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Autore: BananaBerry    03/02/2009    3 recensioni
Forse perché si riconosce nell’argomento trattato, soprattutto quando parla di « Quando quello che crediamo l’amore della nostra vita ci denigra, si approfitta del nostro affetto per rigirarci come un guanto.. », o forse sono i suoi occhi.
La cosa più importante che abbiamo tutti, sono i ricordi. La cosa più importante anche per Harleen Quinzel.
Genere: Generale, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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  1. Terapia d’urto

 

 

 

Nota: premetto che è la prima volta che scrivo su un film. Ed è passato un bel po’ di tempo da

quando mi sono cimentata l’ultima volta in una fan fic, specie con protagonisti che mi stanno così

tanto a cuore come Harley e Mr. J. Premetto anche che la storia – forse non nella sua completezza,

ma in gran parte – mi è arrivata dritta dritta mentre sognavo, dopo aver letto l’ultimo capitolo della

splendida Amour Fou, trovata come una manna dal cielo proprio su questo sito. Potrà capitare perciò,

che si verifichino delle incongruenze tra la mia versione e tutte quelle già descritte dai vari Nolan,

Burton o mondo cartaceo. Spero comunque che vi interessi e che vi piaccia, ma soprattutto spero in

qualche commento costruttivo, in modo da ampliare le mie vedute xD

 

 

 

 

Please save me, this time I cannot run
And I'll see, you when this is done
And now I, have come to realize
That you are, the one who's left behind

 

[ Not Now – Blink 182 ]

 

 

 

Le è sempre andato a genio guardare la televisione, nei momenti morti in cui non c’è proprio niente di meglio da fare.

Si tratta decisamente di uno di quelli, altrimenti non avrebbe preso questa postura scomposta, perfettamente adatta a chi ha già deciso

di rimanere delle ore su un divano. Per niente comodo, verrebbe da aggiungere, ma non è decisamente nella posizione gerarchica per

chiederne uno nuovo di suo gradimento. Guarda, senza vedere realmente. Ha occhi chiarissimi, Harleen, di un azzurro così cristallino che

a ben osservare potresti vederci riflesso ogni suo pensiero; e, sotto quello, l’amore inconsulto che tutte le donne vorrebbero provare,

sane o meno di mente. Pensa ad altro, mentre le immagini scorrono e una lieve musichetta da pubblicità fuoriesce dal tubo catodico,

costringendola involontariamente a muovere la punta di un piede abbandonato. Su, giù, poi di nuovo al centro, ripetendo il tutto da capo

 

Dovresti indossare il tuo costume, rientrare nei panni che ti appartengono e andare da lui. Chiedergli se ha bisogno di te. Fare qualcosa.

 

Nel momento stesso in cui la vocina le parla, sussurrandole all’orecchio, Harley scuote la testa. No, non gli farebbe piacere. Odia quando

si intromette nella sua vita quotidiana, senza essere esplicitamente richiesta. Quando avrà terminato il suo nuovo piano, si affaccerà alla

porta e la chiamerà. Semplice, chiaro e conciso. Si da una spinta, un colpo di reni che le risulta necessario, per girarsi su un fianco, un filo

sporgente dalla maglietta di cotone bianca che indossa rimane impigliato in chissà cosa, ma sembra non farci caso. Vuole solo continuare

a muovere i piedi a suon di musica, fingendo di interessarsi agli stupidi programmi mandati in onda dalla rete televisiva di Gotham.

Si rende conto solo in questo momento, che il numero di un comico, sul palco, è appena finito. Dev’essere stato decisamente penoso,

perché sui volti del pubblico – un gruppo di stolti con le facce di pietra che non riderebbero nemmeno davanti ad una battuta ben detta – non

hanno fatto una piega. Forse qualcuno ha fischiato, adesso come adesso non lo saprebbe dire. La canzone che faceva da sottofondo al

numero dell’improvvisato cabarettista si conclude, lasciando spazio ad uno scrosciante applauso per il conduttore del programma, tornato sul

palco, con il suo vestito di lustrini e un cappello che lo fa assomigliare terribilmente ad una bambola per la pentolaccia.

 

 Ah, se solo fosse stata tra il pubblico… prendi il bastone, lascia perdere la mira, cala forte.

 

Mr J avrebbe approvato, poco ma sicuro. Le viene

improvvisamente da sbadigliare, un’apertura di fauci che meccanicamente va a nascondere con il palmo della mano, sebbene non ci sia

nessuno, ad osservarla. Chiude gli occhi quel tanto che le basta per stiracchiare i muscoli del viso, ovale perfetto nonostante un segno ormai

giallastro sullo zigomo destro, dove si è presa l’ultimo schiaffone. Ricompensa per avergli rovesciato addosso quasi un’intera bottiglia di

acqua, il tutto mentre lei inciampava in un sacco nel pavimento e volava in avanti, senza che lui facesse il minimo accenno di acchiapparla.

Così, oltre ad essersi scorticata il palmo della mano – non usa i cerotti solo come vezzo fanciullesco, diciamo – se le è anche buscate. A

ragion veduta. Se non sa stare in piedi, la colpa è solo sua, non certo del suo ‘puddin. Ma non ci pensa ora, a quel livido. Perché nel momento

che riapre gli occhi, questione di un secondo, sullo schermo è tornata la pubblicità. Ma stavolta vede, oltre che guardare. E’ uno strano

messaggio promozionale, quello… sfondo verde scuro, una scrivania e un uomo seduto dietro di essa. Niente effetti speciali, niente musica,

niente personaggi animati che si tuffano in una vaschetta piena d’acqua e detersivo, per testare il nuovo ammorbidente al profumo di lavanda.

 

« La mancanza di autostima, è solo una questione di rapporto. Come ci rapportiamo con quello che ci circonda. Non riuscire a reagire quando il

capo in ufficio ci addossa colpe che non abbiamo. Quando chiunque può raggirarci, facendoci fare esattamente quello che vuole… » e quella che

una volta fu la Dottoressa Quinzel, lo ascolta. Assimila ogni parola che fuoriesce dalla bocca di quell’uomo, senza sapere nemmeno lei bene

il motivo. Forse perché si riconosce nell’argomento trattato, soprattutto quando parla di « Quando quello che crediamo l’amore della nostra vita

ci denigra, si approfitta del nostro affetto per rigirarci come un guanto.. », o forse sono i suoi occhi. Lenti a contatto, quasi certamente: due

ametiste, limpidi e profondi, assolutamente estranei a qualunque altro tipo di sguardo le fosse mai capitato prima davanti. Nemmeno gli occhi

di Mr J brillavano in quel modo.

Nemmeno i suoi. E la sua voce, espansa da quella gracchiante scatola elettrica, risultava comunque dolce e rassicurante, come miele che

fluisce lentamente nelle orecchie e al quale non si può fare altro che cedere. Si mette a sedere, Harley, portando le lunghe gambe oltre la pila

di cuscini abbandonati sul pavimento, punta dei piedi nudi che sfiorano le assi in legno, senza la minima paura di scheggiarsi, nonostante

l’eventualità più che reale. « Falcon Street al 18… ma certo..che originalità » mormora, cercando di memorizzare l’indirizzo dell’uomo, apparso

in sovrimpressione.

Incredibile come riesca a prendere una decisione senza nemmeno pensarci, se è dell’umore giusto. Si alza, quando la pubblicità termina e

quell’idiota vestito di lustrini torna sul palco, acclamato dai suoi spettatori come un dio sceso in terra. Le basta premere un bottone, per farlo

sparire, risucchiato in un vortice nero.

 

Meglio così, decisamente… facevi tristezza, per niente ridere.

 

 

 

Sono almeno due ore, che non la sente. Che lo stia semplicemente ignorando? Non lo crede veramente possibile… quella ragazza non può

più fare a meno di lui e lo sa. Lo sanno entrambi, per questo è così divertente. Quando non si mette in testa di rompergli le uova nel paniere,

ovviamente. Osserva gongolando il suo nuovo capolavoro, più un insieme di ghirigori e scritte minuscole, che un vero e proprio tema, ma

è abbastanza. In fondo non serve di più, per organizzare quello che ha in mente. Una sorpresina al caro, tenerissimo commissario Gordon.

« O-oh mio caro, mio caaarissimo Jimmy… vedrai come ci divertiremo, oh sì, ci divertiremo io e te! »

Si lascia andare ad una risata cristallina e gioiosa, quella di un bambino alla prospettiva di ricevere un gran bel regalo, per Natale. Con un

chiaro sottofondo rasposo di pazzia, ovviamente, ma questo è solo un dettaglio. Si passa una mano fra i capelli, che si sono allungati ancora,

da quando Harley gli ha dato quell’ultima spuntatina, approfittandone un po’ troppo. E’ una cosa che fa sempre, il suo Zucchino, stargli troppo

appiccicata quando non dovrebbe. Fa ridere un sacco.

Come l’espressione da cane bastonato che si incolla sul viso quando vuole mettergli il muso. E che svanisce, non appena si rende conto che

con lui non attacca, che le servirà solo a prendere un altro schiaffo. Oh, chissà, se è fortunata anche un bacio, prima. Sta ancora ridendo, ma si

dondola un po’ meno, sulla sedia. Questo, finchè quel rumore proveniente dalla sua bocca non scema del tutto, facendo calare il silenzio.

Corruga la fronte, che è liscia e rosea, senza ombra di trucco…

solo la chioma mantiene ancora quel verde sporco con il quale si è tinto una settimana prima. Finchè è da solo con lei, può permettersi di

mostrarle le sue cicatrici in tutta la loro bellezza. Non ha bisogno di cerone, per nasconderle qualcosa. E’ troppo accecata dall’amore, per vedere

qualcosa oltre.

Oltre al mostro, si intende.

Corruga la fronte perché Harley non è arrivata. Il pasticcino – nomignolo che odia quando è lui ad usarlo, ma che gode infinitamente ad

appiopparle - non si è lanciata dalla stanza accanto, sentendolo ridere. Di solito è questa la prassi e lei non la sta minimamente rispettando.

Attende, uno, due, tre secondi, prima che la gioia folle di poco prima di trasformi radicalmente in un singulto di collera.

« HAAAARLEYY! »

Ma l’Arlecchino è già uscito da un pezzo, bello.

 

 

 

Non lo ammetterebbe mai, nemmeno se le accendessero un fuoco sotto i piedi, ma quegli occhi dai riflessi violacei le stanno facendo

perdere la testa. O forse è solo la momentanea scarica di adrenalina, sparatale in corpo da ghiandole impazzite nell’istante stesso in cui si è

resa conto che stava lasciando Mr J senza nemmeno avvertirlo, a darle quel leggero mal di capo. Harley siede composta, su una piccola sedia

di legno, c’è un cuscino con stampe a fiori, sotto di lei. Ideale solo se hai deciso di starci seduto non più di mezz’ora, altrimenti il fondoschiena

comincia a protestare, come è giusto che sia.

« E così, signorina Powell, ha visto il mio annuncio in tv… » l’uomo, che le siede di fronte su una sedia altrettanto scomoda, tiene le gambe

accavallate, con naturalezza e la osserva, tra una parola e l’altra. Sorride appena, ma dalla sua voce trasuda una particolare qualità che ultimamente

le è poco familiare: serenità. Sembra assolutamente in pace con stesso, niente conflitti interiori. E questo la fa rilassare enormemente, al

punto da alzare le mani per andare a togliersi gli occhiali. Gli rivela il suo sguardo cristallino, ma lui non fa una piega; riprende la frase da dove

l’aveva lasciata, intrecciando le dita tra loro, appoggiando entrambe le mani sulle ginocchia « devo avvertirla subito che riconquistare la fiducia in

stessi non è una passeggiata… bisogna avere buone motivazioni, una volontà di ferro e nessuna intenzione di lasciarsi scoraggiare dagli imprevisti..  »

Certo. Ovvio. Tutte cosucce che Harley si era già aspettata. E’ pur sempre laureata in medicina e la sua specializzazione in psicologia e psichiatria

le da un discreto vantaggio su tutte le altre donne che si sentono minacciate dalla mancata dimostrazione d’affetto del proprio compagno. E poi

c’e da considerare che nessun altra aveva Mr J. Non si potevano fare paragoni, di qualunque genere. Annuisce, distendendo le labbra chiare in un

sorriso. Non sa nemmeno bene lei il perché, ma quell’uomo, i suoi occhi di ametista, i suoi capelli biondi e i lineamenti delicati, la costringono ad

esporgli il suo lato migliore.

Ha dovuto chiaramente inventarsi un nome falso, Katherina Powell, eppure da come lui la guarda e dal suo tono di voce accondiscendente,

sembrerebbe aver già mangiato la foglia. Non si preoccupa però, la dottoressa. Quante volte gli sarà capitato di avere clienti che non vogliono

rivelare il loro nome per paura di ritorsioni da parte del marito? O del capo? Tante. Troppe. Ecco sicuramente spiegato il motivo per cui non fa domande.

Per cui non batte ciglio.

 

E tu potresti anche piantarla di sorridere come un’oca giuliva, tesorino. Via Mr. J, adesso non ho voglia di ascoltarti.

 

Scuote la testa, piano, per scacciare quella vocina che bene o male la tormenta sempre, quando non è lui di persona a bisbigliarle nelle orecchie

o più semplicemente a gridarle quello che deve fare. Passa una mano leggera sulla fronte, scostando una ciocca di capelli chiari sfuggita alla

crocchia scomposta con cui se li è frettolosamente raccolti uscendo dal covo, risalendo alla vita di una qualunque persona normale. « non sono

una che si lascia scoraggiare dagli imprevisti, signor Krust, cerco solo delle risposte che sicuramente sono già dentro di me » Usa una voce sicura,

misurata. E’ come se all’interno della stanza, dalle parete color panna ai dipinti di Manèt, tutto contribuisse a darle una forza emotiva maggiore.

Annebbiandole allo stesso tempo la mente, come durante l’assunzione di una droga leggera. Bah, sarà solo la sua immaginazione. A quella risposta

decisa, Victor Krust amplia il suo sorriso, annuendo compiaciuto, distendendo finalmente le gambe e andando a posare una mano pallida sulla sua

« Sono sicuro che le tireremo fuori…  » un’altra pausa,

corruga la fronte, come se si stesse preparando ad una mossa azzardata « … Katherina.. posso chiamarla Katherina, sì? » ha l’aria di uno che chiede

sapendo già la risposta. Un atteggiamento simile normalmente la farebbe irritare a morte – le persone che danno tutto per scontato sono solo poveri

e tristi ometti e donnine senza futuro – ma in questo momento no. In questo momento si limita ad annuire, sorridendo come una scolaretta appena

invitata al ballo scolastico dal mediano di spinta della squadra di rugby della scuola. « Solo se io posso chiamarti Victor.. »

 

Non pensa a Mr. J nemmeno per un istante, durante tutto il tempo della prima seduta. Se si vedesse da fuori, se potesse rendersene conto,

rimarrebbe traumatizzata da quella eventualità: rimanere senza di lui più di una ventina di minuti, di sua spontanea volontà. Proprio lei che, quando

Joker se ne stava rinchiuso dietro una lastra di vetro antiproiettile ad Arkham, si sentiva male ogni volta che doveva rinunciare a lui per tornare a casa

propria, pur sapendo che lo avrebbe rivisto l’indomani. E l’indomani ancora. E quello dopo. Victor le fa qualche domanda che sembra di routine, prende

appunti per un’ora su una cartelletta di cartone blu, sulla quale è incollata un’etichetta bianca che adesso riporta quel nome fittizio che si è inventata,

strada facendo. La fa accomodare su una poltrona, decisamente più comoda della seggiola di legno, dove si sente sprofondare. Harleen sprofonda,

mentre continua a parlare, raccontandogli i suoi desideri e i suoi sogni. Si sente come se mani invisibili le massaggiassero la nuca, cullandola quasi.

Nessuna ninnananna sussurrata all’orecchio, ma l’effetto è praticamente quello. Si tratta senz’altro della sua voce, ormai non ha più alcun dubbio.

Quel misto di miele e calore, assolutamente avvolgente.

E’ Victor Krust a strapparla dalla ragnatela galleggiante dentro la quale si sta invischiando, quasi addormentandosi « Direi che per oggi può bastare,

Katherina. Se ritorni domani alla stessa ora farò in modo di farti trovare pronto un programma dettagliato per le prossime sedute, d’accordo? » D’accordo.

Glielo dice, confermando il proprio pensiero, scendendo dalla poltrona con un movimento leggero e veloce, da ginnasta. Movimento che agli occhi

color ametista di lui non sfugge, ma non ne fa parola. Meglio così, avrebbe dovuto spiegargli che fa molta ginnastica e che da ragazzina ha vinto una

discreta quantità di premi.

Ahaha. Divertente, come storiella per salutarsi.

 

Basta che Harley metta un piede fuori dalla porta e la realtà le ripiomba addosso come un falco in agguato cala sulla presa. La afferra con gli artigli,

provocandole un brivido che le accappona la pelle, nonostante la felpa e il giubbino che ha indossato sopra la stessa. « Arrivo Puddin’, arrivo.. »

sorride, mentre lo dice, a sé stessa più che al suo compagno, lontano almeno dieci isolati. Sicuramente si è accorto che lei è sgusciata via e,

altrettanto sicuramente, avrà qualcosa da ridire in proposito. Scende dal marciapiede, inforcando gli occhiali scuri, ritornando ad essere, per quell’attimo,

una giovane donna qualunque.

Victor la osserva, avvicinandosi alla porta, richiudendola dopo il suo passaggio. C’è un piccolo cartello, con la scritta Open, appeso davanti al vetro

che da sull’esterno. Lo gira, con un movimento fluido del polso, sistemandolo sull’avviso di chiusura. Continua a sorridere, mentre Harley si volatilizza,

sparendo dalla sua vista, dai suoi occhi screziati di viola

 

« Harleen, Harleen… non temere, è solo l’inizio di una nuova vita, per te..per noi.. »

 

 

  
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