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Autore: LadyFrenny    25/08/2015    0 recensioni
Un danzatore, Amante della sua vita, racconta nella mente una delle sue tante giornate pensando a lei-
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Pioggia.
Tanta pioggia, pioveva ininterrottamente da quando avevo aperto gli occhi di mattina. Era una di quelle tante giornate che amavo. Perché la gente odia la pioggia? È una melodia naturale che rilassa le giornate invernali, qualcosa che da vita alla natura selvaggia, che rinfresca le giornate estive.
Mi dava conforto.
Delle luci creavano l’atmosfera tutta in torno a me, abbaglianti, non vedevo nulla oltre quello che si estendeva la sala, forse intravedevo solo tante teste di milioni di persone sedute a guardarmi.
Un palco.
Non era uno di quelli su cui mi esercitavo, né uno di quelli che mi toccavano quando da piccolo dovevo esibirmi in qualche balletto.
Ora ero lì, a volteggiare su quell’immenso palcoscenico che riusciva a raccogliere i miei spostamenti incorniciandoli come su uno schermo. Dietro il nulla, avanti il nulla, tutto nero tranne io, ero vestito di bianco con una di quelle solite tutine aderenti e coperto da una comoda camicia. Tutti potevano vedermi, io non vedevo che le ombre delle loro teste, anzi, non sentivo il bisogno di guardare nessuno.
Per me essere su quel palco era tutto, un desiderio coltivato per anni arrivato al termine. Forse non proprio tutto.
C’era dell’altro che occupava un piccolo spazietto nel mio cuore.

Avevamo preso due strade differenti, io lì a creare passi nella mia lunga danza, lei altrove, a dipingersi il futuro forse nelle braccia di qualcun altro.
No non lo avrebbe mai fatto.
Ricordo che solo ieri ero accomodato sul mio divano in un soggiornino modesto, molto stanco dopo le tante preparazioni che affrontavo ogni giorno. Il pc era sul tavolino di fronte ai miei occhi e nello schermo vedevo la sua immagine muovesi come solo lei sapeva fare. Sbadata, goffa, bambinesca, anche stupida molte volte, era ciò che mi riempiva gli occhi nei momenti in cui cercavo la spina da staccare.
Quasi tutte le sere facevamo Skype, la tecnologia inventava cose utili ogni giorno ma per me era una di quelle indispensabili a vivere. Non bastava una telefonata per sentirne la voce, non bastava una foto per vederne il viso, non bastava un messaggio per esprimere le tante cose che volevo dire. Una semplice videochiamata riusciva a saziarmi, solo per poco, almeno il tempo di andare a letto e non pensarci più.
E poi ricominciare con la mia vita. E’ crudele, questo. Condurre la propria vita come se nulla fosse e poi tornare a ricordare una parte della vecchia che non vuoi staccare via del tutto.
E’ così che lei definiva la faccenda, crudele.
Sono strano, lo ammetto, odio questa mio carattere eppure a lei non importa, lo giudica come una parte indispensabile a fare ciò di cui non può fare a meno.
Mi chiedevo come facesse a sopportami, come faceva ad andare avanti con una forza che a me mancava molte volte quando mi sentivo crollare le mie fantasie a dosso, come. Mi sentivo come un veleno, uno di quelli che prendi pensando facciano bene ma io ero una sua dipendenza.
Non è difficile finchè si ha qualcuno a cui dare la buonanotte” la stessa risposta ogni volta che provavo a capire cosa le passasse per la testa. Sono un illuso a credere che possa capirlo, spesso non so cosa passa per la mia, figuriamoci nella sua. Bastava parlarci per capire che la sua testa non viveva con noi ma altrove, in qualche mondo di fantasia dove nessuno si prende carico delle proprie responsabilità adulte.
Pensavo.. come può una persona non ancore cresciuta sembrare allo stesso tempo tanto grande?
Cedevo ogni tanto, cominciavo a parlare veloce, arrabbiato, le parole uscivano prima dalla bocca e poi passavano nella mia ragione, è questo che odio maggiormente di me. Cose cattive, molto cattive uscivano dalla mia mente stanca eppure rimaneva lì ad ascoltarle, a cercare di farsi carico di quello che non volevo mostrare a nessuno, ad insultarmi nei finali tragici di una discussione, a tirarmi su di morale con parole che ammetto, spesso non hanno un senso per come la penso io.

Un salto, era uno dei primi che facevo dopo aver iniziato lo spettacolo, farlo mi rendeva una persona libera, ansi nel complesso la danza mi rendeva libero da tutto. Finchè il mio corpo seguiva la mia anima agitata non potevo lamentarmi di nulla.
Le negatività sparivano, i pensieri cessavano, rimanevo solo io, il palco e la danza. Forse ero concentrato ma direi che era la concentrazione a dipendere da me, non ne avevo bisogno, Faceva tutto il mio corpo, al massimo io potevo ricordare i passi e le emozioni che mi spingevano.
Il mio volto era espressivo anche se non pensavo affatto a come guardavo il resto, me lo diceva sempre lei, se mai avesse voluto disegnarmi nel mentre della mia opera voleva catturarne la mia espressione, ma si sa, non riuscita.

Ieri discutevamo su questo, voleva che le portassi qualche foto che avrebbe fissato per giornate intere. Me lo aveva confessato, le guardava fino alla nausea e poi ne cercava delle altre, mi viene da ridere ma non posso, ora sono troppo preso dall’ascoltare la musica che dettava i miei passi.
Cosa si prova a fare un inchino? A stare di fronte a tutti? Ad essere in alto?
Erano le uniche domande che la gente faceva per caso se sapeva che il tuo lavoro era il danzatore professionista, cosa che io non per vergogna, evitavo dire. La gente non capisce nulla finchè non prova, parlare a vanvera aumentava il mio sarcasmo pungente che rigettavo verso di loro. Se loro capissero, mi chiederebbero solo una cosa: Cosa si prova a danzare?
Per mia fortuna qui è pieno di idioti, confesso che se qualcuno mi chiedesse qualcosa di simile non saprei rispondere, non c’è risposta a questo. Quando lei me lo chiedeva, preferivo evitare il discorso e parlare di altro, distrarla con battutine infelici, per fortuna capiva.

Ero a terra, rannicchiato in una posizione apparentemente scomoda, in realtà non sentivo nemmeno dolore dopo le tante volte che la provavo. L’aria era una pioggia di applausi.
Mi chiedo se il mio cuore mi formicoli per quel rumore a me dedicato o solo perché sono arrivato alla fine di un pezzo della mia arte. Ora si che potevo sorridere, dietro le quinte, ma da solo, nessuno era lì ad aspettarmi per congratularsi. I miei amici, nuovi amici di carriera, erano tutti concentrati a guardare l’orologio attendendo il loro turno, questo era triste. Forse non aveva tutti i torti quando diceva che una vittoria è bella ma fantastica quando c’era qualcuno a cui raccontarla e, lì non c’era nessuno.
Strinsi la mano del proprietario del teatro, uomo avido dei suoi averi ma un gentiluomo verso i suoi collaboratori, quello significava solo che poteva andare avanti e basta attendendo qualcosa di più grande.

Mi capitava spesso di passeggiare per le strade affollate di New York, piene di luci che ti accecavano gli occhi se uscivi da un posto scuro, si respirava una vita frenetica ed un tempo che inseguiva i passanti consumati dal lavoro. Parcheggiavo la macchina lontano apposta, volevo solo osservare quelle strade immense che a casa mia non esistevano, eh chissà come stavano a casa, non lì sentiva spesso. Fra quel milione di persone frettolose, ero l’unico che andava di tutta calma, si anche per la stanchezza, però nessuno mi aspettava a casa.. o forse si.
Aprivo la porta e lei era seduta su una poltroncina a leggere alla luce di un lumino, in pigiama, rannicchiata sul cuscino come un gatto assonnato. Mi veniva da ridere ogni volta che la trovavo lì a leggere, nonostante fosse una di quelle persone che venivano assalite dal sonno ad una certa ora della sera, aspettava il mio ritorno.

Meno male che lo sognavo solo tutte le notti, se solo per caso mi capitava di pensarci mentre ballavo poteva costarmi la carriera, in passato ero già caduto una volta in modo stupido per una distrazione simile. Ecco cosa era crudele, dimenticare per un lungo tempo le emozioni personali ed assimilare quelle richieste dalla musica. Alla fine a me non dispiaceva affatto ma era come se vivessi due vite, una tirata avanti con una maschera ed un’altra dove potevo essere me stesso.
Indovinate qual’era quella che vivevo con la maschera?

Salii in macchina ed infilai le chiavi per accendere il motore, mi aspettava un po’ di strada per il mio appartamento di città, preferivo prendere la metro solitamente ma in questo giorni ho bisogno di starmene solo a pensare. Presi il portachiavi, ne aveva circa trequattro attaccate, una di quelle apriva l’appartamento. Misi la mano sul pomello ed aprii la porta per poi lasciarmela alle spalle e chiuderla.
Il corridoio era buio ma, una luce fioca passava nell’ombra, proveniva dal soggiornino dove solitamente mi mettevo a parlare con la mia ragazza, avevo scordato qualcosa acceso? Forse il pc?

Fermo sulla soglia della porta la vidi, su quella solita poltroncina rannicchiata a leggere.
   
 
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