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Autore: _Frame_    30/08/2015    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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50. Piattaforma militare di difesa antiaerea in mezzo al mare e HM Fort Roughs

 

 

L’aria si aprì sorreggendolo come una culla di soffici nastri di stoffa. I lembi d’aria passarono sotto le braccia, attorno ai gomiti; scivolarono fino ai polsi, lo fasciarono sul busto e tra le gambe, lasciandolo scendere a terra in una morbida e lenta caduta. Inghilterra chiuse gli occhi, reclinò il capo all’indietro, e si lasciò andare in un respiro liberatorio.

Aah.”

La schiena toccò la parete interna della sala di comando. La nuca piegata all’indietro strisciò lungo il ruvido muro di cemento, le spalle si accasciarono di peso, le braccia ancora alte e ciondolanti, sorrette dai nastri d’aria, scivolarono facendo toccare la parete alle mani intorpidite.

Scese ancora, dolcemente.

La punta della scarpa toccò il pavimento. Quando Inghilterra poggiò tutto il piede, la gamba tremò di fatica, il muscolo del polpaccio divenne duro e dolorante, fece partire una scarica elettrica che arrivò fino al ginocchio. Inghilterra lasciò strisciare la schiena lungo il muro, abbassò le braccia e aprì le mani alla parete, sorreggendosi. Anche le dita tremavano. Sottili rivoli di sudore fiorivano in minuscole goccioline sul fianco della mano e si ingrossavano correndo tra le nocche, per poi gocciolare dai polpastrelli. Macchie di un grigio più scuro si aprivano sul cemento.

Il peso dell’aria svanì, abbandonandolo a terra come una marionetta che perde i fili, accasciandosi a peso morto. Inghilterra esalò un altro sospiro liberatorio. Le ginocchia si piegarono verso l’interno, fino a toccarsi. Piegò le spalle in avanti, fece ciondolare il capo di lato lasciando che l’ombra dei capelli fradici di sudore e tenuti incollati dalla polvere gli nascondesse l’espressione stropicciata dal dolore e dalla fatica. Socchiuse la bocca. Restò immobile a respirare a grandi boccate, la gola gli bruciava, i polmoni gli facevano male insieme alle costole rotte che pungevano il fianco e alle vertebre della schiena. Altro sudore gli grondò dall’attaccatura dei capelli, scese correndo lungo le guance e gli entrò negli angoli della bocca, inumidendo le labbra screpolate. Inghilterra chiuse la bocca e deglutì, assorbendo il sapore salmastro e pungente che gli scivolò in gola.

Mosse le dita sulla parete. Sentiva freddo e ruvido sotto i polpastrelli. Anche dietro la schiena c’era freddo. La giacca era intrisa del suo sudore, dell’umidità lasciata dalle nuvole, e divenne ghiacciata a contatto col cemento. A ogni respiro, era come ricevere una martellata in mezzo alle costole. La frattura non era ancora guarita.

Inghilterra sollevò la fronte senza aprire gli occhi, strisciò verso il basso scaricando tutto il peso sulle ginocchia, e tenne i palmi aperti per fare attrito sul muro.

“Ce l’ho fatta,” soffiò. Un piccolo sorriso di soddisfazione fiorì sulle labbra bianche e tremanti. “Ce l’ho fatta.” Scivolò ancora più in basso. Le caviglie dolenti reggevano tutto il peso. “Ce l’ho fatta.”

Sbatté le ciglia. Dietro il velo appannato intravide la sagoma del tavolo della battaglia, piegato in due verso l’interno. Le due estremità spezzate toccavano terra formando un angolo acuto, le gambe di legno erano sollevate da terra, tese verso l’alto come le zampe di un animale stecchito.

Inghilterra si buttò giù. Mentre cadeva, sentì il suono del legno che finiva di frantumarsi, la pioggia di pedine che rotolavano sul pavimento in uno scroscio metallico, e lo spostamento d’aria che lo investì in una zaffata di polvere.

Qualcosa di morbido lo sorresse prima di fargli toccare il pavimento con la testa.

“Non cadere,” gli disse la vocina della fatina, affianco all’orecchio.

Inghilterra strinse le braccia attorno al corpo dell’unicorno. Si era materializzato dietro la sua schiena, aveva fatto passare il muso sotto i suoi gomiti piegati e si era fatto stringere al collo. Inghilterra fece leva solo sulle braccia, abbandonando completamente le forze delle gambe che ciondolavano lasciando i piedi accasciati a terra, storti come se avesse avuto le caviglie spezzate. Strinse le dita, i polpastrelli corsero sotto la criniera, lungo la peluria morbida, simile a velluto, e tuffò il viso tra i crini che gli pizzicarono le guance.

L’unicorno piegò le zampe e si accovacciò contro il muro, rannicchiando gli zoccoli contro la pancia. Inghilterra si tenne accoccolato contro il suo busto, con le braccia sempre avvinghiate attorno ai muscoli del collo, sotto la cascata di crini bianchi. La pancia dell’unicorno si mosse contro il suo fianco durante un respiro, e Inghilterra dovette stringere i denti per non gemere di dolore. Era ferito.

L’aria spostata dal volo della fatina gli scosse una ciocca di capelli sopra l’orecchio. “Ecco.” La fatina posò i piccoli piedi sulla sua spalla. Gli posò una manina tra i capelli e gli districò le ciocche tenute incollate da sangue, sudore e sporco. Sbatté le ali con più forza, sollevò un vento fresco e un benefico profumo di lavanda che gli fece distendere i muscoli indolenziti. “Stattene buono giù ancora per un po’.”

Inghilterra socchiuse gli occhi. La vista era ancora appannata. Il tavolo da combattimento spezzato in due era una figura sfocata a forma di triangolo senza base con il vertice all’ingiù, ferma in mezzo alla nebbia di polvere tagliata in due da solo una delle quattro lampade appese al muro. La lampada sfarfallò emettendo un sottile ronzio. L’improvviso sbalzo di luce gli colpì la fronte e gli occhi. Inghilterra sentì il cranio sbriciolarsi dall’interno. Emise un guaito e girò la testa, nascondendo la fronte tra la peluria dell’unicorno.

Due rivoli caldi scesero dalla tempia, disegnarono due righe parallele sulla guancia e gli entrarono nell’angolo delle labbra socchiuse. Era più denso e corposo del sudore e sapeva di ferro. Sangue.

“Recupera le forze, non ti affaticare,” disse la fatina sulla sua spalla. Si tenne aggrappata a una sua ciocca di capelli e piegò le spalle in avanti, addolcendo il tono di voce. “Dov’è che sanguini?”

Inghilterra sentì il fianco dell’unicorno su cui era sdraiato farsi più caldo e umido, la sensazione appiccicosa scivolare dalle sue braccia, gocciolare dalle dita e bagnargli i crini. Piegò gli angoli delle labbra verso l’alto, forzando le rughe della faccia in un sorriso sbilenco, e sentì altre viscide gocce rotolargli fino al mento. Riusciva a immaginare il pelo dell’unicorno ricoprirsi di chiazze scarlatte formate dal suo stesso sangue, e la criniera bianca diventare umida e appiccicosa, incollarsi a grossi grumi come fibra di corda, diventare color mattone.

“Dov’è che non sanguino, vuoi dire.”

Sogghignò. La pressione della risata sulle costole gli fece mancare il fiato. Inghilterra sbiancò di colpo, sfregò il viso sul collo dell’unicorno all’altezza del garrese e soppresse un guaito sofferente. Trattenne il fiato fino a che non sentì il dolore svanire come un’onda che si ritira.

La fatina infilò una mano tra le pieghe del vestito. Estrasse un quadratino di stoffa, lo afferrò per un angolo e lo aprì sbattendolo per aria. Una cornice di violette ne ricamava i bordi. “Ecco.” Si alzò in volo e passò il fazzoletto sul viso di Inghilterra, dalla tempia al mento, picchiettando sulla guancia. Il sangue imbevette la stoffa facendola diventare un panno scuro, fradicio e caldo. “Cerca di riprenderti e non alzarti fino a che non smette di girarti la testa.”

Inghilterra rise di nuovo. Una risata soffusa. “Ho vinto.” Voltò il capo dall’altra parte, senza aprire gli occhi. Ogni volta che prendeva un respiro affannato, il sorriso sulle labbra diventava più largo. “Ho vinto. Ho davvero,” deglutì e rigettò un lungo sospiro, “ho davvero vinto.”

“Sei stato bravissimo.” La fatina diede un’ultima sfregata con il fazzoletto sullo zigomo, raccolse un ultimo rivolo di sangue e gettò via il piccolo panno sporco. Si strofinò i palmi l’uno contro l’altro. Il tono di voce tornò freddo e serio. “Però hai vinto solo la battaglia, la guerra non è finita.”

Inghilterra socchiuse una palpebra verso l’alone viola che circondava il corpicino della fatina. Prese un respiro più avido, si gonfiò i polmoni per ribattere, ma una terza vocina parlò per lui.

“Be’, adesso cerchiamo di non badarci e pensiamo a festeggiare.”

Il coniglietto alato zampettò lungo il pavimento, e si portò vicino a una gamba di Inghilterra stesa sul pavimento. Schivò un frammento di tavolo a forma triangolare – la superficie era azzurra, marchiata dalle lettere ‘Cha’ – e saltellò tra due miniature di Hurricane ribaltate sul fianco. Il coniglietto si arrampicò sulla coscia di Inghilterra, si impennò sulle zampe posteriori, e tese quelle anteriori verso l’alto. Le unghiette stringevano una zolletta di zucchero.

“Ecco, mangia questa e ti tirerà su.”

L’unicorno rizzò le orecchie e dilatò le narici. Voltò il muso investendo il coniglietto con il fiato bollente che gli uscì dal naso. Piegò il collo verso la sua pancia, tese il muso, le orecchie dritte e alte, e separò le labbra a uno sfioro dalla zolletta.

Il coniglietto ritirò le zampette con uno scatto. “No, non tu.” Gli scoccò un’occhiata di rimprovero e saltò giù dalla gamba di Inghilterra.

L’unicorno emise un nitrito basso e profondo che gli fece tremare le narici. Scosse la testa agitando i crini e allontanò il muso.

La fatina sfrecciò sopra le zampette ancora alzate del coniglietto. Gli prese la zolletta di zucchero dalle unghie e volò verso il viso di Inghilterra. Gli poggiò un angolino di zucchero sopra la bocca e una manciata di grani si sciolse, addolcendo le labbra. La fatina spinse di poco e Inghilterra schiuse la bocca. La zolletta gli scivolò sulla lingua, si sciolse dentro la guancia in un grumo di zucchero che scricchiolò sotto i denti.

Il sapore dolce e sciropposo soffiò via i dolori alle ossa, ai muscoli, e i bruciori delle ferite sanguinanti.

Inghilterra schiacciò la lingua sul palato e la zolletta si squagliò in uno sciroppo dolce e granuloso. Sorrise di nuovo. Un sorriso più piccolo e naturale. Le guance si tinsero di rosso per l’emozione e non per il sangue.

“Grazie, ragazzi.” Ingollò la poltiglia di zucchero e riaprì gli occhi, rivolgendo il sorriso alle creature fatate. Sospirò. “Grazie. Davvero.”

Lunghi e pesanti passi provenienti dal corridoio fecero tremare il pavimento.

Fatina, coniglietto, unicorno e Inghilterra sollevarono gli sguardi verso la porta alla loro destra. L’estremità dello stipite che si agganciava al muro sfiorava la spalla dell’unicorno poggiata alla parete.

Il volume della corsa aumentò e l’unicorno rizzò le orecchie. Qualcuno strinse la maniglia e la ruotò con un cigolio secco e breve, come un singhiozzo.

Inghilterra non ebbe tempo di scansarsi che si ritrovò la porta stampata in faccia, i piedi spinti all’indietro dall’anta e le ginocchia incollate alla pancia. Soffocò il gemito contro il legno. Naso e labbra erano spiaccicati dalla pressione della porta.

“Signore.” La voce dell’uomo che aveva spinto la porta suonò allarmata e affaticata. Inghilterra lo riconobbe; era il generale che lo aveva informato del primo bombardamento su Londra.

Il generale fece un passo avanti senza scollare la mano dal pomello, restò in silenzio per qualche secondo, si stava guardando intorno, lo sguardo ipnotizzato dal tavolo spaccato in due come da una secca e violenta mossa di arti marziali.

“È qui, signore?”

Inghilterra mugugnò contro la porta. Il fiato caldo e umido bagnò l’anta di legno.

Il generale fece un altro passo. Residui del tavolo schizzati lungo il pavimento si sbriciolarono sotto le suole, la punta dello stivale urtò un modellino di aereo sull’ala e il caccia rotolò finendo ribaltato a pancia all’aria.

Il generale sobbalzò. “Ma che...” Abbassò la voce e sollevò il piede, attratto dalla scintilla metallica emanata dal piccolo caccia. “Che è successo?”

Inghilterra sollevò un avambraccio e batté piano le punte delle dita sulla porta. “Sono quaggiù, generale,” biascicò.

Il generale scollò il palmo dalla maniglia e fece un balzo di lato.

“Ah!” Calpestò qualcos’altro che fece il suono di un biscotto che si sbriciola.

La porta scivolò all’indietro con un cigolio, scoprì la visione della camera che era abbagliata da una calda luce gialla proveniente dal corridoio. Il viso del generale si contrasse in un’espressione di scuse, gli occhi squadrarono il corpo martoriato di Inghilterra ancora accasciato a terra e assunsero una luce di compassione.

Il generale piegò le spalle in avanti, nascondendo il volto, e la schiena inarcata tremò. “M-mi perdoni, signore.”

Inghilterra fece roteare gli occhi e si massaggiò la punta del naso. L’unicorno scosse la coda di crine facendogli aria al viso, il coniglietto volante zampettò vicino alla gamba di Inghilterra e si impennò sulle zampe posteriori, tastando l’aria con le vibrisse per assicurarsi che stesse bene. La fatina si posò sulla sua spalla, incrociò le braccia al petto e guardò il generale mettendo il broncio, rivolgendogli un’occhiata acida e seccata. Batté il piedino come aspettandosi una scusa dall’uomo.

Il generale sollevò gli occhi, ancora esitanti, ma non raddrizzò le spalle. Squadrò di nuovo Inghilterra, soffermandosi su ogni ferita che gli imbeveva i vestiti e la pelle di sangue, e lo guardò negli occhi.

“Sta bene, signore?”

Inghilterra socchiuse le palpebre insanguinate. La testa gli girò per un secondo, facendogli salire un conato di nausea. “Sì.” Chiuse del tutto gli occhi e mosse i polpastrelli carezzando il pelo dell’unicorno. Morbido, caldo, leggermente umido del suo sangue in certi punti. La sensazione dei freddi caccia stretti tra le sue dita, e quella bruciante delle bombe che esplodevano sotto i suoi comandi era svanita. Inghilterra inspirò a lungo e buttò fuori l’aria in un soffio liberatorio. “Ora sì, sto bene.”

Riaprì un occhio. Il generale si era avvicinato.

“Londra?” gli domandò.

Il generale sobbalzò, colto dalla domanda improvvisa, e si sfregò la nuca con movimenti nervosi. “Uh, abbiamo scacciato i tedeschi, signore. Non possiamo garantire nulla sul fatto che non ci attacchino più, almeno di notte, ma – ehm, volevo dire...” Scosse il capo con un gesto violento. Si avvicinò di un altro passo e la sua espressione irrigidì, perse ogni insicurezza. “Signore, non sono venuto a cercarla per questo.”

Inghilterra e la fatina si scambiarono un’occhiata interrogativa, a sopracciglia inarcate. Inghilterra rivolse al generale quella stessa espressione. “Qual è il problema, allora?”

Il generale aggrottò la fronte. Palpebre e labbra vibrarono, tornò il lampo di insicurezza che balenò tra gli occhi. Giunse le mani dietro la schiena e irrigidì. “Abbiamo bisogno di lei al porto, signore. Ho l’immediato ordine di scortarla.” Spostò il peso da un piede all’altro. Le mani strette dietro la schiena si mossero, fecero scricchiolare la pelle dei guanti. Il generale deglutì e contorse il labbro inferiore. “È un’emergenza.” Un rossore imbarazzato gli impolverò le guance.

Inghilterra sollevò un sopracciglio. “Al porto?” Un brivido di curiosità gli pizzicò il collo.

Inghilterra incrociò lo sguardo con il placido muso dell’unicorno. Rivolse un palmo al cielo e sollevò la mano un paio di volte a rapidi scatti, facendogli cenno di rialzarlo. L’unicorno piegò il muso di lato, stese le zampe anteriori e richiamò quelle posteriori vicino ai fianchi, muovendo la schiena di Inghilterra. Rizzò le zampe anteriori e si diede una spinta con la groppa, rialzandosi con un unico slancio. Le braccia di Inghilterra erano ancora avvinghiate al suo collo, e Inghilterra sentì i muscoli dell’animale contrarsi e sorreggerlo. Tirò su il sedere da terra e già sentì il primo capogiro martellargli la testa.

Le ginocchia cedettero appena raddrizzate, il sangue sgorgò dalle ferite sui fianchi e scivolò fino ai piedi, caldo e viscido. Altro sangue scese anche dai capelli, gli tinse la vista di rosso. L’unicorno si mosse di una zoccolata in avanti, Inghilterra lo seguì tenendosi aggrappato al collo, a spalle gobbe e passo trascinato. Scosse il capo e gli fece cenno con il mento di tornare ad accovacciarsi.

Mentre l’unicorno tornava a sistemarsi, Inghilterra si rivolse al generale guardandolo da dietro il velo rosso gocciolante.

“Mi venga...” Si accasciò nuovamente contro la morbida pancia dell’unicorno e si abbandonò al ritmo del suo respiro. Esalò un sospiro e si prese la fronte tra le dita. “Mi venga a chiamare in un altro momento. Ora ho altro per la testa.”

Il generale sbatté le palpebre, guardò prima Inghilterra, poi il punto verso cui si era alzato tenendosi aggrappato al vuoto. Socchiuse le labbra, balbettò per qualche istante e cacciò via l’espressione perplessa con una scrollata di capo.

“Signore.” Congiunse di nuovo le mani dietro la schiena e tornò rigido e composto come un perfetto soldatino. La luce che passava dietro la sua schiena faceva brillare i gradi sulle spalline. “Mi rendo conto che si trova in una situazione critica e delicata, ma non sarei mai venuto a chiedere il suo aiuto se non si trattasse di una questione urgente, signore.”

Inghilterra sbirciò da dietro le dita divaricate sulla fronte. Aggrottò le sopracciglia bagnate di sangue. “Parli chiaro, generale.” Gli rifilò un’occhiata spazientita. “Che cosa sta succedendo?”

Il generale abbassò la fronte. “C’è un problema, signore. Al largo, a sette miglia nautiche dalla costa. Con una delle fortezze marittime di difesa antiaerea allo sbocco della foce del Tamigi.” Prese un respiro, rafforzando il tono di voce. “È richiesta la sua presenza e ho l’ordine di scortarla immediatamente, signore.”

“Uhm? Che c’è, l’hanno distrutta?” Inghilterra scavalcò la schiena dell’unicorno con il braccio libero, facendolo ciondolare sul grosso fianco rotondo. Tolse le dita dalla fronte e sventolò la mano. “Suvvia, capita. Date inizio ai lavori di ricostruzione, fate evacuare e –”

“N-no, signore. La fortezza sta bene, signore.” Il generale abbassò gli occhi e tornò a grattarsi la nuca. “Solo che...” Si perse in un mormorio.

“Che diavolo sta succedendo, si può sapere?” Ora anche il tono di Inghilterra era spazientito, non solo lo sguardo.

Il generale risollevò gli occhi con un gesto intimidito. Arricciò un angolo della bocca e si sfilò le dita dai capelli, facendo tornare la mano dietro la schiena. “Penso sia meglio che lei venga a controllare di persona, signore.” La voce seria. Troppo seria.

Inghilterra, la fatina e il coniglietto si scambiarono occhiate interrogative. La fatina rivolse i palmi al cielo, il coniglietto si strinse nelle spalle ed entrambi rimasero zitti.

Non restava che andare.

 

♦♦♦

 

Inghilterra sollevò il mento, storse la bocca verso il basso, l’angolo delle labbra vacillò deformandosi in una smorfia di sconcerto. Fece un passo all’indietro.

“E questo cosa significa?”

Il bambino gattonò fino al muro di cemento, tenendo la punta del nasino tesa verso l’alto, come un animaletto che tasta l’aria. Le piccole ginocchia che avanzavano a tentoni sul pavimento di cemento schiacciavano la semplice veste bianca che avvolgeva il corpicino, scendeva giù per le braccia e si incastrava sotto i palmi. Il bimbo raggiunse la parete, sollevò una manina paffuta e toccò una delle casse di munizioni impilate l’una sopra l’altra. Trovò una rientranza nel legno, strinse le piccole dita e si tirò in piedi. Barcollò, i piedini incespicarono tra le pieghe del vestito, e afferrò la cassa con entrambe le manine.

I passi del generale si avvicinarono a Inghilterra.

“Lo abbiamo trovato due giorni fa, signore.”

Inghilterra sobbalzò al suono della sua voce. Fu come se lo avesse risvegliato da un sogno.

Il generale giunse le mani dietro la schiena, si strinse nelle spalle, e guardò in basso, facendosi rosso in viso. Si tolse il berretto e strofinò i polpastrelli fra i capelli, scendendo fino alla nuca. “All’inizio abbiamo pensato che fosse arrivato qui con una delle spedizioni per i rifornimenti, ma l’ultima è avvenuta circa una settimana fa, e l’avremmo notato prima. Stiamo talmente stretti, qui.”

Il bambino fece due piccoli passetti laterali, tenendosi aggrappato alle casse con le piccole e soffici manine avvolte dalle maniche del vestito. Il bimbo completò i due passetti e, quando arrivò al bordo della cassa, snudò un sorriso di soddisfazione. Tre dentini bianchi e lucidi brillarono sulla gengiva nuda dell’arcata superiore.

“Prima abbiamo radunato gli uomini che si trovavano alla base il giorno in cui è comparso, ma nessuno di loro lo ha riconosciuto,” continuò il generale. “Abbiamo comunque messo in allerta la guardia costiera nel caso avessero ricevuto avvisi di bambini dispersi. A volte capita che seguano i genitori fino al porto d’imbarco.”

Inghilterra inclinò il capo di lato. Storse un sopracciglio sotto la benda che gli fasciava la fronte coperta dalla frangia, e piegò verso il basso anche l’altro angolo delle labbra. Il quadrato di garza incollato alla guancia si mosse, grattandogli la pelle. Era fissato con due nastri di cerotto bianco incrociati. Gli occhi di Inghilterra, fermi e ludici tra le palpebre nere e sciupate dalla fatica, non si staccavano dal bimbo, seguendo ogni suo minino gesto.

Il generale scosse il capo, si rinfilò il berretto. “Ma ancora niente, non pare essere il figlio di nessuno dei soldati che ci sono qui alla base.” Prese un piccolo respiro. “Sembra essere sbucato fuori dal nulla.”

Il bimbo sollevò gli occhi al soffitto. Erano due grandi e vivaci occhioni azzurri che saettavano nell’aria come seguendo il volo di un insetto invisibile. Sollevò le sopracciglia, la boccuccia seminuda si schiuse svelando il bagliore dei tre dentini incastrati nella gengiva. Il bambino innalzò le piccole braccia, strizzò le manine sull’aria e barcollò di due passetti lontano dal sostegno della cassa. Sbatté le palpebre. Le iridi brillarono di meraviglia anche nella penombra.

Inghilterra abbassò gli occhi, si affrettò ad allontanare il rossore delle guance dallo sguardo del generale. “Perché avete chiamato me, allora?” brontolò.

Il generale tornò a stringersi nelle spalle. Rimuginò per qualche secondo, impastando le parole tra le labbra. “Signore, ecco, pensavamo, ehm,” guardò di lato e si passò di nuovo le dita tra i capelli sotto il berretto, “dato che il bambino potrebbe essere saltato fuori proprio dalla base, che forse...”

Inghilterra si voltò verso il generale e il velo scarlatto sulle guance bendate sbiadì. Lo squadrò con un rapido movimento delle palpebre, stando in silenzio. Sapeva dove voleva arrivare.

Il generale borbottò una risatina goffa e nervosa. La mano che sfregava sulla nuca si fece più insistente. “Mi perdoni, lo so che sembra assurdo, ma ci chiedevamo se forse potrebbe essere...” Ruotò gli occhi verso l’alto, incrociandoli con quelli di Inghilterra. Non ridevano più, e anche la bocca era tornata piatta. Le dita che grattavano la nuca si fermarono, scivolarono dai capelli e l’uomo giunse le mani dietro la schiena. “Come lei,” mormorò. La voce debole e intimidita.

Inghilterra emise un ansimo che lo fece sobbalzare. Le costole doloranti, ancora incrinate, diedero una scossa al fianco che si alleviò subito, e lui riprese a respirare normalmente. Inghilterra tornò a posare gli occhi sul bambino. Sollevò il mento, voltò la guancia, guardandolo di traverso.

Il piccolino allargò le braccine per tenersi in equilibrio, e gli orli delle maniche ciondolarono dalle manine. Compì un piccolo passo sul cemento senza sostenersi a nulla, guardandosi fra i piedi, traballò e non cadde.

Una pioggia di polvere viola lo avvolse come una cascata di brillantini. Il bambino sollevò gli occhi, e l’ombra della fatina gli attraversò il viso. Le scintille emanate dalle ali che sbattevano gli riempirono gli occhi già lucidi di meraviglia.

La fatina giunse le mani davanti al seno e gli sorrise, volando a una piuma dal suo nasino.

“Aahw ~ ma guarda quant’è carino.”

Il bimbo sorrise. Allungò la manina verso la fata e chiuse le dita, sfiorandole le piccole gambe che sguazzavano nell’aria. Sul palmo gli rimase solo una soffiata di polvere viola.

Il coniglietto volò attorno alle spalle del piccolo, il vento sollevato dal morbido battito d’ali piumate fece agitare le pieghe del vestitino bianco.

“Quando sono così piccini riescono ancora a vederci e a giocare con noi,” disse il coniglietto con un dolce sorriso.

Stese le ali, volò davanti al viso del bambino e allungò una zampetta verso la sua fronte. Le unghiette corsero sulla frangia, districarono le ciocche, facendo correre ondate d’oro sulla testolina. Il coniglietto sorrise e tenne la zampetta sulla fronte nuda del piccolo, a scostare i capelli di lato.

“Guarda, Inghilterra, ha le tue sopracciglia.” Ridacchiò.

Inghilterra stropicciò una smorfia irritata. Guance e fronte divennero rosse e lucide come la buccia di un pomodoro, un gorgoglio di imbarazzo gli torse lo stomaco. Gettò lo sguardo di lato e si immusonì, aggrottando d’istinto le folte sopracciglia. La benda che aderiva alla fronte passando dietro la nuca si tese, sfregando sulle ferite brucianti non ancora rimarginate.

La fatina volò su una spalla del bambino e allungò un braccio verso la guancia del piccolo. Scosse il capo. “Sì, ma gli occhi sono azzurri come il mare.” Le piccole dita della fatina spruzzarono una soffiata di polverina magica che volteggiò sotto il naso del bambino. Il bimbo trillò una risata e stropicciò la punta del nasino.

Il coniglietto gonfiò il petto. “Come quelli di America.”

La fatina si spolverò le mani. “No, America li ha azzurri come il cielo,” ribatté.

Inghilterra imbronciò le labbra. Annodo le braccia al petto e rimase chiuso nelle spalle, a schiena gobba. Lo strano e fastidioso ribollio borbottava nel petto e nello stomaco, facendogli solletico al cuore e alla pancia.

La fatina spiccò il volo portandosi più in alto della testolina del bambino. Allungò le braccia verso il basso, fece sguazzare le gambe, e lo richiamò aprendo e chiudendo le dita per attirare la sua attenzione. Il bambino spalancò gli occhioni azzurri – come il mare! – e zampettò seguendo la scia di polvere viola. La boccuccia socchiusa, le manine che strizzavano sull’aria richiamando la fatina verso il basso. Il coniglietto volò dietro le sue spalle. Poggiò il muso sulla schiena del bimbo e lo spinse delicatamente in avanti, aiutandolo a restare in piedi.

Inghilterra fece tamburellare le dita della mano destra, bendate fino alla prima falange, sull’avambraccio annodato al petto. Distolse gli occhi dal bambino e sospirò. “Le nazioni non nascono dalle piattaforme militari. Non c’è nessuna prova che possa essere nato direttamente da qui.”

Il generale gli cercò lo sguardo. Sbatté le palpebre e una leggera sfumatura di delusione gli appannò gli occhi.

Inghilterra si voltò di fianco, tenendo lo sguardo lontano dal bambino. Sciolse un braccio dal petto, sollevò la mano bendata e la sventolò per aria. “Riportatelo sulla terraferma. Se non si presenta nessuno a denunciarne la scomparsa, affidatelo a un orfanotrofio.”

Il generale storse un sopracciglio. Serrò il labbro inferiore come per contenersi dal dire qualcosa e corrugò la fronte sotto l’ombra del berretto.

La fatina sbarrò gli occhietti, irrigidì le ali e le stese, planando davanti al viso di Inghilterra.

“Inghilterra, aspetta, non essere precipitoso.” Aprì i palmi mettendoglieli davanti al naso. La fatina sollevò le sopracciglia e sbatté le ciglia. “Pensa se questo bambino fosse nato davvero da qui.” Rivolse un’occhiata al piccolo. Il bimbo compì un altro passo aiutato dalla spinta del coniglietto e fece ondeggiare le piccole braccia per reggersi in piedi. Gli occhi della fatina si inumidirono. “Se lo portassi via dalla sua terra natale contro la sua volontà potrebbe scomparire.”

Il muso del coniglietto sbucò da dietro le spalle del bambino.

“È vero, non possiamo lasciare che muoia,” esclamò. Sfregò il nasino sulla guancia del piccolo facendogli solletico con le vibrisse. “È troppo tenero.”

Il bambino rise. Sulle guanciotte paffute si stese una spolverata di rosso, la boccuccia si stese formando il sorriso a tre denti e incavò due fossette dentro la pelle rosea.

Inghilterra sentì un tuffo al cuore. Voltò il capo di scatto.

“Ma per favore,” borbottò tra i denti.

Il generale piegò un sopracciglio. “Signore?”

Inghilterra si rese conto solo in quel momento di star parlando con le creature fatate davanti a un ufficiale e si pizzicò il labbro inferiore. “N-niente.”

Il suono dei passetti gli fece roteare lo sguardo.

Il bambino si voltò, le piccole braccia sempre alte e le manine che si agitavano e si aggrappavano all’aria.

Fuori dalla fortezza marina, gli scrosci delle onde si alternavano ai rumori metallici delle gru, al brusio di voci degli ufficiali, e ai passi che battevano sul cemento della piattaforma. Odori di olio, di ferro, e di salsedine riempivano l’aria del forte.

Il bambino si sbilanciò di lato, incrociò le piccole gambe nascoste sotto la veste bianca, e cadde a palmi aperti, sorreggendosi sulle braccia. Inghilterra mosse le dita sull’avambraccio, arpionò la manica della giacca con le unghie e trattenne la mano nella piega del gomito. Il formicolio al petto e allo stomaco si fece più intenso, gli fluì nelle vene, caldo e dolce.

Inghilterra vide una distesa di erba verde nascere sotto le manine e i piedini del bambino, stendersi a macchia d’olio e rivestire le scure pareti di cemento del forte. L’erba risalì le casse di munizioni poggiate alla parete, divenne grigia fino a trasformarsi in una roccia ricoperta di piccoli fiorellini azzurri. Le cime di corda arrotolate alla parete si allungarono, toccarono la roccia fiorita e divennero radici che scivolarono sotto la pietra, strisciarono tra l’erba e si allungarono tra i piedini nudi del bimbo.

Il bambino fece una piccola smorfia con la punta del naso. Si levò in piedi e mulinò con le braccia per non cadere.

Il manto d’erba si estese su tutto il pavimento. Raggiunse la parete, la tinse con una macchia azzurra che si allargò sui muri, diventando un limpido cielo estivo. Fasci di grano dorato ondeggiavano sullo sfondo, l’ombra del bambino si univa a quelle dei filoni che brillavano sotto la luce del sole. Sciami di farfalle azzurre si scollarono dalla roccia nata dalle casse di munizioni e volarono attorno al bimbo come petali spinti dal vento. Il bambino fece un altro passo insicuro. Allungò un piede, premette il piedino tra i ciuffi d’erba, rimase immobile, e allungò l’altro.

Inghilterra sentì le palpebre bruciare, gli angoli degli occhi gonfiarsi, farsi più pesanti. La vista divenne un velo appannato.

Troppi ricordi.

Il bambino completò il passo, posò male il piedino, troppo di lato, e inclinò l’anca all’esterno. Quando iniziò a cadere, il sorriso sbiadì di colpo. Cadde sulle ginocchia e poi sul petto, battendo il mento per terra, con le braccia stese in avanti. Emise un piccolo guaito.

Il prato svanì di colpo come una bolla che esplode.

Il bimbo giaceva sul cemento, sotto le grandi ombre delle pareti scure e umide, pregne dell’odore del mare e delle armi.

Inghilterra e il generale sobbalzarono all’unisono. Le braccia dell’ufficiale scattarono in avanti, ma l’uomo rimase immobile.

Inghilterra scrollò il capo, strofinò la manica della giacca sugli occhi umidi e brontolò un gemito scocciato.

“Ah, maledizione.”

Camminò a passo pesante verso il bambino. Il piccolo non si era ancora alzato, ma aveva sollevato il mento da terra. Il visetto era spolverato di grigio, la punta del nasino era rossa e gli occhi gonfi e lucidi come pozze d’acqua.

Inghilterra si piegò in avanti, gli strinse delicatamente i fianchi, e lo sollevò da terra.

Finse voce grossa. “Su, coraggio, di nuovo sulle tue gambe.”

Il bambino era leggero, il piccolo corpo morbidissimo sotto il tocco lievemente insicuro e tremante di Inghilterra.

Inghilterra lo rimise in equilibrio sulle gambe, il bimbo traballò di lato e si appese al suo braccio, quello senza fasciatura. Il piccolo strinse le manine, schiacciò la guancia sul braccio di Inghilterra e si tenne avvinghiato per non tornare a cadere.

Inghilterra trattenne il fiato, rigido come pietra.

Sentiva il cuoricino del bambino battere forte contro il suo braccio, il petto pulsava sotto il respiro caldo e morbido che gli soffiava sulla stoffa della manica.

Inghilterra stropicciò le palpebre sotto la piega inarcata delle sopracciglia.

Il bambino sollevò la fronte, sfregò il visetto contro il suo braccio rimanendoci appoggiato con il mento. Sbatté le palpebre. Riflessi azzurri attraversarono le iridi. A Inghilterra parve quasi di sentire il lento e regolare suono delle onde che scrosciano, il profumo salmastro del mare aperto e la freschezza delle gocce d’acqua che ti schizzano sul volto sotto la spinta della brezza marina. Tutto nei suoi occhi.

Il bimbo gli sorrise mostrando i tre dentini. Dalla bocca socchiusa uscì un piccolo vagito di gioia.

Inghilterra ritirò le labbra, morsicandosele. Le guance avvamparono di rosso, scottarono e fumarono come piastre roventi.

La fatina gli volò sulla spalla. “Visto?” Si sedette, sistemò l’abito sotto le gambe e piegò il capo di lato, sorridendo. “Gli piaci già.”

“Eh?”

Inghilterra scrollò il capo. Mosse il braccio sotto la presa del bambino, ma le manine non lo mollavano.

“Ehi, ehi, ehi. Non ci pensare nemmeno.” Si accovacciò di fronte a lui, piegando il braccio libero sul ginocchio. Il bambino gli rivolse uno sguardo intontito. Inghilterra aggrottò la fronte, sollevò la mano libera e gli premette l’indice sulla punta del nasino. “Li conosco quelli come te, sai?” Il bimbo incrociò gli occhi guardando la punta dell’indice che gli saltellava sul nasino. Inghilterra inasprì la voce. “Tutti dolci e carini all’inizio, poi pronti a voltarti le spalle alla prima occasione buona.”

La fatina e il coniglietto lanciarono una rapida occhiata di rimprovero a Inghilterra. Lui non li vide.

Inghilterra scosse il capo e fece per voltarsi.

“Ed io non ho intenzione di ripetere lo stesso errore per due volte.”

Sfilò il braccio dalla stretta del bambino. Il bimbo barcollò all’indietro e cadde seduto, a gambe spalancate e manine aperte dietro la schiena. Rimbalzò emettendo un piccolo singhiozzo e stette fermo.

Inghilterra si rialzò, gli mostrò le spalle e spazzolò la manica della giacca che il bambino aveva stretto. Il suono della vocina singhiozzante gli fece ruotare all’indietro la coda dell’occhio.

Il bambino chinò la fronte, le ciocche biondo cenere della frangia si scossero, coprendogli le sopracciglia, e fecero ombra agli occhioni annacquati. Il bimbo singhiozzò, tirò su col naso e singhiozzò di nuovo. Il labbro inferiore si era gonfiato, traballava. Le guance e la punta del nasino divennero rossi e lucidi.

Inghilterra fece roteare gli occhi al cielo, sospirando.

La fatina guardò indietro, verso il bambino. “Che facciamo?” gli chiese vicino all’orecchio.

Il bambino chiuse il pugnetto. Si stropicciò un occhio continuando a guardarsi in mezzo alle gambe, a testa china.

I passi del generale risuonarono, le suole degli stivali batterono sul cemento avvicinandosi a Inghilterra. “Signore?” Lo chiese con la voce di chi si aspetta qualcosa.

Inghilterra non smise di fissare il bambino. Gli occhi umidi, così grandi e azzurri, lacrimavano in silenzio. Grosse biglie di vetro rotolavano dalle palpebre rigando le guance rosse, e si perdevano assorbite dalla stretta del pugnetto.

Un bambino. Un bambino così piccolo. Su una fortezza marittima militare.

Altri suoni martellanti, ronzii, cavi di ferro agganciati alle gru che si ritirano, urla di uomini sulla piattaforma, lo scroscio delle onde che si infrangono contro i piloni di cemento, il vento che sbatte e ulula, una distesa di mare gelido e scuro sotto di loro.

Inghilterra inspirò a fondo, e rigettò l’aria in un lungo sospiro sconsolato.

“Non riesco proprio a immaginare come una nazione possa nascere in un posto del genere.”

Il generale, la fatina e il coniglietto spostarono gli sguardi su di lui.

Inghilterra intrecciò le dita ai capelli sulla nuca, sfregò il capo stando attento a non disfare la benda sotto le unghie.

“Inoltre, una piattaforma militare non è comunque un posto adatto per un bambino.”

Si strinse le spalle e sfilò la mano da dietro la nuca. Si voltò, tornò a chinarsi verso il bambino e gli cinse i fianchi con la stessa delicatezza di prima. Lo sollevò da terra con una spinta sola.

Quando se lo strinse al petto, il bimbo smise subito di piangere.

Inghilterra gli diede una piccola spinta per aggiustare la posizione e farlo stare più comodo. Lo tenne avvolto nell’incavo del gomito con un braccio, e fasciato attorno alle spalle con l’altro.

“Tuttavia, se è davvero uno di noi e questo è il luogo dove ha deciso di nascere, per qualche oscuro motivo, non posso di certo portarlo via ignorando le sue origini.”

Il bimbo sollevò lo sguardo. Lui e Inghilterra si guardarono negli occhi.

Inghilterra sollevò le sopracciglia. “Non sappiamo ancora se sia davvero...” Inspirò di nuovo. Le labbra strette e vacillanti, le guance rosse e gonfie, la voce tremante ed esitante. Lo soppesò, facendolo dondolare contro il petto. “Una,” tentennò, “nazione?”

No. Troppo assurdo. È troppo assurdo.

Inghilterra strinse il piccolo corpo contro il suo petto. Così da vicino, riusciva a sentire il profumo di mare emanato dai suoi capelli che gli solleticavano il naso.

Tossicchiò, si ricompose, e si rivolse al generale con schiena dritta e spalle ampie.

“In ogni caso, lei continui a rimanere in contatto con la guardia costiera e non interrompete le ricerche di eventuali bambini scomparsi.” Abbassò gli occhi sul piccolo. Aveva posato una guancia sul suo petto, vicino al cuore. Le palpebre cominciarono a socchiudersi, il visetto si fece gonfio di sonno. Inghilterra scrollò le spalle. “Alla fine potrebbe essere tutto un enorme malinteso.”

Il generale esitò per un istante. Lo sguardo passò dal bambino a Inghilterra, e l’ufficiale si mise rigido sull’attenti. “Sissignore.”

Inghilterra annuì.

Si diresse verso l’uscita che dava alla piattaforma, sempre con il bambino in braccio. Si piegò di lato evitando la cima di una corda arrotolata al soffitto e la scansò con una mano.

“Pensateci voi a tenerlo d’occhio, nel frattempo.” Lanciò un’occhiata al generale da sopra la spalla destra. Il bambino riposava tenendo il capo appoggiato sulla sinistra, il respiro lento e regolare gli soffiava nell’orecchio. “Magari scambiatevi dei turni, o assumente un sorvegliante solo per lui. State attenti che non si faccia del male scorrazzando qua attorno o che cada in mare.”

Il generale annuì, rigido nell’attenti. “Sissignore,” esclamò.

“Qualche volta...” Inghilterra abbassò gli occhi sul bambino. Ora aveva le palpebre completamente abbassate, le ciglia unite, la bocca socchiusa, una gocciolina di saliva che scendeva dall’angolo delle labbra, la guancia rotonda premuta contro il petto di Inghilterra, i pugnetti stretti alla sua giacca. Inghilterra arricciò il naso per nascondere il colore scarlatto delle guance. Volse lo sguardo altrove. “Qualche volta potrei, uhm, anche fare un salto per controllarlo di persona.”

Si irrigidì subito e scagliò un’occhiata pungente al generale.

“Ma non ci sperate più di tanto,” sbraitò, ancora rosso in viso.

L’espressione del generale si ammorbidì. Anche lui dovette abbassare la fronte per celare il tenero sorriso che gli piegava le labbra.

“Sissignore.”

La fatina si portò una mano alla bocca e rise.

 

.

 

Sia il vento che il suono delle onde erano più forti all’esterno della base.

Inghilterra passò davanti alla scala che saliva fino alla piattaforma per gli elicotteri. Due uomini stavano scendendo e si fermarono sul penultimo gradino, indurendosi in un rigido saluto militare, gambe unite e mano tesa sulla fronte. Inghilterra annuì, sventolò la mano e li congedò. I due uomini in divisa restarono fermi alle sue spalle mentre lui gli passava davanti. Prima di perderli di vista, Inghilterra vide uno di loro abbassare il viso verso il collega e sussurrargli qualcosa all’orecchio tenendo la bocca coperta con il palmo. Entrambi sorrisero. Stavano guardando il bambino.

Inghilterra si avvicinò alla palizzata di confine, le sbarre di contenimento gli arrivavano al petto.

Il mare era verde, color muschio secco. Onde bianche spumavano addosso alle colonne che reggevano la fortezza marina, il vento soffiava contro i cavi metallici che reggevano le strutture di traino in acciaio e li faceva sibilare come corde di violino.

Il bambino si mosse tra le braccia di Inghilterra. Strinse i pugnetti sulla giacca, sfregò il visetto contro il suo petto, dove batteva il cuore, e rannicchiò le gambe dentro la piega del braccio che lo sosteneva. Una zaffata di vento più forte lo investì, scuotendogli i capelli sulla fronte e sulle orecchie. Le palpebre chiuse vibrarono insieme alle labbra. Aveva freddo.

La fatina volò sopra la spalla di Inghilterra. Aprì le ali rimanendo sospesa in aria, si lasciava sorreggere dal vento. “Quant’è carino!”

Inghilterra sbottonò la giacca, allargò un lembo e lo usò come una coperta per avvolgere il corpicino del bambino. Lo infagottò per bene dietro il collo e sui fianchi, coprendogli anche il pancino. Il viso del bimbo tornò sereno. Il piccolo avvicinò un pugnetto alla bocca e infilò la punta del pollice tra le labbra.

La fatina piegò le spalle in avanti, le ali frullarono, e gli prese le guance tra le mani. “Starei a coccolarlo e a strapazzargli le guanciotte per tutto il giorno.” Sollevò gli occhi al cielo, di colpo, interrompendo le carezze. “Ora che ci penso, non sappiamo nemmeno come si chiama.”

Il coniglietto planò davanti a loro e si appese alla palafitta. Sollevò una zampetta anteriore e si gonfiò il petto. Le ali spiegate al vento. “Io propongo di chiamarlo ‘Piattaforma militare di difesa antiaerea in mezzo al mare’.”

La fatina volò all’indietro e si riparò il petto con il braccio. Il viso disgustato. “Per l’amor del Kelpie! È un nome ancora più brutto dei poster di Inghilterra.”

Inghilterra sobbalzò. “Cos’hanno di male i miei poster?” Le lanciò un’occhiata di fuoco.

La fatina divenne rossa in viso. Si strinse nelle spalle e sventolò i palmi, ridacchiando come una scioccherella. “Nie... niente.”

Inghilterra sollevò un sopracciglio, dubbioso, e tornò a guardare il mare.

La fatina gli diede le spalle. Fece una boccaccia e rabbrividì come se una lumaca le fosse salita lungo la schiena lasciando una scia di bava gelida.

Inghilterra strinse le braccia attorno al bambino. Lo sollevò di più, facendogli posare il mento sulla sua spalla. Gli tolse una manciata di capelli dalla fronte e le ciocche bionde tornarono scompigliate davanti alle sopracciglia.

“Questa base si chiama ‘HM Fort Roughs’, se non sbaglio,” disse Inghilterra.

La fatina posò i piedini sulla palafitta e chiuse le ali. “È un nome bruttissimo comunque.”

Inghilterra si strinse nelle spalle. “Se vorrà, un giorno sarà lui a sceglierselo.” Guardò oltre le onde che screpolavano la superficie del mare. Scie di luce ondulata galleggiavano a pelo dell’acqua come nastri d’argento sventolanti. In lontananza, le ombre piatte dei cacciatorpediniere e degli incrociatori si allungavano fino all’orizzonte, contro il cielo grigio che sovrastava il verde muschio del mare. Inghilterra aggrottò lievemente la fronte. “Se la guerra finirà, in ogni caso, queste piattaforme verranno sgomberate, e lui cesserebbe di esistere.”

Il coniglietto sbarrò le palpebre, gli occhi vacillarono, umidi di tristezza.

“Oh, è vero.”

La fatina fece un salto sul posto e stese un pugno al cielo. “Allora speriamo che la guerra continui per sempre,” esclamò.

Il coniglietto spalancò le ali. “Fatina!”

Inghilterra accennò un sorriso.

Chiuse gli occhi. Inspirò l’aria di mare e lasciò che il vento gli pettinasse i capelli dietro le orecchie. L’aria soffiava più lenta e soffice, avvolgeva i loro corpi, e stringeva i lembi della giacca attorno al bambino stretto tra le braccia di Inghilterra. Una piacevole ondata di calore passò sopra le ferite, ancora aperte sotto le bende che gli fasciavano le braccia e il bacino e sotto le garze che gli tamponavano la guancia e la fronte. Il dolore svanì.

“Guerre...” Inghilterra riaprì gli occhi. “Accadono le cose più strane, non trovate?”

La fatina e il coniglietto si guardarono. Il coniglietto annuì. “Decisamente.”

Inghilterra spostò un orlo della giacca e svelò il viso addormentato del bambino. Gli sfiorò la guancia con le nocche, spostandogli i capelli dietro l’orecchio. “Anche in mezzo a tutto questo mare di sangue...” Tornò a coprirlo per bene. Lo tenne stretto contro la spalla e sentì il suo fiato lento, profondo e regolare, soffiargli sul collo. “Lui ha deciso di nascere comunque.” Sorrise con naturalezza e fece un passo di lato, lungo il bordo della piattaforma. “È proprio vero che la vita prevale su tutto.”

La fatina e il coniglietto lo seguirono in volo.

La fatina gli ronzò sulla spalla libera, unì le punte delle dita di una mano e separò i polpastrelli, mimando uno scoppio. “Il fiore che nasce dal letame,” disse.

Inghilterra si strinse le spalle. “Staremo a vedere.” Avvolse il bambino con entrambe le braccia. Il cuoricino batteva forte e veloce contro il suo petto, il respiro lento e regolare, immerso nel sonno, gli scaldava la guancia. “Staremo a vedere quanto tempo passerà prima che questo letame ci soffochi tutti quanti fino a farci appassire completamente.”

Inghilterra fece correre le dita tra i capelli del bambino. Erano morbidi e tiepidi. Gli tenne una mano dietro la nuca e posò le labbra sulla fronte del piccolo. Profumava di mare, di vento salmastro, di ferro, di polvere da sparo, di carburante, e di olio da ingranaggi.

Profumava di guerra.

 

.

 

N.d.A.

La piattaforma di Sealand è stata in realtà costruita nel 1942, dunque due anni dopo rispetto alla mia versione dei fatti. Mi sono concessa questa piccola libertà perché tenevo molto a posizionare l’episodio della sua nascita esattamente in questo punto della storia.

Chiedo umilmente perdono ai più puristi. 

   
 
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