarlo.
«Un graffio, e tu?» s’informò, scrutando il volto smorzo del bambino.
Il ragazzo si tolse lentamente il lenzuolo e la coperta di lana di dosso,
mostrando il ginocchio fasciato e quella gamba ferita che sarebbe dovuta essere
distesa lì, accanto all’altra. Il Comandante fissò la gamba mutilata del
piccolo e si portò sue dita sulla fronte, la schiena ora dritta in un gesto di
onore.
«Cosa fa, signor Capitano?» domandò il bambino, guardandolo con quei suoi
occhietti profondi.
«Io non sono che un Capitano, tu sei un eroe!» e lo baciò tre volte sul cuore.
Il ragazzo ristette, lo sguardo triste e un poco commosso «Posso essere ancora
il vostro tamburino?»
Attorno
al falò era calato il silenzio, quel finale un po’ tragico lasciava sempre
tutti di stucco. Piano piano, si levarono mormorii di protesta, Silena Bouregard tratteneva le
lacrime, e non era l’unica a tirare su col naso. Will Solace lo fissava rapito,
un respiro tremante che gli fuoriusciva dalle labbra viola. Avrebbe dovuto
vestirsi di più quella sera, stava congelando.
«È un grande!» gridò qualcuno della casa di Ares, sfidando chiunque a dire il
contrario. Qualcuno ci mise un po’ di più a riprendersi dalla vicenda narrata,
altri cominciarono ad elogiare quel ragazzino sardo che aveva condotto alla
vittoria il suo Paese, altri ancora discutevano con i propri fratelli quanto
quella storia fosse triste e quanto non fosse giusto che un bambino così
piccolo fosse stato mandato a morire dagli ufficiali italiani. Poi un urlo più
forte degli altri e decisamente più entusiasta e preso dal racconto, attirò
l’attenzione del Capo del Campo.
«Voglio essere anche io come lui!» urlò Connor Stoll,
alzandosi in piedi e fissandolo, deciso. Era alto poco più di un metro e venti,
ma la luce che aveva negli occhi avrebbe soddisfatto ogni mancanza di statura o
stazza.
Luke lo guardò attentamente, le labbra che si piegavano teneramente all’insù
«Certo» si piegò sulle ginocchia, così da poterlo guardare dritto negli occhi
«sarai un tamburino eccezionale» gli scompigliò i capelli e Connor
gli si buttò tra le braccia, eccitato. Urlava come un forsennato, ma Luke non
poteva che ridere della folle felicità del suo fratellastro, mentre Travis si
univa a quell’abbraccio. In men che non si dica, Luke
aveva tutti i bambini del Campo Mezzosangue addosso e perse l’equilibrio,
cadendo sul pavimento di terra tra i suoni più puri e limpidi che
potesse mai desiderare.
«Ma domani ci racconti Peter Pan» sbottò Travis Stoll, fissandolo con uno
sguardo che non ammetteva un no come risposta. «E bada per l’isola che non c’è»
acconsentì il più grande, godendosi i suoi bimbi sperduti come meglio sapeva
fare.
Awwwww
*W* I love Luke Castellan <3 <3 <3
ho sempre pensato che, prima che diventasse malvagio e volesse distruggere
l’Olimpo, Luke fosse un bravo fratello e un grande eroe
La storia narrata è, come dice il titolo stesso, “Il tamburino sardo” e la amo alla follia, piango sempre quando
la leggo ç_ç o la vedo
La storia del sole non è narrata nel racconto vero, ma credo che ci stia
infondo ^-^
ora vado che c’è una torta completamente blu che mi aspetta (Percy sarebbe
fiero di me!)