Benvenuti all’ultima shot della serie “Jane Watson
di Baker Street”, iniziata assolutamente per caso, ma che spero vi abbia tenuto
compagnia in questa calda estate.
Io mi sono divertita molto a scriverla e mi auguro
che sia stato divertente per voi leggere le varie shot.
Ringrazio tutti quelli che abbiano letto le varie
storie e che le abbiano segnate fra le preferite/ricordate/seguite.
Ringrazio tutti quelli che mi abbiano lasciato
qualche riga di commento, anche quelli che hanno criticato le storie, perché si
impara sempre da tutto.
L’ultima storia è piuttosto malinconica.
Quello che posso dirvi è che ho deciso di non darle
una collocazione temporale precisa, quindi lascio decidere a chi legga quando
far accadere quello che succederà!
So che sono sibillina, ma capirete leggendo. J
I personaggi non mi appartengono, ma sono degli
eredi di Sir Arthur Conan Doyle, delle menti diaboliche di Steven Moffat e Mark
Gatiss, della BBC.
Questa shot non ha scopo di lucro.
Se dovesse esserci qualcosa che ricordi altre
storie, chiedo scusa, ma sarebbe involontario.
Buona lettura! J
Mani
John è sdraiato sul letto d’ospedale.
Non è molto consapevole di quello che succeda intorno
a lui.
Sente, però, che le sue mani sono strette da altre
mani, che si attaccano alle sue per trattenerlo ancora un po’ con loro.
John continua ad entrare ed uscire da uno strano
stato di incoscienza durante il quale non sogna, ma ricorda.
Ricorda le mani che stanno stringendo le sue.
Le mani di Jane e Sherlock.
Delle due persone più importanti della sua vita.
Il primo ricordo in assoluto che ha della sua
bambina, riguarda la nascita di Jane.
Quelle piccole manine, chiuse in pugni adirati per
essere state estratte da un posto caldo e sicuro e fatte piombare in un mondo
freddo ed ostile.
Quando il collega che l’aveva fatta nascere gliela aveva
messa in braccio, John aveva contato le dita delle mani e dei piedi,
controllando che fossero tutte presenti ed al loro posto.
Solo quando aveva finito quel controllo, era
riuscito a respirare ed a sorridere.
Sempre quelle manine minuscole, si stringevano
attorno al dito di Sherlock, mentre lui le stava dando il biberon.
Un sorriso orgoglioso e felice si era dipinto sulle
labbra di Sherlock, perché quel piccolo fragile essere, con quella stretta
forte e decisa, gli aveva concesso la sua illimitata fiducia.
Era stata la prima volta in cui John aveva pensato
di baciare Sherlock, ma non lo aveva fatto per paura di rovinare la loro
amicizia.
Crescere un bambino è scoprire di nuovo il mondo,
imparare a fare tutto da capo.
Anche camminare.
Lo avevano aspettato impazienti nel salotto di
Baker Street, di ritorno da un turno in ospedale.
Chissà quanto si erano allenati.
La bambina dalla testolina bionda sembrava
minuscola fra le gambe dell’uomo alto e moro.
Jane stava stritolando i lunghi indici affusolati
di Sherlock, che la aiutava a muovere i primi passi.
John li osservò attraversare sicuri e sorridenti il
salotto, per accoglierlo.
Quando lo avevano raggiunto, John aveva preso in
braccio Jane, accarezzandole la testa, poi aveva guardato Sherlock.
I suoi occhi così azzurri da essere quasi
trasparenti brillavano felici perché era riuscito a sorprendere John.
Il dottore aveva avvicinato le proprie labbra a
quelle del consulente investigativo e lo aveva sfiorato con un bacio veloce.
Sherlock non si era tirato indietro.
Le mani morbide dalle dita affusolate avevano
afferrato delicatamente il viso di John avvicinandolo al proprio, per quello
che sarebbe stato il loro vero primo bacio.
Intanto, i passi di Jane diventavano sempre più una
ricerca di indipendenza.
John e Sherlock sorridevano sorpresi, mentre guardavano
quel piccolo miracolo ambulante che tentava di correre, oscillando pericolosamente,
da uno all’altro.
Jane rideva felice, mettendo avanti le braccia ed
allargando le dita il più possibile, come se quell’apertura le permettesse di
volare.
John e Sherlock trattenevano il fiato fino a quando
Jane non raggiungeva uno dei due e lo abbracciava, quasi strangolandoli, con
una risata gorgogliante ed orgogliosa, per poi ripartire verso l’altro.
Se le capitava di cadere, li guardava stupita, come
se chiedesse perché fosse in terra, ma non piangeva e si rialzava, riprendendo
il suo traballante percorso.
Quelle piccole manine erano sempre state
l’espressione primaria e sincera dei sentimenti di Jane fin da neonata.
Quelle manine che stringevano forte e convulsamente
quelle del padre, quando aveva paura.
Quelle manine che diventavano un pugno furioso,
quando era arrabbiata.
Quelle manine che erano una carezza delicata sul
suo viso.
Jane adorava sentire Sherlock suonare il violino.
Era affascinata dai movimenti eleganti ed armoniosi
delle mani di Sherlock.
Poteva rimanere ore ad osservarlo, affascinata.
Spesso tentava di ripetere i movimenti che vedeva o
muoveva le mani in aria, come se volesse dirigere la musica suonata da
Sherlock.
Sherlock faceva finta di non vederla, ma John
sapeva che suonava per lei, che si metteva in modo che Jane potesse osservare
al meglio ogni sua mossa.
John lo capiva dal lieve sorriso che increspava le
labbra di Sherlock quando Jane riusciva a ripetere un movimento nuovo o
difficile.
Aveva trascorso ore ad osservarli interagire in
questo modo silenzioso, quasi che la danza delle loro mani fosse una specie di
linguaggio segreto che solo Jane e Sherlock potessero capire.
Il primo giorno di scuola la avevano accompagnata
insieme.
John le teneva una mano.
Sherlock l’altra.
Jane in mezzo, che parlava e li assicurava che
tutto sarebbe andato bene.
Aveva voglia di imparare tante cose.
La tentazione di non lasciarla entrare in quella
scuola grande ed oscura era stata tanta.
John fu il primo a mollare la mano.
Sherlock la trattenne ancora un attimo, si abbassò
all’altezza degli occhi di Jane e li fissò serio:
“Se qualcuno fa il bullo, ricorda che dare un
calcio in mezzo alle gambe mette tutti al loro posto.”
John sapeva che avrebbe dovuto intervenire, dire a
Jane che i suoi compagni erano simpatici e che non avrebbe dovuto difendersi da
nessuno, ma sapeva anche che per Sherlock non era stato facile crescere nel
mondo perfido dei bambini e aveva taciuto.
Jane aveva annuito vigorosamente, stringendo più
forte la mano di Sherlock, per dare maggiore enfasi alla propria risposta.
Sherlock aveva trattenuto quella piccola mano
ancora un po’, quasi titubante a volerla lasciare andare.
Quando Jane gli aveva dato un bacio sulla guancia,
sorridendogli, Sherlock la aveva finalmente lasciata andare.
Jane era corsa verso la scuola, voltandosi indietro
per salutarli, con un gesto della mano.
John e Sherlock avevano risposto al saluto, ma
erano rimasti ancora lì.
John aveva preso la mano di Sherlock e la aveva
stretta forte:
“Andrà tutto bene. – lo aveva rassicurato – Jane è
una bambina in gamba.”
Sherlock aveva ricambiato la stretta, continuando a
fissare l’ingresso della scuola:
“Sì, lo è.” Aveva sussurrato.
Erano tornati a Baker Street, ma Sherlock non era
riuscito a concentrarsi su nulla.
Erano arrivati alla scuola con quasi mezz’ora di
anticipo sull’uscita dei bambini.
Sherlock si era rilassato solo nell’istante in cui
aveva visto il volto sorridente di Jane che li salutava entusiasta.
Jane era corsa da loro, li aveva abbracciati ed
aveva afferrato le loro mani, iniziando a raccontare il suo primo giorno di
scuola nei minimi dettagli.
La manina era cresciuta e lui l’aveva stretta
orgoglioso e commosso il giorno in cui l’aveva accompagnata all’altare
dall’uomo con cui aveva scelto di formare una propria famiglia, palese
dimostrazione dell’inizio di una nuova vita per Jane e del cambiamento del suo
ruolo di padre.
Quella mano che, come ponendo la fine di un ciclo
per aprirne un altro, aveva stretto commossa e stupita la mano del bambino che aveva
appena messo al mondo, John Sherlock Tyler.
Ora quella mano, divenuta quella di una donna
adulta e realizzata, sta stringendo la sua.
Sta aggrappandosi alla mano di un uomo giunto alla
fine del suo cammino.
Nel letto d’ospedale, attaccato a macchine che non
possono fare più nulla per lui, John stringe a sé le mani delle due persone più
importanti della sua vita.
Jane e Sherlock.
Sua figlia e l’uomo che per lui è stato tutto,
miglior amico, compagno di vita e di avventure, amante.
John non vorrebbe avere nessun altro al suo fianco.
Loro pensano che lui stia dormendo, ma lui sente il
dolce peso della loro mani che, appoggiate delicatamente sopra il suo corpo, si
tengono l’una con l’altro, nel disperato tentativo di sostenersi fra loro.
Jane è forte e salda.
Sorride al padre senza mostrargli il dolore che sta
provando, ma che si palesa nei suoi occhi e in quella stretta convulsa e
disperata, che tenta di trattenerlo con sé, non accettando di lasciarlo andare.
La stretta di Sherlock è più delicata, come se
temesse di fargli male, ma gli occhi esprimono un dolore inconsolabile.
John sa che Sherlock e Jane sono legati da un
sentimento profondo e che troveranno conforto l’uno nell’altra, quando lui non
ci sarà più.
Jane si prenderà cura di Sherlock e farà sì che non
si lasci andare, che mangi e che continui a vivere.
Sherlock non farà mai mancare a Jane quel calore
paterno che le ha sempre riservato.
Sherlock ha sempre saputo che non fosse necessario
che Jane lo chiamasse papà per sapere che lei lo ritenesse tale.
E John ne è sempre stato felice.
La loro è sempre stata una vera famiglia, perché,
per essere tale, non sono necessarie le definizioni, i nomi o le carte, ma sono
soprattutto i sentimenti che si provano gli uni per gli altri a unire in un
vincolo che nessuno potrà mai dividere.
John è stanco.
Il suo cuore ha lottato a lungo contro la malattia,
trovando la forza nell’amore che Sherlock e Jane provano per lui e che lui
ricambia incondizionatamente.
Ora, però, il corpo deve soccombere.
La malattia lo ha logorato ed ha avuto la meglio.
Le mani che stringe gli danno l’ultima sensazione
di calore.
Un ultimo piccolo sorriso, rivolto ad entrambi gli
amori della sua vita.
E la vita cessa di esistere in John Watson.
Nel momento in cui John spira, il monitor che ne
visualizza le funzioni vitali mostra una lunga linea piatta e sottile.
Il fischio fastidioso della vita che si è spenta
viene ignorato da Sherlock e Jane.
Sentono solo che la presa di John nelle loro mani è
venuta a mancare.
Sherlock e Jane stringono forte le loro mani e si
guardano, leggendo il proprio dolore riflesso negli occhi dell’altro,
annebbiati dalle lacrime.
Deve arrivare un medico perché entrambi lascino la
mano di John.
E un’infermiera, pietosamente, copre il volto
sereno e tranquillo di quel piccolo uomo che ha tanto combattuto per loro.
Sherlock e Jane si stringono in un abbraccio
disperato, quasi increduli che sia veramente finita.
Si aspettano che John si alzi e che, guardandoli
con quel suo sorriso aperto e sincero, gridi: “Sorpresa!”
Non sarà così.
John non si alzerà.
Jane è riuscita a convincere Sherlock a lasciare l’ospedale
per andare a riposare.
Non a Baker Street.
Lì il ricordo di John è troppo vivo.
Il suo profumo aleggia ancora nel soggiorno, nella
camera da letto.
Si può sentire ancora la sua risata cristallina.
No.
Sherlock
non può stare a Baker Street senza John.
Non vi metterà mai più piede.
Subito dopo il funerale si trasferirà nel Sussex.
Jane lo ha convinto ad andare a casa sua.
Chris li sta aspettando ed apre loro la porta
appena sente la macchina entrare nel vialetto.
Abbraccia la moglie e stringe la mano di Sherlock.
Non c’è bisogno di parole.
Sherlock si siede in una poltrona ed osserva il
fuoco nel camino.
Un fuoco che non riesce a scaldarlo.
Jane non ha mai visto Sherlock così silenzioso e
tranquillo.
Sembra quasi che John, morendo, si sia portato via
anche la vita di Sherlock.
Jane si avvicina alla poltrona, si inginocchia al
suo fianco e prende una mano fra le sue:
“Sherlock. – lo chiama – Ho bisogno di te, lo sai
vero? Tu sei l’unico genitore che mi sia rimasto. Avrò sempre bisogno del tuo
amore e dei tuoi consigli.”
Sherlock si riscuote dal suo torpore e guarda Jane
negli occhi.
Gli stessi occhi di John.
Appoggia la mano libera su quelle di Jane e le
sorride.
È vero.
C’è una persona di cui deve continuare a prendersi
cura.
La bambina di John.
La loro bambina.
La sua bambina.
“Io ci sarò sempre per te. – le sussurra – Perché noi
siamo una famiglia.”
Jane ricambia il sorriso ed appoggia la testa sulle
loro mani intrecciate.
Sherlock è tornato a fissare il fuoco.
Anche Jane guarda il fuoco.
E per un attimo, solo per un attimo, entrambi
sentono la mano di John sulle loro teste, che le accarezza dolcemente.
È notte fonda.
Ricomposto in una bella bara, John sembra dormire
sereno.
Non c’è nessuno nella camera mortuaria dell’ospedale.
Solo John, nella sua bara.
Jane è tornata indietro, perché non vuole lasciarlo
solo.
Stava dormendo e si era svegliata con la strana
idea che suo padre potesse svegliarsi a causa di uno dei suoi incubi.
Jane non vuole che non trovi nessuno.
È un’idea assurda, lo sa anche lei, ma non è più
riuscita a riprendere sonno.
È dovuta andare da suo padre.
Jane non conosce la donna accanto al feretro, non
l’ha mai vista prima di quel giorno.
Almeno le sembra.
In realtà, suo padre le ha mostrato le foto del
loro matrimonio tante volte che Jane capisce immediatamente chi sia.
Mary Morstan si volta, gli occhi azzurri arrossati
per il pianto.
Si trova davanti quella donna stupenda, che lei
ricorda di aver tenuto fra le braccia quando era un piccolo e fragile essere
appena nato.
Le due donne si guardano.
Jane allunga una mano:
“Jane Watson. Sono contenta di conoscerti … mamma.”
Mary rimane per un attimo senza fiato.
Jane l’ha chiamata mamma.
Nemmeno nel più ardito dei suoi sogni aveva sperato
in tanto.
Poi si ricorda chi fosse l’uomo che aveva amato e
sposato.
John Watson.
Un uomo che non avrebbe mai permesso alla figlia di
odiare la propria madre.
Mary prende la mano che le è stata porta:
“Mary Watson. Sono orgogliosa di te, bambina mia.”
Le mani si stringono, gli occhi si velano di
lacrime.
Mary Morstan si volta ed accarezza il volto di John.
“Addio amore mio. Vorrei che le cose fossero andate
in modo diverso.”
Lo bacia sulla fronte.
Si gira verso la figlia.
Jane sa che se sta per andarsene, un’altra volta:
“Non rimani per il funerale?” chiede ugualmente.
Mary le sorride.
John e Sherlock l’hanno fatta diventare una donna
meravigliosa.
“Non posso. Non c’è posto per me qui.”
Jane annuisce.
Sa che la madre ha ragione e non fa nulla per farle
cambiare idea.
“Ti rivedrò?” chiede Jane.
“Può darsi.” Risponde Mary.
Accarezza la testa della figlia, delicatamente.
La fissa come se volesse imprimersi nella mente ogni
dettaglio del suo volto bellissimo.
Di quegli occhi che sembrano quelli di John.
Le lascia un bacio sulla fronte e se ne va.
Jane la guarda dileguarsi nella notte.
Rimasta davvero sola con il padre, Jane ne prende
una mano e la misura con la sua.
Sono uguali.
Jane sorride.
Cercherà sempre di essere all’altezza di quell’uomo
che l’ha amata e fatta sentire protetta.
E non dimenticherà mai la sicurezza e la tenerezza
espresse dalle sue mani forti e delicate, quando si stringevano alle sue.
Perché quelle mani esprimevano tutto l’amore di cui
era capace il grande cuore di John Watson.
Angolo dell’autrice
Grazie a chiunque sia arrivato fino a qui.
La serie si chiude con la morte di John, ma, come
dicevo all’inizio, potete collocarla in qualsiasi momento temporale vogliate.
Sono quasi pronta a scommettere che tutti lo
facciate morire in età avanzata!! J
Come sempre, ogni commento è sempre benvenuto.
Grazie a tutti.
Ciao! J