Anime & Manga > Kuroshitsuji/Black Butler
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Autore: adler_kudo    28/08/2015    1 recensioni
Mentre la notte appare tranquilla, l'animo del giovane Ciel è turbato.
Non comprende cosa gli stia accadendo; vorrebbe solo reprimere ciò che sente sempre più forte dentro a sé e che è così terribilmente sbagliato ai suoi occhi. Come può lui, l'algido conte, il Cane della Regina, lasciare che il suo cuore, che credeva ormai arido, abbia la meglio sulla sua fredda mente?
[liberamente ispirato a "Fiamme dell'Inferno", canzone della colonna sonora del "Gobbo di Notre-Dame", Walt Disney Pictures.]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Ciel Phantomhive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Hellfire

 

Era da tempo immemore che non entrava in quel luogo; l'ultima volta che vi si era recato era stato per le esequie di un suo parente del quale non ricordava neppure il nome quando aveva appena quattro o cinque anni. Non rammentava nulla di quel posto tranne vari fotogrammi che di tanto in tanto gli apparivano stampandosi nella sua mente, incastonandosi tra di loro come tessere di quel mosaico di immagini che erano i suoi vaghi ricordi dell'epoca. La vecchia cappella di famiglia era l'unica parte della residenza che non era stata divorata dalle fiamme quando, tre anni prima, degli sconosciuti avevano tentato di estirpare la sua radice. Non era a diretto contatto con il resto della villa, era situata poco più in là, nel giardino perfettamente curato, nascosta tra qualche fronda d'albero che pareva come proteggerla da ciò che avveniva nel resto della tenuta. Da quando era tornato ed aveva ripreso la sua vita non lo aveva nemmeno sfiorato una volta il pensiero di rimetterci piede; si era quasi dimenticato della sua esistenza finché, passeggiando per il giardino, poche settimane prima, non gli era saltata all'occhio nella sua fatiscenza. A quanto sembrava nessuno in tre anni se ne era preso cura: le finestre impolverate e le ragnatele che circondavano gli infissi non erano smossi da altri se non dal vento. Quel giorno l'aveva a malapena considerata, imprimendosi un piccolo promemoria in testa di ordinare di renderla di nuovo pulita, ma tra una cosa e l'altra se ne era poi scordato. Solo quella notte, nel mentre del sonno di ogni altro individuo alla villa, quella piccola e polverosa cappella gli parve il suo luogo di ricovero migliore. Era sgattaiolato fuori dalla sua stanza, aveva strisciato lungo i corridoi per non farsi sentire, era sceso nella veranda e da lì era corso in giardino; a proteggerlo dalla fredda aria di quelle ore solo la vestaglia blu scuro. Era una notte serena, tranquilla, solo qualche piccola nuvola nera di tanto in tanto spruzzava il cielo altresì terso dalla luce lunare; la serenità argentea che aveva avvolto l'intera tenuta non riusciva però a penetrare in lui: le nuvole nere che comparivano qua e là erano nella sua anima dei cumulonembi tempestosi che non accennavano a voler lasciare in pace la sua povera testa. Era stanco, davvero esausto, ma non riusciva a prendere sonno, non era in grado di rilassarsi; più pensava a ciò rigirandosi tra le lenzuola, più il suo respiro si faceva affannoso, così aveva abbandonato il letto e si era recato senza nemmeno un perché apparente nella cappella. Aveva faticato alquanto a schiuderne l'uscio, che scricchiolando aveva rivelato l'interno irretito dal tempo; aveva dovuto spingere con tutte le sue forze per aprirlo, rischiando persino di scivolare sul pavé con le ciabatte, ma era riuscito ad entrare per il piccolo spiraglio che se ne era aperto. Aveva lottato contro i sottili fili di ragnatela che gli erano piombati in faccia ed infine aveva percorso a passi brevi e lenti la breve navata che lo separava dal piccolo altare avvolto ancora in un lenzuolo una volta candido; una croce teutonica d'oro usurata dal tempo capeggiava su di esso e alla parete una grande icona sacra della Vergine Maria con il Bambino in braccio di stile bizantino rischiarava leggermente il piccolo ambiente con il suo riflesso, colpita dai raggi della luna penetrante dalle finestre adiacenti. Ciel aveva smosso la polvere da uno dei primi piccoli banchi in legno di castagno e li si era accomodato prendendo a fissare l'immagine di fronte a sé. Tremava dal freddo, che si era fatto più pungente in quel vecchio edificio di stile gotico inumidito dal tempo d'usura, ma si rammentò in fretta del piccolo focolare presente sotto l'altare, nonostante lo avesse visto acceso solo in un paio di circostanze. Sollevò il pallido lenzuolo e, sollevato, constatò la presenza di qualche ceppo di legno non ancora arso del tutto, i fiammiferi, come lì ricordava, erano lì accanto. Nulla sarebbe parso diverso se non fosse stato per l'innegabile decadimento cui il luogo era sottoposto. Impiegò qualche minuto ad avviare le fiamme e poi finalmente poté sentire rilassarsi le membra intirizzite; riprese posto e sospirò pesantemente emettendo una nuvoletta di condensa, abbandonò il capo all'indietro scivolando lentamente giù dalla seduta fino a trovarsi con la testa appoggiata allo schienale. Tentò dunque di rilassarsi, chiuse gli occhi, respirò a fondo per cercare una sua dimensione, ma ecco che di nuovo, quando era ad un passo dal sonno tanto cercato, quel volto gli si faceva di nuovo nitido nella mente e lo costringeva a spalancare gli occhi e rinunciare al riposo. Nuovamente si tirò su di soprassalto, le mani aggrappate alla panca spasmodicamente e il respiro che non accennava a voler tornare regolare. Alzò brevemente lo sguardo verso l'icona e si prese il viso tra le mani tentando di cancellare quel singhiozzo che gli ingrippava la gola, il petto e lo stomaco. Una stilla di pianto sfuggì al razionale controllo cui aveva sottoposto ogni centimetro del suo corpo; gli bruciava l'occhio, non era più abituato a versare lacrime. L'asciugò ancora prima che potesse avere il privilegio di scorrergli lungo la guancia e respirò intensamente, di nuovo. Mai gli era accaduto qualcosa di simile, mai non era riuscito a controllare le proprie emozioni a tal punto. Cercò di riprendersi, chiuse e aprì le palpebre un paio di volte, trovando poi come unica distrazione fissare la danza delle fiamme del tenero fuocherello che ardeva ancora timido sotto l'altare. Se solo fosse riuscito a non pensare, se solo avesse potuto cessare le sue facoltà mentali per qualche tempo... Ma non poteva permetterselo, chiunque altro forse, ma non lui: lui stava ancora giocando una partita. Tuttavia, assolutamente, anche quel pensiero che ricorreva da troppo tempo nella sua mente era disturbante per la sua concentrazione. Infastidito dalla troppa luce, chiuse gli occhi, ma il fosfene che gli apparve immediatamente lo rimandò a ciò da cui scappava. Due puntini luccicanti rossi gli erano apparsi nel buio della palpebra serrata, così simili agli stessi che temeva. Fissò ancora il fuoco. Un terrore come mai provato prima di allora lo pervase; si alzò in piedi di scatto e al centro della navata cominciò a fissarsi le mani sulle quali ancora, residuo del fenomeno ottico precendente, ancora poteva intravedere quei due rossi bagliori. Non c'era modo per lui togliere quel volto dalla testa. E per la prima volta ebbe paura di se stesso. Alzò lo sguardo ora disperato che si andò a posare inevitabile sull'icona.

«Perché?» esalò, la voce graffiante e debole per il lungo silenzio carica di orrore.

Nel successivo impeto batté il pugno rabbiosamente contro lo schienale della panca «Perché? Perché!» ripeté con più forza quasi in un grido disperato, gli occhi stretti e brucianti.

Guardò di nuovo in alto.

«Rispondimi! Perché!» urlò perentorio al dipinto, quasi si aspettasse che questi potesse farlo.

Abbassò lo sguardo.

«Che mi sta succedendo...» mormorò. Il suo corpo era in preda alla paura, tremava. Dovette appoggiarsi al banco per evitare di rovinare al suolo quando le ginocchia gli cedettero; si accomodò sul bordo della seduta massaggiandosi le tempie. Doveva ritrovare la razionalità, doveva ritrovare la calma. Il respiro era quasi tornato normale; il battito, nonostante pulsasse in ogni vena, stava mano a mano diventando come doveva essere, ma il peso sulla sua anima non se ne era certo andato, né si era alleggerito. Tentò un sorriso sarcastico verso se stesso e la pateticità che stava dimostrando, ma ottenne solo un'inguardabile smorfia, più spaventata che altro. Scosse rapido la testa e digrignò i denti; non poteva accadere a lui, non doveva accadere a lui. Quel pensiero che stava cercando di scacciare tornò a prenderlo, stavolta senza che lui ponesse resistenza, troppo esausto e consumato per farlo. Quel volto, quel volto del demonio che non gli dava tregua tornò davanti ai suoi occhi; gli sorrideva, gli parlava con gentilezza, quasi con dolcezza. In giardino, mentre potava le rose e lanciava uno sguardo nella sua direzione; nello studio, quando gli serviva il tè e un profumo proveniente da un altro mondo gli inebriava le narici; in camera, mentre lo spogliava e lo rivestiva donandogli carezze proibite sotto i suoi morbidi tocchi; la notte, quando lo vegliava e posava talvolta la mano sulla sua testa per indirizzarlo a sonni più tranquilli. Come si poteva permettere un servo di fargli questo, di renderlo vulnerabile a qualcosa che lui per primo non comprendeva nemmeno? Lo odiava. Lo odiava dal profondo. Aveva solo tredici anni, non avrebbe dovuto conoscere il desiderio, non avrebbe dovuto conoscere lo struggimento del cuore. Non avrebbe dovuto conoscerli con lui! Era sbagliato, era di sicuro mostruoso. Contro natura umana, contro Natura e basta!

Si rivolse di nuovo al quadro, stavolta rassegnato: non avrebbe ottenuto risposta.

«Cosa c'è che non va in me?» domandò con il cuore in gola.

Avrebbe potuto avere ogni cosa dalla vita e aveva dovuto lasciare tutto ai corvi per la salvezza di un istante. Aveva chiesto aiuto ed era stato esaudito dal diavolo in cambio della sua anima. Sarebbe dovuto essere così, così e basta. Cosa voleva il demonio dal suo cuore? Renderlo dannato “come in Cielo così in Terra”? Non voleva l'umiliazione, non voleva conoscere la sofferenza della sua pena terrena, già conosceva quella che avrebbe subito se la sua anima fosse stata come qualunque altra. Non voleva essere trascinato negli Inferi per colpa di quello che l'Uomo suole chiamare sentimento! Così insulso, così irrazionale, così fuori dai suoi piani! Il suo autocontrollo, la sua preziosa mente fredda... Inutili contro quello che faceva accelerare il suo cuore.

«Cos'è questo? Cos'è questo!» gridò stringendosi il petto. Voleva il suo controllo, voleva governarsi. Lui non provava quelle cose inutili, aveva smesso di provarle, non poteva avere Emozioni. La rabbia, il dolore, la paura erano sfumate tutte nell'evocazione di Sebastian, la felicità, la gioia e l'appagamento ci sarebbero stati quando questi avrebbe portato a termine il suo compito. La razionalità, la ragione, era ciò che gli doveva occorrere, nessuna emozione, totale controllo e negazione del suo io più recondito. Quello che stava provando, quel sentimento bruciante che non aveva idea potesse esistere in modo così potente, non poteva ammetterlo.

Guardò di nuovo il ritratto della Vergine; l'espressione impassibile non era mutata, ma a lui parve che lo osservasse diversamente: sdegnosa, superiore; come una madre troppo buona che comprende di aver perso il figlio nell'oblio con le sue concessioni. “Lo sai cos'è” sembrava dirgli “Dillo ad alta voce. Pecca di fronte a me.”

«No, no!»

Cadde dalla panca, il fuoco dritto di fronte a lui, vivo e caldo, infernale.

Che colpa aveva lui se il diavolo l'aveva tentato? Era un bambino solo al mondo; come poteva resistere da solo! Come poteva capire da solo!

Maledetto il demonio che, goccia dopo goccia, aveva instillato in lui quel sentimento dannato! Maledetto quel serpente che aveva insinuato in lui il dubbio mortale!

Quel serpente pettegolo del nuovo arrivato nella servitù che gli aveva comunicato come le informazioni erano state ottenute... Era stata colpa sua se il mattone che avrebbe dovuto aggiungersi al muro aveva fatto crollare tutto; se il suo cuore aveva ripreso a battere vivo come un Uomo. Il primo sentimento che aveva concepito dopo tanto tempo era stato ad opera di un serpente che, come il tentatore biblico, lo aveva spronato a conoscere una verità che avrebbe distrutto tutto. Il solo pensiero del demone al fianco di qualcun altro gli dava il voltastomaco. Sapeva il nome di ciò che viveva, ma non voleva dirlo: non sarebbe più riuscito a controllarlo!

Reclinò il capo all'indietro esausto e si coricò sul pavimento nonostante fosse sporco. Non importava più.

“Lo sai cos'è.”

In quel momento l'intera residenza avrebbe potuto ardere, non si sarebbe mosso da lì. La ragione gli era tornata. Quella malata emozione... L'avrebbe estirpata da sé o avrebbe avuto ciò che voleva. Per estirparla il demone avrebbe dovuto perire, per averlo avrebbe dovuto farlo capitolare ai suoi piedi. Quale delle due sarebbe avvenuta prima?

Sorrise sardonico allargando le labbra fino a che il ghigno non si tramutò in una sguaiata risata.

Lui otteneva sempre ciò che desiderava.


Angolo Autrice:
Grazie per la lettura!
Ho semplicemente voluto provare ad immaginare come Ciel (il nostro orgoglioso, freddo conte) possa aver provato nel compredere di provare qualcosa per il suo maggiordomo (perché sappiamo tutti le cose come stanno xD). Ho rivisto il Gobbo di Notre-Dame e bam! In un flash questa cosetta mi è comparsa e non potevo fare a meno di scriverla.
Non vorrei aver sfociato nell'ooc, ma mi visualizzo questa sua ammissione equivalente ad una debolezza per lui, ad una colpa, quindi certamente non è il solito Ciel all'apparenza.
Forse, e dico forse, potrebbe scappare anche un qualcosa di simile per il nostro caro (e figo) demone, sempre nel rispetto del suo ruolo però.
Grazie ancora per la lettura!
-AK

  
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