- Terapia d’urto
Nota: premetto che è la prima volta che
scrivo su un film. Ed è passato un bel po’ di tempo da
quando mi
sono cimentata l’ultima volta in una fan fic, specie
con protagonisti che mi stanno così
tanto a
cuore come Harley e Mr. J. Premetto anche che la
storia – forse non nella sua completezza,
ma in
gran parte – mi è arrivata dritta dritta mentre
sognavo, dopo aver letto l’ultimo capitolo della
splendida Amour Fou, trovata come una manna dal cielo
proprio su questo sito. Potrà capitare perciò,
che si
verifichino delle incongruenze tra la mia versione e tutte quelle già descritte
dai vari Nolan,
Burton o
mondo cartaceo. Spero comunque che vi interessi e che
vi piaccia, ma soprattutto spero in
qualche
commento costruttivo, in modo da ampliare le mie vedute xD
Please save
me, this time I cannot run
And I'll see, you when this is done
And now I, have come to realize
That you are, the one who's left behind
[ Not Now – Blink
182 ]
Le è sempre
andato a genio guardare la televisione, nei momenti morti in cui non c’è
proprio niente di meglio da fare.
Si tratta decisamente di uno di quelli, altrimenti non avrebbe preso
questa postura scomposta, perfettamente adatta a chi ha già deciso
di
rimanere delle ore su un divano. Per niente comodo, verrebbe da aggiungere, ma
non è decisamente nella posizione gerarchica per
chiederne
uno nuovo di suo gradimento. Guarda, senza vedere realmente. Ha occhi
chiarissimi, Harleen, di un azzurro così cristallino
che
a ben
osservare potresti vederci riflesso ogni suo pensiero; e, sotto quello, l’amore
inconsulto che tutte le donne vorrebbero provare,
sane o
meno di mente. Pensa ad altro, mentre le immagini scorrono e una lieve
musichetta da pubblicità fuoriesce dal tubo catodico,
costringendola involontariamente a muovere la punta di un piede abbandonato. Su, giù,
poi di nuovo al centro, ripetendo il tutto da capo
Dovresti indossare il tuo costume,
rientrare nei panni che ti appartengono e andare da lui. Chiedergli
se ha bisogno di te. Fare qualcosa.
Nel momento
stesso in cui la vocina le parla, sussurrandole all’orecchio, Harley scuote la testa. No, non gli farebbe piacere. Odia
quando
si
intromette nella sua vita quotidiana, senza essere esplicitamente richiesta. Quando avrà terminato il suo nuovo piano, si affaccerà alla
porta e
la chiamerà. Semplice, chiaro e conciso. Si da una
spinta, un colpo di reni che le risulta necessario, per girarsi su un fianco, un
filo
sporgente
dalla maglietta di cotone bianca che indossa rimane impigliato in chissà cosa,
ma sembra non farci caso. Vuole solo continuare
a muovere
i piedi a suon di musica, fingendo di interessarsi agli stupidi programmi
mandati in onda dalla rete televisiva di Gotham.
Si rende conto solo in questo momento, che il numero di un comico, sul
palco, è appena finito. Dev’essere stato decisamente penoso,
perché
sui volti del pubblico – un gruppo di stolti con le facce di pietra che non riderebbero nemmeno davanti ad una battuta ben detta – non
hanno
fatto una piega. Forse qualcuno ha fischiato, adesso come adesso non lo
saprebbe dire. La canzone che faceva da sottofondo al
numero
dell’improvvisato cabarettista si conclude, lasciando spazio ad uno scrosciante
applauso per il conduttore del programma, tornato sul
palco,
con il suo vestito di lustrini e un cappello che lo fa assomigliare
terribilmente ad una bambola per la pentolaccia.
Ah, se solo fosse stata
tra il pubblico… prendi il bastone,
lascia perdere la mira, cala forte.
Mr J
avrebbe approvato, poco ma sicuro. Le viene
improvvisamente da sbadigliare, un’apertura di fauci che meccanicamente va a nascondere
con il palmo della mano, sebbene non ci sia
nessuno,
ad osservarla. Chiude gli occhi quel tanto che le basta
per stiracchiare i muscoli del viso, ovale perfetto nonostante un segno ormai
giallastro
sullo zigomo destro, dove si è presa l’ultimo schiaffone. Ricompensa per
avergli rovesciato addosso quasi un’intera bottiglia
di
acqua, il
tutto mentre lei inciampava in un sacco nel pavimento e volava in avanti, senza
che lui facesse il minimo accenno di acchiapparla.
Così, oltre
ad essersi scorticata il palmo della mano – non usa i cerotti solo come vezzo
fanciullesco, diciamo – se le è anche buscate. A
ragion
veduta. Se non sa stare in piedi, la colpa è solo sua,
non certo del suo ‘puddin. Ma
non ci pensa ora, a quel livido. Perché nel momento
che
riapre gli occhi, questione di un secondo, sullo schermo è tornata la
pubblicità. Ma stavolta vede, oltre che guardare. E’ uno strano
messaggio
promozionale, quello… sfondo verde scuro, una scrivania e un uomo seduto dietro
di essa. Niente effetti speciali, niente musica,
niente
personaggi animati che si tuffano in una vaschetta piena d’acqua e detersivo,
per testare il nuovo ammorbidente al profumo di lavanda.
« La mancanza di autostima, è solo una
questione di rapporto. Come ci rapportiamo con quello che ci circonda. Non
riuscire a reagire quando il
capo in ufficio ci addossa colpe che non
abbiamo. Quando chiunque può raggirarci, facendoci
fare esattamente quello che vuole… » e quella che
una volta fu
il motivo. Forse perché si riconosce
nell’argomento trattato, soprattutto quando parla di « Quando quello che crediamo l’amore
della nostra vita
ci denigra, si approfitta del nostro
affetto per rigirarci come un guanto.. », o forse sono i suoi occhi. Lenti a contatto, quasi
certamente: due
ametiste, limpidi e profondi, assolutamente
estranei a qualunque altro tipo di sguardo le fosse mai capitato prima davanti.
Nemmeno gli occhi
di Mr J
brillavano in quel modo.
Nemmeno i suoi. E la sua voce,
espansa da quella gracchiante scatola elettrica, risultava comunque
dolce e rassicurante, come miele che
fluisce lentamente nelle orecchie e al
quale non si può fare altro che cedere. Si mette a sedere, Harley,
portando le lunghe gambe oltre la pila
di cuscini abbandonati sul pavimento,
punta dei piedi nudi che sfiorano le assi in legno, senza la minima paura di
scheggiarsi, nonostante
l’eventualità più che reale. « Falcon
Street al 18… ma certo..che originalità » mormora, cercando di memorizzare
l’indirizzo dell’uomo, apparso
in sovrimpressione.
Incredibile come
riesca a prendere una decisione senza nemmeno pensarci, se è dell’umore giusto. Si alza, quando la pubblicità
termina e
quell’idiota vestito di lustrini torna sul
palco, acclamato dai suoi spettatori come un dio sceso in terra. Le basta
premere un bottone, per farlo
sparire, risucchiato in un vortice nero.
Meglio così, decisamente…
facevi tristezza, per niente ridere.
Sono almeno due ore, che non la sente. Che lo stia semplicemente
ignorando? Non lo crede veramente possibile… quella ragazza
non può
più fare a meno di lui e lo sa. Lo sanno entrambi, per questo è così divertente. Quando non si mette in testa di rompergli le uova nel paniere,
ovviamente. Osserva gongolando il
suo nuovo capolavoro, più un insieme di ghirigori e scritte minuscole, che un
vero e proprio tema, ma
è abbastanza. In fondo non serve di
più, per organizzare quello che ha in mente. Una sorpresina al caro, tenerissimo
commissario Gordon.
« O-oh mio caro, mio
caaarissimo Jimmy… vedrai
come ci divertiremo, oh sì, ci divertiremo io e te! »
Si lascia andare ad una risata
cristallina e gioiosa, quella di un bambino alla prospettiva di ricevere un
gran bel regalo, per Natale. Con un
chiaro sottofondo rasposo
di pazzia, ovviamente, ma questo è solo un dettaglio. Si passa una mano fra i
capelli, che si sono allungati ancora,
da quando Harley
gli ha dato quell’ultima spuntatina,
approfittandone un po’ troppo. E’ una cosa che fa sempre, il suo Zucchino,
stargli troppo
appiccicata quando non dovrebbe. Fa ridere un
sacco.
Come l’espressione da cane bastonato
che si incolla sul viso quando vuole mettergli il
muso. E che svanisce, non appena si rende conto che
con lui non attacca, che le servirà
solo a prendere un altro schiaffo. Oh, chissà, se è fortunata
anche un bacio, prima. Sta ancora ridendo, ma si
dondola un po’ meno, sulla sedia. Questo, finchè quel rumore proveniente dalla sua bocca non scema
del tutto, facendo calare il silenzio.
Corruga la fronte, che è liscia e
rosea, senza ombra di trucco…
solo la chioma mantiene ancora quel
verde sporco con il quale si è tinto una settimana prima. Finchè
è da solo con lei, può permettersi di
mostrarle le sue cicatrici in tutta la loro
bellezza. Non ha bisogno di cerone, per nasconderle qualcosa. E’ troppo
accecata dall’amore, per vedere
qualcosa oltre.
Oltre al mostro, si
intende.
Corruga la fronte perché Harley non è arrivata. Il pasticcino – nomignolo che odia quando è lui ad usarlo, ma che gode infinitamente ad
appiopparle - non si è lanciata dalla stanza
accanto, sentendolo ridere. Di solito è questa la prassi e lei non la sta minimamente rispettando.
Attende, uno, due,
tre secondi, prima che la gioia folle di poco prima di trasformi radicalmente
in un singulto di collera.
« HAAAARLEYY! »
Ma l’Arlecchino è già uscito da un
pezzo, bello.
Non lo ammetterebbe mai, nemmeno se
le accendessero un fuoco sotto i piedi, ma quegli
occhi dai riflessi violacei le stanno facendo
perdere la testa. O forse è solo la
momentanea scarica di adrenalina, sparatale in corpo
da ghiandole impazzite nell’istante stesso in cui si è
resa conto che stava lasciando Mr J senza nemmeno avvertirlo, a darle quel leggero mal di
capo. Harley siede composta, su una piccola sedia
di legno, c’è un cuscino con stampe a
fiori, sotto di lei. Ideale solo se hai deciso di starci seduto non più di
mezz’ora, altrimenti il fondoschiena
comincia a protestare, come è giusto che
sia.
« E così, signorina Powell,
ha visto il mio annuncio in tv… » l’uomo, che le siede di fronte su una sedia altrettanto
scomoda, tiene le gambe
accavallate, con naturalezza e la osserva, tra
una parola e l’altra. Sorride appena, ma dalla sua voce trasuda una particolare
qualità che ultimamente
le è poco familiare: serenità. Sembra
assolutamente in pace con sé stesso, niente conflitti
interiori. E questo la fa rilassare enormemente, al
punto da alzare le mani per andare a
togliersi gli occhiali. Gli rivela il suo sguardo cristallino, ma lui non fa
una piega; riprende la frase da dove
l’aveva lasciata, intrecciando le dita
tra loro, appoggiando entrambe le mani sulle ginocchia « devo avvertirla subito che riconquistare la fiducia in
sé stessi non è una passeggiata…
bisogna avere buone motivazioni, una volontà di ferro e nessuna intenzione di
lasciarsi scoraggiare dagli imprevisti.. »
Certo. Ovvio. Tutte
cosucce che Harley si era già aspettata. E’
pur sempre laureata in medicina e la sua specializzazione
in psicologia e psichiatria
le da un discreto vantaggio su tutte
le altre donne che si sentono minacciate dalla mancata dimostrazione d’affetto
del proprio compagno. E poi
c’e da considerare che nessun altra aveva
Mr J. Non si potevano fare paragoni, di qualunque
genere. Annuisce, distendendo le labbra chiare in un
sorriso. Non sa nemmeno bene lei il perché,
ma quell’uomo, i suoi occhi di ametista,
i suoi capelli biondi e i lineamenti delicati, la costringono ad
esporgli il suo lato migliore.
Ha dovuto chiaramente inventarsi un
nome falso, Katherina Powell,
eppure da come lui la guarda e dal suo tono di voce accondiscendente,
sembrerebbe aver già mangiato la foglia. Non si
preoccupa però, la dottoressa. Quante volte gli sarà capitato di avere clienti
che non vogliono
rivelare il loro nome per paura di
ritorsioni da parte del marito? O del capo? Tante.
Troppe. Ecco sicuramente spiegato il motivo per cui
non fa domande.
Per cui non batte
ciglio.
E tu potresti anche piantarla di
sorridere come un’oca giuliva, tesorino. Via Mr. J, adesso non ho voglia di
ascoltarti.
Scuote la testa, piano, per
scacciare quella vocina che bene o male la tormenta sempre, quando non è lui di
persona a bisbigliarle nelle orecchie
o più semplicemente a gridarle quello
che deve fare. Passa una mano leggera sulla fronte, scostando una ciocca di
capelli chiari sfuggita alla
crocchia scomposta con cui se li è
frettolosamente raccolti uscendo dal covo, risalendo alla vita di una qualunque
persona normale. « non sono
una che si lascia scoraggiare
dagli imprevisti, signor Krust, cerco solo delle
risposte che sicuramente sono già dentro di me » Usa una voce sicura,
misurata. E’ come se all’interno
della stanza, dalle parete color panna ai dipinti di Manèt, tutto contribuisse a darle una forza emotiva
maggiore.
Annebbiandole allo
stesso tempo la mente, come durante l’assunzione di una droga leggera. Bah, sarà solo la sua
immaginazione. A quella risposta
decisa, Victor Krust
amplia il suo sorriso, annuendo compiaciuto, distendendo finalmente le gambe e
andando a posare una mano pallida sulla sua
« Sono sicuro che le tireremo fuori… » un’altra pausa,
corruga la fronte, come se si stesse
preparando ad una mossa azzardata « …
Katherina.. posso chiamarla Katherina,
sì? » ha l’aria di uno che chiede
sapendo già la risposta. Un atteggiamento
simile normalmente la farebbe irritare a morte – le persone che danno tutto per scontato sono solo poveri
e tristi ometti e donnine senza
futuro – ma in
questo momento no. In questo momento si limita ad
annuire, sorridendo come una scolaretta appena
invitata al ballo scolastico dal mediano di spinta della squadra di
rugby della scuola. « Solo se io
posso chiamarti Victor.. »
Non pensa a Mr. J nemmeno per un
istante, durante tutto il tempo della prima seduta. Se si
vedesse da fuori, se potesse rendersene conto,
rimarrebbe traumatizzata da quella eventualità:
rimanere senza di lui più di una ventina di minuti, di sua spontanea volontà.
Proprio lei che, quando
Joker se ne stava rinchiuso dietro una
lastra di vetro antiproiettile ad Arkham, si sentiva
male ogni volta che doveva rinunciare a lui per tornare a casa
propria, pur sapendo che lo avrebbe rivisto
l’indomani. E l’indomani ancora. E
quello dopo. Victor le fa qualche domanda che sembra di routine, prende
appunti per un’ora su una cartelletta di
cartone blu, sulla quale è incollata un’etichetta bianca che adesso riporta
quel nome fittizio che si è inventata,
strada facendo. La fa accomodare su una
poltrona, decisamente più comoda della seggiola di
legno, dove si sente sprofondare. Harleen sprofonda,
mentre continua a parlare, raccontandogli
i suoi desideri e i suoi sogni. Si sente come se mani invisibili le
massaggiassero la nuca, cullandola quasi.
Nessuna ninnananna sussurrata
all’orecchio, ma l’effetto è praticamente quello. Si tratta senz’altro della sua voce, ormai non ha più alcun
dubbio.
Quel misto di miele e calore,
assolutamente avvolgente.
E’ Victor Krust
a strapparla dalla ragnatela galleggiante dentro la quale si sta invischiando,
quasi addormentandosi « Direi che per oggi può bastare,
Katherina. Se ritorni domani alla stessa ora farò in modo di farti trovare pronto un
programma dettagliato per le prossime sedute, d’accordo? » D’accordo.
Glielo dice, confermando il proprio pensiero, scendendo dalla poltrona con un
movimento leggero e veloce, da ginnasta. Movimento che agli occhi
color ametista di lui non sfugge, ma non ne fa parola. Meglio così, avrebbe dovuto
spiegargli che fa molta ginnastica e che da ragazzina ha vinto una
discreta quantità di premi.
Ahaha. Divertente, come storiella per
salutarsi.
Basta che Harley
metta un piede fuori dalla porta e la realtà le
ripiomba addosso come un falco in agguato cala sulla presa. La afferra con gli
artigli,
provocandole un brivido che le accappona la
pelle, nonostante la felpa e il giubbino che ha
indossato sopra la stessa. « Arrivo Puddin’, arrivo.. »
sorride, mentre lo dice, a sé stessa più
che al suo compagno, lontano almeno dieci isolati. Sicuramente si è accorto che
lei è sgusciata via e,
altrettanto sicuramente, avrà qualcosa da
ridire in proposito. Scende dal marciapiede, inforcando gli occhiali scuri,
ritornando ad essere, per quell’attimo,
una giovane donna qualunque.
Victor la osserva, avvicinandosi
alla porta, richiudendola dopo il suo passaggio. C’è un piccolo cartello, con
la scritta Open, appeso davanti al vetro
che da sull’esterno. Lo gira, con un
movimento fluido del polso, sistemandolo sull’avviso di chiusura. Continua a
sorridere, mentre Harley si volatilizza,
sparendo dalla sua vista, dai suoi
occhi screziati di viola
« Harleen, Harleen…
non temere, è solo l’inizio di una nuova vita, per te..per noi.. »