Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: DruidGirl    21/08/2015    4 recensioni
[Storia revisionata in data 08/04/2019]
Rohan Kishibe, si sa, è sempre in giro per il mondo alla ricerca di elementi da cui trarre ispirazione per le sue storie. Stavolta è approdato in Italia, in una città di montagna, per svelare il mistero dei boschi della zona. Dicono che si aggiri qualcosa tra la boscaglia, delle persone sono scomparse tra urla atroci, e non c’è spiegazione che sembri plausibile per tali eventi. Nessuno osa più avvicinarsi a quei boschi, tranne Rohan, ovviamente: essi infatti sono proprio la sua destinazione. Comincia così l’avventura – o sventura – e la lotta per tornare a casa sano e salvo con una storia degna di essere raccontata.
Genere: Avventura, Azione, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Rohan's Bizarre Adventures'
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Era l’inizio di una calda estate, una delle tante, quando giunsi nella piccola città di Chiavenna, in Italia. La città era indubbiamente graziosa, il suo piccolo centro composto da stradine strette ed i negozi che vi si affacciavano, il bellissimo ponte sul fiume Mera, l’aria fresca di montagna… Ma non era esattamente per una vacanza che mi trovavo lì. Io, Rohan Kishibe, ero stato guidato in giro per il mondo dal mio bisogno di ispirazione ancora una volta. Non avevo molti soldi con me, anzi, si può dire che fossi al verde: mi ero recentemente rovinato acquistando delle montagne, sempre per cercare ispirazione per le mie opere, e avevo dovuto passare del tempo da Koichi, a Morioh, dopo che qualcuno mi aveva dato fuoco alla casa, e tutti i risparmi erano andati nella sua ricostruzione. In qualche modo, comunque, ero riuscito a racimolare un gruzzoletto ed ero partito. Perché proprio Chiavenna? Perché non Roma, Firenze, Milano, Napoli o qualche città più rinomata? Perché è proprio in posti come questi che si nascondono le storie più assurde, l’ho imparato nei miei innumerevoli viaggi. Avevo bisogno di soldi, come già detto prima, e non di qualche quattrino per viaggiare o mantenermi per l’estate, ma qualcosa di redditizio. Sapevo che una casa editrice molto rinomata era interessata ad un possibile episodio autoconclusivo del mio manga ma mi mancavano le idee; non idee qualunque, no, non era il mio stile. Necessitavo di idee realistiche, e sappiamo benissimo che il realismo nelle opere nasce dall’esperienza, no? Così avevo deciso di partire e vivere qualcosa di reale.
Cercando su internet – con quel poco che me ne rimaneva, visto che la scadenza della promozione era prossima e io non avevo il becco di un quattrino per rinnovarla – mi ero imbattuto in una storia molto interessante. C’erano parecchie testimonianze di persone che avevano avvistato o percepito una strana presenza nei boschi al di sopra di Chiavenna, dove scorre il fiume Liro. Inoltre, a completare il quadretto misterioso, innumerevoli persone erano scomparse dopo essersi avventurate nei boschi della valle e non erano mai più state ritrovate; di loro nemmeno l’ombra. Questo accadeva da otto anni e nessuno aveva mai saputo darne una spiegazione. Gli abitanti avevano detto di aver sentito urla umane di disperazione e dolore e di aver avvistato qualcosa muoversi durante la notte in più occasioni. La polizia aveva effettuato ricerche delle persone scomparse, ma non era stato trovato nulla. Sembrava quasi evaporassero una volta entrate nei boschi dopo istanti di immenso dolore. Per colpa di questi avvenimenti nessuno osava avventurarsi più nella zona ormai, lo sapevano tutti, veniva persino insegnato ai bambini: quei boschi dovevano essere evitati da qualsiasi persona sana di mente... Tranne me, ovviamente: quella era infatti la mia meta.
Durante la mia seconda mattina di permanenza decisi di recarmi al Caffè Pestalozzi, un bar che aveva dei graziosi tavoli all’aperto tenuti all’ombra da dei tendoni bianchi. Il mio programma consisteva nel prendere un pullman per salire più su tra le montagne nel primo pomeriggio, ma avevo bisogno di prendermi un buon cappuccino e di fare delle ultime ricerche su internet.
Ordinai il cappuccino e qualche dolce e mi sedetti ad aspettare. Poggiai sul tavolo la mia fedele macchina fotografica, un quaderno per gli appunti, una biro e iniziai a fare le mie ricerche su internet, pensando a quanto fosse bello il silenzio e la tranquillità di quel luogo.
– Ma non mi dire! – Esclamò un’acuta voce femminile alle mie spalle.
Mi girai e vidi la cameriera, immobile a due tavolini di distanza, che teneva la bocca aperta e gli occhi sgranati mentre reggeva il vassoio col mio ordine. Solo dopo qualche secondo mi resi conto che la ragazza mi aveva parlato in giapponese.
– Rohan Kishibe… Il maestro Rohan Kishibe… Qui? Proprio qui? – Chiese con voce sorpresa.
Sbuffai silenziosamente. Non avrei mai immaginato di essere riconosciuto anche in una piccola città di montagna come quella, così lontano da casa.
– D’accordo, ti farò l’autografo, però poi mi lasci in pace, ok? Niente foto, mi dispiace. – Le dissi, convinto che fosse proprio quello che voleva, viste le innumerevoli precedenti esperienze.
La ragazza si avvicinò e poggiò sul tavolo il cappuccino, i biscotti ed un croissant. Sollevai lo sguardo verso di lei e la sua espressione mi sorprese: le labbra sottili erano piegate in un sorriso beffardo e i suoi occhi castani brillavano. La spilletta che recava sulla spallina del grembiule bordeaux mi suggerì che il suo nome era Cherie, ed il suo viso tondeggiante e pallido, sul quale cadeva qualche ciocca mossa di capelli arancioni, che era giovanissima.
– Non mi pare di aver accennato ad alcun autografo o fotografia. – Mi disse, lasciandomi esterrefatto. Era la prima volta che qualcuno mi riconosceva e si comportava così.
– Oh, beh, ho seguito la prassi. Contento di essermi sbagliato. Grazie, buon lavoro. – Decisi di troncare la cosa sul nascere perché non mi piaceva affatto quel bagliore nei suoi occhi: erano occhi curiosi, quelli, ne avevo visti abbastanza per saperli riconoscere. Dopotutto lo erano anche i miei. E poi avevo cose ben più importanti da fare in ogni caso. Ripresi a picchiettare lo schermo del telefono, ma poco dopo fui costretto ad alzare lo sguardo su quello che non aveva smesso di pesarmi addosso. La ragazza era ancora lì, vassoio sulla pancia, che mi guardava.
– Posso farti solo una domanda, Maestro? E posso parlare informalmente, vero? – Mi chiese sorridendo.
La guardai truce. Se era una mia ammiratrice, cosa che dedussi dall’appellativo maestro, doveva sapere del mio carattere non esattamente garbato.
– Avanti, chiedi. Ma solo una domanda, sono piuttosto impegnato. –
Cherie prese un breve respiro. – Mi chiedo solo cosa ci possa fare niente meno che Rohan Kishibe in una città come questa. Insomma, Rohan Kishibe in vacanza qui? – Ridacchiò brevemente. – Non è possibile. –
– Se sono qui non è poi tanto impossibile. Sono in vacanza, ogni tanto me lo concedo. E perché non qui? Pensavo che avrei avuto un po’ di pace e che nessuno mi avrebbe riconosciuto. – Marcai la voce sull’ultima frase, sperando capisse l’antifona.
La ragazza tirò indietro la testa con espressione confusa. – Non avevi detto di essere piuttosto impegnato? –
Il mio sguardo divenne truce ancora una volta. – Non avevi detto una sola domanda? –
Cherie chinò la testa. – Hai ragione. È solo che, ecco, so che sei uno in costante cerca di ispirazione per i tuoi manga.... Io sono nata e cresciuta in Giappone, ma sono tornata qui da mia madre tantissimi anni fa, conosco bene Chiavenna e dintorni. Se vuoi posso darti qualche dritta, consigliarti qualche posto interessante. –
Si fermò, spostando lo sguardo ora allarmato verso qualcosa alle mie spalle. L’istinto mi disse di girarmi, ma subito lei riprese a parlarmi. – La mia capa mi guarda male. Senti, se hai bisogno di qualsiasi cosa non esitare a farmelo sapere, okay? Aiutarti sarebbe un sogno. Alle undici staccherò dal turno, mi troverai al ponte sul fiume se hai bisogno. –
Dopo avermi fatto sorriso ed un breve inchino scappò alle mie spalle, verso l’interno del bar.
Sospirai. D’accordo, non era una novità che fossi un tipo che viaggiava parecchio per cercare l’ispirazione, ma come aveva fatto ad azzeccare tutto? Bevvi un sorso del mio cappuccino, cercando di farla uscire dai miei pensieri. Avevo già qualcosa di interessante su cui indagare, non avevo assolutamente bisogno di lei. Non avevo bisogno di nessuno.
Cercai di riprendere le mie ricerche, ma quella ragazza si era insinuata nella mia mente e come una pulce non riuscivo proprio a staccarla. Continuavo a chiedermi se sapesse qualcosa riguardo alla strana presenza nei boschi; se viveva qui da anni, sicuramente doveva saperne qualcosa, e forse qualche sua dritta si sarebbe rivelata utile per la mia ricerca. Combattei questo pensiero per tutta la mattinata, tra una ricerca e l’altra, ma alla fine la curiosità cedette. Dovevo chiederle qualcosa a riguardo, e così, attento a non alzarmi dal tavolo alle undici puntuali per orgoglio, mi incamminai verso il ponte sul fiume Mera.

***

Erano ormai quasi le undici e mezza quando arrivai al ponte sul fiume. Avevo camminato molto lentamente, osservando con minuzia le vetrine di ogni negozio, mi ero persino fermato a comprare il giornale per controllare se ci fossero notizie interessanti riguardanti al caso a cui stavo indagando. Era proprio mentre passavo gli occhi dal giornale alla strada che vidi Cherie appoggiata al muretto del ponte intenta a leggere qualcosa sul suo telefono. Non mi aveva notato, e mi chiesi se l’avessi dovuta approcciare io per primo: mi scocciava presentarmi da lei e chiederle aiuto, volevo che fosse lei a fermarmi e propormelo ancora. Continuai, ed il mio orgoglio l’ebbe vinta. Avevo quasi superato il breve ponte quando la sua voce mi chiamò alle spalle.
– Rohan, Rohan! – Squittì con la sua vocina.
Mi incamminai verso di lei dopo che mi fece cenno di avvicinarmi.
– Stavo per abbandonare ogni speranza. – Mi disse sorridendo.
– Speranza in che cosa? – Le chiesi, pur sapendo la risposta.
– Che tu venissi qui. Allora, hai pensato alla mia proposta? Ah, e posso darti del tu, sì? Prima non mi hai risposto. –
– Sì, sì, dammi del tu. Comunque, ci ho pensato un po’, e penso che dopotutto il tuo aiuto non mi farebbe male. Hai davvero qualcosa di interessante da raccontarmi? –
Non volevo mostrarle subito le mie carte e dirle che ero lì per il mistero del bosco: volevo vedere se sarebbe stata lei a tirarlo fuori. In caso contrario, magari mi avrebbe messo a conoscenza di qualcos’altro di interessante; ormai ero lì e volevo tornare a casa con un bagaglio più pesante possibile.
– Certo, oh, certo se ce l’ho. – Rise lei. Controllò l’orologio che portava al polso. – Che ne dici se ne parliamo mentre pranziamo? Ho parecchia fame. –
– Se proprio insisti. Conosci un posto valido qui? – Le chiesi senza entusiasmo. Non avevo per niente fame, per me era ancora presto, ma dovevo assolutamente racimolare informazioni.
Fu così che mi portò in un ristorante molto fine ed elegante, il suo ambiente interno ricco di quadri e sculture. Ci fecero accomodare ad un tavolo all’esterno, su una terrazza che dava direttamente sul fiume. La ragazza aveva gusto, a quanto pareva, ma io ero troppo preoccupato a pensare al mio povero portafoglio, mai stato così leggero, e a quanto mi sarebbe costato mangiare lì, per godermi appieno la bellezza e la raffinatezza del posto. Una volta aperto il menù mi rasserenai; ordinai dei pizzoccheri, invitanti quanto economici.
Cherie mi sembrava emozionata ma tutto sommato tranquilla, i suoi occhi continuavano a brillare di quella luce strana, curiosa e sveglia, ed io morivo dalla curiosità di sentire cosa aveva da dirmi. Arrivate le nostre portate cominciò a mangiare in modo vorace, quasi come se stesse morendo di fame.
– Allora, Maestro. Sei venuto qui con qualche idea in testa o stai navigando nel buio? – Mi chiese finalmente dopo qualche boccone famelico.
Addentai un pizzocchero e riflettei. – In realtà no, non ho idee. Ero in zona per lavoro e ho deciso di fermarmi e cercare qualcosa di interessante. Ho fatto bene o sto solo sprecando tempo? –
Cherie sorrise. – Hai fatto benissimo. Possibile che tu non abbia mai sentito dei terrori nel bosco? –
Un brivido mi percosse la schiena. Bingo!
– Spiegati, per favore. – Le dissi inarcando le sopracciglia come se non sapessi assolutamente nulla di quello che mi aveva appena detto.
La ragazza bevve un sorso d’acqua e sorrise compiaciuta. – È una leggenda del posto, anche se tutti sanno che c’è qualcosa di reale. Da una decina d’anni circa, più in su verso le montagne, accade qualcosa di terrificante nei boschi dove scorre il fiume Liro. Tante persone sono scomparse in quei boschi, sono state udite urla umane, rumori strani, spostamenti nella notte… La polizia ha indagato, effettuato ricerche, ma niente. È come se qualcuno avesse eliminato completamente quelle persone dalla faccia della terra. E non ti sto parlando di tre, quattro persone: le sparizioni sono arrivate a centoventidue. L’ultima risale a circa sei mesi fa: due ragazzi, attirati dal mistero dei boschi, si sono avventurati… E non sono più tornati. Mai più. Inghiottiti dai boschi. –
Deglutii a fatica. Era proprio come avevo letto su internet, eccetto per il numero degli scomparsi: per essere un paesino montanaro come tanti altri, centoventidue persone erano davvero tante.
– Urla umane, hai detto? –
Cherie annuì con cipiglio serio. – Concomitanti con le sparizioni. Urla disperate, urla di terrore, di morte. Nessuna delle persone scomparse è mai più stata ritrovata. Nemmeno una traccia, niente di niente. –
Inspirai profondamente. – Certo che sei documentata. Centoventidue precise? –
Cherie ridacchiò. – Sono sempre stata attratta da questo tipo di cose, e poi è l’unica cosa interessante che puoi trovare qui. Sì, centoventidue. Tra cui bambini, donne, anziani, padri, madri, persone sole… Non sembra esserci distinzione. –
Finii il mio piatto a forza. – Non potrebbe essere qualche animale? Qualche bestia feroce, non so. –
– Figurati. – Sbuffò Cherie. – Hanno impiegato giorni e giorni nella ricerca di un qualche colpevole, animale o umano che fosse. Non hanno trovato nulla, se non la fauna tipica del posto che non potrebbe centrare nulla con questa faccenda. –
– È indubbiamente interessante. Molto interessante. Era proprio ciò che cercavo. –
– Visto? – Esclamò Cherie mentre un sorriso soddisfatto le illuminava il viso. – Lo sapevo che ti sarebbe interessato. –
Accennai un sorriso. C’era qualcosa che non mi tornava, però, e decisi di essere franco con lei a riguardo.
– Senti, ma… Da ciò che mi hai raccontato, deduco che chiunque entri in quei boschi scompaia tra urla atroci. Insomma, detta così sembra piuttosto grave. Eppure… Non mi sembra che tu la stia prendendo così seriamente. Sembra quasi un gioco per te. –
Dopo queste mie parole l’espressione di Cherie si fece più seria. – Hai ragione. Mi sono fatta trasportare dall’entusiasmo. È che come già ti ho detto, questo tipo di cose mi hanno sempre affascinata. I misteri da risolvere, la paura, il terrore… Insomma, sembra la trama un film. Ma credimi, la prendo molto sul serio. Mi spaventa a morte… Ed è proprio per questo che mi attira. So che puoi capirmi. –
Sospirai. Eccome se la capivo. Sinceramente non sapevo come sentirmi a riguardo: centoventidue persone scomparse nel nulla erano davvero troppe perché quella fosse solo una leggenda o una serie di coincidenze, dunque la cosa era seria. Da una parte volevo indagare, addentrarmi nei boschi e vedere coi miei stessi occhi quello che nascondevano, ma dall’altra la mia parte razionale mi diceva di scappare il più lontano possibile, di prendere il primo aereo per Morioh e farmi bastare quello che avevo per inventare una storia interessante. Eppure ormai c’ero dentro, avevo bisogno di una storia ed ero lì a due passi da essa: come potevo tirarmi indietro dopo aver fatto tanta strada? Le informazioni che avevo mi potevano bastare e questo lo sapevo benissimo, ma non era solo quello il mio movente… Volevo mettermi in pericolo perché mi piaceva da morire, perché ci ero troppo vicino per ritirarmi e perché, esattamente come Cherie, ero sempre stato affascinato dai misteri e dalle leggende di questo genere. Ad attirarmi erano proprio la consapevolezza del rischio ed il brivido che ne conseguiva; i miei occhi brillavano di curiosità, esattamente come la ragazza che mi stava davanti, ed era un fuoco troppo forte da spegnere. Inoltre avevo sempre il mio Stand: non era certo il massimo per un combattimento, ma poteva benissimo proteggere me e Cherie nel peggiore dei casi. A Morioh avevo vissuto disavventure di ogni tipo, ed Heaven’s Door mi aveva sempre salvato la pelle.
– Cosa vuoi fare, Cherie? Le mie labbra non resistettero alla tentazione d’inarcarsi in un sorriso complice, a cui la ragazza ricambiò in un modo quasi spaventoso.
– Voglio andare nei boschi e vedere cosa nascondono. –

***

Destatomi prima dell’alba, rimasi a lungo davanti alla finestra della mia stanza d’albergo. In silenzio osservai le montagne, i boschi, le strade ed il cielo che, dapprima scuro e stellato, si tinse di infinite sfaccettature dolci con lo sbucare del sole da dietro le montagne. Un raggio di luce finalmente mi deliziò il viso, costringendomi a socchiudere gli occhi; lo lasciai scaldarmi la pelle per qualche minuto, inspirando l’aria fresca del mattino in silenzio mentre pensavo. Mi sentivo molto stanco: avevo dormito poco più di tre ore quella notte. Non ero riuscito a riposare tranquillamente per via dei continui pensieri sull’indomani, cioè il giorno che era appena cominciato davanti ai miei occhi. Il giorno prima, dopo pranzo, io e Cherie ci eravamo spostati in un angolino appartato di un bar della città per pianificare il da farsi. Avevamo deciso di aspettare la fine del turno mattiniero di Cherie, dopo il quale avremmo preso il primo pullman per salire a Lirone, il paesino circondato dai boschi misteriosi, per cominciare la nostra avventura… O sventura, era ancora tutto da vedere.
Erano appena le otto e trenta e pensai che forse avrei potuto riposarmi ancora un po’. Non avevo paura, ero semplicemente teso, come prima di un incontro importante. Incontro con la morte? Con un mostro feroce? Con un assassino? Con nessuno? Non mancava poi molto alla risposta di queste domande. Preparai il mio zaino da montagna con l’essenziale: misi al suo interno un paio di torce, delle bende, fazzoletti, fiammiferi, un accendino, un coltello, il mio quaderno degli appunti e un paio di penne, sperando sarebbe bastato. Preparati anche i vestiti, finalmente mi misi sotto al lenzuolo a curiosare il web dal cellulare. Non passò molto tempo prima che mi addormentai; non dormii certo un sonno tranquillo, ma pur sempre un sonno di cui avevo bisogno.

***

Il mio orologio da polso indicava le dodici e sedici. Nemmeno il tempo di chiedermi dove fosse Cherie, che lei mi corse incontro dall’altro lato della strada. – Rohan! – Esclamò in preda al fiatone.
– Cherie. – La salutai mentre mi raggiungeva. – Come stai? –
La ragazza inspirò profondamente, lasciando cadere a terra lo zaino con un tonfo davanti alle mie gambe. – – Non ho dormito molto per l’agitazione, ma… Bene. –
Alzai la testa per scrutarla, seduto davanti a lei sulla panchina della fermata del bus, coprendomi dal sole con una mano. – Non si direbbe, sai? Sei piuttosto pallida. Sembri malata. –
La ragazza ridacchiò. – Malata? No, no, sto bene. Sono sempre pallida. Aggiungici l’ansia…–
Se lo dici tu, pensai, convinto che quello fosse tutt’altro che un usuale pallore tipico da pelle molto chiara. Lo avevo notato anche il giorno prima, ma oggi sembrava addirittura peggiorato.
– Quella cosa che hai alla gamba è… –
– Un coltello. – La interruppi sfoggiando un sorriso sardonico. Diedi una pacca soddisfatta alla mia gamba destra, sulla quale era allacciata una fibbia con il fodero del mio coltellino da montagna.
Cherie assunse un’espressione perplessa.
– Ti devo ricordare cosa stiamo andando a fare? – Le chiesi ironico. – Non si sa mai. –
La ragazza rise. – Non hai tutti i torti. –
Vidi il pullman arrivare dal fondo della strada e mi alzai in piedi, sistemando al collo la macchina fotografica; Cherie, ancora leggermente trafelata, si mise in spalla il suo zaino e così salimmo sul mezzo rumoroso. Cercai di pensare ad altro mentre scrutavo il paesaggio sfrecciarmi accanto; l’agitazione stava aumentando, e così anche la curiosità, ma non volevo che mi pesassero troppo. Cercai di convincermi che, più che confermare la veridicità della leggenda, stavo andando a sfatarla, e che non era assolutamente plausibile che ci fosse davvero qualcosa di pericoloso in quei boschi. Non funzionò affatto, ma almeno il bellissimo paesaggio che mi passava accanto mi aiutò a distrarmi un pochino.
Eravamo sul pullman da circa venti minuti quando Cherie si alzò in piedi.
– Siamo arrivati. – Mi disse. La seguii, scesi dal pullman dopo di lei e ci trovammo in un piccolo parcheggio accanto all’unica strada di tornanti che proseguiva in salita, ancora più in alto verso le montagne. Ad una cinquantina di metri da noi c’erano delle graziose casette rustiche, tra le quali proseguiva una stradina stretta, abbastanza larga da permettere il passaggio di una sola automobile o poco più. Attorno a noi c’erano solo boschi, il rumore della vegetazione circostante ed il cielo azzurro attraversato da qualche nuvola bianca e paffuta.
– È lì che dobbiamo andare. – Disse Cherie, indicando col braccio teso la stradina tra le case. Annuii con fare serio e così procedemmo. Appoggiato al muro della prima casa che dava sulla strada stava seduto un signore anziano, gambe incrociate, cappello da cacciatore ed espressione seria. I nostri sguardi s’incrociarono per qualche istante mentre gli proseguivo accanto; alzò la testa e mi guardò solenne, sollevandosi un poco il cappello in segno di saluto. Forse ero io al momento ad essere troppo paranoico, ma interpretai quel gesto come un addio: forse immaginava dove eravamo diretti io e Cherie e sapeva che cosa ci aspettava? Un brivido mi percosse da capo a piedi, ricambiai il saluto con un breve cenno della testa e voltai in fretta lo sguardo, proseguendo dietro a Cherie.
Affiancammo le case per un minuto di camminata circa fin quando la stradina non si interrompeva bruscamente, aprendosi su un fitto bosco. Cherie si fermò al limite tra la strada e l’erba e si girò verso di me. La sua espressione era tanto seria da aggravare ancora di più quella sensazione di pericolo imminente che albergava in me già da un po’.
– Qui inizia il bosco. Si può procedere in tantissime direzioni, si può salire un po’ tra la boscaglia, seguire il fiume verso est o verso ovest. Oppure possiamo attraversare il fiume ed addentrarci tra la boscaglia più fitta. –
Interpretai quella gamma di opzioni come un “in che luogo preferisci morire, Rohan?” ma, anche qui, mi convinsi che era solo la mia paranoia a prendere il sopravvento. Inspirai. – Secondo te dove è più probabile avvistare qualcosa? –
Cherie si passò una mano fra i capelli arancioni. – Penso oltre il fiume, verso i boschi a nord. –
– E sia, allora. Oltre il fiume. –
Cherie annuì e così varcammo definitivamente la soglia del bosco, dove già non splendeva più il sole su di noi, coperto dalle infinite ramificazioni degli alberi alti che fungevano da tetto sopra le nostre teste.

***
Il mio cuore saltò un battito quando Cherie oscillò davanti ai miei occhi, tra le rocce e l’acqua. Eravamo nel bosco da una decina di minuti e ci stavamo accingendo ad attraversare il fiume; ci avevamo messo un po’ a trovare un buon punto per farlo, l’acqua era profonda, scorreva veloce e c’erano tantissimi sassi spigolosi; il rischio di scivolare era alto. Finalmente trovammo una striscia di sassi piatti, perfetti per l’attraversamento; Cherie perse l’equilibrio per un paio di secondi, spaventandomi sia per la bruschezza dei suoi movimenti improvvisi, sia perché temevo cadesse in acqua e si facesse male su una delle tantissime rocce attorno e sotto di noi. In fin dei conti, se lei si trovava in quel bosco era per me: mi ci aveva condotto lei, sì, ma non ci sarebbe mai entrata se non fossi arrivato io, e tanto bastava per farmi sentire responsabile. Qualunque cosa le fosse successa in quel bosco, la responsabilità sarebbe stata solo e soltanto mia: era anche per questo che mi sentivo un peso grossissimo addosso ed ero in massima allerta. I miei sensi erano come amplificati: ero attento a qualsiasi movimento, nostro o della vegetazione, qualsiasi suono, qualsiasi odore strano.
– Cherie! – Esclamai. La ragazza si appollaiò sul sasso su cui prima stava per scivolare.
– Tutto okay, tutto okay! – Rise lei.
Inspirai, scocciato. Volevo attraversare il fiume più in fretta possibile.
Procedendo piano, finalmente toccammo terra dall’altro lato del fiume. La ragazza si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore e notai che era anche più pallida di prima. Forse era stato lo spavento.
– Sei pronto? – Mi chiese guardandomi intensamente negli occhi. Nemmeno un piccolo segno di preoccupazione, ansia o tensione mi marcava il viso: sebbene dentro fossi un maremoto di emozioni varie, il mio viso era un mare piatto senza neanche un’increspatura.
– Sì. – Dissi soltanto, con voce più calma che mai. Accesi la mia macchina fotografica, l’assicurai bene al collo e così ci inoltrammo per la boscaglia fitta che proseguiva in salita.
Non c’erano sentieri battuti in quel lato del bosco, non c’era alcun segno di passaggio umano, e questo m’intimorì oltremodo. Procedemmo facendoci strada tra le fronde, le piante e la terra che franava un poco sotto i nostri passi; la strada si faceva sempre più in salita, e sentivo Cherie respirare pesantemente davanti a me, mentre anche io iniziavo a sentire le gambe pesanti. Camminammo per qualche minuto, non so dire esattamente quanto; eravamo le uniche fonti di rumore in quel luogo fitto di vegetazione, accompagnato ogni tanto dal fischio di qualche marmotta e dal rumore del fiume che si faceva sempre più lontano. Ero talmente teso da allarmarmi per dei semplici rumori tipici dei boschi, come scricchiolii di rami o foglie; non avevo paura, non ancora, ma non sapevo cosa aspettarmi e soprattutto quando aspettarmelo, quindi ogni minima cosa mi sembrava un allarme di pericolo imminente.
Fu dopo una decina di minuti di camminata tra i boschi che le mie ansie sfociarono in vero e proprio allarme. Si udirono tre scricchiolii di rami in lontananza, e questa volta non erano prodotti da noi, poiché ci eravamo fermati a bere dell’acqua ed eravamo pressoché immobili, le labbra attaccate alle bottiglie. Furono tre calpestii di foglie secche o rami, ben distinti e distanziati l’un l’altro di qualche secondo, come fossero passi, nella boscaglia alla nostra sinistra. Sgranai gli occhi e li posai su quelli di Cherie, che immobile ed ancora con la bocca poggiata sulla bottiglia di plastica, ricambiò lo sguardo con terrore.
“Aspetta e calmati”, pensai. “Ci sono un sacco di animali qui intorno, potrebbe essere uno dei tanti.”
Feci cenno con la mano a Cherie di rimanere immobile; lei si limitò a staccare le labbra dalla bottiglia, occhi nocciola sgranati, e la udii deglutire un groppo d’ansia e acqua.
Attendemmo immobili per una manciata di secondi che mi sembrarono interminabili. Tutto taceva come sempre, finché non udii lo stesso scricchiolio di prima. La tensione intanto saliva inesorabile, pronta a raggiungere il picco massimo. Udimmo un altro scricchiolio, stavolta molto più forte e vicino, ed uno stormo di uccelli si levò dagli alberi sopra di noi, volando lontano in un rimbombante sbatter d’ali. Tutto tacque di nuovo, mentre io e Cherie non smettevamo di guardarci e le nostre espressioni si facevano sempre più sgomente.
Quello che udii subito dopo fu ciò che fece scattare definitivamente l’interruttore. Dapprima sommesso, quasi inudibile, e poi sempre più alto, sentii un ringhio provenire da dietro di me. Era un ringhio animalesco, gutturale, minaccioso, e non di un animale qualsiasi, ma di una bestia feroce, grossa, pronta a staccare la testa della sua preda a morsi. E la preda, penso sia ovvio, eravamo proprio noi. Gli occhi di Cherie si erano fatti talmente grandi che sembravano pronti a schizzare fuori dalle orbite; sentii i peli sulla nuca rizzarsi dalla paura, cercai di deglutire senza successo, la bocca improvvisamente secca.
– L’hai sentito anche tu? – Mi chiese con un fil di voce appena udibile. Annuii con la testa.
Non so come fosse la mia espressione, di certo terrificata. L’unica cosa in cui concentravo le mie energie e pensieri erano le orecchie ed i muscoli delle gambe, che sentivo pronti a scattare in avanti al momento opportuno, come un corridore che aspetta il via per schizzare in pista alla velocità della luce. La mia preoccupazione maggiore, in quella manciata di secondi in cui cercai di pensare a tutto, era Cherie: io sapevo di potermela cavare in qualche modo, quando l’adrenalina cominciava a scorrermi in corpo ero più veloce di una scheggia e molto, molto agile. Lo avevo constatato in molte occasioni nella mia vita, soprattutto da quando ero tornato a vivere a Morioh ed erano successe tante cose. Ma lei… Lei era in grado di starmi dietro o sarebbe inciampata per poi finire tra le fauci di quella bestia che ringhiava alle nostre spalle?
Il ringhio si faceva sempre più forte e feroce, sentivo che la bestia sarebbe scattata su di noi da un momento all’altro: dovevo assolutamente precederla. Con uno scatto fulmineo del quale non feci nemmeno in tempo a sorprendermi, afferrai saldamente Cherie per un braccio, da cui cadde a terra la bottiglietta d’acqua ancora aperta, e cominciai a correre più veloce che potevo verso la direzione opposta al ringhio.
Il mio grido risuonò anch’esso come un ringhio tra i boschi.
– Corri! – Gridai mentre i miei passi, seguiti da quelli di Cherie che sorprendentemente correva veloce quanto me, toccavano il suolo coperto di rami e foglie per un brevissimo istante e poi si alzavano in aria, quasi stessi saltando sul terreno toccandolo appena. Come pensavo, pochi secondi dopo che schizzammo via, la bestia balzò alle nostre spalle, ansimando come una belva che non vede l’ora di gustarsi della carne fresca. Sentivo i suoi passi dietro di noi, vicini, terribilmente vicini. A giudicare dal rumore doveva essere una bestia grossa e pensante… E diamine se era veloce! I passi erano sempre più vicini, prima o poi ci avrebbe raggiunti. Non c’era posto in cui nascondersi, non c’era una strada alternativa da prendere: solo ed esclusivamente boscaglia, che tra l’altro si andava infittendo, le fronde degli alberi bassi e delle piante mi colpivano dritte in faccia. Non avevo modo di girarmi e guardare la bestia: non sapere da cosa esattamente stessi scappando mi agitava ancor di più, ma forse era meglio non sapere.
– Lo senti anche tu dietro di noi? – Mi gridò Cherie.
– Sì! – Risposi semplicemente. Che razza di domanda era? Certo che lo sentivo. I suoi passi facevano tremare il terreno, sarebbe stato impossibile non accorgersene.
Continuammo a correre. Tutto scorreva veloce come un lampo e non avevo nemmeno il tempo di pensare ad altro se non a tenermi stretta Cherie, che già cominciava a cedere, e muovere le gambe più veloce possibile. Come se fosse un’illuminazione divina, notai nell’ansia della corsa che gli alberi si diradavano in un punto non molto lontano del bosco; corsi dritto in quella direzione, e se le mie orecchie non fossero state occupate dal battito impazzito del mio cuore, dal mio respiro affannoso e dai passi nostri e della bestia, avrei capito che non eravamo arrivati al fianco del bosco, accanto al fiume, come avevo pensato. Più ci avvicinavamo, ad una velocità a cui mai mi sarei immaginato di correre, e più riuscivo a scorgere i dettagli di quel piccolo punto di luce tra il verde del bosco. Vidi finalmente che era un piccolo sentiero ciottolato, non larghissimo, abbastanza per una persona, e accanto doveva scorrervi il fiume. Cercai di trovare il fiato necessario per spiegare a Cherie quello che dovevamo fare.
– Scenderemo da quel sentiero – le dissi ansimante, con la voce che tremava. Girai il viso per guardarla, non troppo per non perdere la visuale davanti a me. La vidi annuire brevemente mentre correva col viso rosso per lo sforzo e rigato dalle lacrime.
– Devi andare prima tu! – Gridai ancora, la voce che veniva meno. – Corri più veloce che puoi! Appena ti lascio il braccio, scatta! –
Attesi qualche istante e finalmente la lasciai. I risultati di quella mossa azzardata potevano essere due soltanto: salvezza o morte. Se solo fosse rimasta indietro di qualche metro o peggio ancora, se fosse inciampata, la bestia l’avrebbe presa. L’entità misteriosa era ormai vicina, non c’era alcun margine di sbaglio, così come non c’era tempo di prendere fiato. Appena lasciai il suo braccio, con mio stupore ed immensa gioia, la vidi fare uno scatto con quelle che probabilmente erano le sue ultimissime forze: mi superò di un metro, poi due, poi tre, e finalmente imboccò il piccolissimo sentiero che era lievemente discesa. Dopo qualche secondo passai anche io; il percorso ciottolato durava ancora un centinaio di metri ma non c’era traccia del fiume, tantomeno eravamo al fianco ella montagna; ci eravamo addentrati troppo, non sapevo quanto, ormai mi ero perso completamente.
“Merda!” Pensai, furioso. “Alberi, solo alberi di merda!”
La strada ciottolata presto finì e ci ritrovammo di nuovo circondati da boschi. Non sentivo più la presenza della bestia alle mie spalle, tantomeno udivo il tremore dei suoi passi imponenti. Doveva aver preso una strada parallela quando avevamo imboccato il sentiero stretto. Una volta che fui affianco a Cherie le afferrai di nuovo il braccio e spostai la traiettoria della corsa verso sinistra. Seguendo quella direzione dovevamo tornare al fiume prima o poi, sempre che non mi stessi sbagliando di nuovo.
– Devo…– Ansimò Cherie, strattonandomi il braccio. – Fermarmi… –
La corsa era decisamente più di lenta di prima, ma comunque sostenuta. La guardai: era allo stremo e si vedeva benissimo. Alcune ciocche di capelli bagnati di sudore le si erano appiccicate sul viso rosso fuoco e ansimava come in preda ad un attacco d’asma. Ma cosa potevamo fare? Fermarci e bere un goccio d’acqua? Sì, se volevamo finire come quei centoventidue malcapitati. No. Non era ancora il momento di fermarsi. Anche io non ero messo bene, sentivo le gambe cedere, i polpacci bruciare, per non parlare la bocca incredibilmente secca ed il viso che doleva per le fronde che mi avevano colpito più volte, ma avevo ancora abbastanza adrenalina in corpo per proseguire.
– Coraggio, tra poco ci fermeremo. –
Bugia. Non avevo idea di quando ci saremmo potuti fermare. Per quanto ne sapevo io, quella corsa sarebbe potuta durare fino all’imbrunire ed oltre, ma mi rincuorai: quei boschi non potevano durare per sempre, dovevamo raggiungere il fiume, prima o poi. Temevo che la bestia potesse prenderci di sprovvista da un lato del bosco o dall’altro, così cercai di prestare attenzione ai suoni intorno a me, finché non sentì il rumore distante del fiume.
“Ah!” Esclamai trionfante nei miei pensieri. Eccolo, finalmente. Seguii il rumore del fiume, stringendo saldamente Cherie che nonostante tutto mi seguiva correndo svelta, e notai che la strada si faceva in salita, il ché complicò molto le nostre prestazioni, costringendoci a rallentare un po’. Finalmente, dopo un minuto di corsa o poco più – ormai la mia percezione del tempo era completamente alterata – raggiungemmo la fine del bosco, delineato dal fiume. Dall’altra parte ci aspettava ancora un’altra striscia di boscaglia, l’unico ostacolo rimanente prima delle casette rustiche e la strada ciottolata che delimitavano la fine dei boschi, ovvero la nostra salvezza. Attraversare il fiume significava mettersi quasi certamente in salvo, ma proprio lì stava il problema. Non era esattamente un’impresa semplice quella di attraversare il fiume senza rallentare o fermarsi qualche secondo. L’acqua era profonda e il letto del fiume era costellato di sassi spigolosi e scivolosi, non certo un passaggio facile; avevamo cercato a lungo un punto idoneo all’attraversamento la prima volta, ma ora non avevamo certo tutto quel tempo, non sapevo davvero come avremmo fatto. Fiancheggiammo il fiume, mentre la strada saliva sempre più, finché non scorsi delle rocce vicine tra loro: tre, per precisione, alte circa un metro e grandi abbastanza da poterci balzare sopra e attraversare così il fiume. Era l’unica salvezza in quel momento e non potevo assolutamente lasciarmela scappare.
– Dobbiamo salire su quelle rocce e attraversare il fiume! – Gridai a Cherie indicando con la mano libera le tre grandi rocce. Ci avvicinammo all’acqua, e dopo uno sguardo attento alle mie spalle constatai che della bestia non c’era più traccia al momento. Ci fermammo proprio davanti alla prima roccia e Cherie si accasciò al suolo poggiandosi una mano al cuore, ansimando.
– Cherie. – Dissi col poco fiato che avevo. – Non possiamo fermarci. – Le mie parole non riflettevano per niente le mie azioni. Anche io mi ero piegato con le mani alle ginocchia a riprendere un po’ il fiato, trovandomi ad ansimare così forte da non aver più respiro per parlare. Non potevamo permetterci un tale lusso, attendere un solo attimo in più poteva costarci la vita. Anche se attorno a noi c’era solo il rumore del fiume e la bestia sembrava scomparsa, niente mi assicurava che non sarebbe sbucata dai boschi da un momento all’altro. Cherie allungò una mano nell’acqua, si bagnò la faccia e poi bevve quel che poté.
– Dobbiamo andare o moriremo. – Le dissi una volta riacquistato un minimo il fiato. Le mie gambe bruciavano come se fossi stato messo al rogo, tanto le avevo sforzate. Più stavamo fermi, e più fatica avremmo fatto a riprendere la corsa. Inspirai come prima di una lunga apnea e mi alzai.
– Ce la fai? – Era accasciata a terra, ma il rossore sul suo viso fortunatamente era scemato un po’, ed il suo respiro più calmo.
– Sì, ora mi alzo. – Mi disse lei in un fil di voce.
– Vado prima io, così ti aiuto a salire. – Mi aggrappai al bordo della prima roccia dalla forma quasi quadrata, facendo forza sulle braccia per buttarmi sul lato superiore. Quello che vidi una volta salito mi provocò qualcosa di simile ad un’esplosione nel petto: la bestia era dall’altra parte del fiume, proprio davanti all’ultima delle tre rocce che costituivano il nostro passaggio, come se ci stesse attendendo. Finalmente aveva una forma: sembrava un lupo, ma molto più grosso. Il pelo era color grigio fumo, lungo, folto, ispido e sporco; aveva delle piccole orecchie a punta, il muso lungo e stretto, gli occhi innaturalmente rossi che brillavano come due rubini grandi quanto palline da tennis e dei denti lunghi e affilati. Dunque era davvero una bestia feroce, anche se certamente non una bestia “normale”. Non esisteva un animale al mondo che avesse quelle caratteristiche, specialmente i suoi occhi rossi; brillavano in un modo che saprei descrivere solo con l’aggettivo “sovrannaturale”. Non sapevo identificare la natura di quel mostro al momento, riuscivo solo a pensare che dovevo scappare, e che Cherie era ignara di tutto, poiché stava ancora seduta dietro alla roccia sotto di me. La bestia doveva essere molto intelligente: aveva anticipato la nostra mossa di attraversare il fiume, così aveva fatto dietrofront e si era messa ad aspettarci dall’altro lato. Ora non ci rimaneva che fare dietrofront a nostra volta e ripercorrere tutto il tragitto all’indietro; ma come avremmo fatto ad uscire dai boschi se la bestia ne presidiava l’uscita? Intanto mi guardava negli occhi con quei rubini rossi ed io sentivo il cuore battermi persino nelle tempie.
– Cherie. – Dissi senza interrompere il contatto visivo con l’animale, cercando di non alzare troppo la voce. – La bestia è qui a pochi metri da me. Ci sta aspettando dall’altro lato del fiume. Al mio via, comincia a correre. Fai il percorso inverso. Scatta e non ti fermare. –
Feci per chiamare Heaven’s Door, ma esitai. Era un rischio troppo grosso: il mio Stand era veloce, ma mai fulmineo quanto i riflessi di un lupo. Il mio minimo movimento poteva provocare lo scatto della bestia, che mi guardava pronta ad attaccare da un momento all’altro; non me la sentii di rischiare.
– Cherie, hai capito? – Chiesi alzando la voce, percosso da fortissimi brividi sulla schiena fradicia di sudore. Sentivo che il tempo stava per scadere. La bestia si stava preparando a saltare, e in un balzo mi sarebbe stata addosso.
– Cherie! – Nessuno rispose.
“Merda, merda, merda. Siamo rovinati.”
In quel momento desiderai aver dato ascolto alla mia parte razionale che il giorno prima mi aveva consigliato di mollare tutto e tornarmene a Morioh. Io l’avevo bellamente ignorata ed ora mi trovavo lì, faccia a faccia con una bestia feroce, in piedi su una roccia che tra l’altro mi impediva di scattare via con agilità.
Inspirai, facendomi forza. Mi voltai di scatto e balzai giù dalla roccia. Guardandomi attorno il più velocemente possibile constatai che Cherie era sparita. Il suo zaino giaceva a terra, esattamente dove si sarebbe dovuta trovare lei.
– Cherie! – Il mio grido scatenò la bestia. La sentii ringhiare e capii che stava per saltare sulle rocce e raggiungermi. Cosa potevo fare, se non correre? Scattai, veloce come la luce, persino più veloce di prima nonostante fossi esausto, voltandomi ancora per cercare Cherie, che non trovai da nessuna parte. Sperai che avesse seguito il mio consiglio, che si fosse messa in salvo, maledicendola al contempo per non avermi avvisato della sua fuga. Circa una quindicina di metri mi separavano dalla bestia e questo era già un bel vantaggio; decisi di infiltrarmi nel bosco dal quale eravamo scappati poco prima, ed eccomi di nuovo lì, colpito ripetutamente in faccia dalle fronde, a schivare i tronchi degli alberi sul sentiero battuto poco prima.
“Merda, ma dove si è cacciata?” Una morsa prese a stringermi lo stomaco. Non potevo permettere che le accadesse qualcosa, o che addirittura morisse. Mi consolai, pensando che perlomeno ora l’animale stava alle mie calcagna, permettendo a lei di trarsi in salvo. La sentivo terribilmente vicina coi suoi passi pesanti e i suoi respiri, quindi non poteva aver inseguito Cherie: nella migliore delle ipotesi, la ragazza ora correva dall’altra parte del fiume a mettersi in salvo e chiamare aiuto… Nella peggiore si era semplicemente nascosta, lasciando a me l’opportunità di abbattere quel mostro. E ci sarei anche riuscito col mio Heaven’s Door, se solo avessi avuto il tempo necessario di fermarmi e ferire quella bestia, così da poterla colpire e scrivere qualcosa sulle sue pagine. Ma così, costretto a correre a perdifiato tra quella boscaglia infinita, senza una meta precisa ed un piano elaborato, non ce l’avrei mai fatta. Prima o poi doveva pur presentarmisi l’occasione di cui avevo bisogno, dovevo solo correre un altro po’: era questo l’unico disperato pensiero che mi dava la forza di continuare a correre allo stremo delle forze tra la boscaglia che mi feriva il viso ed il terreno zeppo di ostacoli. La strada che prima avevamo percorso in salita ora si faceva sempre più in discesa: a quella velocità scivolare era facilissimo, bastava poggiare il piede male, o calpestare il punto sbagliato; fu proprio mentre pensavo questa spiacevole eventualità che il mio piede scivolò sul terriccio morbido ricoperto da foglie, segnando la fine delle mie speranze di salvezza. Cercai inutilmente di riacquistare l’equilibrio mentre il piede destro scivolava sulle foglie, ma prima che potessi solo pensare di aggrapparmi da qualche parte capitombolai sul terreno, ritrovandomi in un confuso turbinio di colori tra il verde ed il marrone. Rotolavo inarrestabile ad una velocità elevatissima, i rametti ed i sassi di cui era cosparso il terreno mi colpivano la faccia, provocandomi un fortissimo dolore. Provai ad allungare un braccio nella speranza di frenare aggrappandomi al terreno, ma data la velocità del rotolamento aggravata sempre più dalla fitta discesa, non riuscì nemmeno a sfiorare la terra. Il mio braccio si attorcigliò al mio corpo, schiacciato dal mio peso, fino a piegarsi nel rotolamento in un modo totalmente innaturale. Gridai per il dolore quando mia corsa ed il mio fiato furono arrestati dal mio schianto contro un tronco d’albero, che presi dritto nella schiena. Il colpo fu fortissimo ed altrettanto doloroso; venni sbalzato da un lato ed il rotolamento mortale finalmente si fermò. Gli istanti dopo lo schianto furono di buio e confusione totale; non vedevo niente ma percepivo il mondo girare ancora attorno a me, in preda una violenta vertigine. Sentivo dolore dappertutto, specialmente nella schiena e nel braccio; le orecchie mi fischiavano ed il cuore batteva fortissimo nel petto. Finalmente riacquisii la vista, mentre il giramento di testa andava placandosi; cercai di guardarmi attorno, ma era tutto ancora annebbiato. Non udivo rumori anche se il fischio nelle orecchie era cessato; cercai di muovere gli arti, constatando con enorme sollievo che tutti collaboravano nonostante il dolore: non mi ero rotto niente. Pensai che se non avessi avuto il mio zaino ad attutire lo schianto, probabilmente ora la mia schiena sarebbe stata spezzata in due. Mi portai le mani al viso, scoprendo così che sanguinava. Mi stropicciai gli occhi, cercando di togliere il sudore misto a terriccio e sangue, e finalmente la vista tornò normale: sobbalzai quando mi accorsi che la bestia se ne stava in silenzio a cinque o sei metri da me, osservandomi con quei suoi occhi atroci.
Dovevo scappare, ma non riuscivo nemmeno a mettermi seduto, figuriamoci alzarmi e correre; persino respirare mi era difficile in quel momento. Dunque era finita, era davvero finita, adesso. La bestia prese a ringhiare, scoprendo completamente le fauci bianche ed affilate. Notai solo in quel momento che l’animale che era magro, quasi deperito, ed anche il pelo risentiva di una certa trasandatezza. Forse era dovuto dal suo digiuno che durava da più di sei mesi, stando a quanto aveva detto Cherie. Un altro fremito mi percosse violentemente: Cherie. Una volta finito con me, quella bestia sarebbe andata da lei. Si era messa in salvo? Era uscita dai boschi? La morsa allo stomaco si fece ancor più stretta e dolorosa al pensiero che non l’avrei mai saputo. Non piansi, tantomeno urlai; non riuscii a fare niente di ciò che ci si aspetta da un uomo che sta guardando la propria morte negli occhi. Rimasi immobile, sdraiato davanti alla bestia, pervaso da dolori e pensieri di ogni tipo. Se fossi morto lì mi avrebbero dato per disperso come le altre centoventidue anime prima di me; Rohan Kishibe scomparso in una località sperduta in Italia… Una morte triste, non affatto degna di me. Ma la colpa era solo mia, pensai improvvisamente colto da una forte tristezza. Colpa mia e della mia curiosità, della mia costante ricerca del brivido.
La bestia mosse le zampe anteriori, come pronta a scattare verso di me; un ultimo, violento tremito mi colpii, l’ultimo dei brividi da me tanto ricercati. Era finita. Non avevo nemmeno le forze necessarie per usare Heaven’s Door, ed in ogni caso la bestia era fuori dalla sua portata al momento; quando vi sarebbe rientrata, non avrei nemmeno avuto il tempo di agire.
– Mi dispiace tanto, Rohan. –
Sgranai gli occhi. Quella voce rotta dal pianto… Era la voce di Cherie!
La ragazza arrivò da dietro le mie spalle. Il suo viso era pallido come un cadavere e bagnato di pianto.
– Cherie… – Abbozzai, confuso ed incapace di parlare.
Cherie guardò la bestia e quella ricambiò lo sguardo, cessando il suo ringhio terrificante. La ragazza mi guardò di nuovo, e fu allora che notai il bagliore rosso nei suoi occhi nocciola, lo stesso bagliore degli occhi della bestia.
– Mi dispiace davvero tanto. – Disse di nuovo scoppiando in un pianto silenzioso.
Dopo qualche secondo di confusione totale e sgomento per l’assurdità della situazione, la realizzazione di tutto ciò che stava accadendo mi colpì forte e dolorosa come uno sparo.
Riavvolsi i momenti passati con lei come in una vecchia cassetta, trovando un filo non più invisibile a collegare tutto: quando eravamo andati al bar il giorno prima, dopo pranzo, mi aveva detto di abitare a Chiavenna da otto anni; esattamente otto anni prima erano cominciate le sparizioni nei boschi. Rividi nella mente il modo vorace in cui lei mangiava ed il suo sembrar sempre malata e pallida, e li accostai al deperimento della bestia che le stava affianco in quel momento; pensai a come mi ero stupito dell’intelligenza della bestia che aveva anticipato la nostra mossa di attraversare il fiume, e mi ricordai di averlo detto a Cherie poco prima. Ricordai la leggerezza con cui Cherie aveva deciso di seguirmi nel bosco, assai inaspettata per una persona sana di mente, ed ora tutto trovava un senso. Dunque quello che mi trovavo davanti era uno Stand, anzi, lo stand di Cherie! Per quello non era mai stato trovato il colpevole di tutte quelle sparizioni, anzi, di tutti quegli omicidi: perché solo chi ha uno Stand è in grado di vedere gli Stand altrui.
“Lo senti anche tu?” Mi aveva chiesto Cherie all’inizio. “Lo senti anche tu dietro di noi?” Mi aveva chiesto di nuovo, mentre la bestia ci inseguiva: all’inizio mi era parso strano, ed ora capivo il perché di quelle domande insolite, specialmente la seconda: nessuna preda oltre me era mai stata in grado di vedere o sentire la bestia, mentre io ero un portatore di Stand, dunque riuscivo a percepirla. Ed era proprio perché ero un portatore di Stand che ero stato attirato al caffè Pestalozzi, la mattina precedente: tra tutti i bar che potevo trovare a Chiavenna, tra l’altro molti dei quali più vicini al mio hotel rispetto al suddetto, mi ero trovato lì perché i portatori di Stand si attraggono come calamite.
E' la legge del destino, i portatori di Stand, prima o poi sono destinati a incontrarsi”, come mi avevo detto il mio amico Koichi tempo prima.
Guardai Cherie che piangeva in silenzio, ed ero sicuro che l’espressione sul mio viso insanguinato rifletteva appieno lo stupore ed il dolore che stavo provando, non dovuto dalle ferite che avevo addosso, ma dal senso di tradimento che mi aveva ferito più di ogni altra cosa. Mi ero fidato di lei, preoccupato per lei, avevo persino rischiato la pelle pur di trarla in salvo, mentre lei mi aveva mentito fin dall’inizio con leggerezza e naturalezza, il suo intento finale quello di uccidermi. Non riuscivo a capacitarmene; pensai a quanto ero stato stupido e ingenuo, maledicendomi.
– Perché, Cherie? – Chiesi, la mia voce rotta.
Cherie cadde in ginocchio affianco alla bestia, che stava tranquilla come un cagnolino affianco al suo padrone. – Non sono nata assassina, lo giuro. Non ero così, un tempo. Avevo una famiglia. Dei sogni. L’amore. – Cherie fu interrotta da un singhiozzo che non riuscì a trattenere. – Poi un uomo mi colpì con una freccia e tutto cambiò. Questa bestia sbucò dal nulla e per poco non uccise tutte le persone che amavo. Capii che era collegato a me, che ero la sua padrona, e capii anche che potevo allontanarmi da lui, anche se non troppo. Tornai qui da mia madre otto anni fa quando stette male, e lo confinai in questi boschi. Per un po’ sperai di morire: perché se lui non mangia, deperisce e muore, ed io deperisco e muoio assieme a lui. Ero ad un passo dalla morte, fino a quando lui divorò due escursionisti, ed io stetti subito meglio, potevo finalmente vivere. Allora mi abbandonai al mio destino di assassina, perché non volevo assolutamente morire, Maestro. Io voglio vivere! Voglio stare accanto a mia madre, prendermi cura di lei ed accompagnarla nella sua vecchiaia. E se questo significa uccidere… –
Deglutii a fatica. Certo che moriva anche lei: se viene ucciso lo Stand, muore anche il portatore, ma lei ovviamente non poteva saperlo. Era molto strano, però. Che razza di Stand era quello? Non ne avevo mai visti di quel genere, né mai ne avevo sentito parlare. Uno Stand a lungo raggio che uccide le persone per sopravvivere, costringendo il portatore a commettere omicidi? Questo sì che era assurdo. Assurdo e terribile. Il sentimento di rabbia dovuto dal tradimento e dall’inganno venne affiancato da una nuova sensazione di pietà per quella ragazza in lacrime, la cui unica colpa era quella di voler vivere.
– Solo una persona è riuscita a vederlo prima di te. All’inizio pensavo di essere impazzita… –
Singhiozzò ancora. Guardavo il viso disperato di Cherie e sentivo una morsa che mi stringeva anche il cuore, oltre che lo stomaco. La sua disperazione era sincera, così come il suo dolore.
– Mi dispiace tanto, Rohan, ma con il diffondersi della leggenda dei boschi nessuno osa più venire qui, ed io sto morendo… Ma io non voglio morire… La mamma ha bisogno ancora di me… –
Il suo flebile lamento disperato si ruppe in un pianto violento, stavolta non più silenzioso.
Cercai di trovare la forza necessaria per dirle ciò che stavo pensando. Inspirai profondamente, pervaso da un forte dolore al petto.
– Tu non morirai, Cherie. E da oggi in poi non dovrai nemmeno più uccidere. –
La ragazza mi guardò e sgranò gli occhi. Non le lasciai nemmeno il tempo di parlare e presi subito con la mia spiegazione: le dissi che quello che aveva era uno Stand e le spiegai quel mondo di cui, nonostante facesse parte ormai da anni, non sapeva assolutamente niente.
Lei ascoltò tutto con gli occhi arrossati dalle lacrime che mi guardavano assorti, e notai la disperazione sul suo volto scemate mentre proseguivo col mio racconto. Le dissi infine del mio Stand e dei suoi poteri, e di come fossi l’unica persona in grado di salvarla.
– Posso cambiare le persone, Cherie. Posso fare in modo che il tuo Stand non debba più uccidere: basterà che tu sia in salute, e lo sarà anche lui. –
Gli occhi di Cherie vennero inondati ancora una volta dalle lacrime, ma stavolta erano lacrime di gioia.
– Puoi farlo davvero? –
Sorrisi spontaneamente. Le chiesi di avvicinarsi e lei mi raggiunse gattonando, un po’ insicura e confusa.
– Non ti spaventare. Ora metterò in atto ciò che ti ho appena spiegato. –
La ragazza annuì col capo, sedendosi accanto a me, la bestia immobile a qualche metro da noi. Inspirai, sperando di avere abbastanza forze per imprimere tra le sue pagine un comando di tale potenza, e chiamai Heaven’s Door, che apparì come un ologramma debole; non avevo più forze, e ovviamente ne risentiva anche lui. Cherie lo guardò con gli occhi nocciola colmi di stupore, come quelli di una bambina che guarda qualcosa che non ha mai visto prima. Dopo averla colpita cadde a terra ed il suo corpo si trasformò in pagine. Strisciando per avvicinarmi, diedi un’occhiata alla sua storia, sollevato nel constatare che non mi aveva mentito. Finalmente procedetti a modificare quello che c’era già scritto, riscrivendo completamente alcuni punti cardine della sua relazione con lo Stand.


Il suo corpo tornò normale al mio comando e lei si svegliò immediatamente, tornando a sedere con sguardo confuso.
– Fatto. – Dissi soltanto.
– …Fatto? – Ripeté lei incredula.
– Sì. – Risi brevemente. Lei non si era accorta di nulla. – Ora il tuo Stand non ha più bisogno di uccidere. Se tu sei in salute, lo sarà anche lui, senza il bisogno di mangiare le persone. –
Un’altra lacrima rigò il viso pallido della ragazza.
– Io ti ho mentito, ingannato e cercato di ucciderti, e tu mi hai salvato. – Mi disse. – Non sei arrabbiato? –
Inspirai, passandomi una mano sul viso sporco di sangue ormai secco.
– Eccome se sono arrabbiato. Ma… Ho visto sincerità nel tuo dolore, e sono contento di essere venuto qui. Se non ci fossimo mai incontrati sarebbe morta tantissima gente, e tu avresti vissuto la tua vita costretta ad uccidere. –
Cherie deglutì con lo sguardo basso. – Però non c’è niente che riporterà indietro le persone che ho ucciso. – Disse, piangendo ancora.
– No. – Dissi secco. La rabbia che ancora provavo nei suoi confronti non era legata solo al tradimento, ma anche al pensiero di tutte le persone che aveva condotto nella sua trappola ed ucciso. Uomini, donne, anziani, bambini… Mi domandavo con che coraggio avesse potuto, ma questo non glielo chiesi mai. Ero sicuro che la tormentasse abbastanza, e che mai avrebbe smesso di farlo.
Un violento capogiro mi colpii, ma cercai di tenere duro. – Pensa a ciò che puoi fare da adesso in poi, a come potrai rimediare al male che hai fatto. – Le dissi tentando di sorridere. – Pensa al tuo futuro, alle persone che puoi proteggere e salvare con questo bel bestione. –
Cherie si voltò a guardare il suo Stand, ancora seduto e docile come un cagnolino. – Pensi che potrò davvero usarlo per fare del bene? –
– Ne sono convinto. –
La ragazza annuì con decisione, illuminandosi in un sorriso che quasi mi commosse. – Certo che lo farò. Non sprecherò questa seconda occasione per niente al mondo. Lo giuro. –
Le sue parole, così come la sua commozione, mi sembravano estremamente sincere, e questo bastò a darmi la sicurezza che avrebbe mantenuto la parola data.
L’adrenalina che avevo avuto in corpo fino a quel momento bruciò in un istante, sostituita immediatamente da una pesantezza incredibile. Provato dall’esperienza appena vissuta, dalla paura, la corsa, lo schianto e dall’impegnativo lavoro che avevo svolto sulle sue pagine col mio Stand, ero ora arrivato allo stremo definitivo: sentì il corpo e la mente venire meno, e prima che potessi dire un’ultima parola, mi accasciai a terra e svenni.
***

In cuor mio non riuscii mai a perdonare Cherie per tutto quello che aveva fatto, non solo a me, ma a tutte le altre persone che aveva condotto alla morte. Tuttavia, se da una parte non riuscivo proprio a scusarla, dall’altra potevo capirla, e sapevo che da quel giorno in poi sarebbe stata una persona migliore. Dopo che svenni la ragazza mi riportò nella mia stanza d’albergo, sfruttando proprio quel suo Stand che aveva sempre maledetto fino a quel giorno, si assicurò che venni visitato da un dottore e mi lasciò per sempre, così come mi aveva trovato il giorno prima in quel bar dai graziosi tendoni bianchi.
Le mie ferite non erano poi così gravi: solo tanti lividi e tagli un po’ ovunque, ma almeno nessuna rottura. Mi rimisi in piedi il mattino seguente dopo un lunghissimo sonno, dolorante e pensieroso. Riflettei su quell’assurda esperienza riempiendo il mio taccuino di appunti e disegni, gustai qualche altro piatto italiano e finalmente dopo un paio di giorni me ne salii sul mio aereo per Morioh.
Non vidi più Cherie, mai più in vita mia, ma qualche tempo dopo seppi della nascita di una credenza popolare secondo la quale uno spirito protettore fosse sceso su tutta la Valchiavenna: persone scomparse nei boschi venivano trovate in tempo per essere salvate, esploratori di montagna dispersi ritrovavano la via di casa grazie ad una qualche misteriosa presenza, e sempre grazie alla suddetta molte persone sopravvivevano a frane, annegamenti nel fiume, incendi colposi… Insomma, tantissime vite salvate, certamente molte più di centoventidue.
Non so tutt’ora cosa provare quando ripenso all’esperienza vissuta a Chiavenna: mi viene da sorridere quando ci penso, ma mi sento anche molto triste. Se non altro ho imparato che il bene e il male sono due facce della stessa medaglia, che il male più oscuro può dar vita al bene più splendente, e la debolezza si può trasformare in forza sovrumana.
All’inizio mi ero chiesto perché, tra tutti i luoghi interessanti, avevo scelto proprio una località sperduta d’Italia: è vero che le cose più assurde capitano nei posti più impensabili, e mi sembrava questo il motivo, ma ormai mi era chiaro che i miei viaggi fossero determinati dal destino. Molto spesso ci illudiamo di star seguendo “la nostra strada”, ma altro non è che destino: esso ci porta dove c’è bisogno di noi, dove noi, con qualcosa che diamo per scontato come una piccola fiamma, possiamo illuminare i cammini che qualcun altro crede destinati a rimanere bui per sempre.
Un po’ troppo romantico, forse? Non lo so. So solo che tornai a Morioh con un bagaglio più pesante di quello con cui ero partito, e cosa più importante, con uno straordinario capitolo autoconclusivo in cui narravo delle incredibili casualità del destino, di mostri feroci, di fiducia tradita, di corse a perdifiato e del bene che alla fine trova sempre il modo di trionfare.



FINE


   
 
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