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Autore: Iria    24/08/2015    1 recensioni
Portata addosso, l’ametista allontana il senso di colpa e di autocommiserazione e aiuta a vincere i vincoli di schiavitù come l’alcolismo.
[One shot su Kotetsu, sul suo bracciale e sulla sua amicizia con Antonio].
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Kaburagi Tomoe, Rock Bison, Wild Tiger
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Umano, troppo umano (per un Eroe)'
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Ametiste
 
Kotetsu apre un occhio lentamente.
La luce del sole filtra delicata nella stanza e i fasci bianchi fendono lo spazio, andando a infrangersi sulle lenzuola del suo letto.
L’uomo si rigira fra le coperte per qualche altro minuto ancora, prima di sollevare il capo con un profondo sospiro.
Si passa una mano sul viso e, mettendosi a sedere, il braccialetto d’ametiste, che ogni sera e dopo ogni missione deposita sotto il cuscino, scivola al suolo.
Rabbrividisce.
Il suono si amplifica nelle sue orecchie, insopportabile e martellante.

In attesa nel suo locale preferito, tormenta per un istante i grani del bracciale che ha sempre con sé, gioca con la fede, quindi con un cenno ordina un bicchiere di whisky.
Di solito preferisce bere in compagnia, perché così il senso di colpa per quel vizio si fa meno opprimente, ma quando Antonio è in ritardo, si concede quel peccato in solitudine.
È qualcosa che ha imparato a frenare col tempo e se Lopez non ci fosse stato, forse Kotetsu a quel punto si sarebbe ritrovato con il fegato marcio e a un passo dalla morte. 
Dopo la perdita di Tomoe, la sua vita ha iniziato a prendere una piega pericolosa.
A ripensarci, trema e prova solo vergogna e raccapriccio verso le proprie azioni.
Ricorda come in quel periodo il lavoro fosse stato privo di risultati soddisfacenti: arrivava sulle scene del crimine con i sintomi del post-sbornia, e calata la sera tornava a ripararsi nell’alcol per sbiadire i ricordi del fallimento.
Casa sua è ancora un macello di bottiglie e di liquori, tuttavia può finalmente giustificarsi col fatto che sia solo troppo pigro perché pulisca.
Mette giù il bicchiere mezzo vuoto, spostandolo da parte e tormentandosi le mani in gesti nervosi.
Tende l’elastico del gioiello che indossa, poi lo lascia andare a pizzicargli dolorosamente il polso, quasi come una sorta di promemoria contro i pensieri stupidi.
Quelle ametiste sono un ottimo catalizzatore e un regalo quasi profetico.

Tomoe è incinta e la catena dei pensieri di Kotetsu è un treno a tre sole fermate.
Lavoro – Tomoe – Il nostro bambino.
Ha un sorriso più idiota del solito, la risata più alta e rumorosa, offre da bere a tutti i colleghi e Antonio lo asseconda con piacere in quelle sciocchezze.
È il suo compleanno quando Tomoe gli annuncia che il loro bambino in realtà è una bambina.
Lo fa tendendogli un pacchettino, ma gli occhi di Kotetsu sono spalancati a contemplare una felicità invisibile e troppo grande da poter essere in qualche modo contenuta.
Abbraccia la moglie, la bacia con una delicatezza attenta che scandisce un “Ti amo” percepibile in ogni tocco e in ogni sguardo.
La gioia che lo pervade è quasi sfiancante e con essa, da un punto remoto della sua povera testa, si affaccia il timore di non riuscire a essere un buon genitore.
Deglutisce a quella possibilità e solo allora Tomoe richiama l’attenzione del marito sul suo regalo di compleanno.
Un bracciale di ametiste.
“Per far cessare le paure, infondere coraggio e lasciar nascere la speranza”.
La donna gli illustra fiera gli effetti delle belle pietre e Kotetsu la ringrazia in un sorriso.
Indossa il gioiello e lo fissa a lungo, giocando di tanto in tanto con i grani freddi contro il polso.
“Vorrà dire che mi toccherà tenerlo sempre con me”. Dichiara con tenero divertimento, sedendo con la moglie sul divano e poggiando delicatamente il capo sul suo pancione.
Chiude gli occhi.
Tomoe gli carezza i capelli canticchiando.
La creaturina nel grembo della donna lo saluta con un lieve colpo.

Portata addosso, l’ametista allontana il senso di colpa e di autocommiserazione e aiuta a vincere i vincoli di schiavitù come l’alcolismo.
Kotetsu ha saputo di quelle proprietà solo dopo la morte di Tomoe, in quei mesi di sopravvivenza in cui le sue giornate iniziano con un bicchiere di vino, per poi annegare sul fare della sera nell’oblio di una bottiglia di liquore. 
Ricorda il grumo amaro e bruciante in gola, il tremore delle mani, il cibo dapprima accompagnato e poi sostituito da qualche bicchierino, solo uno, sul serio.
Non potrà mai dimenticare il viso infuriato di Antonio in quei giorni. Sul calare della tarda sera, dopo il rientro da questa o da quell’emergenza, l’uomo non si risparmia di strapazzarlo.
Le prime volte c’è una preoccupazione violenta nei suoi gesti: il vecchio amico lo bracca, lo strattona e gli grida contro, ma Kotetsu sembra sordo, muto e cieco.
Alza gli occhi per guardarlo, però c’è solo una patina di vitrea incomprensione nel suo sguardo e Lopez non può far altro che calare le braccia e rilassare i pugni con frustrata rassegnazione.
Poi, il buon Rock Bison inizia ad accompagnare a quelle prediche degli sguardi sempre più impauriti
“Hai per caso intenzione di farti ammazzare?”
Giusto un po’.
No, forse no.
C’è Kaede.
“Certo che no… che diavolo vai blaterando?”
L’alito di Kotetsu sa di alcol e si avverte una tinta di aspra ubriachezza in ogni parola.
Antonio è incredulo e dannatamente deluso.
Lopez lo afferra per le spalle, e Kaburagi sembra non riuscire più a contenere una furia che non ha nulla di sano: è disperazione, rabbia liquida che sgorga dal suo petto e gli rende il viso simile a quello di una bestia ferita.
Ruggisce.
Attiva i poteri per puro istinto di sopravvivenza, come non gli accade da tempo, e lo fa per proteggersi, difendersi dall’amico di sempre e dal suo inutile, inutile, insensato aiuto. In un angolo del suo cervello dove la lucidità ancora sopravvive, qualcosa lo supplica di fermarsi e di non fare sciocchezze; però ora Kotetsu è puro e semplice furore, di quelli sulla linea di confine fra salvezza e baratro.
Forse voglio davvero morire.
Antonio non può fare altro che proteggersi, utilizzando le capacità Next: c’è la sua pelle dura come una corazza a subire e ad ammortizzare tutti i colpi di Kotetsu, quei pugni scagliati alla cieca e quelle parole di odio vomitate nello slancio dello scontro.
Cinque minuti.
Cinque minuti in cui resta fermo sotto i vaneggiamenti dell’amico, in cui lo guarda negli occhi e vede delle lacrime incapaci di sciogliersi.
Se piango, lei se ne sarà andata per sempre.
“Kotetsu…”
Kaburagi si ferma e trema, perché ha ferito Antonio, nonostante tutto.
C’è del sangue sulle sue nocche.
Un po’ gli appartiene, un po’ è dell’amico.
Brucia.
“Mi… mi dispiace…”
“Lo so.”

Realizzare di star toccando il fondo, però, non è mai davvero abbastanza.
In certi casi, è necessario ritrovarsi del fango in bocca, per essere in grado di comprendere quanto controllo si sia perso di se stessi e della propria umanità.

Kotetsu non beve da qualche giorno e Antonio, che si è trasferito momentaneamente sul suo divano, lo sta aiutando a fare ordine anche nella sua vita.
Gli tiene la testa quando Kaburagi si ritrova sul water a rimettere l’anima, raccoglie tutto ciò che sfugge alle mani tremanti e deboli dell’amico e gli fa compagnia con chiacchiere mezze lucide quando l’insonnia non lascia scampo.
Non è facile.
Non è bello.
Non è divertente.
Kotetsu sa che deve tutto ad Antonio: la sua dignità, la sua vita, la possibilità di vedere crescere Kaede.
È con lui a ogni passo, a ogni bottiglia svuotata nel lavabo e a ogni attacco che lo trafigge incontrollabile.
Non hanno potuto chiedere una vacanza dal lavoro, non hanno neanche potuto comunicare le ragioni per cui ne avrebbero avuto bisogno: Kotetsu sarebbe stato licenziato e Antonio dritto spedito a compilare scartoffie.
Agivano, quindi, con cautela: si guardavano le spalle e al diavolo i punti, per un po’.

L’incubo è iniziato quando un pazzoide ha cominciato a prendere in ostaggio ragazzini, bambini innocenti.
Bang-bang.
Ha catturato un marmocchio per ogni eroe, impostato per ogni ritardo un colpo di pistola e per ogni mancato traguardo ha ben pensato a un sanguinolento premio di consolazione.
Un po’ di materia grigia per le strade, qualche giovane organo precotto inviato alle agenzie degli eroi.
È sadismo ingiustificato, il desiderio di piantare il seme della disperazione, della paura e della sfiducia in ogni cervello sottosviluppato.

Kotetsu si porterà impresso nella memoria il ricordo del suo ostaggio per il resto della propria esistenza.
È un bambino di colore, ha i grandi occhi sbarrati dalla paura e la bocca impastata di sangue: il verme gli ha tagliato la lingua in due.
Wild Tiger è debole.
Ha la vista appena annebbiata e le mani che tremano.
Non avrebbe dovuto essere così esitante.
Avrebbe potuto attivare il suo potere qualche secondo prima che fosse troppo tardi.
Ma quando si frappone fra l’arma e il piccolo legato, il proiettile è già partito: gli attraversa la spalla e si conficca dritto in mezzo agli occhi della vittima.
Un suono umido e disgustoso, come qualcosa di molle che, cadendo, impasticcia tutto il pavimento.
Lo sguardo di vacuo orrore del bambino sarà un fantasma costante: in quelle iridi spente, ha visto la sfumatura di una speranza tradita e finita in pezzi nella consapevolezza della morte.

Kotetsu si è chiuso in casa.
Da quando è rientrato dall’ospedale con l’ordine di tornare per cambiare la medicazione alla ferita, non ha neanche più risposto alle chiamate.
Anche Antonio non si è ancora fatto vivo sulla soglia di casa, e per un attimo considera che forse persino lui abbia rinunciato a riordinare i pezzi della vita del povero Wild Tiger. 
“Papà?”
C’è un bussare incessante alla porta.
È lieve, debole e continuo, sembra il pugnetto di un bambino che batte insistente contro l’uscio di casa.
Gli sembra la voce di Kaede.
Ma è impossibile.
Forse è solo un’impressione dovuta al dormiveglia, alla dannata stanchezza e alla voglia di chiudere gli occhi senza più riaprirli.
Sul divano, immobile nel semi-ordine lasciato da Antonio l’ultima volta che è stato lì, Kotetsu fissa con espressione vacua il bracciale di ametiste al polso.
Quello sguardo è spento, vuoto, perso in un ricordo che sembra appartenere ad una vita non sua.
È un po’ più largo: l’eroe ha perso molto peso in quegli ultimi mesi.
“Papà?”
La vocina appena ovattata dalla spessa porta d’ingresso arriva più alta e squillante, e Kaburagi si riscuote di colpo.
Kaede è davvero lì?
Non può mostrarsi in quel modo.
Non può aprire la porta e spaventare la sua bambina con quella che non è altro l’ombra di un genitore.
Non può…
“Ti prego, resta sempre un eroe, qualunque cosa accada. Promettimelo.”
Kotetsu è terrorizzato.
Una rivelazione orribile, un senso di inadeguatezza e di impotenza lo colgono a quei soli pensieri, e il bracciale di ametiste gli scivola dal polso, cadendo rumorosamente sul pavimento.
Se mollo tutto, rinuncio a Kaede.
Se mollo tutto, rinnego la mia promessa e ciò che resta di
lei su questa terra.
Un dolore atroce lo attraversa e di certo non è la ferita che brucia con insistenza: gli afferra il cuore, lo stringe e gli mozza il fiato, perché Kotetsu è un debole e un incosciente e ha tutto ciò che gli serve per vivere proprio lì, fuori da casa.
Allora, afferra le ametiste in pugno e si alza in uno scatto, aprendo di colpo la porta.
Kaede è piccola tra le braccia di Antonio, che la regge per aiutarla a bussare.
L’amico lo guarda e la tristezza infinita nel suo sguardo muta in serenità, quando Kotetsu spalanca l’uscio e lì resta a fissarli come fosse un pesce lesso.
La piccola ha un pacchetto stretto contro il petto, e osserva il genitore con i grandi occhi scuri spalancati e tinti di infantile preoccupazione.
“Cos’hai, papà..?” Tenta la bambina, mentre Antonio la poggia a terra, per permetterle di avvicinarsi al genitore.
Kotetsu non sa cosa fare.
Ha un groppo alla gola che gli impedisce di articolare anche la frase più elementare; e nel cuore si agita il desiderio di chiedere perdono alla sua bambina, a quel tesoro prezioso e delicato che è lì e lo guarda dal basso come se fosse la sicurezza e la speranza più incrollabile che esista nel suo piccolo mondo.
Kaede muove un passo e con la sua mano afferra le dita del padre, grandi e fredde.
Lo guarda ancora, gonfia indispettita le guance rosate e fa più salda la presa, quasi a voler trasmettere il calore di quel tocco al genitore.
Quando sembra funzionare, gli sorride; e a quel punto Kotetsu non riesce a trattenersi oltre.
Si abbassa all’altezza della figlia e la abbraccia, stringendola.
Kaede non capisce.
Però sente il suo papà meno forte e più triste, e non può permetterlo: ricambia a sua volta, desiderando di essere giusto un po’ più grande per riuscirci davvero.
Allora, l’uomo chiude gli occhi, avvertendo le lacrime forzare il loro incedere, sapendo quanto sia inutile, a quel punto, tentare di trattenersi.
“Buon compleanno, Kotetsu.” Bisbiglia Antonio, guardando in silenzio quella scena.
“Buon compleanno, dannato idiota.”
Avrebbe voluto ripetergli, mentre Kaburagi, prendendo la figlia in braccio, si allunga per stringere anche il vecchio amico.

Nel suo cuore c’è meno desolazione, mentre scarta il bel cappello che gli è stato regalato. C’è meno desiderio di autodistruzione, quando Kaede crolla addormentata nel suo letto e Antonio lo aiuta a rimettere a posto le ultime cose.
“Grazie.” Lo bisbiglia di punto in bianco, riordinando i piatti della cena in cucina e Lopez sorride tra sé nel suo bicchiere di tequila.
“Figurati.”
È stata forse una parola banale, ma in essa c’è tutto il peso dell’universo di Kotetsu, dei suoi legami e di ogni suo sentimento e Antonio l’ha capito.
“Domani va’ in ospedale a farti vedere quella spalla e poi prepara la tua lettera di scuse per gli sponsor. Io ti ho coperto il più possibile, ma la parte umiliante ti tocca in esclusiva.” Sogghigna però dopo qualche attimo, e Kotetsu sorride appena.
Sfiora con la punta delle dita il cappello appena ricevuto e riposto con cura nella sua scatola, e finalmente riavverte il proprio cuore tornare a battere con regolarità.
“Hai proprio ragione.”

“Scusa per il ritardo. Hai lasciato qualcosa per me?” Antonio si siede al suo fianco con un  sospiro, e lo guarda per un istante a metà strada tra un’espressione mortalmente seria e una divertita.
Kotetsu, però, scuote il capo con un mezzo ghigno, e solleva due dita in direzione del barista, che afferra l’ordine.
“Sempre più vicino ai quaranta, sembra.” Lo prende in giro Lopez, ringraziando con un cenno quando riceve il suo bicchiere.
“Già. Chi l’avrebbe mai detto, mh?” Sta al gioco Kotetsu, battendo appena il suo drink contro quello di Antonio.
Sorridono entrambi su uno stesso pensiero, rimanendo a lungo in silenzio.
“Altri cento, Kotetsu.” Dice d’improvviso Rock Bison, sollevando il proprio bicchiere per fissare il liquore in trasparenza.
“Pretendo altri cento di questi giorni in cui mi offrirai da bere.” Specifica, mandando giù l’alcol in un sorso e ordinandone dell’altro.
“Oh, sarà la mia rovina.” Sorride allora Wild Tiger, ben sapendo che quello è il minimo che potrebbe fare per Antonio.
Il suo sguardo, quindi, si posa sul bracciale d’ametiste che brilla nella fioca luce del locale.
Lo sfiora appena, considerando con calda euforia che è trascorso un altro anno in cui è riuscito a mantenere la sua promessa.
Tuttavia, non ha neanche il tempo di concludere un simile pensiero, che il suo PDA e quello di Antonio iniziano a brillare.
Allora, Kotetsu si alza, lasciando un bel gruzzolo per il barista sul bancone.
“Con permesso, ti precedo, amico!” Afferma, già a metà strada verso l’uscita e Antonio, del tutto preso alla sprovvista, non può far altro che inseguirlo, indispettito.
Oh, non ha neanche la possibilità di festeggiare un compleanno in tutta tranquillità…
“Bonjour, Heroes!”
E, in fondo, a Wild Tiger va più che bene così.
“Let out a wild roar!”

*Owari*

Note


Alla fine, sembra davvero che sia riuscita a scrivere anche questa fic su Kotetsu e devo dire di essere abbastanza soddisfatta del risultato!
Preferisco quella su Barnaby, ammetto, ma sono piuttosto contenta di aver potuto scrivere sul mio amato Wild Tiger e, soprattutto, sul suo rapporto di amicizia con Antonio.
Spero che questa shot possa essere piaciuta a chiunque sia stato in ascolto e sia arrivato fin qui. uvù
Grazie mille per il vostro tempo, spero di poter scrivere anche l’ultima delle shot che mi ero programmata (totalmente sul rapporto tra Barnaby e Kotetsu, in questo caso).
Un saluto e un abbraccio.
Iria
   
 
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