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Autore: DaniKa    31/08/2015    2 recensioni
Assorto tra i suoi pensieri, il ragazzo non si accorse dell'arrivo di qualcuno, ma quando alzò lo sguardo verso il recinto di spine, credette veramente, per un secondo, di trovarsi davanti ad un angelo, magari venuto a salvarlo e a portarlo lontano da quel posto.
L'angelo, vedendo che non rispondeva, gli rivolse un sorriso dolce, e paziente gli chiese, di nuovo, come si chiamasse.
Il Prigioniero, come riscosso dai suoi pensieri, si rese conto che davanti non aveva un angelo, ma solo una ragazza. Una semplice ragazza, vestita di bianco e dagli occhi di un azzurro infinito, un azzurro libero.
Attenzione: In questa storia i nomi di Rin e Len sono stati modificati.
Genere: Drammatico, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Len Kagamine, Rin Kagamine | Coppie: Len/Rin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PAPER PLANE e PRISONER

    Erano passate alcune settimane da quando aveva perso la sua libertà ed identità come persona ed essere umano.
    Il ragazzo non sapeva bene cosa avesse fatto di preciso per meritare di finire li, credeva che quel tipo di posto, dove le persone erano spinte al lavoro forzato con miseri pasti, fossero la meta delle persone molto cattive, che compivano atti malvagi e che agivano fuori legge, come gli raccontava la madre da piccolo, per tenerlo buono.
    "Ma magari mamma si sbagliava.. Oppure sono stato io ad aver fatto qualcosa di cattivo.. ma cosa?" si chiedeva mentre una delle guardie lo prendeva per scortarlo fuori, a pulire il campo vicino al muro di spine.
    Ormai, l'unica cosa di cui era certo, era che non ce l'avrebbe mai fatta per il mese dopo, se non smetteva di lavorare in quel modo e se gli avessero dato altro da mangiare, oltre al misero pezzo di pane andato a male e mezzo bicchiere d'acqua.
    "Almeno era mezzo bicchiere d'acqua.. ad altri va molto peggio." si ricordò per darsi forza e per non pensare alla fine che le persone facevano se osavano lamentarsi e non lavorare.
    Assorto tra i suoi pensieri, il ragazzo non si accorse dell'arrivo di qualcuno, ma quando alzò lo sguardo verso il recinto di spine, credette veramente, per un secondo, di trovarsi davanti ad un angelo, magari venuto a salvarlo e a portarlo lontano da quel posto.
    L'angelo, vedendo che non rispondeva, gli rivolse un sorriso dolce, e paziente gli chiese, di nuovo, come si chiamasse.
    Il Prigioniero, come riscosso dai suoi pensieri, si rese conto che davanti non aveva un angelo, ma solo una ragazza. Una semplice ragazza, vestita di bianco e dagli occhi di un azzurro infinito, un azzurro libero.
    -Mi chiamo Miguel..- furono le uniche parole che gli uscirono dalla bocca, mentre un lieve rossore gli salì alle guance, come se si vergognasse di quel nome, quando, in realtà, si vergognava delle condizioni in cui si trovava ora, sporco di terra e sangue, davanti a lei.
    La ragazza allora sorrise felice, incredibilmente felice, come se avesse conosciuto uno dei segreti più grandi dell'universo e non vedeva l'ora di spifferarlo alla sua migliore amica, poi prese dalla sua piccola borsetta un foglio ed una penna, ci scrisse qualcosa ed iniziò a piegarlo. Infine tornò indietro, si girò, iniziò a correre più veloce che poteva, e fece un salto. A quel punto, Miguel, vide che dalla mano della ragazza si liberava un piccolo aeroplanino di carta.
    La sconosciuta gli urlò: -Prendilo, è per te!
    E lui, preso alla sprovvista, iniziò a correre all'indietro in molto maldestro, pur di non perdere di vista l'aeroplanino che gli atterrò in testa. Lo prese, vide delle scritte, e cominciò a leggere.
    Di certo, non si aspettava di ricevere tutte quelle domande, e neppure che una ragazza carina come lei si interessasse tanto a lui, ma quando fu sul punto di risponderle, lei gli porse, tra un filo spinato e l'altro, un foglio di carta ed una penna.
    Perplesso, lui prese i due oggetti e la guardò, poi, vedendo il suo rossore sulle gote, capì che era meglio scrivere, che parlare. 
    In quel modo, passarono una buona parte del tempo a scrivere, a soffocare le risate, per non attirare l'attenzione delle guardie, e a passarsi quelle strane lettere, e quando fu ormai ora di andare lui le mandò l'ultimo aeroplano.
    La ragazza, rimasta colpita da quella richiesta, cercò con il cappello di nascondere il suo rossore e gli rispose timida timida con un filo di voce: -Tornerò.
    Ed il ragazzo, scoprendosi più felice che mai, le promise:-Allora io ti aspetterò.
    Intanto, i giorni si susseguivano, gli aeroplanini aumentavano, e i loro incontri non cessavano, qualche volta, però, per un motivo o per un'altro, non riuscivano a vedersi ma si lasciavano sempre delle lettere con la solita promessa.
    Ci fu poi, un periodo dove la ragazza non si presentò e non rispose nemmeno alle lettere del ragazzo, ritrovandosi sempre quella con la sua scrittura sporca.
    Miguel non sapeva bene se preoccuparsi o meno, magari era solo finita in punizione perché scappava spesso dall'ospedale dove stava, o magari, semplicemente, il padre non la faceva uscire, perché aveva scoperto che lei si sentiva con lui, oppure..
    -Ahia!- imprecò quando qualcosa di appuntito lo beccò sulla fronte.
    Poi si accorse che era un aeroplanino di carta, ed allora alzò lo sguardo, speranzoso di vedere uno dei suoi sorrisi dolci.
    E quello fu ciò che vide, ma non era uno dei suoi sorrisi allegri, era un sorriso triste e tirato, l'ultimo sorriso che vide sul suo volto prima che lei gli voltasse le schiena.
    Non capendo che avesse, lesse le parole che la ragazza scrisse.
    "Dovrò andare in un posto lontano. Starò bene. Non mi aspettare."    
    Ancora più confuso, il ragazzo cercò i suoi occhi. Ma, quando vide che iniziava a tornare da dove era arrivata, capendo che non si sarebbe più voltata, lui prese tutto il coraggio che aveva.
    -Non importa!- urlò, nonostante lei fosse di qualche metro distante da lui -Non importa se andrai in un posto lontano, quando tornerai, io ti aspetterò.
    Nella sua voce, c'era una nota di paura che non voleva lasciar trapelare, la paura che non sarebbe più tornata veramente, la paura che non l'avrebbe mai più rivista.

    La ragazza, a quelle parole, non riuscì più a voltarsi.
    Sperava con tutto il cuore che lui non la aspettasse inutilmente, perchè sì, l'avrebbe aspettata inutilmente. Ormai il suo corpo era debole, era già un miracolo che fosse riuscita ad arrivare fin li, senza cedere sulle sue gambe, ormai rotte dalla fatica. Sentendo le lacrime rigarle il viso, iniziò a correre.
    "Più veloce, più veloce." intimava alle sue gambe di andare, di non cedere, non davanti a lui. Lui non doveva sapere che il suo corpo stava andando in mille pezzi, non doveva sapere che cosa fece suo padre alle sue lettere, non doveva sapere che stava per morire. Non doveva sapere che stava per lasciarlo solo.
    Arrivata all'ospedale, ebbe un collasso, sentì il suo cuore fermarsi, non andava, le persone, intorno a lei, si ammucchiavano, alcune infermiere le dicevano "Resisti, ce la puoi fare" quando in realtà sapevano anche loro che avrebbe ceduto tra non molto. La misero su una barella e la portarono in sala operatoria.
    Quando si risvegliò, si accorse che i fili attaccati al suo corpo erano aumentati e che le sue gambe non rispondevano più ai suoi comandi. Anche le braccia non si muovevano, e non potevano accarezzare la testa del suo povero padre, che nonostante tutto, l'amava e aveva aspettato che lei si svegliasse.
    Non sapeva quanto tempo aveva passato su quel letto, sapeva solo che il tempo era passato mentre lei teneva gli occhi chiusi, in un dormiveglia che le parve quasi infinito, come quello che la stava aspettando.
    Alla fine pronunciò le sue ultime parole, il suo ultimo desiderio, perché lei sapeva, sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo momento di vita, e non si pentì per niente di essere scappata e aver aggravato la sua situazione. Non si pentì, di averlo potuto vedere di nuovo.

    Quando il padre sentì la sua voce, alzò di scatto la testa e vide, nel volto della sua amata ed unica figlia, il suo ultimo sorriso. Un sorriso dolce e senza rimpianti, mentre abbandonava quel mondo e lui, da solo.
    Il padre pianse, pianse e pianse. Sua moglie, che era stata uccisa durante un assalto nemico, gli aveva pregato di prendersi cura della loro amata figlia e lui non era riuscito neppure a proteggerla. Non era riuscito a divincolarla da quel destino crudele. Ma pianse più per la consapevolezza che se l'avesse lasciata vivere con quel ragazzo, se le avesse permesso di essere felice, magari lei non sarebbe stata divorata da quella malattia, magari avrebbe trovato una ragione in più per vivere, ma ormai era troppo tardi.
    In quel istante, la sua mente fu fulminata dalle sue ultime parole, che lo supplicavano e gli chiedevano perdono.
    "Papà.. papà.. Ti voglio bene. Grazie per tutto quello che hai fatto per me. Grazie, e scusami, se ora ti abbandono per raggiungere mamma. Scusa. Ti prego, però, prenditi cura di lui, come se fosse tuo figlio. Lo amo." 
    Allora, il padre, pensando che magari prendendosi cura di quel ragazzo avrebbe potuto scontare le sue colpe, che magari avrebbe potuto sentirsi perdonato dai suoi errori, iniziò a vestirsi. Prese il suo cappello e il suo mantello, segno di capo della sorveglianza. Segno del fatto che fosse il capo di quel campo di concentramento.
    Chiamò le guardie, disse loro di portare quel ragazzo da lui, con anche le sue lettere. Ma pian piano che il momento di vederlo si avvicinava, pian piano la tristezza e i sensi di colpa lasciarono posto all'ira e alla rabbia, che lo accecarono.
     "è Colpa sua se lei è morta! Lui la costringeva a vedersi, è solo colpa sua se la sua malattia si era aggravata, è colpa sua! Io volevo solo il bene per lei, e lui aveva fatto sì che il suo momento si avvicinasse soltanto. Lui l'ha uccisa!"
    Così, quando si ritrovò davanti a lui, che aveva il volto scavato e stanco, come se avesse passato le sue notti insonne per la preoccupazione, iniziò a deriderlo e ad accusarlo di colpe non sue, umiliandolo, poi prese una delle sue amate lettere e lesse.
    Sconvolto, aveva avuto solo una conferma a ciò che pensava.
    "Dovrò andare in un posto lontano. Starò bene. Non mi aspettare."
    "Allora era veramente colpa sua!" pensò l'uomo, mentre tremava dalla rabbia "Lei era corsa fuori dall'ospedale per recapitargli quella inutile lettera, invece di stare a riposare, era colpa sua, se lei era morta!"
    E nella speranza di fargli male, il più male possibile, il padre stracciò la lettera e pestò coi piedi le altre. Voleva fargli male, voleva fargli sentire lo stesso dolore che sentiva lui. Voleva vendetta.

    A quella scena, il ragazzo non riuscì più a controllarsi, si liberò dalla presa delle due guardie che lo tenevano stretto e lo colpì in faccia, non si fermò, continuò a colpirlo e a divincolarsi ogni volta che cercavano di fermarlo, cercò di picchiarlo il più forte possibile, quanto le forze gli permettevano.
    E non smise di lanciare pugni e calci in aria neppure quando le guardie riuscirono a prenderlo e ad allontanarlo.
    Al ragazzo non importava se appariva ridicolo o se era tutto inutile. A lui non importava se lo derideva e lo umiliava. Quelle lettere erano ciò di più caro aveva al mondo, erano la prova che potevano venire giorni migliori, erano le promesse fatte tra lui e quella ragazza, di cui solo ora si rendeva conto di non sapere il nome. Erano la sua libertà. La loro libertà. E la speranza di potersi vedere, un giorno, senza un muro di spine che li dividevano. La sua promessa di aspettarla. La loro promessa di rivedersi.

    Il padre, indignato dalle lacrime che rigavano il viso del ragazzo, come se potesse provare il dolore che provava lui, decise alla fine che era arrivato anche il suo momento ed ordinò alle guardie di portarlo nelle camere.
    E mentre veniva trascinato via, il ragazzo urlava e urlava.
    -Non puoi farlo! Io la sto aspettando! Era una promessa! Devo mantenerla!
    E solo a quel punto, l'uomo si rese conto dell'ennesimo errore che aveva commesso. Non aveva esaudito l'ultimo desiderio della sua amata figlia.
    Infine, non si seppe mai se non aveva impedito la sua morte per orgoglio verso le sue guardie ed il suo lavoro, per paura di essere definito come traditore se l'avesse preso sotto la sua ala, o se per la stanchezza, stanco dei suoi errori e stanco per potervi porre rimedio.

    Quando il ragazzo fu sbattuto dentro la camera a gas, capì che non c'erano più speranze. Capì che non l'avrebbe mai più rivista. Capì che era arrivata la sua ora.
    E mentre lottava per non morire, per resistere per lei, si rese conto di avere in mano un foglietto di carta con poche parole.
    "Ti aspetterò" a quel punto, il ragazzo non ce la fece più e si lasciò abbandonare da quel sonno che tanto reclamava la sua mente, con solo un unico rimpianto.
    "Chissà.. come si chiamava." furono le ultime parole che proferì, come se qualcuno potesse rispondergli.

    C'era fresco, intorno a loro. I fili d'erba, li solleticavano un po' il collo, un po' le orecchie, un po' le braccia, un po' le gambe. Infastiditi, si alzarono, e videro davanti ai loro occhi una distesa di erba verde e un cielo infinito, che prometteva loro finalmente la libertà che tanto agognavano.
    Si alzarono ed iniziarono a correre, felici e finalmente liberi dalle catene che li tenevano intrappolati. Uno, alla prigionia, l'altra, all'ospedale.
    Alzando lo sguardo al cielo, passò sulle loro teste un aeroplanino di carta. Divertiti, i due bambini, iniziarono ad inseguirlo, cercarono di afferrarlo, finché non finirono l'uno di fronte all'altra.
    In quel momento, niente li divideva o li intratteneva. Nessun muro di spine, nessuna catena, nessun filo. E allora corsero, liberi di potersi finalmente abbracciare, toccare, liberi di guardarsi negli occhi a quella vicinanza che il muro non poteva permettere loro.
    Miguel le accarezzò i corti capelli biondi e le diede un bacio affettuoso sulla fronte, poi le prese la mano e la incitò a camminare, seguendo l'aeroplanino.
    -Qual'è il tuo nome?- le chiese.
    Come suo solito, la ragazza arrossì violentemente.
    -Avion.- rispose timidamente.
    Lei si aspettava che Miguel ridesse per quel nome, che lei aveva sempre trovato ridicolo e che aveva sempre fatto attenzione a non rivelare. Ma lui, senza prenderla in giro, la guardò sorpreso, poi sorrise, gentile, e le disse solo: -è Un nome bellissimo.
  
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